Nostra Recita Quotidiana: Romanzo
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L'auteur remercie les Italiens qui achètent le livre sur le territoire français.
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Anteprima del libro
Nostra Recita Quotidiana - Bianca Fasano
Cilento.
Nostra recita quotidiana
Romanzo
NOSTRA RECITA QUOTIDIANA
ROMANZO
BIANCA FASANO
Poesia
Dedicato a quanti nella loro vita hanno amato qualcuno dimenticando se stessi.
******************
«Non piangete Romeo e Giulietta
Se gli attori che vi impersonano
In questa macabra scena
sono manichini di piombo.
Voi due, dal balcone,
bloccati dal simulacro del mito
vi guardate straziati.
Nel muto colloquio
delle vostre ardenti
parole di cenere
Brucio i giorni vivi
e canto messe per il passato.
Ma voi non piangete!
Non guardatevi più
con le orbite piene della vostra leggenda!
Il mondo,
che non sogna altro,
distrugge l’amore;
eppure non v’è canzone che non lo inneggi
canzoni e note tristi
come gli occhi degli amanti eterni
che s’amano ancora perché sono favola
o, forse,
perché sono morti. »
Presentazione dell’autrice, al momento della pubblicazione in e book.
Anno 2014
Nostra recita quotidiana è un’opera di fantasia, terminata nel 1981 e pubblicata in cartaceo nel 1987.
E’ stata creata sulla trama di realtà esistenti al tempo, quali le secolari arretratezze di un territorio e gli eventi drammatici del sisma che graffiò
il Cilento e colpì al cuore l’Irpinia nel 1980.
Si verificò il 23 novembre 1980 e percosse la Campania centrale e la Basilicata centro-settentrionale.
All’epoca il mio secondogenito era piccolo quanto l’Aurora della protagonista e nostre, nel Cilento, furono le paure, le fughe dalle case, le rassicurazioni successive; purtroppo non questo soltanto avvenne per coloro che lo vissero come epicentro di un terremoto che fu caratterizzato da una magnitudo di circa 6,9 gradi della scala Richter e del decimo grado di quella Mercalli.
I comuni dell’epicentro furono Teora, Castelnuovo di Conza e Conza della Campania e quel sisma, di cui non sono ancora scomparse le tracce, se non nel territorio stesso, certamente nell’animo di quanti vi persero amici e parenti, causò circa 280.000 sfollati, 8.848 feriti e 2.914 morti.
Come giornalista, all’epoca, vissi molto da vicino le sofferenze della gente, protagonista suo malgrado, degli eventi e quanto ho raccontato nel romanzo rispecchia le realtà di quei momenti.
Nelly, la protagonista del romanzo, non esiste, invece, se non nella realtà che ogni donna incontra nel suo spazio operativo.
Il personaggio da me creato non è un essere perfetto, ma perfettibile, come tutti gli esseri umani.
Per superare il divario tra le sue origini e le sue aspirazioni, accetta ogni sfida e fa tacere anche alcuni principi morali, ma di fronte all'ambiguità di una relazione, che pure ella sente indispensabile come il respiro, trova la forza di rinunciare.
Dal terremoto delle sue esperienze, vissute con estrema categoricità anche negli errori, Nelly viene fuori come forgiata, maturata e non vinta, fiduciosa nell'avvenire.
Bianca Fasano.
Dove inizia la storia.
Nelly.
Dove inizia la storia.
E’ giusto che questa storia cominci dove realmente iniziò, circa venticinque anni fa, tra le pareti di una stanza da letto con le mura imbiancate a calce dove nacque Nelly, prima come femminuccia e seconda come figlia.
I suoi genitori vivevano in campagna, a mezza strada tra Pollica e il bivio di Casalvelino mare.
Ovviamente non decise lei di nascere proprio in quel luogo, poiché, col suo temperamento, se avesse potuto scegliere, avrebbe preferito nascere altrove, ma giacché nacque proprio in quei posti è interessante evidenziare che essendo il ventidue di marzo le colline intorno erano ricoperte da ginestre gialle, fiori di prato, alberi «di Giuda» violetti, e innumerevoli piante di altri colori.
Possiamo anche immaginare meglio quel giorno di festa figurandoci il caldo sole penetrare in casa dagli scuri spalancati e il via vai di parenti e amici giunti per aiutare la puerpera e per salutare il nuovo essere venuto al mondo.
