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neopurismo
sione metaforica, citiamo i santuari della mafia, il sito web e la
relativa navigazione, la chiocciola dell’indirizzo e-mail, il campo
elettromagnetico utilizzabile dal telefono mobile, la forbice o
forchetta delle statistiche. Affine è l’impiego ellittico di un aggettivo sostantivato (la complanare, il passante ferroviario; ➔ sostantivato, aggettivo).
Ristretti all’uso giornalistico e al cosiddetto politichese (➔ politica, linguaggio della) sono formazioni metonimiche come
l’indicazione del luogo anziché dell’istituzione che vi opera (il
Quirinale o il Colle per la presidenza della Repubblica, Mirafiori o il Lingotto per la Fiat), o l’impiego per sineddoche di un
particolare a designare l’intero (tute blu «gli operai»; black bloc
e tute bianche per i «disobbedienti»). Spesso il mutamento semantico è dettato da eufemismo o ‘correttezza politica’ (paese
in via di sviluppo, non vedente, operatore ecologico, terza età;
➔ POLITICALLY CORRECT; ➔ tabu linguistico). L’estensione può
essere mutuata dal gergo: pizzo e pizzino (di origine dialettale)
della mafia, cuccare o segare dall’ambiente giovanile studentesco, da dove anche i modi bersi, essere fuori o sclerare (entrambi
nel senso di «non ragionare») o fumarsi il cervello.
4. Raccolte e studi
Le prime raccolte sistematiche, generalmente con intenti puristici, apparvero a Milano nel 1812 in conseguenza dell’applicazione in Italia della legislazione napoleonica (➔ dizionario): l’Elenco di alcune parole oggidì frequentemente in uso, le
quali non sono ne’ vocabolarj italiani di Giuseppe Bernardoni e
il più tollerante Voci italiane ammissibili benché proscritte dall’Elenco del sig. Bernardoni di Giovanni Gherardini.
Su una linea liberale si collocò anche Prospero Viani col
Dizionario di pretesi francesismi e di pretese voci e forme erronee
della lingua italiana (1858-1860); mentre sotto la bandiera del
misoneismo si pose la maggior parte degli altri repertori, tra cui
il Vocabolario di parole e modi errati che sono comunemente in uso
di Filippo Ugolini (1848, 18714), indi Nuovo vocabolario di parole e modi errati del figlio Vittorio (1889). Il secolo si chiuse
con Il lessico della corrotta italianità di P. Fanfani e C. Arlia
(1877; dalla seconda ed. intitolato Lessico dell’infima e corrotta italianità), giunto alla quinta edizione nel 1907, e col fortunato I neologismi buoni e cattivi più frequenti nell’uso odierno
di Giuseppe Rigutini (1886), con l’ultima edizione accresciuta
e curata da Giulio Cappuccini nel 1926.
Nel 1905 uscì il Dizionario moderno. Supplemento ai dizionari italiani di Alfredo Panzini, che fece prevalere sull’inclinazione puristica la volontà di registrare qualunque termine o
locuzione si affacciasse alla ribalta. L’opera ebbe sette edizioni,
con profondi rimaneggiamenti, fino al 1935; dopo la morte di
Panzini (1939), Alfredo Schiaffini e Bruno Migliorini trassero
dalle carte d’autore un’ottava edizione (1942), che rimase definitiva, con la giunta però di un’Appendice curata da Migliorini, che nella decima edizione (1963, anche a sé come Parole
nuove) raggiunse i dodicimila lemmi.
La raccolta di Migliorini, sorretta da un’ineguagliabile
competenza in fatto di lingua e lessicografia, instaurò fra l’altro il criterio dell’uso incipiente come condizione per l’accoglimento di voci altrimenti classificabili come occasionali: criterio che avrebbe fatto da guida, perlomeno dichiarata, delle
migliori pubblicazioni successive (➔ neopurismo). Le due
edizioni del Dizionario di parole nuove di Manlio Cortelazzo e
Ugo Cardinale (1986, 1989) si presentano programmaticamente come la continuazione delle Parole nuove miglioriniane, colmando lo spazio tra il 1964 e il 1987; dal 1945, visto
giustamente come anno d’inizio di un forte rinnovamento nel
lessico (specie politico e tecnologico), muove il massiccio e documentato Dizionario del nuovo italiano di Claudio Quarantotto (1987; aggiornamento col Dizionario delle parole nuovissime, 2001).
