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martedì 8 aprile 2025

San Carlo: trionfo rom

 Un concerto trionfale con standing ovation finale e grandi emozioni al Teatro di San Carlo per la Giornata Internazionale dei Rom e Sinti grazie alla musica di Gennaro e Santino Spinelli
 Memorabile concerto si è tenuto Nella Sala degli Specchi del Teatro San Carlo di Napoli colma di pubblico. La musica, da sempre lingua universale, è stata scelta per celebrare la Giornata Internazionale dei Rom e dei Sinti. Il 4 aprile 2025 l'attento pubblico si è emozionato ascoltando le note del violinista Gennaro Spinelli e del fisarmonicista e compositore Santino Spinelli, che si sono esibiti insieme e da solisti in una performance che ha unito la musica etnica a quella classica.  Accompagnati dai solisti del Teatro di San Carlo guidati dal violinista Salvatore Lombardo e dai solisti dell’Orchestra Sinfonica G. Rossini di Pesaro guidati dal violinista Marco Bartolini. Santino e Gennaro hanno proposto un viaggio musicale che si è snodato dal repertorio classico rivisitato in chiave etnica a composizioni originali della tradizione romanì.
 “Vedere un pubblico così numeroso e attento in un Teatro meraviglioso, inserito dall'UNESCO nella lista dei monumenti Patrimonio dell'Umanità - dichiarano i due musicisti solisti - è stato molto emozionante. Ringraziamo i talentuosi musicisti che ci hanno accompagnato per celebrare la musica e la cultura romanì".
 Il concerto rientra all’interno di una serie di eventi che si svolgono su tutto il territorio nazionale in occasione della Giornata dell’8 aprile, un’iniziativa che quest’anno coincide con la seconda Settimana (romanì week) della Cultura Rom e Sinta lanciata dall’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali (UNAR), con il supporto dell’Unione delle Comunità Romanès e dell'Associazione Them Romanò.
 Per l'8 aprile  Santino Spinelli, con il suo Alexian Group e con la figlia arpista Evedise Spinelli, si esibirà da solista nella Chiesa dell'Annunziata di Pesaro assieme all'Orchestra Sinfonica Gioacchino Rossini diretta dal Maestro Nicola Russo in presenza di un funzionario dell'UNAR e delle autorità cittadine. Un altro grande evento che vede protagonista la famiglia Spinelli, una famiglia di grandi artisti.

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è l'8 aprile.

L'8 aprile, in Giappone, si festeggia l'"hana Matsuri", la festa dei fiori, il giorno del compleanno del Buddha.

In Giappone si apre ufficialmente un nuovo anno: è l’inizio dell’anno fiscale, delle scuole e università, e per molti è l’inizio di un nuovo lavoro. La primavera porta con sé il risveglio della natura, i fiori di ciliegio sbocciano e vengono celebrati, e nel farlo ci si prepara a una nuova vita, a un nuovo inizio. È il capodanno del Giappone, un po’ quello che rappresenta per noi settembre, il mese della ripresa delle normali attività, dei nuovi progetti e propositi.

Oggi in Giappone è una giornata particolare: si festeggia infatti il Kanbutsue 灌仏会 (lavare l’immagine del Buddha), conosciuto soprattutto col nome di Hana Matsuri 花祭 (Festa dei Fiori).

La festa è una celebrazione che ricorda il compleanno del Buddha storico (Siddharta Gautama), legato al rituale del Vesak, una delle feste religiose più importanti del calendario buddista, nel corso della quale si celebrano, simbolicamente, la nascita, l’illuminazione (il raggiungimento del nirvana) e la morte del Gautama Buddha, e viene celebrata dai buddhisti di tutto il mondo e di tutte le tradizioni.

La data del compleanno di Buddha è basata sul calendario lunisolare e su quello Buddhista, pertanto non viene festeggiata ovunque nello stesso giorno. Nel sud-est asiatico, si celebra nel giorno di luna piena del mese di Vaisakha, secondo il calendario Buddhista.

Nell’Asia orientale, ad eccezione del Giappone, si celebra l’ottavo giorno del quarto mese secondo l’antico calendario lunare cinese, data che varia ogni anno. In Giappone, invece, si è celebrato seguendo il calendario lunare fino al 1837, quando venne adottato il calendario Gregoriano, e da allora la celebrazione è stata fissata per l’8 aprile.

In questa giornata vengono dedicate numerose e solenni cerimonie che omaggiano Buddha, con processioni e la realizzazione di piccoli edifici decorati con bellissimi fiori, al cui interno viene posto una statuetta del Buddha che i fedeli bagneranno con una bevanda sacra, l’amacha 甘茶, un tè dolce ottenuto lasciando in infusione foglie di ortensia in acqua bollente.

