Roberta Malena
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Papers by Roberta Malena
Il presente articolo è centrato sulle attività e sulle strategie per l’insegnamento dell’italiano e delle lingue straniere in contesti plurilingui, diffuso bisogno formativo del personale docente, come dimostrano numerose ricerche scientifiche di carattere nazionale e internazionale.
Le motivazioni sono le seguenti:
• la scuola italiana è ancora molto distante, al di là di poche eccezioni, dalla valorizzazione piena del plurilinguismo, all’interno delle classi, in quanto privilegia una didattica, ancorata fortemente ai modelli tradizionali, non essendo disponibili protocolli di azione e pratiche istituzionalizzate;
• in Italia, si rileva mancanza di attenzione rispetto al plurilinguismo da parte delle istituzioni e una percezione negativa della coesistenza di diverse lingue, in difesa della propria,
• la scelta delle strategie didattiche più efficaci per la promozione linguistica, risulta prerogativa del singolo docente.
Definire il plurilinguismo sembrerebbe un’operazione abbastanza semplice, perché dovrebbe riguardere la capacità di un individuo di parlare più lingue. Non è così, invece, perché la stessa lingua è un insieme di diverse varietà, a seconda dei periodi storici, dei gruppi sociali, degli argomenti e delle situazioni comunicative. Il riferimento al plurilinguismo è, dunque, opportuno anche per identificare un individuo che, de facto, parla una sola lingua.
La ricercatrice Marcato (2012) ha proposto di considerare una suddivisione fra “plurilinguismo esogeno”, costituito da diverse lingue, quali dialetti e lingue minoritarie radicate da secoli sui territori e “plurilinguismo endogeno”, quando riguarda la variazione interna a un sistema linguistico.
La scuola italiana è, comunque, all’avanguardia nell’elaborazione di soluzioni educative in situazioni di plurilinguismo e vanta modelli positivi di convivenza e crescita comune e di superamento delle disuguaglianze. Il raggiungimento di una piena italofonia da parte degli studenti di recente immigrazione è una precondizione necessaria per il loro successo scolastico e per la loro partecipazione nella società. Inoltre, valorizzare l’apporto delle lingue ‘altre’ a scuola può condurre a rafforzare le competenze interculturali e linguistiche di tutti i membri della classe, a prescindere dal loro retroterra linguistico familiare.
Gli interventi, volti alla promozione e alla tutela delle lingue di minoranza, dovrebbero partire sempre da una constatazione dell’esistenza delle lingue minoritarie in classe, valutando anche le lingue straniere e seconde, parlate dagli studenti, per mezzo della proposta di un’indagine sociolinguistica preliminare (Aquilino 2011), consistente in un’intervista alle famiglie o, più spesso, nella proposta di un questionario sociolinguistico ad uso glottodidattico, da somministrare prima dell’inizio delle attività formative, per rilevare la situazione linguistica dell’apprendente e cioè:
• la lingua madre,
• la presenza di altre lingue e dialetti,
• gli ambiti di pratica linguistica,
• le lingue parlate in famiglia,
• gli aspetti motivazionali e psicoaffettivi che caratterizzeranno l’azione glottodidattica.
L’informatica ha portato non solo strumenti, quali computer e linguaggi di programmazione, ma soprattutto innovazioni nel modo di pensare. in tutta una serie di ambiti scientifici.
Oggi, l’informatica si lega allo sviluppo del “pensiero computazionale”, concetto introdotto per la prima volta da Seymour Papert nel 1996, attraverso LOGO, il linguaggio di programmazione da lui sviluppato, per insegnare la programmazione ai bambini, al Massachusetts Institute of Technology (MIT), una delle più importanti università di ricerca del mondo.
Nell’ultimo decennio il trend topic nell’ambito dell’insegnamento dell’informatica `e certamente il pensiero computazionale, già presente da decenni, in diverse declinazioni,`ma all’attenzione della comunità scientifica dal 2006, grazie a Jeannette Wing, direttrice del Dipartimento di Informatica della Carnegie Mellon University.