Nell’officina del dizionario Devoto-Oli sono nate le due
compilazioni di Andrea Bencini ed Eugenia Citernesi, Parole
degli anni Novanta (1992), poi di Bencini e Beatrice Manetti,
Le parole dell’Italia che cambia (2005); mentre fungono da appendici, soprattutto neologistiche, al Grande dizionario italiano
dell’uso di Tullio De Mauro i due tomi di Nuove parole italiane
dell’uso (2003 e 2007; rifusi col dizionario nel Supporto digitale
in commercio nel 2007). Infine, nell’Istituto del Lessico intellettuale europeo, col suo Osservatorio neologico della lingua
italiana di Giovanni Adamo e Valeria Della Valle, sono stati
elaborati i Neologismi quotidiani (2003; se ne può considerare
un supplemento 2006 parole nuove, 2005), e da ultimo Neologismi (2008): sono le raccolte più voluminose mai uscite, per un
complesso di oltre duemila pagine, fondate su uno spoglio dei
quotidiani da cui, fatalmente, provengono molti occasionalismi mai entrati nell’uso.
Un approccio pienamente scientifico alla neologia è venuto
in Italia, come detto, con Migliorini e i suoi studi (confluiti in
Lingua contemporanea, del 1938, e nei Saggi sulla lingua del Novecento del 1941), più volte aggiornati (ora in Migliorini 1990)
e integrati da nuovi scritti. Va segnalato il ruolo della rivista
miglioriniana «Lingua Nostra», fondata nel 1939 e tuttora in
vita, attenta alla contemporaneità, anche con intenti propositivi. La formazione delle parole nell’italiano d’oggi (1978) è solo
la prima delle monografie dedicate da Maurizio Dardano alle
problematiche svolte in questa voce; tra i numerosi altri contributi si segnala infine Costruire parole. La morfologia derivativa dell’italiano (2009). Dopo il sistematico Scotti Morgana
(1981), i principali saggi sul fenomeno neologico sono apparsi
in premessa alle raccolte di parole nuove: si aggiunga la menzione di D’Achille (1991), che grazie a un più accurato scavo
da materiali e studi sul lessico novecentesco ridimensiona la
presunta maggiore creatività dell’italiano fin-de-siècle rispetto
alle epoche precedenti.
Fabio Marri
Studi
Adamo, Giovanni & Della Valle, Valeria (2003), Neologismi quotidiani.
Un dizionario a cavallo del millennio, 1998-2003, Firenze, Olschki.
Adamo, Giovanni & Della Valle, Valeria (2008), Neologismi. Parole
nuove dai giornali, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana.
D’Achille, Paolo (1991), Sui neologismi. Memoria del parlante e diacronia del presente, «Studi di lessicografia italiana» 11, pp. 269322.
Fochi, Franco (1966), Lingua in rivoluzione. Saggio, Milano, Feltrinelli.
Migliorini, Bruno (1963), Parole nuove. Appendice di dodicimila voci al
“Dizionario moderno” di Alfredo Panzini, Milano, Hoepli.
Migliorini, Bruno (1990), La lingua italiana del Novecento, a cura di
M.L. Fanfani, con un saggio introduttivo di G. Ghinassi, Firenze, Le Lettere.
Petralli, Alessio (1996), Neologismi e nuovi media. Verso la globalizzazione multimediale della comunicazione?, Bologna, CLUEB.
Scotti Morgana, Silvia (1981), Le parole nuove, Bologna, Zanichelli.
neopurismo
1. Definizione
Il neopurismo è il movimento linguistico promosso da Bruno
Migliorini (1896-1975), fra gli anni Trenta e Quaranta del Novecento, per assecondare un equilibrato sviluppo della lingua
contemporanea valutando, secondo criteri storici e funzionali, i ➔ neologismi e i ➔ forestierismi destinati a radicarsi
nell’uso e a interagire con le strutture fonomorfologiche dell’italiano.
Fin dal 1932, per designare tale suo metodo di esaminare
le innovazioni lessicali, Migliorini aveva parlato di glottotecnica
o di linguistica applicata (in contrapposizione alla linguistica
teorica), impiegando invece la parola neopurismo nell’accezione generica che essa allora possedeva, riferita per lo più al
nuovo nazionalismo linguistico propagandato dalla politica
fascista (➔ fascismo, lingua del; ➔ politica linguistica).
