Omocrazia
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Sei un uomo di trentadue anni, hai una vita serena e nulla potrebbe turbare la placida armonia del tuo quotidiano. Ma t’innamori.
T’innamori di lei, che forse non è la più bella, ma certo è come l’hai immaginata da tempo.
C’è però un problema: è una donna. Questo è profondamente sbagliato, nel tuo mondo un uomo può amare solo un uomo: “i Simili con i Simili” recitano i sacerdoti del Tempio e, perfino, il Motto del Ministero. Agli occhi del mondo sei un diverso, un pervertito. Però dentro di te senti che non può essere vero. Senti che l’amore che hai per questa donna è un dono troppo prezioso perché venga calpestato e negato. Decidi di reagire e combattere, sacrificando la tua tranquilla, serena vita e il matrimonio con l’uomo che hai sposato.
È un normale quartidì di metà brumaio, e hai deciso di cambiare il mondo.
Benvenuto in Omocrazia.
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Anteprima del libro
Omocrazia - Adriano Bernasconi
Adriano Bernasconi
Omocrazia
© 2015 Gilgamesh Edizioni
Via Curtatone e Montanara, 3 – 46041 Asola (MN)
gilgameshedizioni@gmail.com - www.gilgameshedizioni.com
Tel. 0376/1586414
ISBN 978-88-6867-049-8
È vietata la riproduzione non autorizzata.
In copertina: Progetto grafico di Marco Ferrara
Illustrazioni all'interno di Adriano Bernasconi
© Tutti i diritti riservati
ISBN: 978-88-6867-049-8
Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write
http://write.streetlib.com
Indice
PARTE PRIMA
Esteban
Passato remoto
Presente
Passato prossimo
Presente
Imperfetto
Presente
Imperfetto
Epilogo
Isabeu
Presente
Passato prossimo
Presente
Imperfetto
Presente
Imperfetto
Epilogo
PARTE SECONDA
Prologo
Quentyn
Yves
Esperance
Noëlie e Kira
Devi
Gaëlle
Ricard
Arzhel
Roxanne
Epilogo
PARTE TERZA
Prologo
Lei
Lui
Lei
Lui
Lei
Lui
Lei
Lui
Epilogo
CONCLUSIONE
Postfazione dell’autore
Ispirazione, spunti e citazioni
Ringraziamenti
ANUNNAKI
Narrativa ebook
23
Sei un uomo di trentadue anni, hai una vita serena e nulla potrebbe turbare la placida armonia del tuo quotidiano. Ma t’innamori.
T’innamori di lei, che forse non è la più bella, ma certo è come l’hai immaginata da tempo.
C’è però un problema: è una donna. Questo è profondamente sbagliato, nel tuo mondo un uomo può amare solo un uomo: i Simili con i Simili
recitano i sacerdoti del Tempio e, perfino, il Motto del Ministero. Agli occhi del mondo sei un diverso, un pervertito. Però dentro di te senti che non può essere vero. Senti che l’amore che hai per questa donna è un dono troppo prezioso perché venga calpestato e negato. Decidi di reagire e combattere, sacrificando la tua tranquilla, serena vita e il matrimonio con l’uomo che hai sposato.
È un normale quartidì di metà brumaio, e hai deciso di cambiare il mondo.
Benvenuto in Omocrazia.
Adriano Bernasconi, nato nel 1981, vive a Brescia.
Nella vita di tutti i giorni è insegnante di Arte nelle scuole secondarie di primo grado. Nel tempo libero si dedica con passione a molteplici attività: viaggi, fotografia, teatro, pittura, traduzioni, conferenze, corsi pomeridiani sulla fantasia, illustrazioni, lettura e, ovviamente, scrittura. Ha collaborato con le riviste Living Force ed Endòre.
Omocrazia è il suo romanzo d’esordio.
ad Alessandro e Lorenzo,
se lo vogliono.
PARTE PRIMA
Singolare
«Non avrai con un uomo relazioni carnali
come si hanno con una donna: è cosa abominevole.
Se uno ha con un uomo relazioni sessuali
come si hanno con una donna,
tutti e due hanno commesso una cosa abominevole;
dovranno essere messi a morte.»
Levitico 18, 22; 20, 13.
«Due gay che si baciano mi fanno schifo.
Durante il fascismo venivano mandati a Carbonia,
scavavano e stavano benissimo.
Oggi non vale nemmeno la pena mandarceli.»
Giuseppe Ciarrapico, senatore.
