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Neopurismo

2011

941-956 4° impaginato:Progetto Italiano 12/05/2011 15.21 Pagina 947 View metadata, citation and similar papers at core.ac.uk brought to you by CORE provided by Florence Research neopurismo sione metaforica, citiamo i santuari della mafia, il sito web e la relativa navigazione, la chiocciola dell’indirizzo e-mail, il campo elettromagnetico utilizzabile dal telefono mobile, la forbice o forchetta delle statistiche. Affine è l’impiego ellittico di un aggettivo sostantivato (la complanare, il passante ferroviario; ➔ sostantivato, aggettivo). Ristretti all’uso giornalistico e al cosiddetto politichese (➔ politica, linguaggio della) sono formazioni metonimiche come l’indicazione del luogo anziché dell’istituzione che vi opera (il Quirinale o il Colle per la presidenza della Repubblica, Mirafiori o il Lingotto per la Fiat), o l’impiego per sineddoche di un particolare a designare l’intero (tute blu «gli operai»; black bloc e tute bianche per i «disobbedienti»). Spesso il mutamento semantico è dettato da eufemismo o ‘correttezza politica’ (paese in via di sviluppo, non vedente, operatore ecologico, terza età; ➔ POLITICALLY CORRECT; ➔ tabu linguistico). L’estensione può essere mutuata dal gergo: pizzo e pizzino (di origine dialettale) della mafia, cuccare o segare dall’ambiente giovanile studentesco, da dove anche i modi bersi, essere fuori o sclerare (entrambi nel senso di «non ragionare») o fumarsi il cervello. 4. Raccolte e studi Le prime raccolte sistematiche, generalmente con intenti puristici, apparvero a Milano nel 1812 in conseguenza dell’applicazione in Italia della legislazione napoleonica (➔ dizionario): l’Elenco di alcune parole oggidì frequentemente in uso, le quali non sono ne’ vocabolarj italiani di Giuseppe Bernardoni e il più tollerante Voci italiane ammissibili benché proscritte dall’Elenco del sig. Bernardoni di Giovanni Gherardini. Su una linea liberale si collocò anche Prospero Viani col Dizionario di pretesi francesismi e di pretese voci e forme erronee della lingua italiana (1858-1860); mentre sotto la bandiera del misoneismo si pose la maggior parte degli altri repertori, tra cui il Vocabolario di parole e modi errati che sono comunemente in uso di Filippo Ugolini (1848, 18714), indi Nuovo vocabolario di parole e modi errati del figlio Vittorio (1889). Il secolo si chiuse con Il lessico della corrotta italianità di P. Fanfani e C. Arlia (1877; dalla seconda ed. intitolato Lessico dell’infima e corrotta italianità), giunto alla quinta edizione nel 1907, e col fortunato I neologismi buoni e cattivi più frequenti nell’uso odierno di Giuseppe Rigutini (1886), con l’ultima edizione accresciuta e curata da Giulio Cappuccini nel 1926. Nel 1905 uscì il Dizionario moderno. Supplemento ai dizionari italiani di Alfredo Panzini, che fece prevalere sull’inclinazione puristica la volontà di registrare qualunque termine o locuzione si affacciasse alla ribalta. L’opera ebbe sette edizioni, con profondi rimaneggiamenti, fino al 1935; dopo la morte di Panzini (1939), Alfredo Schiaffini e Bruno Migliorini trassero dalle carte d’autore un’ottava edizione (1942), che rimase definitiva, con la giunta però di un’Appendice curata da Migliorini, che nella decima edizione (1963, anche a sé come Parole nuove) raggiunse i dodicimila lemmi. La raccolta di Migliorini, sorretta da un’ineguagliabile competenza in fatto di lingua e lessicografia, instaurò fra l’altro il criterio dell’uso incipiente come condizione per l’accoglimento di voci altrimenti classificabili come occasionali: criterio che avrebbe fatto da guida, perlomeno dichiarata, delle migliori pubblicazioni successive (➔ neopurismo). Le due edizioni del Dizionario di parole nuove di Manlio Cortelazzo e Ugo Cardinale (1986, 1989) si presentano programmaticamente come la continuazione delle Parole nuove miglioriniane, colmando lo spazio tra il 1964 e il 1987; dal 1945, visto giustamente come anno d’inizio di un forte rinnovamento nel lessico (specie politico e tecnologico), muove il massiccio e documentato Dizionario