I fondamenti della Relatività
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Anteprima del libro
I fondamenti della Relatività - Rocco Vittorio Macri
Macrì
I TRE LIVELLI DELLE TEORIE FISICHE
ROCCO VlTTORIO MACRì
[I] – Introduzione
Non tutti sanno che prima dell’autunno del 1919 Einstein era completamente sconosciuto al grande pubblico e totalmente ignorato dai mezzi d’informazione. Anche fra gli addetti ai lavori nel campo della fisica teorica il suo nome era poco popolare. La sua Teoria della Relatività non era molto venerata e, anzi, era guardata con sospetto. Venne poi il 6 novembre 1919, il giorno della sua canonizzazione
, quando i membri della Royal Society e della Royal Astronomical Society analizzarono i dati concernenti la deviazione dei raggi luminosi da parte del Sole che la spedizione capitanata dall’astronomo inglese Eddington registrò durante l’eclisse totale del 29 maggio 1919; cosa che contribuì in maniera decisiva all’affermarsi non solo della teoria della relatività generale ma anche della relatività speciale. Commenta con fervore Abraham Pais, il più celebre biografo di Einstein: «Quel giorno la messa in scena, con i membri della Royal Society e della Royal Astronomical Society in riunione congiunta, era da congregazione dei riti. Dyson faceva la parte del postulatore, abilmente coadiuvato da Crommelin ed Eddington come procuratori. Parlò per primo, concludendo le sue osservazioni con le seguenti parole: Dopo un attento studio delle lastre, sono pronto a dichiarare che esse confermano la previsione di Einstein. Il risultato ottenuto è ben preciso: la luce viene deflessa in accordo con la legge di gravitazione di Einstein
»¹. Le parole di Dyson rimangono, oggi, scolpite nella storia della scienza – «Il risultato ottenuto è ben preciso» – come una specie di telegramma che annuncia la nascita di una nuova stella nella costellazione delle pietre miliari della conoscenza, tanto importante storicamente quanto falso scientificamente². Il famoso filosofo e matematico britannico Alfred North Whitehead che era presente alla seduta di canonizzazione
del 6 novembre, la ricordò successivamente con il pathos di un dramma greco: «Ho avuto la fortuna di essere presente alla seduta della Royal Society a Londra nella quale l’astronomo reale
d’Inghilterra [Dyson] annunciò che le lastre fotografiche della celebre eclissi avevano, secondo le misurazioni fatte dai suoi colleghi dell’Osservatorio di Greenwich, confermato la previsione di Einstein relativa all’inflessione dei raggi luminosi nel loro passaggio nelle vicinanze del sole. L’atmosfera d’interesse teso e palpitante era esattamente quella del dramma greco: noi eravamo il coro che commentava i decreti del destino, rivelati dallo svolgersi di avvenimenti straordinari. La stessa scenografia aveva elementi di drammaticità: il cerimoniale tradizionale e, sullo sfondo, il ritratto di Newton a ricordarci che la più grande delle generalizzazioni scientifiche riceveva ora, dopo più di due secoli, la sua prima modificazione»³. Come è possibile che parole così poetiche e appassionate siano appese più ad un’illusione che alla realtà? Eppure quest’ultima ha dalla sua l’analisi storica e scientifica col senno del poi: «Rifrazione atmosferica, dilatazione termica del telescopio, distorsioni dell’emulsione fotografica, variazioni di scala tra le lastre impressionate in occasione dell’eclissi e quelle di confronto della medesima regione celeste, solo per rammentare le principali cause di errore, condizionarono notevolmente la precisione delle misurazioni. Riconoscere variazioni intorno al secondo d’arco nella posizione di poche stelle, nonostante le limitazioni imposte dalle tecniche di ripresa impiegate, generò qualche perplessità già all’epoca dei fatti: una distaccata rivisitazione critica, però, arrivò solo parecchi anni dopo e a quel punto la teoria si era oramai pienamente affermata. La grande fama così conquistata da Einstein contribuì a smorzare sul nascere le critiche dei colleghi e quindi limitò la ricerca di ipotesi fisiche alternative capaci di descrivere altrettanto bene, o forse addirittura meglio, come funziona l’universo»⁴. Si noti che del resto Eddington aveva idee molto chiare sulla finezza epistemologica che è la teoria che determina ciò che osserviamo, in sintonia con Einstein:
Uno scienziato comunemente professa di basare le sue convinzioni sulle osservazioni, non sulle teorie. Le teorie, si dice, sono utili a suggerire nuove idee e nuove linee di investigazione per lo sperimentatore; ma i fatti duri
sono la sola base appropriata per concludere. Non ho mai incontrato nessuno che metta in pratica questa professione […] L’osservazione non è sufficiente. Noi non crediamo ai nostri occhi a meno che non ci siamo prima convinti che ciò che appaiono dirci è credibile. […] Non ci sono fatti puramente osservazionali circa i corpi celesti⁵.
