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Indomita: I Due Segni, #1
Indomita: I Due Segni, #1
Indomita: I Due Segni, #1
E-book105 pagine1 oraI Due Segni

Indomita: I Due Segni, #1

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Info su questo ebook

Regola del branco dei due marchi: Accoppiarsi sempre in due.

Colsi il suo odore mentre stavo svolgendo il mio lavoro da sicario.

Sapevo che doveva essere quella giusta.

Riportai il mio alfa con me.

Perché la nostra stirpe si accoppia in due.

Due maschi per ogni lupa. Due paparini per la nostra compagna.

Quella che abbiamo intenzione di viziare e proteggere. Sculacciare e insozzare.

Portarcela via per costruire una casa assieme.

Non appena la convinceremo del fatto che appartenga a noi.

 

Stesso libro, nuovo look!
Indomita era stato in origine pubblicato come parte del Wolf Ranch e adesso è il breve prequel della serie dei Due Segni.

LinguaItaliano
EditoreRenee Rose
Data di uscita6 ott 2020
ISBN9781393443735
Indomita: I Due Segni, #1
Autore

Renee Rose

Renee Rose, auteur de best-sellers d’après USA Today, adore les héros alpha dominants qui ne mâchent pas leurs mots ! Elle a vendu plus d’un million d’exemplaires de romans d’amour torrides, plus ou moins coquins (surtout plus). Ses livres ont figuré dans les catégories « Happily Ever After » et « Popsugar » de USA Today. Nommée Meilleur nouvel auteur érotique par Eroticon USA en 2013, elle a aussi remporté le prix d’Auteur favori de science-fiction et d’anthologie de Spunky and Sassy, celui de Meilleur roman historique de The Romance Reviews, et les prix de Meilleur roman de science-fiction, Meilleur roman paranormal, Meilleur roman historique, Meilleur roman érotique, Meilleur roman avec jeux de régression, Couple favori et Auteur favori de Spanking Romance Reviews. Elle a fait partie de la liste des meilleures ventes de USA Today cinq fois avec plusieurs anthologies.

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    Anteprima del libro

    Indomita - Renee Rose

    1

    BEN


    L’insegna al neon sulla porta illuminava il parcheggio di un’intensa luce rosa. Dei bassi potenti pulsavano attraverso la porta chiusa.

    «Sei sicuro che sia questo il posto?» Gibson si passò una mano sulla barba.

    Io sollevai lo sguardo sull’insegna, il disegno di una donna in groppa a un cavallo decisamente ben dotato. Nuda. Al di sotto, il nome di quella bettola: Hoedown. Per la miseria. Se fossimo stati da poco maggiorenni, ci sarebbe venuto il cazzo duro al pensiero di recarci in un luogo del genere. Ora? I cazzi ce li avevamo duri solamente per via dell’odore che avevamo colto. Ci eravamo fermati alla stazione di servizio lungo il tragitto verso il Wolf Ranch, avevamo sentito il suo odore e quello ci aveva condotti lì… a un passo da casa.

    Si trattava dell’odore dolce e acceso che mi aveva solleticato il naso l’ultima volta che mi ero trovato in quella zona. Il motivo per cui, questa volta, mi ero portato dietro Gibson, l’alfa del mio branco.

    La nostra compagna.

    Il respiro profondo successivo confermò che era il posto giusto. Feci spallucce in risposta.

    «Ti prego, dimmi che non è lì dentro a far vedere agli umani ciò che ci appartiene,» ringhiò lui, osservando il basso edificio in blocchi di cemento appena fuori dall’autostrada. «Non voglio dover uccidere tutti quegli stronzi.»

    «Già,» concordai. Noi ci accoppiavamo due alla volta, ma ciò non significava che non fossimo gelosi e possessivi quanto le specie di lupi che si accoppiavano singolarmente.

    «Quando l’avremo portata fuori da qui, dovrà sapere ciò che pensa il suo nuovo alfa riguardo al fatto che si trovasse in questo posto.»

    Quel nuovo alfa? Era lui. Il capo del branco di Cowboy Ridge.

    Io non ero un alfa, ma un sicario e la pensavo esattamente allo stesso modo, cazzo.