E per concludere questo breve articolo dedicato alle celebrazioni dello hana matsuri, ecco 3 modi di dire che hanno per protagonista Buddha:

知らぬが仏

[shiranu ga Hotoke]

L’ignoranza ci rende Buddha, o diremmo noi, beata ignoranza! La parola hotoke 仏 significa appunta Buddha, e questo modo di dire si riferisce al fatto che se non sappiamo qualcosa, o non conosciamo una persona o lo stato delle cose, noi ci rapporteremo con queste in maniera inconsapevole, indifferente e calma, senza preconcetti, o agiremo senza troppi problemi, senza nemmeno pensarci. Puri di cuore, come se fossimo un Buddha.

仏の顔も三度

[Hotoke no kao mosando]

O anche i Buddha nel loro piccolo si arrabbiano! Letteralmente significa anche Buddha, se viene colpito tre volte (sando 三度) al volto (kao 顔) perde la pazienza; questo vuol dire che per quanto una persona sia buona e paziente, se subisce ripetutamente dei torti, alla fine si arrabbierà come tutti. Spesso in italiano viene reso con “anche un santo perde la pazienza”, ma anche con se tiri troppo la corda, alla fine questa si spezza.

釈迦に説法

[Shaka ni seppou]

“Che fai, vuoi insegnare a Buddha?”. Il significato letterale è fare un sermone (seppou 説法) a Buddha (Shaka 釈迦). In sostanza vuol dire dare consigli o suggerimenti a chi ha molta più esperienza di noi (appunto, insegnare a Buddha). Nulla è più fastidioso di chi pretende di insegnarti un qualcosa che già si sa benissimo, una situazione che nella vita capita molto spesso. Il modo migliore per reagire? Fate i Buddha 😉 un bel sorriso e rimanere serafici! Avrete notato che in questo modo di dire si utilizzata un altro termine per Buddha: Shaka 釈迦, che viene da “Shakyamuni” 釈迦牟尼 , uno dei nomi dati a Siddharta Gautama mentre era ancora in vita.

lunedì 7 aprile 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 7 aprile.

Il 7 aprile del 1979 decine di persone, appartenenti o simpatizzanti o considerate vicine alla formazione di sinistra extraparlamentare Autonomia Operaia, furono arrestate in un’operazione che diede inizio a uno dei capitoli più discussi e controversi della storia giudiziaria italiana degli scorsi decenni. Fu una vicenda che coinvolse centinaia di persone ma che ebbe come protagonisti, mediatici e non solo, da una parte l’intellettuale e attivista Toni Negri, dall’altra il magistrato Pietro Calogero. Come su tante altre questioni di quegli anni, gli arresti del 7 aprile – e soprattutto i processi che ne seguirono – provocarono divisioni nette e dolorose nella politica e nella società italiana, e ancora oggi non c’è un vero consenso storico sul caso, anche se le critiche a come il processo fu impostato e portato avanti negli anni sono diventate predominanti.

Autonomia Operaia era un movimento di estrema sinistra di ispirazione marxista e operaista che nacque nel 1973 in parte dall’esperienza di Potere Operaio, un altro gruppo che si era sciolto quell’anno e che era guidato tra gli altri da Negri, docente all’università di Scienze Politiche di Padova. Autonomia Operaia fu uno dei tanti movimenti extraparlamentari di quegli anni che portò avanti istanze di lotta rivoluzionaria con comizi, pubblicazioni e proteste, e che sviluppò al suo interno anche frange favorevoli a uno scontro violento con le istituzioni. Alcuni militanti di Autonomia Operaia nel corso del tempo si unirono a gruppi armati come Prima Linea o i Nuclei Operai Armati.

Il contesto degli arresti del 7 aprile era quello dei cosiddetti “anni di piombo”, delle stragi fasciste e del rapimento di Aldo Moro, l’importante dirigente della Democrazia Cristiana rapito e ucciso l’anno prima dalle Brigate Rosse in uno degli episodi più traumatici della storia repubblicana. Sull’omicidio si svilupparono vaste indagini e inchieste giudiziarie, e vennero adottate “leggi speciali” tra cui quella che permetteva di applicare il reato di associazione a delinquere alle organizzazioni politiche, e non solo a quelle mafiose.