«La pratica conclamata dell’omosessualità
è un peccato gravissimo,
costituisce uno scandalo e bisogna
negare la comunione a tutti coloro che la professino,
senza alcuna remora.»
Giacomo Babini, vescovo emerito.
Esteban
Prologo
Esteban saliva le scale.
Aveva profondi occhi blu e tasche piene di impegni.
Saliva le scale come aveva fatto centinaia di altre volte nella sua vita: quella rampa che girava attorno all’ascensore della palazzina, col corrimano di metallo scuro.
Saliva le scale, due gradini alla volta, con lo slancio nervoso di chi vorrebbe fosse già domani; nella mano stringeva una piccola ventiquattrore zeppa di appunti, fogli, cartellette e verifiche da correggere.
Non erano le verifiche, tuttavia, ad accelerare i suoi passi e i suoi pensieri, ma quella questione in sospeso con sé stesso che da tempo s’avviluppava dentro di lui come un’edera rampicante. Quella questione, a lungo rimandata e mai davvero affrontata. Quella, e non altre.
Forse per quello Esteban si muoveva veloce, con gesti energici e tesi: sperava in qualche modo di prendere le distanze da essa, di allontanarsi da lei.
Perché Esteban, dovete sapere, aveva un segreto.
L’aveva sempre avuto, probabilmente; di certo l’aveva quel quartidì di metà brumaio, mentre raggiungeva il pianerottolo dell’attico e accostava le chiavi di casa alla serratura, giusto in tempo per scoprire che la porta era socchiusa.
Tipico di Devi: doveva averlo visto arrivare con l’auto dalla finestra. Era un modo come un altro per dirgli che gli voleva bene, uno dei tanti loro piccoli gesti segreti, e in molte occasioni aveva fatto sorridere Esteban; in molte, potete scommetterci, ma non oggi. Perché in quel giorno il senso di colpa di Esteban copriva anche quella modesta gioia, i tralci e le radici di quella questione non lasciavano spazio a molto altro.
Entrò nell’appartamento e fu accolto da un piacevole tepore: Devi adorava tenere alta la temperatura, anche se comportava un aumento delle spese a fine mese.
«Sono qui!» gridò, appoggiando a terra la ventiquattrore e sfilandosi la sciarpa di cashmere. Nell’aria profumo di peperonata. Dalla cucina rumori di frittura, ante che si chiudevano ed un «Ciao, amore!» detto di cuore che Esteban aveva imparato a conoscere.
Si tolse il giubbino, gettò le chiavi dell’auto e quelle di casa nella cesta sul tavolino all’ingresso, chiuse la porta e quasi inciampò in Mister Paciugo, che miagolò un po’ scontroso.
«Perdonami, piccolo» si scusò Esteban e poi si affacciò alla porta a soffietto della cucina. Devi era raggiante mentre muoveva con mano esperta una padella, dalla quale si levava un vapore profumato; gli rivolse uno dei suoi sorrisi di un bianco accecante, bello e caldo come un viale di foglie in fiamme, foglie ramate come i suoi capelli boccoluti.
«Ciao, bello» lo salutò Esteban, rimanendo sull’uscio. Devi gli andò incontro e lo cinse con le braccia al collo per poi stampargli un grosso bacio sulle labbra. Esteban ricambiò il bacio e Devi gli mordicchiò appena il labbro inferiore, com’era solito fare quand’era eccitato e desiderava tanto fare l’amore.
«Mi attendevi così tanto?» domandò Esteban con una punta di scherno.
Devi si staccò da lui e replicò un ammiccante «Abbastanza», quindi riprese a cucinare. Il tavolo era stato preparato con cura e amore: evidentemente era ansioso di dimostrare le sue capacità culinarie. Tutto questo, tuttavia, non poteva che accrescere il senso di colpa di Esteban: nulla ci ferisce più di un gesto gentile e gratuito quando, nel profondo, sappiamo di esserne immeritevoli, non è forse così?
«Ho quasi ammazzato Mister Paciugo nell’entrare» ammise Esteban, distogliendo lo sguardo dal suo compagno.
«Oh, povero!» esclamò Devi con voce acuta e un po’ stridula, quella voce affettata che Esteban era riuscito a tollerare nei cinque anni trascorsi assieme, ma che mai – mai – sarebbe riuscito davvero a farsi piacere. Poi Devi sculettò vistosamente e fece una linguaccia, ammiccando di nuovo: «Hai visto che carino?»
Stava parlando del grembiule, ovviamente. Era una robaccia rosata piena di fronzoli, un fashion crime in piena regola, ma Devi sembrava trovarlo delizioso, come qualunque altra inutile porcata del genere.