Secondo la Wing, il pensiero computazionale è il processo mentale che sta alla base della formulazione dei problemi e delle loro soluzioni, rappresentate in una forma che può essere implementata, in maniera efficace, da un elaboratore di informazioni, umano o artificiale. Il pensiero computazionale si configura, dunque, come lo sforzo che un individuo deve mettere in atto, per fornire a un altro individuo o macchina tutte e sole le “istruzioni” necessarie, affinché questi, eseguendole, sia in grado di portare a termine il compito affidato.
Il pensiero computazionale non è un’abilità utile solo per chi fa l’informatico di professione, ma è una skill fondamentale che tutti dovrebbero possedere e soprattutto i giovani che, per riuscire bene nel proprio futuro professionale devono “imparare a imparare” e sviluppare senso critico e competenze in ambito valutativo In questa direzione si muovono le raccomandazioni dell’Unione Europea in materia di istruzione che sono state recepite dal MIUR anche con l’introduzione della programmazione nelle scuole a partire dalla primaria. Perché così come leggere, scrivere e contare sono abilità che è importante imparare fin da bambini anche il pensiero computazionale deve essere appreso ed esercitato fin dai primi anni di scuola.
.
Il job profile del dirigente della scuola deve comprendere un ampio ventaglio di competenze, che tenga conto di apporti e dimensioni anche molto diverse tra loro e le valorizzi tutte, nell’ottica della collaborazione fattiva e della crescita professionale.
La Legge 107/2015 e il Piano Nazionale Scuola Digitale (PNSD) ritengono fondamentale la presenza di competenze di e.leadership nel settore pubblico, per implementare i percorsi di crescita digitale del Paese.
Drafts by Roberta Malena
Le richieste anche indirette di informazioni avanzate dai docenti sullo stato vaccinale degli studenti e delle loro famiglie in tempo di pandemia, ha portato a diversi reclami, segnalazioni e richieste di chiarimenti su privacy a rischio
Al riguardo il Garante ha inviato una lettera al Ministero dell’istruzione affinché quest’ultimo provvedesse a sensibilizzare gli istituti scolastici in relazione ai rischi per i diritti e le libertà degli interessati derivanti dall’assunzione di tali iniziative. Il Garante ha chiarito, in particolare, che non è consentito agli istituti scolastici conoscere lo stato di vaccinazione da Covid-19 degli studenti. Non bisogna, pertanto richiedere loro quale sia lo stato vaccinale per consentirgli di accedere alle strutture delle istituzioni scolastiche, educative e formative e ai relativi sevizi, né pretendere il possesso e l’esibizione della certificazione verde in corso di validità.
Il presente articolo è centrato sulle attività e sulle strategie per l’insegnamento dell’italiano e delle lingue straniere in contesti plurilingui, diffuso bisogno formativo del personale docente, come dimostrano numerose ricerche scientifiche di carattere nazionale e internazionale.
Le motivazioni sono le seguenti:
• la scuola italiana è ancora molto distante, al di là di poche eccezioni, dalla valorizzazione piena del plurilinguismo, all’interno delle classi, in quanto privilegia una didattica, ancorata fortemente ai modelli tradizionali, non essendo disponibili protocolli di azione e pratiche istituzionalizzate;
• in Italia, si rileva mancanza di attenzione rispetto al plurilinguismo da parte delle istituzioni e una percezione negativa della coesistenza di diverse lingue, in difesa della propria,
• la scelta delle strategie didattiche più efficaci per la promozione linguistica, risulta prerogativa del singolo docente.
Definire il plurilinguismo sembrerebbe un’operazione abbastanza semplice, perché dovrebbe riguardere la capacità di un individuo di parlare più lingue. Non è così, invece, perché la stessa lingua è un insieme di diverse varietà, a seconda dei periodi storici, dei gruppi sociali, degli argomenti e delle situazioni comunicative. Il riferimento al plurilinguismo è, dunque, opportuno anche per identificare un individuo che, de facto, parla una sola lingua.