Solo nel 1940 Migliorini rivendicò a sé la parola, facendone
l’emblema di un programma volto a combattere sia il vecchio
➔ purismo ottocentesco sia quello nuovo dell’epoca fascista: a
differenza delle censure aprioristiche di questi, il neopurismo
avrebbe saggiato i forestierismi e i neologismi alla luce della
linguistica strutturale e funzionale, non dimenticando che
l’italiano è una lingua europea aperta agli internazionalismi e
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neopurismo
che occorre aver d’occhio, più che la ➔ lingua letteraria, i
linguaggi settoriali, che creano e diffondono le innovazioni (Migliorini 1940).
Resosi conto che il termine continuava a circolare nella sua
accezione generica, dal 1942 Migliorini ripiegò di nuovo su
glottotecnica (o linguistica applicata), inglobando nella sua idea
di language planning anche il concetto di neopurismo (Migliorini 1942). Ma sta di fatto che è quest’ultimo il termine con cui
in seguito si è sempre indicato, talora con qualche ambiguità,
il metodo miglioriniano (Fanfani 2002).
➔
2. Principi
I principi su cui si fonda il neopurismo, oltre che dalle enunciazioni teoriche, si ricavano soprattutto dai tanti interventi che
in quegli anni lo studioso dedica a risolvere singole questioni
neologiche emergenti nella lingua contemporanea (Migliorini
1938; 1941b; Castellani 1979; Scotti Morgana 1981: 93-95).
Forte di un’approfondita conoscenza delle strutture sincroniche, consapevole del differente ruolo che spetta al linguista e
al grammatico, convinto che la norma, più che dalle prescrizioni, scaturisce dalla coscienza linguistica dei parlanti, Migliorini parte sempre da un’attenta ricognizione della situazione reale, soppesando le varie soluzioni che cominciano ad
affiorare e cercando di favorire, con argomenti volti a chiarire
i fatti, quelle che meglio si adattano al sistema e che quindi
hanno maggior possibilità di attecchire nell’uso generale.
In sostanza – si tratti di valutare gli eventuali calchi, integrazioni o sostituzioni dei forestierismi oppure i moduli più
adatti nella formazione di un tecnicismo – il neopurismo intende assecondare il naturale processo evolutivo della lingua,
indicando quelle scelte che possono facilitare l’accoglimento
dell’innovazione e mantenerla nell’alveo della struttura fonomorfologica dell’italiano. E va detto che alcune delle proposte
formulate in quegli interventi furono subito riprese e si fissarono stabilmente nell’uso comune: regista in luogo del francese
régisseur, autista per chauffeur, apprendistato per apprendissaggio.
In questo suo atteggiamento funzionale il neopurismo non
è una variante addomesticata o più illuminata del purismo, ma
in certo modo il suo capovolgimento, in quanto non si fonda
su pregiudiziali ideologiche o retoriche (il nazionalismo, l’antisnobismo, la tradizione e la classicità letteraria), ma solo su
criteri interni alla lingua, tenendo conto delle sue necessità
onomasiologiche, delle tendenze evolutive in atto, della stabilità delle strutture di fondo, della loro forza di assimilazione,
delle esigenze di chiarezza, univocità, convergenza internazionale delle terminologie tecnico-scientifiche. Di conseguenza
la sua azione si svolge a tutto campo sul fronte del rinnovamento lessicale: i forestierismi sono giudicati alla stessa stregua delle neoformazioni interne alla lingua o di quei ➔ latinismi ‘integrali’ (auditorium, aquarium, eucalyptus) di solito
trascurati dai puristi; inoltre si distinguono i termini specialistici da quelli destinati a una larga circolazione, le voci ormai
stabilizzatesi da quelle di uso incipiente o ancora oscillante. E
nell’esame linguistico non ci si limita al piano formale della fonetica e della grafia, ma si valuta attentamente anche il grado
di integrazione morfologica e semantica della novità.
Il metodo neopuristico, accanto agli aspetti più propriamente linguistici, prevede anche un lato più pratico, relativo
alle modalità applicative (in questo senso va intesa l’espressione
linguistica applicata), individuando chiaramente quali debbano essere le circostanze e l’atteggiamento generale dell’intervento glottotecnico, quali i casi in cui esso è davvero utile
e opportuno, se e quando debba avvenire. Infatti, dato che
sono numerosi e spesso imprevedibili i fattori che determinano
la fortuna di una scelta lessicale, occorre evitare anzitutto almeno ciò che riduce fortemente o rende vana l’azione dell’esperto, per concentrarla dove essa valga a orientare i parlanti
con chiarimenti e indicazioni che possano renderli più consapevoli.