«Un regalo di Neven, suppongo». Neven era il migliore amico di Devi e – probabilmente – la peggior piaga nel loro rapporto. Certo, la peggior piaga se si escludeva il piccolo segreto di Esteban.
Devi si portò un pugno chiuso alle labbra, s’incurvò nelle spalle e fece sbrilluccicare gli occhi. «Non è un ammmore?» domandò, prolungando con forza la emme com’era solito fare quando voleva sottolineare una parola.
Esteban pensò che quel grembiulino coi fronzoli fosse tutto fuorché un ‘ammmore’ e sospirò. «Sarà…» disse con sufficienza e si avviò verso la loro camera. Si lasciò cadere sul letto matrimoniale e si sfilò gli stivali, uno per volta, per poi allinearli sotto il servomuto. S’infilò le ciabatte rosse coi gattini ricamati e si alzò, gettando uno sguardo distratto alla cornice d’argento sul comò. Nella foto, lui e Devi si amavano.
Esteban si bloccò, travolto dai ricordi di quel giorno felice: era il loro matrimonio, quattro anni prima, e Devi indossava quel meraviglioso gessato nero, la camicia bianca di seta e un papillon che gli lasciava scoperto quel lungo e meraviglioso collo imberbe. Ma’ Nina e ma’ Enora avevano pianto durante tutta la cerimonia, specialmente quando loro figlio Devi aveva pronunciato le fatidiche parole; persino suo padre, che di solito non si sbottonava granché, aveva gli occhi lucidi. Era stato il coronamento di un lungo e piacevole rapporto col suo erómenos e – agli occhi della comunità e di Dio – il perfetto approdo della loro storia d’amore.
Perché tutto questo, ora, non lo confortava affatto? Perché non riusciva più a trovare gioia in quella luminosa primavera di quattro anni prima?
Dobbiamo davvero ripeterlo ancora una volta? Penso che ci siamo intesi perfettamente, e credo anche che sia giunto il momento di dire qualcosa di più.
Il segreto di Esteban, quell’edera velenosa che cresceva nel giardino del suo matrimonio, soffocando tutti gli altri fiori: parliamone, dunque, io e voi, mentre lasciamo che quest’uomo di trentadue anni si avvii ciabattando in cucina, a raccontare la sua giornata di lavoro al marito.
Parliamone, di questo cancro mentale che lo divorava, mentre fingeva di poter sostenere ancora una storia d’amore che non esisteva più. O che, forse, non era mai davvero esistita. A lungo lo stesso Esteban aveva negato a sé una verità che il suo cuore conosceva, perché quella scomoda verità andava contro tutto ciò che gli era stato insegnato fin da bambino, quello a cui anche lui – ingannandosi – si era da sempre convinto di credere.
Esteban aveva un tragico segreto.
Esteban era eterosessuale.
Passato remoto
Era sempre stato uno anomalo. Parlo di Esteban, naturalmente.
Se gli aveste chiesto qual era il suo primo ricordo, vi avrebbe risposto con sicurezza che si trattava di quella volta in cui era stato al mare con i suoi genitori. Doveva avere poco più di tre anni: era immerso nell’acqua fino alle ginocchia ed osservava affascinato la risacca del mare sugli scogli. Le alghe così verdi da sembrare fluorescenti si alzavano ed abbassavano ad ogni nuova onda, come fossero tentacoli che si agitavano nel mare. Nel ricordo, ad un certo punto, sopraggiungeva una figura alta, così alta da oscurare il sole: era suo padre Trestan, che lo prendeva in braccio e lo stringeva a sé, indicandogli i gabbiani sopra il pelo dell’acqua accecante di luce. Pa’ Trestan aveva una barba ispida, occhiali da sole a goccia e profumava di salsedine: questo era tutto ciò che Esteban ricordava di lui. Trestan era morto pochi mesi dopo, folgorato da una leucemia. Ancora oggi, a distanza di parecchi anni, pa’ Ricard conservava una sua fotografia sul tavolino del salotto: non c’era stato nessun altro uomo nella sua vita, dopo Trestan.