Lo scienziato – e questo Eddington lo aveva ben interiorizzato – non è neutro nella sua valutazione, nella sua osservazione. Non c’è osservazione pura, griderà Hanson nel ‘58 (Patterns of Discovery): i pretesi termini osservativi sono «carichi di teoria»⁶. Bisogna prendere atto della conseguente pregnanza teorica delle nostre osservazioni. Nella scienza si vede solo «ciò che si vuole o si aspetta di vedere»⁷. A questo punto, come acutamente osserva Mamone Capria, ci si può chiedere: «Che cosa sarebbe successo se… le registrazioni dei dati… fossero stati sistematicamente affidati a persone competenti che però non avessero avuto la minima idea di quale fosse la previsione ‘favorita’ e quale (o quali) quelle di controllo? Come la storia di Eddington alle prese con la deflessione dei raggi luminosi indica, è probabile che la risposta giusta non sia quella più rassicurante»⁸.
La mattina del 7 novembre 1919 Albert Einstein si svegliò a Berlino con l’eco di tutti i giornali del pianeta che avevano ricevuto l’input dal Times di Londra: «Rivoluzione nella scienza. Nuova teoria dell’universo. La concezione newtoniana demolita», «Euclide al tappeto», «Notizia sconvolgente, che farà sorgere i dubbi perfino sull’affidabilità della tavola pitagorica», «Tempi duri per persone colte», «All’assalto dell’assoluto», ecc. In Italia fu il Corriere della Sera
«a dare la notizia dell'evento con le seguenti parole: la divinazione di uno scienziato
. Cominciava così la fama mondiale di Einstein»⁹.
Tre settimane dopo, il 28 novembre, il padre della Relatività sentì il dovere di ringraziare il Times e la collettività scientifica londinese con un plauso sull’imparzialità
della scienza inglese, la quale aveva avuto l’onestà di deporre dal trono il grande Isaac Newton, inglese, per sostituirlo con la figura di Einstein, tedesco. Queste parole di ringraziamento furono inglobate su un articolo appositamente composto, che apparve in quello stesso giorno col titolo My theory, nel quale Einstein si espresse in veste di filosofo ed epistemologo sullo status generale delle teorie fisiche. Elaborazione che vogliamo ora approfondire al fine di rintracciare una prima divisione tra teoria di tipo 1 e teoria di tipo 2.
[II] – Le due teorie-tipo einsteiniane
Nell’articolo apparso sul Times del 28 novembre 1919 col titolo My theory¹⁰, Einstein lanciò delle questioni epistemologiche ancora aperte, formulando la tesi che esistano due tipologie di teorie e interrogandosi a quale appartenga la sua Teoria della Relatività. La discussione einsteiniana ruota intorno a una distinzione concettuale, quella tra teorie di principio
¹¹ e teorie costruttive
. Le teorie-tipo, i modelli generali delle teorie scientifiche, per Einstein sono due: alcune teorie rientrano nella struttura canonica di tipo 1, detta di principio
, le altre cadono all’interno della struttura canonica di tipo 2, ossia quella delle teorie costruttive
. Ma quali sono le prime, e quali le seconde? Seguiamo la spiegazione di Einstein:
Possiamo distinguere vari tipi di teorie nella fisica. Per la maggior parte sono costruttive. Tentano di ricavare un quadro dei fenomeni più complessi dai materiali di uno schema formale relativamente semplice, da cui prendono le mosse. Così la teoria cinetica dei gas cerca di ridurre i processi meccanici, termici e di propagazione a movimenti di molecole, cioè a ricavarli dalle ipotesi del moto molecolare. Quando diciamo che siamo riusciti a comprendere un insieme di processi naturali, invariabilmente intendiamo dire che abbiamo trovato una teoria costruttiva che copre i processi in questione. Insieme a questa classe di teorie assai importante ne esiste una seconda, che chiamerò delle teorie dei principi
. Queste impiegano il metodo analitico, anziché quello sintetico. Gli elementi che ne costituiscono la base e il punto di partenza non sono stati costruiti per via ipotetica, ma vi si è giunti in modo empirico; essi sono caratteristiche generali di processi naturali, principi che danno origine a criteri formulati in modo matematico, che i processi separati o le loro rappresentazioni teoriche devono saper soddisfare. Così la scienza della termodinamica cerca di dedurre con mezzi analitici i nessi necessari – che gli eventi separati devono soddisfare – dal fatto universalmente provato che il moto perpetuo è impossibile. I vantaggi della teoria costruttiva sono la completezza, l’adattabilità e la chiarezza, quelli della teoria dei principi sono la perfezione logica e la sicurezza dei fondamenti. La teoria della relatività appartiene a quest’ultima classe¹².