Nelly.
Crescendo imparai ad amare il lento succedersi delle stagioni, l'aria cocente di agosto, le ombre tristi di ottobre e anche a sopportare le urla strazianti dei maiali sacrificati nel freddo gelido di febbraio. Tuttavia non mi sentii mai parte integrante di quel mondo, di quelle idee, di quei silenzi e della monotonia di ore sempre uguali.
A casa crebbi solitaria, amata ma non compresa da mio padre, taciturno e indaffarato, compresa forse ma non aiutata dalla rassegnata pazienza di mia madre, troppo presto costretta a occuparsi delle mie sorelline, nate nel biennio successivo alla mia venuta al mondo.
Mia madre allora non doveva avere vita facile: l’acqua corrente non c'era, così come mancava la luce elettrica e la cucina a gas. L’unica fonte di riscaldamento per il freddo dei mesi invernali era il caminetto della cucina.
I panni si lavavano al fiume, impiegando settimanalmente un'intera giornata allo scopo, per cui naturalmente noi bambini dovevamo seguire la mamma e trascorrere un'intera giornata lontani dalla casa. Anche andare a scuola, rappresentava un grosso problema: la scuola si trovava a Pollica e d’inverno la strada, coperta di fango e pozzanghere, non era facile da percorrere.
Inoltre anche l'acquisto di quaderni, penne, pennini e inchiostro, rappresentava una spesa non indifferente per il bilancio familiare; malgrado ciò frequentai le elementari di Pollica e a ricordo di ciò resta una fotografia in bianco e nero dove appaio sorridente, con un faccino impertinente che spunta dal carnicino nero.
Già a dodici anni però, riempii per la prima volta e senza troppa tristezza la mia valigia di cartone per andare a stabilirmi in un collegio di Salerno. A decidere della mia sorte non fu tanto la necessità di farmi continuare gli studi quanto l'economia incerta della mia famiglia. Rappresentavo la classica «bocca di più da sfamare» e inoltre non ero un tipino facile da educarsi, sempre preda di pensieri che per il resto della famiglia erano assurdi.
L'unica cosa che facevo volentieri e che accontentava anche la mamma era il ricamo.
Dedicavo ore intere in quell’occupazione femminile, ma non certo con l'idea di gettare le basi per il mio corredo da sposa, poiché fin da allora avevo idee personali e piuttosto negative sul matrimonio.
Aiutavo poco in casa e trascorrevo il resto del tempo a leggere tutto ciò che mi riusciva di procurare, altra «strana» abitudine che innervosiva terribilmente mio padre e faceva sospirare mia madre.
«Stuta a luce, Anelli!» - M’incitavano «i vecchi» dalla loro stanza posta accanto alla nostra.
Ogni sera la stessa frase che giungeva puntuale dopo i sordi brontoli di mio padre. Mamma la diceva in tono rassegnato, a voce appena udibile e io spegnevo la luce e accendevo una candela continuando imperterrita a leggere e a fantasticare senza smettere neanche quando al mio orecchio giungeva il russare di papà e lo scricchiolio del letto su cui la mamma si agitava insonne, fino il mattino.
Lasciai dunque casa mia, dove ancora si respirava la passata stagione estiva, per trasferirmi in collegio. A febbraio faceva freddo anche lì e il cibo era pessimo: patate bollite, poco olio, molta salsa mal condita e mortadella a volontà, ma in compenso mi lasciavano in pace. Leggevo tutto quello che mi si dava da leggere e molto di più. La bibliotechina non certo ricca del Collegio «Sacro Cuore» divenne in breve il mio posto preferito, ma si trattava di letture che mi lasciavano vuota: in quanto mi apparivano irreali, mielate, zeppe di personaggi poco credibili, sempre troppo buoni o troppo cattivi, troppo saggi o troppo portati all'errore, troppo ricchi o troppo poveri. Non mi riusciva di ritrovare in quei personaggi un eroe da imitare che mi somigliasse, in cerca come me di un modo di vivere rassicurante, logico e produttivo.
Intanto crescevo: un volto sottile e pallido, due trecce nere, gli occhi grigi e un fisico asciutto e nervoso cui non prestavo molta attenzione; tutto questo era il mio patrimonio naturale.