del nuovo italiano di Claudio Quarantotto (1987; aggiornamento col Dizionario delle parole nuovissime, 2001). Nell’officina del dizionario Devoto-Oli sono nate le due compilazioni di Andrea Bencini ed Eugenia Citernesi, Parole degli anni Novanta (1992), poi di Bencini e Beatrice Manetti, Le parole dell’Italia che cambia (2005); mentre fungono da appendici, soprattutto neologistiche, al Grande dizionario italiano dell’uso di Tullio De Mauro i due tomi di Nuove parole italiane dell’uso (2003 e 2007; rifusi col dizionario nel Supporto digitale in commercio nel 2007). Infine, nell’Istituto del Lessico intellettuale europeo, col suo Osservatorio neologico della lingua italiana di Giovanni Adamo e Valeria Della Valle, sono stati elaborati i Neologismi quotidiani (2003; se ne può considerare un supplemento 2006 parole nuove, 2005), e da ultimo Neologismi (2008): sono le raccolte più voluminose mai uscite, per un complesso di oltre duemila pagine, fondate su uno spoglio dei quotidiani da cui, fatalmente, provengono molti occasionalismi mai entrati nell’uso. Un approccio pienamente scientifico alla neologia è venuto in Italia, come detto, con Migliorini e i suoi studi (confluiti in Lingua contemporanea, del 1938, e nei Saggi sulla lingua del Novecento del 1941), più volte aggiornati (ora in Migliorini 1990) e integrati da nuovi scritti. Va segnalato il ruolo della rivista miglioriniana «Lingua Nostra», fondata nel 1939 e tuttora in vita, attenta alla contemporaneità, anche con intenti propositivi. La formazione delle parole nell’italiano d’oggi (1978) è solo la prima delle monografie dedicate da Maurizio Dardano alle problematiche svolte in questa voce; tra i numerosi altri contributi si segnala infine Costruire parole. La morfologia derivativa dell’italiano (2009). Dopo il sistematico Scotti Morgana (1981), i principali saggi sul fenomeno neologico sono apparsi in premessa alle raccolte di parole nuove: si aggiunga la menzione di D’Achille (1991), che grazie a un più accurato scavo da materiali e studi sul lessico novecentesco ridimensiona la presunta maggiore creatività dell’italiano fin-de-siècle rispetto alle epoche precedenti. Fabio Marri Studi Adamo, Giovanni & Della Valle, Valeria (2003), Neologismi quotidiani. Un dizionario a cavallo del millennio, 1998-2003, Firenze, Olschki. Adamo, Giovanni & Della Valle, Valeria (2008), Neologismi. Parole nuove dai giornali, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana. D’Achille, Paolo (1991), Sui neologismi. Memoria del parlante e diacronia del presente, «Studi di lessicografia italiana» 11, pp. 269322. Fochi, Franco (1966), Lingua in rivoluzione. Saggio, Milano, Feltrinelli. Migliorini, Bruno (1963), Parole nuove. Appendice di dodicimila voci al “Dizionario moderno” di Alfredo Panzini, Milano, Hoepli. Migliorini, Bruno (1990), La lingua italiana del Novecento, a cura di M.L. Fanfani, con un saggio introduttivo di G. Ghinassi, Firenze, Le Lettere. Petralli, Alessio (1996), Neologismi e nuovi media. Verso la globalizzazione multimediale della comunicazione?, Bologna, CLUEB. Scotti Morgana, Silvia (1981), Le parole nuove, Bologna, Zanichelli. neopurismo 1. Definizione Il neopurismo è il movimento linguistico promosso da Bruno Migliorini (1896-1975), fra gli anni Trenta e Quaranta del Novecento, per assecondare un equilibrato sviluppo della lingua contemporanea valutando, secondo criteri storici e funzionali, i ➔ neologismi e i ➔ forestierismi destinati a radicarsi nell’uso e a interagire con le strutture fonomorfologiche dell’italiano. Fin dal 1932, per designare tale suo metodo di esaminare le innovazioni lessicali, Migliorini aveva parlato di glottotecnica o di linguistica applicata (in contrapposizione alla linguistica teorica), impiegando invece la parola neopurismo nell’accezione generica che essa allora possedeva, riferita per lo più al nuovo nazionalismo linguistico propagandato dalla politica fascista (➔ fascismo, lingua del; ➔ politica linguistica). Solo nel 1940 Migliorini rivendicò a sé la parola, facendone l’emblema di un programma volto a combattere sia il vecchio ➔ purismo ottocentesco sia quello nuovo dell’epoca fascista: a differenza delle censure aprioristiche di questi, il neopurismo avrebbe saggiato i forestierismi e i neologismi alla luce della linguistica strutturale e funzionale, non dimenticando che l’italiano è una lingua europea aperta agli internazionalismi e 947 941-956 4° impaginato:Progetto Italiano 12/05/2011 15.21 Pagina 948 neopurismo che occorre aver d’occhio, più che la ➔ lingua letteraria, i linguaggi settoriali, che creano e diffondono le innovazioni (Migliorini 1940). Resosi conto che il termine continuava a circolare nella sua accezione generica, dal 1942 Migliorini ripiegò di nuovo su glottotecnica (o linguistica applicata), inglobando nella sua idea di language planning anche il concetto di neopurismo (Migliorini 1942). Ma sta di fatto che è quest’ultimo il termine con cui in seguito si è sempre indicato, talora con qualche ambiguità, il metodo miglioriniano (Fanfani 2002). ➔ 2. Principi I principi su cui si fonda il neopurismo, oltre che dalle enunciazioni teoriche, si ricavano soprattutto dai tanti interventi che in quegli anni lo studioso dedica a risolvere singole questioni neologiche emergenti nella lingua contemporanea (Migliorini 1938; 1941b; Castellani 1979; Scotti Morgana 1981: 93-95). Forte di un’approfondita conoscenza delle strutture sincroniche, consapevole del differente ruolo che spetta al linguista e al grammatico, convinto che la norma, più che dalle prescrizioni, scaturisce dalla coscienza linguistica dei parlanti, Migliorini parte sempre da un’attenta ricognizione della situazione reale, soppesando le varie soluzioni che cominciano ad affiorare e cercando di favorire, con argomenti volti a chiarire i fatti, quelle che meglio si adattano al sistema e che quindi hanno maggior possibilità di attecchire nell’uso generale. In sostanza – si tratti di valutare gli eventuali calchi, integrazioni o sostituzioni dei forestierismi oppure i moduli più adatti nella formazione di un tecnicismo – il neopurismo intende assecondare il naturale processo evolutivo della lingua, indicando quelle scelte che possono facilitare l’accoglimento dell’innovazione e mantenerla nell’alveo della struttura fonomorfologica dell’italiano. E va detto che alcune delle proposte formulate in quegli interventi furono subito riprese e si fissarono stabilmente nell’uso comune: regista in luogo del francese régisseur, autista per chauffeur, apprendistato per apprendissaggio. In questo suo atteggiamento funzionale il neopurismo non è una variante addomesticata o più illuminata del purismo, ma in certo modo il suo capovolgimento, in quanto non si fonda su pregiudiziali ideologiche o retoriche (il nazionalismo, l’antisnobismo, la tradizione e la classicità letteraria), ma solo su criteri interni alla lingua, tenendo conto delle sue necessità onomasiologiche, delle tendenze evolutive in atto, della stabilità delle strutture di fondo, della loro forza di assimilazione, delle esigenze di chiarezza, univocità, convergenza internazionale delle terminologie tecnico-scientifiche. Di conseguenza la sua azione si svolge a tutto campo sul fronte del rinnovamento lessicale: i forestierismi sono giudicati alla stessa stregua delle neoformazioni interne alla lingua o di quei ➔ latinismi ‘integrali’ (auditorium, aquarium, eucalyptus) di solito trascurati dai puristi; inoltre si distinguono i termini specialistici da quelli destinati a una larga circolazione, le voci ormai stabilizzatesi da quelle di uso incipiente o ancora oscillante. E nell’esame linguistico non ci si limita al piano formale della fonetica e della grafia, ma si valuta attentamente anche il grado di integrazione morfologica e semantica della novità. Il metodo neopuristico, accanto agli aspetti più propriamente linguistici, prevede anche un lato più pratico, relativo alle modalità applicative (in questo senso va intesa l’espressione linguistica applicata), individuando chiaramente quali debbano essere le circostanze e l’atteggiamento generale dell’intervento glottotecnico, quali i casi in cui esso è davvero utile e opportuno, se e quando