La ricercatrice Marcato (2012) ha proposto di considerare una suddivisione fra “plurilinguismo esogeno”, costituito da diverse lingue, quali dialetti e lingue minoritarie radicate da secoli sui territori e “plurilinguismo endogeno”, quando riguarda la variazione interna a un sistema linguistico.
La scuola italiana è, comunque, all’avanguardia nell’elaborazione di soluzioni educative in situazioni di plurilinguismo e vanta modelli positivi di convivenza e crescita comune e di superamento delle disuguaglianze. Il raggiungimento di una piena italofonia da parte degli studenti di recente immigrazione è una precondizione necessaria per il loro successo scolastico e per la loro partecipazione nella società. Inoltre, valorizzare l’apporto delle lingue ‘altre’ a scuola può condurre a rafforzare le competenze interculturali e linguistiche di tutti i membri della classe, a prescindere dal loro retroterra linguistico familiare.
Gli interventi, volti alla promozione e alla tutela delle lingue di minoranza, dovrebbero partire sempre da una constatazione dell’esistenza delle lingue minoritarie in classe, valutando anche le lingue straniere e seconde, parlate dagli studenti, per mezzo della proposta di un’indagine sociolinguistica preliminare (Aquilino 2011), consistente in un’intervista alle famiglie o, più spesso, nella proposta di un questionario sociolinguistico ad uso glottodidattico, da somministrare prima dell’inizio delle attività formative, per rilevare la situazione linguistica dell’apprendente e cioè:
• la lingua madre,
• la presenza di altre lingue e dialetti,
• gli ambiti di pratica linguistica,
• le lingue parlate in famiglia,
• gli aspetti motivazionali e psicoaffettivi che caratterizzeranno l’azione glottodidattica.
L’informatica ha portato non solo strumenti, quali computer e linguaggi di programmazione, ma soprattutto innovazioni nel modo di pensare. in tutta una serie di ambiti scientifici.
Oggi, l’informatica si lega allo sviluppo del “pensiero computazionale”, concetto introdotto per la prima volta da Seymour Papert nel 1996, attraverso LOGO, il linguaggio di programmazione da lui sviluppato, per insegnare la programmazione ai bambini, al Massachusetts Institute of Technology (MIT), una delle più importanti università di ricerca del mondo.
Nell’ultimo decennio il trend topic nell’ambito dell’insegnamento dell’informatica `e certamente il pensiero computazionale, già presente da decenni, in diverse declinazioni,`ma all’attenzione della comunità scientifica dal 2006, grazie a Jeannette Wing, direttrice del Dipartimento di Informatica della Carnegie Mellon University.
Secondo la Wing, il pensiero computazionale è il processo mentale che sta alla base della formulazione dei problemi e delle loro soluzioni, rappresentate in una forma che può essere implementata, in maniera efficace, da un elaboratore di informazioni, umano o artificiale. Il pensiero computazionale si configura, dunque, come lo sforzo che un individuo deve mettere in atto, per fornire a un altro individuo o macchina tutte e sole le “istruzioni” necessarie, affinché questi, eseguendole, sia in grado di portare a termine il compito affidato.
Il pensiero computazionale non è un’abilità utile solo per chi fa l’informatico di professione, ma è una skill fondamentale che tutti dovrebbero possedere e soprattutto i giovani che, per riuscire bene nel proprio futuro professionale devono “imparare a imparare” e sviluppare senso critico e competenze in ambito valutativo In questa direzione si muovono le raccomandazioni dell’Unione Europea in materia di istruzione che sono state recepite dal MIUR anche con l’introduzione della programmazione nelle scuole a partire dalla primaria. Perché così come leggere, scrivere e contare sono abilità che è importante imparare fin da bambini anche il pensiero computazionale deve essere appreso ed esercitato fin dai primi anni di scuola.