Fu su queste premesse che il magistrato siciliano Pietro Calogero, della procura di Padova, sviluppò quello che la stampa chiamò “teorema Calogero”: cioè che una serie di intellettuali, docenti universitari, giornalisti e militanti dell’area riconducibile ad Autonomia Operaia avesse diretto le operazioni delle Brigate Rosse, portando avanti un progetto di eversione armata. Alla base della tesi di Calogero c’era la dibattuta questione dei rapporti tra la propaganda e gli scritti dei molti e influenti intellettuali di estrema sinistra dell’epoca e le azioni di terrorismo politico che proliferavano in quegli anni.

La cosiddetta “predicazione all’eversione” era considerata da molti in realtà come un’attività di protesta che, nel contesto di quegli anni, rientrava nell’esercizio delle libertà politiche, pur condividendo significative responsabilità dell’inasprirsi delle tensioni sociali per via dei frequenti inviti alla violenza, responsabilità riconosciute poi in diversi casi dai loro stessi autori. Ma secondo il magistrato, quelle responsabilità andavano ben oltre: Calogero credeva infatti che esistesse un collegamento diretto e materiale tra alcuni movimenti politici extraparlamentari di sinistra e le bande armate del terrorismo rosso.

Tra le decine di persone indagate e arrestate ci furono Toni Negri, Oreste Scalzone ed Emilio Vesce. Franco Piperno e Lanfranco Pace sfuggirono all’arresto andando in Francia. Le accuse andavano dall’associazione sovversiva all’insurrezione armata, ma in certi casi erano molto precise: Negri per esempio fu accusato di aver partecipato direttamente al rapimento Moro, e addirittura di essere stato il telefonista delle Brigate Rosse che condusse le trattative. In realtà si dimostrò dopo che la voce brigatista era di Valerio Morucci. A Negri fu rivolta anche l’accusa di “mandante morale” del rapimento, ma anche in questo caso cadde insieme a quelle di altri omicidi a lui attribuiti, da quello dell’ingegnere milanese Carlo Saronio a quello del giudice Emilio Alessandrini.

Il processo si svolse con tempi lunghissimi, e secondo molti attivisti – e anche secondo Amnesty International – in violazione dello stato di diritto: Negri, insieme ad altri imputati come Scalzone, fu detenuto preventivamente in carcere per anni, e il processo cominciò soltanto nel 1983. In primo grado Negri fu condannato a 30 anni per associazione sovversiva, banda armata e diversi altri reati, ma fu prosciolto dall’accusa di insurrezione armata.

Prima dell’appello, Negri accettò la proposta del politico radicale Marco Pannella di candidarsi alla Camera, venendo eletto e uscendo per questo dal carcere grazie all’immunità parlamentare. Nel settembre del 1983, Negri fuggì in nave in Francia: inizialmente parlò di un gesto politico assicurando che sarebbe rientrato in Italia, ma dopo qualche anno cambiò idea e decise di approfittare della cosiddetta “dottrina Mitterrand” – con cui la Francia dava ospitalità e sicurezza, rifiutando le estradizioni, a chi lasciasse la lotta armata e la violenza – rimanendo latitante. Questo fece arrabbiare molto Pannella, e attirò le critiche di molti che in precedenza lo avevano sostenuto.

In molti, da Giorgio Bocca a Rossana Rossanda, criticarono duramente lo svolgimento del processo, considerandolo ingiusto e disumano nei confronti degli imputati a cui, secondo molti, non furono assicurate le garanzie alla base di un sistema giudiziario fondato sullo stato di diritto. Ma negli anni le critiche hanno riguardato sempre più l’impostazione alla base del processo, dall’affidamento fatto sulle testimonianze dei “pentiti” – pratica spesso contestata nei processi sul terrorismo politico – alla tesi di fondo che mirava ad attribuire responsabilità materiali nel terrorismo politico agli intellettuali di estrema sinistra che non parteciparono direttamente ai gruppi armati.

Alla fine le pene dei principali condannati nel processo del 7 aprile furono ridotte in appello e poi confermate in Cassazione: in tutto Negri ricevette 12 anni, Scalzone 8 anni, Pace e Piperno 4 anni. La giustizia ritenne dunque colpevole i leader di Autonomia Operaia di eversione e di banda armata, ma non trovò prove del “teorema Calogero” sui collegamenti con le Brigate Rosse e con i moltissimi omicidi e sequestri a loro inizialmente attribuiti. Negri rientrò in Italia nel 1997, costituendosi e scontando i rimanenti anni di carcere. Scalzone, che a sua volta era fuggito in Francia nel 1981, ci rimase fino al 2007 quando i suoi reati furono prescritti, così come fece Pace. Piperno, che per un periodo rimase latitante in Francia e in Canada, rientrò a sua volta in Italia e scontò la parte rimanente della pena.

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