Così, proprio sulla base di una reale considerazione delle
resistenze opposte dal senso di conservazione linguistica, dall’attaccamento alle parole già in uso (di qualsiasi origine esse
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siano), dall’istintiva tendenza a scartare ciò che viene sentito
come un’imposizione esterna creata a tavolino, il neopurista è
indotto a privilegiare unicamente quei neologismi non ancora
acclimatati, meglio se nel momento stesso in cui l’innovazione
è ancora allo stadio germinale (Migliorini 1941a). Di conseguenza lascia libero corso non solo ai forestierismi conformi al
sistema fonologico italiano (tango, rumba, fiordo, folclore), ma
anche a quelli ormai accolti popolarmente nella loro forma integrale (bar, camion, film, sport). Inoltre si dedica soprattutto
alle voci presumibilmente destinate a una larga circolazione
nell’uso comune, tollerando i molti internazionalismi che restano confinati nell’ambito dei linguaggi specialistici, dove
hanno una loro ragion d’essere, e trascurando certe voci esclusive del linguaggio della moda (➔ moda, lingua della) o del
gergo mondano difficili da eliminare, dato che vi sono particolarmente ricercate proprio per la loro connotazione esotica
e allusiva.
Così, per es., mentre Migliorini intervenne con una certa
prontezza a favore di autista, varianza (sull’ingl. variance) o
picchiatello (a fronte dell’ingl. pixillated), su altri forestierismi
di uso colto o snobistico su cui molto si discusse in quegli anni
(ouverture, viveur) in sostanza ritenne opportuno sospendere
il giudizio. Infine, nonostante non sottovalutasse gli effetti
delle decisioni prese da enti, accademie o altri organismi pubblici, Migliorini preferì non appellarvisi, orientando la sua
azione dal basso, ovvero impegnandosi in prima persona attraverso discussioni sui giornali e alla radio, opere divulgative
e vocabolari, per consentire una più matura visione dei problemi e mostrare con testimonianze storiche e argomenti strutturali la natura di quella norma più profonda che agisce spontaneamente in ciascuno e che, in una continua dialettica fra
tradizione e rinnovamento, governa la lingua.
Nel secondo dopoguerra, in un clima culturale mutato, di
fronte alla trasformazione del prestito in un massiccio fenomeno di massa e alla rapida modernizzazione e semplificazione
dell’italiano col conseguente indebolimento delle sue capacità
assimilative, Migliorini, pur non sconfessando la teoria neopuristica (Migliorini 1970; 1971), abbandonò quasi completamente il fronte glottotecnico, anche se continuò a studiare e
analizzare i processi neologici e a fare opera di divulgazione per
una più chiara conoscenza delle strutture della lingua e del
modo come essa funziona: il fine ultimo del neopurismo, in sostanza, era tutto qui.
3. Nuove forme
In questi ultimi anni tuttavia altri studiosi si sono rifatti alle
concezioni neopuristiche con nuovi programmi d’intervento
linguistico. Arrigo Castellani (1920-2004) ha proposto un suo
purismo strutturale, diretto a contrastare la sempre più pervasiva presenza di ➔ anglicismi integrali nella lingua contemporanea, sebbene abbia inteso applicarlo a ogni parola che
non risulti conforme alle strutture fonetiche dell’italiano, anche quando si tratti di voci ormai del tutto acclimatate e radicate nell’uso (Castellani 1987; 1996).
Le sostituzioni e gli adattamenti proposti dallo studioso
sono interessanti e spesso ingegnosi – guisco per whisky, fubbia
[fu(mo)+(ne)bbia], per smog [smo(ke)+(fo)g], intredima per weekend, guardabimbi per baby-sitter, ubino per hobby, vendistica per
marketing, velopàttino per windsurf – ma destinati in partenza
all’insuccesso, proprio per ciò che, specie sul versante applicativo, il neopurismo prevedeva.
Massimo Fanfani
Studi
Castellani, Arrigo (1979), Neopurismo e glottotecnica: l’intervento linguistico secondo Migliorini, in L’opera di Bruno Migliorini nel ricordo degli allievi, Firenze, Accademia della Crusca, pp. 23-32.