Ma stavamo parlando dell’anomalia di Esteban e sono uscito dal sentiero. Quando aveva cinque anni suo padre Ricard lo portò all’asilo comunale – fino ad allora era riuscito a crescerlo in casa, con l’aiuto della vicina che guardava il piccolino quando Ricard doveva assentarsi per il lavoro. Esteban andò all’asilo di malavoglia: non gli piaceva molto il contatto con tutti quei bambini suoi coetanei, non era abituato a quegli spazi così aperti e a tutto quel vociare, a tutta quella confusione. Preferiva di gran lunga il silenzioso ambiente domestico e la voce calma e ferma di pa’ Ricard ed i cartoni animati al videotrasduttore. Così, non appena poteva, si appartava nell’angolo più remoto del giardino e giocava da solo, costruendo fortezze e castelli di sassi e legnetti o imprigionando e torturando piccole formiche dalla testa rossa. Col tempo qualche altro bambino venne a fare conoscenza e così Esteban fece amicizia con Howy e Ziky, che gli fecero scoprire gli indubbi vantaggi del saltare a piè pari nei copertoni neri disposti a zig-zag o del curare e pettinare le criniere dei loro pony di plastica. Però continuò ugualmente a dedicare del tempo alla propria solitudine, in quell’angolo remoto di giardino: ne aveva bisogno, era un posto tutto suo, tra l’alta siepe e le radici di un gigantesco ippocastano.
Questo finché non incontrò Gana.
Era una bellissima bambina, coi capelli ricci e neri e due frammenti di cielo come occhi. Esteban stava impilando sassi piatti per costruire una torre quando lei era apparsa improvvisamente al suo fianco, silenziosa come un gatto. Aveva le ginocchia piegate, coi gomiti sopra ed il mento appoggiato sui palmi delle mani. Non aveva detto nulla, si era limitata a fissare la torre di sassi come attratta da un potente magnete. Esteban l’aveva fissata con sguardo corrucciato ed ostile: che ci faceva, una femmina, nel suo territorio segreto? Ma lei non appariva affatto intimorita. In men che non si dica s’era messa ad edificare una seconda torre di fianco a quella di Esteban. Quando l’ebbe finita, poi, se ne andò senza una parola, lasciando il bambino di stucco. Esteban distrusse la torretta nemica con una pedata, e per il quarto d’ora successivo si sentì in colpa per ciò che aveva fatto.
Passarono altri giorni e la bambina senza nome venne regolarmente a trovarlo: era di un’altra sezione della scuola materna e si potevano incrociare solo nei momenti comuni all’aperto. Ogni volta costruivano qualcosa assieme ed ogni volta lei stava al fianco di Esteban senza proferire parola. La diffidenza iniziale verso quella creatura di sesso femminile andò via via scemando e infine Esteban si sentì abbastanza coraggioso da rivolgerle la parola: «Come ti chiami?» le chiese, senza guardarla in faccia. La sentì ridere e subito alzò lo sguardo, credendo di essere deriso, ma vide un sorriso sincero sul viso della bambina e l’ira si placò. «Gana» rispose lei e, ridendo e saltellando, se ne andò.
I giorni passarono ed ogni giorno Gana sembrò ad Esteban sempre meno un’estranea e sempre più un’amica. Ogni tanto parlavano, ma era soprattutto il modo con cui s’intendevano i loro sguardi ciò che faceva colorire le guance di Esteban.
Un giorno di germile i maestri dell’asilo riunirono tutti i bambini delle quattro diverse sezioni per vedere assieme un lungometraggio. Esteban non ricordava bene che cartone animato fosse, ricordava soltanto di essere capitato casualmente nei paraggi di Gana e che nel buio era strisciato fino a lei, perché starle vicino lo riempiva di gioia.
Quel giorno Esteban capì di essersi innamorato. Così, quando un mesetto dopo Lucile – la loro vicina di casa – aveva invitato a cena lui e suo padre ed aveva chiesto ad Esteban se aveva qualche fidanzatino, lui – spontaneamente e con molta gioia – aveva risposto di sì: la sua amica Gana. Probabilmente era stata la faccia allibita di pa’ Ricard, oppure Lucile, che s’era portata una mano alla bocca cercando di non ridere, che avevano fatto capire ad Esteban che qualcosa non andava. Tuttavia, in quel momento, non era riuscito a capire cosa ci fosse di tanto sbagliato nella sua risposta. Aveva ripreso a bere la sua zuppa a grosse cucchiaiate ed i grandi avevano deviato il discorso su altri argomenti che non lo interessavano.
Tutto sembrava finito lì.
Invece si sbagliava: quando, una decade dopo, raccontò a pa’ Ricard dei fantastici giochi che Gana sapeva inventare, di come si divertiva a rotolare nell’erba con Gana, di come avesse rubato un panino col prosciutto a Gana e di come Gana fosse brava a raccontare storie di mostri e draghi ed eroi, suo padre sbottò. Gli disse