Gli occhi restavano inquieti anche quando li posavo sul libro di preghiere e anche in quei momenti il mio instancabile cervellino si poneva quesiti. Suor Angela, l'addetta al nostro camerone, s’irritava spesso con me perché mi trovava sveglia nel cuore della notte a leggere un libro illuminandolo con la luce incerta della pila. Non era colpa mia se desideravo tanto leggere mentre invece alle 21,30 si spegnevano le luci centrali ed ero costretta a fingere di dormire. Suor Angela mi trovava desta e la sua vocetta acuta rimbalzava nel camerone:
-«Sii come le altre, Baglivo! Di notte si dorme!»- Mi esortava. Di certo la spaventavo. I miei dubbi religiosi in quel tempo si trasformavano in lunghe confessioni al nostro «padre spirituale», che giudicavo più comprensivo dei miei «pretini di campagna». Gli chiedevo:
- «Don Peppino, perché la mamma di Gesù non fece altri figli?»-
Lui mandava un sospiro da dietro le grate del confessionale, poi rispondeva a voce appena udibile: - «Bambina mia, la verginità della Madonna è un mistero di fede. Ella, nella sua infinita purezza e dedizione al figliuolo di Dio, volle consacrare la sua vita allo Spirito Santo e assieme a San Giuseppe, suo castissimo sposo, rinunciò ad ogni rapporto carnale... ma queste son cose più grandi di te, devi avere più fede, figliuola!»-
Al termine ero costretta a ripetere lunghe litanie e atti di contrizione di fronte all'altare della Vergine, per pentirmi di quelli che don Peppino definiva «peccati di orgoglio». Però non ero convinta.
Intanto frequentavo la scuola dove notavo le mie difficoltà di esposizione: parlavo in dialetto cilentano e l’italiano mi riusciva difficile quasi come l’inglese. A trovarsi nella mia stessa condizione c’erano, nel collegio, molte compagne, nate in paesi vicino al mio. Venivano da Piaggine, Novi Velia, Ceraso, Centola ed erano ancora più confuse di me nell’ambiente cittadino. Malgrado ciò attendevano con ansia le lettere da casa e ad ogni festa possibile facevano ritorno al paesino con tanta gioia. Le lettere cominciavano tutte così:
- «Figlia mia io sto bene e così spero anche di te. Chi ti scrive è Gennarino (o Peppino o Pasqualino...). Quando ammazziamo il maiale ti mandiamo i soldi...»-
Anch’io tornavo a casa per Natale, Pasqua e le vacante estive, ma non ci tornavo volentieri. Scendevo alla stazione di Castelnuovo dove trovavo ad attendermi mio fratello Francesco che mi riportava a casa con la lambretta o con la macchina prestatagli da un amico. Non si diceva una parola per tutta la strada e io mi guardavo intorno con l’animo stretto in una morsa.
Giunti davanti l’uscio di casa, prima che potessi varcarlo, invariabilmente mi tirava indietro per un polso dicendomi:
-«Nellina, non far piangere mamma che è debole di cuore».-
Ma la mamma piangeva comunque e aveva gli occhi eternamente umidi. Mi abbracciava e io le osservavo i capelli radi, ingrigiti, tenuti fermi dalle forcine e da una pettinessa
. I suoi baci avevano il sapore e l’odore della cucina, i suoi occhi la tristezza di sempre.
- «Tu me faie penà figlia mia!» - Diceva, poi scuoteva il capo asciugandosi gli occhi col grembiale e aggiungeva:
- «Che te vuò mangià?»- La domanda restava senza risposta, ma lei sembrava attendersela poiché si avviava verso la tavola sistemandovi sopra le pietanze. Nasceva in me, appena entrata tra le pareti domestiche, una sorda ribellione che un spingeva all'isolamento. Rispondevo a stento quando ero interpellata e spesso con frasi antipatiche.
Soprattutto rispondevo male a mia madre. L’odiavo per la sua sofferenza apatica, scontata, che non aveva niente di eroico ai miei occhi. Ai miei genitori davo comunque del «Voi» in segno di rispetto così come facevano le mie sorelline più piccole, già brave a cucinare, a badare alle bestie e alla casa, alle quali davo poca o nessuna confidenza. In realtà m’infastidivano poiché il loro quieto modo di vivere, la loro apparente serenità mi esasperava, rendendomi se possibile