Castellani, Arrigo (1987), Morbus Anglicus, «Studi linguistici italiani»
13, pp. 137-153.
Castellani, Arrigo (1996), Il purismo strutturale e il problema degli anglicismi, «Pagine della Dante» 80, 4, pp. 12-14.
Fanfani, Massimo (2002), Sulla terminologia linguistica di Migliorini,
in Idee e parole. Universi concettuali e metalinguistici, a cura di V.
Orioles, Roma, Il Calamo, pp. 251-298.
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neutro
Migliorini, Bruno (1938), Lingua contemporanea, Firenze, Sansoni (4a
ed. 1963).
Migliorini, Bruno (1940), Purismo e neopurismo, «Lingua nostra» 2, p.
47.
Migliorini, Bruno (1941a), La sostituzione dei forestierismi: improvvisa
o graduale?, «Lingua nostra» 3, pp. 138-140.
Migliorini, Bruno (1941b), Saggi sulla lingua del Novecento, Firenze,
Sansoni.
Migliorini, Bruno (1942), Primi lineamenti di una nuova disciplina: la
linguistica applicata o glottotecnica, «Scienza e tecnica» 6, pp. 609619.
Migliorini, Bruno (1970), Functional principles and their application
in the creation of new words, «Scientia» 105, pp. 91-100.
Migliorini, Bruno (1971), Parole “più italiane” e “meno italiane”, «Lingua nostra» 32, pp. 50-52.
Scotti Morgana, Silvia (1981), Le parole nuove, Bologna, Zanichelli.
neutro
1. Definizione
Si chiama comunemente genere neutro uno dei valori che la categoria del ➔ genere assume in varie lingue del mondo, segnatamente nelle lingue indoeuropee, antiche e moderne, accanto ai due valori, più stabili e produttivi, del ➔ maschile e
del ➔ femminile.
La denominazione tradizionale di neutro si giustifica in un
sistema a tre valori nel quale il neutro si distingue non tanto
in positivo, per qualche caratteristica specifica di significato o
di costruzione, quanto in negativo, per essere appunto neuter,
cioè, in latino, «né l’uno né l’altro», né maschile né femminile.
2. Resti del neutro latino in italiano
La tradizione grammaticale dell’italiano non riconosce alla
nostra lingua un genere neutro. In effetti, il sistema a tre valori del latino classico ha dato luogo perlopiù, evolvendosi
nelle lingue romanze, a sistemi bipartiti, con la confluenza
nelle classi del maschile e del femminile dei nomi che in latino
erano neutri (➔ latino e italiano). La confluenza però non è
stata totale ma ha lasciato dei resti, diversi per quantità e per
funzionalità, in numerose lingue e dialetti romanzi. Se ci limitiamo all’italiano, possiamo suddividere i discendenti del
neutro latino in due classi: i fossili e i resti funzionali.
Rientrano nella categoria dei fossili quei discendenti dei
plurali neutri in -a che sono ormai dei femminili singolari a
tutti gli effetti, come foglia o pecora (rispettivam. < lat. folia,
plur. di folium «foglia», e < lat. pecora, plur. di pecus «pecora»), e che quindi possono essere individuati solo per via di
analisi etimologica. Nel passaggio dal latino all’italiano, l’assegnazione del genere a lessemi che avevano un significato di
singolare collettivo (folia «insieme di foglie», pecora «l’insieme
delle pecore», ecc.; ➔ collettivi, nomi) ha seguito in questi
casi un criterio fonologico, sicché questi lessemi sono confluiti
nella classe di flessione che comprende i femminili con singolare in -a, ricevendo di conseguenza il plurale in -e.
Questa ristrutturazione grammaticale si è accompagnata
spesso a ristrutturazioni del significato lessicale: il maschile foglio, proveniente da folium «foglia», si è specializzato nel significato di «foglio di carta»; l’originario plurale latino viridia
«cose verdi, verdure» è passato a indicare una verdura in particolare, la verza (anche in altre lingue romanze; cfr. romeno
varză).
I resti funzionali del neutro, invece, sono rappresentati in
varie lingue e dialetti romanzi da classi di accordo dotate di una
certa autonomia all’interno dei rispettivi sistemi, a prescindere
poi dal fatto che le singole tradizioni grammaticali riconoscano
a esse (come avviene per il romeno) oppure no (come perlopiù
per l’italiano) lo statuto di genere e il valore di neutro.