.
Il job profile del dirigente della scuola deve comprendere un ampio ventaglio di competenze, che tenga conto di apporti e dimensioni anche molto diverse tra loro e le valorizzi tutte, nell’ottica della collaborazione fattiva e della crescita professionale.
La Legge 107/2015 e il Piano Nazionale Scuola Digitale (PNSD) ritengono fondamentale la presenza di competenze di e.leadership nel settore pubblico, per implementare i percorsi di crescita digitale del Paese.
Le richieste anche indirette di informazioni avanzate dai docenti sullo stato vaccinale degli studenti e delle loro famiglie in tempo di pandemia, ha portato a diversi reclami, segnalazioni e richieste di chiarimenti su privacy a rischio
Al riguardo il Garante ha inviato una lettera al Ministero dell’istruzione affinché quest’ultimo provvedesse a sensibilizzare gli istituti scolastici in relazione ai rischi per i diritti e le libertà degli interessati derivanti dall’assunzione di tali iniziative. Il Garante ha chiarito, in particolare, che non è consentito agli istituti scolastici conoscere lo stato di vaccinazione da Covid-19 degli studenti. Non bisogna, pertanto richiedere loro quale sia lo stato vaccinale per consentirgli di accedere alle strutture delle istituzioni scolastiche, educative e formative e ai relativi sevizi, né pretendere il possesso e l’esibizione della certificazione verde in corso di validità.
COME SVILUPPARLA IN AMBITO EDUCATIVO - SCOLASTICO
Insegnare l’alfabeto delle emozioni è un processo simile a quello in cui si impara a leggere, poiché comporta la promozione della capacità di leggere e comprendere le proprie ed altrui emozioni e l’utilizzo di tali abilità per comprendere meglio se stessi e gli altri .
L’intelligenza emotiva è da intendersi come l’insieme di abilità pratiche (skills), necessarie per l’autoefficacia (self-efficacy) dell’individuo nelle transazioni sociali che suscitano emozioni (emotion-eliciting social transaction)” (Saarni, 1999).
Per ESPRESSIONE EMOTIVA, s’intende la capacità di utilizzare i gesti, per esprimere messaggi emotivi non verbali, dimostrare coinvolgimento empatico, manifestare emozioni sociali, essere consapevoli che è possibile controllare l’espressione manifesta di emozioni socialmente disapprovate.
Per COMPRENSIONE EMOTIVA, s’intende la capacità di discernere i propri stati emotivi, discernere gli stati emotivi altrui, utilizzare il vocabolario emotivo.
Per REGOLAZIONE EMOTIVA, s’intende la capacità di fronteggiare le emozioni negative e quelle positive o le situazioni che le suscitano, “sovraregolare” strategicamente l’esperienza e l’espressione delle emozioni.
Si è diffusa nelle scuole negli ultimi 20 anni
(soprattutto in USA).
L’alfabetizzazione emozionale è una tipologia di intervento educativo, volta a promuovere il benessere socio-emozionale dell’individuo, attraverso l’insegnamento delle abilità definite nel costrutto di Competenza emotiva :
• Identificare e denominare le emozioni
• Esprimere le emozioni
• Valutare l’intensità delle emozioni
• Gestire le emozioni
• Aumentare la resistenza allo stress
• Conoscere la differenza tra emozioni e azioni.
L’approccio scolastico tradizionale oppone lo sviluppo intellettuale a quello emozionale, ma l’educazione alla competenza emotiva è fondamentale per l’apprendimento e può essere insegnata e implementata.
Promuovere la competenza emotiva favorisce, infatti:
• La motivazione e lo svolgimento di processi cognitivi importanti per il rendimento scolastico (attenzione e memoria)
• L’apprendimento di abilità interpersonali per essere competenti socialmente, prendere decisioni corrette, avere successo con coetanei ed insegnanti e stare bene a scuola.