debba avvenire. Infatti, dato che sono numerosi e spesso imprevedibili i fattori che determinano la fortuna di una scelta lessicale, occorre evitare anzitutto almeno ciò che riduce fortemente o rende vana l’azione dell’esperto, per concentrarla dove essa valga a orientare i parlanti con chiarimenti e indicazioni che possano renderli più consapevoli. Così, proprio sulla base di una reale considerazione delle resistenze opposte dal senso di conservazione linguistica, dall’attaccamento alle parole già in uso (di qualsiasi origine esse 948 siano), dall’istintiva tendenza a scartare ciò che viene sentito come un’imposizione esterna creata a tavolino, il neopurista è indotto a privilegiare unicamente quei neologismi non ancora acclimatati, meglio se nel momento stesso in cui l’innovazione è ancora allo stadio germinale (Migliorini 1941a). Di conseguenza lascia libero corso non solo ai forestierismi conformi al sistema fonologico italiano (tango, rumba, fiordo, folclore), ma anche a quelli ormai accolti popolarmente nella loro forma integrale (bar, camion, film, sport). Inoltre si dedica soprattutto alle voci presumibilmente destinate a una larga circolazione nell’uso comune, tollerando i molti internazionalismi che restano confinati nell’ambito dei linguaggi specialistici, dove hanno una loro ragion d’essere, e trascurando certe voci esclusive del linguaggio della moda (➔ moda, lingua della) o del gergo mondano difficili da eliminare, dato che vi sono particolarmente ricercate proprio per la loro connotazione esotica e allusiva. Così, per es., mentre Migliorini intervenne con una certa prontezza a favore di autista, varianza (sull’ingl. variance) o picchiatello (a fronte dell’ingl. pixillated), su altri forestierismi di uso colto o snobistico su cui molto si discusse in quegli anni (ouverture, viveur) in sostanza ritenne opportuno sospendere il giudizio. Infine, nonostante non sottovalutasse gli effetti delle decisioni prese da enti, accademie o altri organismi pubblici, Migliorini preferì non appellarvisi, orientando la sua azione dal basso, ovvero impegnandosi in prima persona attraverso discussioni sui giornali e alla radio, opere divulgative e vocabolari, per consentire una più matura visione dei problemi e mostrare con testimonianze storiche e argomenti strutturali la natura di quella norma più profonda che agisce spontaneamente in ciascuno e che, in una continua dialettica fra tradizione e rinnovamento, governa la lingua. Nel secondo dopoguerra, in un clima culturale mutato, di fronte alla trasformazione del prestito in un massiccio fenomeno di massa e alla rapida modernizzazione e semplificazione dell’italiano col conseguente indebolimento delle sue capacità assimilative, Migliorini, pur non sconfessando la teoria neopuristica (Migliorini 1970; 1971), abbandonò quasi completamente il fronte glottotecnico, anche se continuò a studiare e analizzare i processi neologici e a fare opera di divulgazione per una più chiara conoscenza delle strutture della lingua e del modo come essa funziona: il fine ultimo del neopurismo, in sostanza, era tutto qui. 3. Nuove forme In questi ultimi anni tuttavia altri studiosi si sono rifatti alle concezioni neopuristiche con nuovi programmi d’intervento linguistico. Arrigo Castellani (1920-2004) ha proposto un suo purismo strutturale, diretto a contrastare la sempre più pervasiva presenza di ➔ anglicismi integrali nella lingua contemporanea, sebbene abbia inteso applicarlo a ogni parola che non risulti conforme alle strutture fonetiche dell’italiano, anche quando si tratti di voci ormai del tutto acclimatate e radicate nell’uso (Castellani 1987; 1996). Le sostituzioni e gli adattamenti proposti dallo studioso sono interessanti e spesso ingegnosi – guisco per whisky, fubbia [fu(mo)+(ne)bbia], per smog [smo(ke)+(fo)g], intredima per weekend, guardabimbi per baby-sitter, ubino per hobby, vendistica per marketing, velopàttino per windsurf – ma destinati in partenza all’insuccesso, proprio per ciò che, specie sul versante applicativo, il neopurismo prevedeva. Massimo Fanfani Studi Castellani, Arrigo (1979), Neopurismo e glottotecnica: l’intervento linguistico secondo Migliorini, in L’opera di Bruno Migliorini nel ricordo degli allievi, Firenze, Accademia della Crusca, pp. 23-32. Castellani, Arrigo (1987), Morbus Anglicus, «Studi linguistici italiani» 13, pp. 137-153. Castellani, Arrigo (1996), Il purismo strutturale e il problema degli anglicismi, «Pagine della Dante» 80, 4, pp. 12-14. Fanfani, Massimo (2002), Sulla terminologia linguistica di Migliorini, in Idee e parole. Universi concettuali e metalinguistici, a cura di V. Orioles, Roma, Il Calamo, pp. 251-298. 