Un primo gruppo comprende i derivati dal morfema latino
di neutro plurale -a. Per limitarsi a esempi italiani, in questo
gruppo rientrano i plurali le braccia, le dita, le mura, le uova,
ecc. (per questi lessemi cfr. § 3).
Un secondo gruppo di neutri romanzi, vitale in vari dialetti
dell’Italia centro-meridionale e della Spagna settentrionale, discende da evoluzioni specifiche del dimostrativo latino ille,
che hanno portato, secondo trafile tuttora discusse, alla possibilità di distinguere lessemi maschili, numerabili e forniti di
plurale, da lessemi neutri, non numerabili e privi di plurale,
perlopiù nomi di massa (➔ massa, nomi di) o collettivi: cfr. a
Rieti lo turcu «il granturco» ma lu turcu «il turco», a Macerata
lu scuru «l’imposta della finestra» ma lo scuro «l’oscurità», a Napoli o vrit[ə] «il (pezzo di) vetro» ma o bbrit[ə] «il vetro» come
materiale (➔ grammatica storica). Come si vede dall’esempio maceratese, la distinzione tra -u e -o passa talvolta (in effetti raramente) dai determinanti ai nomi; l’esempio napoletano mostra invece che la distinzione può pesare, anziché sulle
desinenze, su processi fonologici come la presenza o l’assenza
di ➔ raddoppiamento sintattico.
Come ultimo esempio di resti funzionali del neutro abbiamo i derivati dal mantenimento di una declinazione bicasuale (e dunque di un’opponibilità di desinenza tra gli eredi del
lat. -us, nominativo, e quelli del lat. -um, accusativo; ➔ caso)
che permettono oggi di distinguere tra aggettivi singolari neutri in funzione attributiva (➔ attributo) e aggettivi maschili in
funzione predicativa (➔ predicato, tipi di), come nel soprasilvano in bien cudisch «un buon libro» ma quei cudisch ei buns
«quel libro è buono».
3. Esiste il neutro in italiano?
I criteri necessari per definire la categoria del genere e in
particolare il valore del neutro sono discussi, e accettarne alcuni invece di altri può portare a individuare o no un neutro anche in lingue la cui tradizione grammaticale, al contrario, non lo riconosce. Per l’italiano, la possibilità di
individuare lessemi di genere neutro è legata all’analisi dei
lessemi che hanno un singolare maschile in -o e un plurale
femminile in -a, esclusivo (come uovo ~ uova) o affiancato da
un altro plurale in -i (braccio ~ braccia ~ bracci, muro ~
mura ~ muri). Per sostenere che tali lessemi costituiscano una
sottoclasse caratterizzata da genere neutro sono stati usati
vari argomenti.
Secondo Bonfante (1961) la situazione dell’italiano sarebbe strutturalmente analoga a quella del romeno, che ha un
neutro formato da nomi, riferiti a entità inanimate, grammaticalmente maschili al singolare e femminili al plurale (ragion
per cui i neutri romeni sono anche detti ambigeneri):
singolare
un om
un uomo
plurale
doi oameni
due uomini
femminile
o fata
una ragazza
două fete
due ragazze
neutro
un braţ
un braccio
două braţe
due braccia
maschile
Il ‘neutro’ italiano sarebbe perfino più caratterizzato di
quello romeno in quanto esso dispone di una marca flessiva apposita per il plurale, appunto la desinenza -a, che manca invece
al romeno, il quale usa le desinenze del femminile -e (braţe
«braccia») e -uri (hoteluri «alberghi»). Sulla base di queste osservazioni, Bonfante e vari altri studiosi hanno riconosciuto anche per l’italiano l’esistenza di un neutro, che come il romeno
raccoglie una serie di nomi con referenti inanimati.
Esistono anche argomenti a sfavore di questa analisi. Il
primo interessa sia il neutro romeno sia il ‘neutro’ italiano e
riguarda il peso che si dà, per identificare i valori del genere,
alla presenza di specifiche marche di accordo non solo o non
tanto sui nomi quanto sugli elementi accordati: articoli, aggettivi e pronomi. È l’accordo su questi elementi che permette
di identificare la mano come femminile o sommo poeta come
maschile. Per l’appunto, il ‘neutro’ italiano ha desinenza -a nei
nomi plurali ma non nei rispettivi elementi accordati: le uova
buone sono queste, non *la uova buona sono questa. Per inciso,
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