Le teorie costruttive si sviluppano fornendo un modello di causaeffetto che si propone di spiegare un insieme di fenomeni complessi in termini di strutture più semplici e fondamentali: l’esempio riportato da Einstein è quello della teoria cinetica, capace di spiegare i principali fenomeni termodinamici riconducendoli sotto l’ipotesi del moto molecolare. Ma la maggior parte delle teorie scientifiche pendono sotto lo stesso ombrello. Il ricorso al principio di causalità è potentemente primario e primordiale per la forma mentis di ogni scienziato. Solo trovando il perché, il motivo ultimo di un certo effetto, spogliando la sua fenomenologia in termini di un rapporto causa-effetto con un retroscena nascosto, la mente umana trova la sua pacificazione epistemica. «Il monossido di carbonio non è velenoso perché possiede una certa facultas deleteria, ma semplicemente perché prende il posto dell’ossigeno nella macromolecola dell’emoglobina: un meccanismo elementare di causa ed effetto, un’idea chiara e distinta, per dirla alla Cartesio, movimenti di una res extensa che possono apparire complessi solo per numero, quantitativamente»¹³. Si noti che la peripatetica facultas deleteria, in questo caso dovrebbe considerarsi come una teoria di principio, così come lo era la perfezione del cerchio, il fascino della circolarità nella costruzione celeste tolemaica formata da deferenti ed epicicli¹⁴. La teoria dinamica dell’elettrone di Lorentz e buona parte delle teorie nella storia del pensiero scientifico sono costruttive. Mentre la teoria della Relatività di Einstein è una teoria di principio, parte da due postulati ricavati da un dato empirico: l’impossibilità di reperire un sistema di riferimento privilegiato. Per questo assomiglia fortemente nella sua struttura assiomatica alla termodinamica, la quale deriva i suoi princìpi dal dato empirico riguardante l’impossibilità di reperire il cosiddetto moto perpetuo.
[III] – Il principio di minima azione
Le teorie di principio vengono percepite anche come teorie finalistiche. Si prenda come prototipo paradigmatico, ad esempio, il cosiddetto principio di minima azione. Per entrare nell’argomento attraverso la sua genesi seguiremo l’introduzione del premio nobel Richard Feynman, che vede nel concetto di tempo minimo
– introdotto dal matematico francese Pierre de Fermat per spiegare il cammino della luce – il seme gravido di futuro: «Il primo ragionamento che rese evidente la legge sul comportamento della luce fu scoperto da Fermat nel 1650 circa, ed è chiamato il principio del tempo minimo, o principio di Fermat. La sua idea è questa: di tutti i possibili cammini che la luce può seguire per andare da un punto ad un altro, essa segue il cammino che richiede il tempo più breve»¹⁵. La luce può scegliere di percorrere una distanza fisica più lunga se il tempo impiegato per percorrerla e più breve. La deviazione della luce nel passare dall’aria all’acqua, cioè la rifrazione, è un caso in cui la luce segue un percorso più lungo come spazio, ma più breve come tempo.
Erone di Alessandria, duemila anni fa, aveva trovato una delle prime formulazioni riguardo il meccanismo di riflessione: un raggio di luce che provenendo da un punto S si riflette su uno specchio e giunge su un dato punto P, segue nello spazio il percorso più breve possibile. Si tratta di una formulazione che è vera solo quando si parla di riflessione in un mezzo omogeneo. Mediante il principio di Fermat del tempo minimo e senza la necessità di conoscere ulteriori nozioni geometriche oltre a quelle possedute da Erone, ulteriormente raffinate da Cartesio e Snell, è stato possibile giungere alla legge della rifrazione. La legge di Snell (detta anche legge di Cartesio, in onore alla sua sistematizzazione rigorosa) mostra che per passare da un punto A ad un punto B situati in due mezzi caratterizzati da differenti velocità di propagazione (ovvero da differenti indici di rifrazione) un fronte d’onda in generale non percorre il cammino geometrico più breve, ossia la linea retta (anche se in realtà, anche la linea retta si realizza a volte, quando cioè i raggi luminosi sono perpendicolari alla superficie di separazione tra i due mezzi). Nell’attraversare la superficie di separazione i raggi luminosi vengono in generale deviati, avvicinandosi o allontanandosi dalla normale alla superficie di separazione a seconda che il rapporto tra le velocità di propagazione nei due mezzi sia maggiore o minore di 1. Succede però che, nonostante il cammino geometrico non sia quello più breve, il percorso seguito dal fronte d’onda per andare da A a B è quello che comporta il minimo tempo di percorrenza.
Secondo Fermat, un raggio di luce invece di seguire il cammino più corto sceglie il più rapido. Pertanto, se la luce si propaga con diverse velocità in diversi mezzi, essa sceglierà la via più breve per passare da un punto all’altro: questa non coinciderà con una retta, ma sarà tale che la luce compia il massimo percorso nel mezzo in cui procede più velocemente, e il minimo percorso in quello in cui procede più lentamente: «Pertanto, per Fermat, la legge di rifrazione deve essere ricavata dal principio che la luce rende minimo il tempo di percorrenza (a sua volta riflesso del principio per cui la Natura sceglie le vie più semplici). In definitiva, Fermat determinava il cammino della luce come quello in cui è minima la somma dei tempi impiegati a percorrere i due mezzi: tali tempi sono dati dai rapporti fra gli spazi percorsi, l1 e l2, e le rispettive velocità di percorrenza v1 e v2, e la somma è data da l1/v1 + l2/v2. In tal modo, Fermat ottenne la legge corretta della rifrazione: sin i / sin r =