941-956 4° impaginato:Progetto Italiano 12/05/2011 15.21 Pagina 949 neutro Migliorini, Bruno (1938), Lingua contemporanea, Firenze, Sansoni (4a ed. 1963). Migliorini, Bruno (1940), Purismo e neopurismo, «Lingua nostra» 2, p. 47. Migliorini, Bruno (1941a), La sostituzione dei forestierismi: improvvisa o graduale?, «Lingua nostra» 3, pp. 138-140. Migliorini, Bruno (1941b), Saggi sulla lingua del Novecento, Firenze, Sansoni. Migliorini, Bruno (1942), Primi lineamenti di una nuova disciplina: la linguistica applicata o glottotecnica, «Scienza e tecnica» 6, pp. 609619. Migliorini, Bruno (1970), Functional principles and their application in the creation of new words, «Scientia» 105, pp. 91-100. Migliorini, Bruno (1971), Parole “più italiane” e “meno italiane”, «Lingua nostra» 32, pp. 50-52. Scotti Morgana, Silvia (1981), Le parole nuove, Bologna, Zanichelli. neutro 1. Definizione Si chiama comunemente genere neutro uno dei valori che la categoria del ➔ genere assume in varie lingue del mondo, segnatamente nelle lingue indoeuropee, antiche e moderne, accanto ai due valori, più stabili e produttivi, del ➔ maschile e del ➔ femminile. La denominazione tradizionale di neutro si giustifica in un sistema a tre valori nel quale il neutro si distingue non tanto in positivo, per qualche caratteristica specifica di significato o di costruzione, quanto in negativo, per essere appunto neuter, cioè, in latino, «né l’uno né l’altro», né maschile né femminile. 2. Resti del neutro latino in italiano La tradizione grammaticale dell’italiano non riconosce alla nostra lingua un genere neutro. In effetti, il sistema a tre valori del latino classico ha dato luogo perlopiù, evolvendosi nelle lingue romanze, a sistemi bipartiti, con la confluenza nelle classi del maschile e del femminile dei nomi che in latino erano neutri (➔ latino e italiano). La confluenza però non è stata totale ma ha lasciato dei resti, diversi per quantità e per funzionalità, in numerose lingue e dialetti romanzi. Se ci limitiamo all’italiano, possiamo suddividere i discendenti del neutro latino in due classi: i fossili e i resti funzionali. Rientrano nella categoria dei fossili quei discendenti dei plurali neutri in -a che sono ormai dei femminili singolari a tutti gli effetti, come foglia o pecora (rispettivam. < lat. folia, plur. di folium «foglia», e < lat. pecora, plur. di pecus «pecora»), e che quindi possono essere individuati solo per via di analisi etimologica. Nel passaggio dal latino all’italiano, l’assegnazione del genere a lessemi che avevano un significato di singolare collettivo (folia «insieme di foglie», pecora «l’insieme delle pecore», ecc.; ➔ collettivi, nomi) ha seguito in questi casi un criterio fonologico, sicché questi lessemi sono confluiti nella classe di flessione che comprende i femminili con singolare in -a, ricevendo di conseguenza il plurale in -e. Questa ristrutturazione grammaticale si è accompagnata spesso a ristrutturazioni del significato lessicale: il maschile foglio, proveniente da folium «foglia», si è specializzato nel significato di «foglio di carta»; l’originario plurale latino viridia «cose verdi, verdure» è passato a indicare una verdura in particolare, la verza (anche in altre lingue romanze; cfr. romeno varză). I resti funzionali del neutro, invece, sono rappresentati in varie lingue e dialetti romanzi da classi di accordo dotate di una certa autonomia all’interno dei rispettivi sistemi, a prescindere poi dal fatto che le singole tradizioni grammaticali riconoscano a esse (come