    «Ho aspettato cinque mesi per seguire di nuovo questo odore,» gli dissi, spostandomi per permettere ad un uomo di uscire. Era passato tutto quel tempo da quando mi ero trovato nel Montana, quando avevo preso in prestito il pickup di Clint per scendere dalla montagna dopo aver inseguito un mutante criminale fino ai loro terreni. Il mio lupo si era subito rizzato nel sentire il dolce profumo che aveva riempito l’abitacolo. Una qualche mutante femmina era stata in auto con lui e il mio lupo ne era stato intrigato. Non me n’ero dimenticato. Il mio lupo… il mio cazzo non me l’aveva permesso. E adesso ne ero certo.

    Gibson strinse la mascella perché sapeva che avevo ragione. Avevamo lo stesso gene dell’odore, il che significava che ci rivendicavamo una femmina assieme, come tutti i maschi della nostra stirpe, del nostro branco.

    «Andiamo a prenderci la nostra compagna.» Aprì la porta ed io lo seguii.

    Quel posto era scarsamente illuminato e seguiva il tema western. C’era un palco centrale che attraversava l’enorme sala. Aveva due pali, uno al fondo e uno al centro della parte anteriore alla fine della passerella. Lungo la parete di fondo c’era il bar, ma la clientela veniva servita da cameriere con camicette scollate che arrivavano a metà addome e minuscoli pantaloncini in jeans che coprivano a malapena il culo. Forse ricevevano delle mance, ma non molta attenzione da parte degli uomini. Dopo aver tratto un respiro profondo, nessuna di loro ne ottenne molta nemmeno da noi. Nessuna era la nostra compagna.

    No, quel dolce profumo proveniva dalla bella ragazza sul palco che al momento si trovava appesa a testa in giù al palo frontale. Come fosse in grado di tenersi su con le gambe avvolte attorno al metallo scintillante in una maniera che sfidava le leggi di gravità, non ne avevo idea.

    Si ritirò su con degli addominali che dovevano essere duri come una roccia per poi rimettersi graziosamente in piedi e chinarsi fino ad accucciarsi a terra. Aveva le ginocchia piegate e le gambe larghe. Era un’atleta, come la maggior parte delle lupe.

    Il mio lupo ringhiò ed io feci un passo verso di lei.

    Non riuscivo a distogliere lo sguardo. Era slanciata, con dei lunghi capelli ambrati, dei tatuaggi lungo le braccia e il corpo sodo di una ballerina con delle tette da sbavo. Diamine, la maggior parte degli uomini che la stava guardando aveva la bocca spalancata e, senza dubbio, il cazzo duro.

    I suoi seni erano grossi per la figura snella che aveva, ma decisamente naturali, a differenza dei canotti gonfiati che esibivano le cameriere.

    Gibson mi diede una pacca sulla spalla e mi condusse ad un tavolo libero lungo un lato della passerella, proprio davanti. Ci lasciammo cadere sulle nostre sedie e la guardammo dimenarsi su e giù, come a grattarsi la schiena sul palo, mentre metteva in mostra a tutti gli uomini là dentro la sua figa coperta da un tanga che faceva capolino da sotto una minuscola gonnellina scozzese da scolaretta. Con delle calze alte fino al ginocchio e delle Mary Jane col tacco alto, recitava perfettamente la parte della cattiva studentessa. L’unica cosa modesta che aveva era la camicetta bianca infilata nella gonna. Ci eravamo persi la parte della sua performance in cui ne aveva strappato via i bottoni così da lasciarla aperta, senza nascondere nulla. Era come se avesse saputo cosa stuzzicasse me e Gib.

    Gib si sporse in avanti, appoggiando gli avambracci al bordo del palco e tenendo una banconota da venti tra le dita. Lei la vide e gattonò verso di noi.

    Io ringhiai e, per fortuna, la musica lo coprì. Lei inarcò la schiena con l’abilità di una spogliarellista che sa come mettere in mostra la propria mercanzia, sporgendo in fuori quelle tette, i capezzoli gonfi e pronti ad essere succhiati.

    Si fermò dritta davanti a Gibson e gli rivolse un sorriso malizioso. Lui si sporse in avanti, facendo attenzione a non toccarla, e inalò. Sentii il suo lupo ringhiare e doveva averlo sentito anche lei, perché si immobilizzò, spalancando gli occhi e allargando le narici per cogliere il nostro odore. Giù, sapeva che eravamo dei mutanti e molto probabilmente aveva anche una vaga idea del perché ci trovassimo lì.

    Poi, però, si rimise in moto, sporgendo un fianco

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