Il National Storytelling Network definisce lo storytelling come “l’arte interattiva di usare parole e azioni per mostrare gli elementi e le immagini di una storia incoraggiando l’immaginazione dell’ascoltatore”.
Lo storytelling consiste nella capacità di organizzare ciò che si ha da dire in una struttura narrativa che tenga alta l’attenzione degli ascoltatori, narrando, raccontando e comunicando emozioni.
Lo Storytelling funziona per le sdeguenti motivazioni:
• perché le storie ben raccontate suscitano emozioni;
• perché favorisce il processo di immedesimazione del lettore nella narrazione;
• perché veicola valori;
• perché si imprime nella memoria;
• perché è capace di reinventare il modello della comunicazione, partendo dalle emozioni e coinvolgendo sia alunni che docenti.
L'uomo è un essere narrante, al quale piace la narrazione, per cui, in ogni epoca e in ogni tempo, ha raccontato storie: saghe, mitologie, leggende che, oggi, sono multimediali e crossmediali: visive, musicali, iper-testuali.
Fare storytelling significa, dunque, saper gestire meglio il cambiamento culturale e organizzativo, raccontandolo con nuovi codici e stili linguistici e raccontarsi con nuova forza persuasiva alle persone che ormai sono abituate ai codici della comunicazione pubblicitaria.
Lo storytelling vende prodotti o servizi attraverso una narrazione, capace di conquistare una quota di spazio memoria affettiva negli interlocutori, evocando sensazioni, tracce emotive e suggestionando la memoria individuale e di gruppo. Fare storytelling significa, infatti generare, attraverso il racconto, una serie di emozioni.
Le trame più diffuse e ricorrenti attraverso lo storytelling sono:
• Epica, cioè quella dell'eroe in ricerca che deve superare una serie di prove per compiere la sua missione;
• Dramma, convittime che non si arrendono, quantunque colpite da traumi o comunque avversità della vita;
• Melodramma, con eroi che diventano vittime per qualche particolare evento e con esiti tragicomici, teatrali, enfatici;
• Commedia, con protagonisti astuti, garbati e intelligenti che raggiungono i loro obiettivi, divertendosi con sottigliezza e mordacità.
R. Norton, studioso della comunicazione efficace in classe, ha identificato i seguenti stili comunicativi:
1. dominante che si caratterizza per la manifestazione fisica, i linguaggi non verbali (movimenti del corpo, contatto degli occhi, altezza, modulazione della voce ect.), assertività, positività, competitività;
2. drammatico, caratterizzato dalla tendenza all’esagerazione, all’uso di metafore, all’ enfasi, a sottolineare o a minimizzare il contenuto di un discorso;
3. polemico che si avvicina allo stile dominante, ma penalizza maggiormente la collaborazione, a livello comunicativo e si caratterizza per essere argomentativo, poco tollerante e, a volte, litigioso;
4. animato con uso frequente e prolungato del contatto visivo, delle espressioni facciali, dei gesti e dei movimenti del corpo per segnalare stati d’animo, enfatizzare esagerare o distorcere i messaggi;
5. rilassato e segnalante messaggi quali: calma, pace, serenità, ma anche disattenzione, apatia, noncuranza. Lo stile rilassato manca di tensione in ogni segnale inviato, sia verbale che non verbale;
6. attento, a garanzia di un ottimale processo comunicativo, caratterizzato da empatia e accompagnato da elementi non verbali, quali cenni del capo, sguardo attento e vicinanza fisica;
7. aperto, cioè espansivo, affabile, conviviale, gregario, schietto, loquace, franco e tendente a confermare, assecondare e riconoscere positivamente l’altro;
8. preciso, cioè accurato e attento ai discorsi informativi e argomentativi;
9. d’impatto o d’effetto con direzione positiva o negativa: odiosa o, al contrario, di buon gusto;
10. immagine comunicativa che fa riferimento alla valutazione generale dell’efficacia dello stile comunicativo di una persona e indica in che misura una persona si ritiene un buon o cattivo comunicatore.