avviene per il romeno) oppure no (come perlopiù per l’italiano) lo statuto di genere e il valore di neutro. Un primo gruppo comprende i derivati dal morfema latino di neutro plurale -a. Per limitarsi a esempi italiani, in questo gruppo rientrano i plurali le braccia, le dita, le mura, le uova, ecc. (per questi lessemi cfr. § 3). Un secondo gruppo di neutri romanzi, vitale in vari dialetti dell’Italia centro-meridionale e della Spagna settentrionale, discende da evoluzioni specifiche del dimostrativo latino ille, che hanno portato, secondo trafile tuttora discusse, alla possibilità di distinguere lessemi maschili, numerabili e forniti di plurale, da lessemi neutri, non numerabili e privi di plurale, perlopiù nomi di massa (➔ massa, nomi di) o collettivi: cfr. a Rieti lo turcu «il granturco» ma lu turcu «il turco», a Macerata lu scuru «l’imposta della finestra» ma lo scuro «l’oscurità», a Napoli o vrit[ə] «il (pezzo di) vetro» ma o bbrit[ə] «il vetro» come materiale (➔ grammatica storica). Come si vede dall’esempio maceratese, la distinzione tra -u e -o passa talvolta (in effetti raramente) dai determinanti ai nomi; l’esempio napoletano mostra invece che la distinzione può pesare, anziché sulle desinenze, su processi fonologici come la presenza o l’assenza di ➔ raddoppiamento sintattico. Come ultimo esempio di resti funzionali del neutro abbiamo i derivati dal mantenimento di una declinazione bicasuale (e dunque di un’opponibilità di desinenza tra gli eredi del lat. -us, nominativo, e quelli del lat. -um, accusativo; ➔ caso) che permettono oggi di distinguere tra aggettivi singolari neutri in funzione attributiva (➔ attributo) e aggettivi maschili in funzione predicativa (➔ predicato, tipi di), come nel soprasilvano in bien cudisch «un buon libro» ma quei cudisch ei buns «quel libro è buono». 3. Esiste il neutro in italiano? I criteri necessari per definire la categoria del genere e in particolare il valore del neutro sono discussi, e accettarne alcuni invece di altri può portare a individuare o no un neutro anche in lingue la cui tradizione grammaticale, al contrario, non lo riconosce. Per l’italiano, la possibilità di individuare lessemi di genere neutro è legata all’analisi dei lessemi che hanno un singolare maschile in -o e un plurale femminile in -a, esclusivo (come uovo ~ uova) o affiancato da un altro plurale in -i (braccio ~ braccia ~ bracci, muro ~ mura ~ muri). Per sostenere che tali lessemi costituiscano una sottoclasse caratterizzata da genere neutro sono stati usati vari argomenti. Secondo Bonfante (1961) la situazione dell’italiano sarebbe strutturalmente analoga a quella del romeno, che ha un neutro formato da nomi, riferiti a entità inanimate, grammaticalmente maschili al singolare e femminili al plurale (ragion per cui i neutri romeni sono anche detti ambigeneri): singolare un om un uomo plurale doi oameni due uomini femminile o fata una ragazza două fete due ragazze neutro un braţ un braccio două braţe due braccia maschile Il ‘neutro’ italiano sarebbe perfino più caratterizzato di quello romeno in quanto esso dispone di una marca flessiva apposita per il plurale, appunto la desinenza -a, che manca invece al romeno, il quale usa le desinenze del femminile -e (braţe «braccia») e -uri (hoteluri «alberghi»). Sulla base di queste osservazioni, Bonfante e vari altri studiosi hanno riconosciuto anche per l’italiano l’esistenza di un neutro, che come il romeno raccoglie una serie di nomi con referenti inanimati. Esistono anche argomenti a sfavore di questa analisi. Il primo interessa sia il neutro romeno sia il ‘neutro’ italiano e riguarda il peso che si dà, per identificare i valori del genere, alla presenza di specifiche marche di accordo non solo o non tanto sui nomi quanto sugli elementi accordati: articoli, aggettivi e pronomi. È l’accordo su questi elementi che permette di identificare la mano come femminile o sommo poeta come maschile. Per l’appunto, il ‘neutro’ italiano ha desinenza -a nei nomi plurali ma non nei rispettivi elementi accordati: le uova buone sono queste, non *la uova buona sono questa. Per inciso, 949