Aware
Di Irene Pila
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Anteprima del libro
Aware - Irene Pila
volte.
Premessa
Un appartamento a Milano, un lavoro a tempo indeterminato da Dolce e Gabbana, la totale indipendenza economica, una routine stabile e priva di imprevisti. Solo una pazza lascerebbe tutto questo.
Mi presento: sono Irene, ho 28 anni e sono la pazza di cui sto parlando. Non so dirvi bene cosa mi sia scattato in testa quando, una mattina di fine luglio, sono andata nel mio solito bar a fare colazione, prima di recarmi al lavoro, e mentre addentavo il mio pain au chocolat, mi sono detta: «Oggi do le dimissioni».
So solamente che ero stanca di tante cose, ma più di tutto ero stanca di alzarmi la mattina e rendermi conto che il tempo passava, e non portavo a casa niente di concreto. Tutte le cose che mi ero prefissata negli anni, gli obbiettivi personali, i viaggi, la crescita emotiva, la voglia di vivere una vita che rispecchiasse la mia personalità, tutto era bloccato e soffocato in quel negozio. I giorni passavano, gli anni pure, e non riuscivo a trovare un senso a quello che stavo facendo.
Ti è mai capitato di sentirti fuori luogo? Di capire che qualcosa nella tua vita non va, ma non di non capire che cos’è?
Mentre salivo in ufficio dalla direttrice, facevo i conti con emozioni accavallate e del tutto contrastanti: paura, ansia, indecisione, euforia, adrenalina, rassegnazione.
Sentivo lo stomaco attorcigliarsi e nemmeno i respiri più profondi mi aiutavano a restare calma. Eppure, dopo una lunga chiacchierata, sono stata pervasa da un’unica sensazione: libertà.
La giornata è più o meno volata, tra pratiche da chiudere e moduli da firmare, poi il solito percorso in metro, i sette piani di scale, la serratura arrugginita ed ero a casa.
Ogni casa ha il suo odore, non è così?
Quando sono entrata qua dentro per la prima volta, sentivo solamente odore di intonaco.
Ed effettivamente, solo questo c’era. Le pareti erano intonacate di bianco, ruvide e completamente spoglie. C’erano due grandi finestre ad angolo, qualche goccia di colore sulle mattonelle, un paio di mobili e un divano grigio.
Quel divano è sempre stato un pugno nell’occhio, la sera, quando rientravo dal lavoro.
Completamente discordante con l’arredamento, con la mia persona, col mio lavoro e con i miei molteplici stati d’animo. Uno stupido divano dell’Ikea, pagato probabilmente meno di duecento euro.
Qualche mese dopo essere arrivata in questo appartamento, ho comprato un televisore.
Un quarantatré pollici in offerta da Mediaworld, piazzato senza sentimento su un mobile grigio ritinteggiato di bianco con pennellate lunghe e irregolari. Ho appoggiato poi qualche libro sullo scaffale sottostante, una pianta grassa e qualche candela.
La maggior parte delle volte, dopo cena mi preparavo i popcorn, mi aprivo una birra e passavo le mie serate incollata a quel televisore, guardando Netflix, ma sempre seduta per terra. Il divano grigio faceva solo da schienale, ed era pure scomodo. Il tessuto di tela grattava e pizzicava sia il collo che la schiena, così un giorno ho deciso di comprare dei cuscini.
Erano piccoli, rettangolari, con dei motivi geometrici bianchi e neri. Bellini da vedere, ma assolutamente inutili. Uno splendido spreco di soldi a scopo decorativo. Così li ho messi lì, sul divano, per bellezza.
Una sera ero al telefono con una mia amica.
Si stava lamentando della sua giornata, del suo lavoro e della sua vita. Io la ascoltavo, in silenzio, cercando di capacitarmi di come le persone in quella città non facessero altro che lamentarsi. Una lagna continua: il meteo, i mezzi, lo sciopero dei mezzi, gli amici superficiali, i colleghi incapaci, il datore di lavoro, i turni di lavoro, gli aperitivi troppo costosi per uno stipendio troppo basso, l’affitto troppo alto, gli stimoli assenti.
E mentre lei parlava, io andavo avanti e indietro per l’appartamento, raddrizzando qualche libro, passando un dito sugli scaffali per valutare quando spolverare, sistemando i cuscini, e poi, semplicemente, mi sono seduta.
Sono rimasta lì una ventina di minuti, con le gambe incrociate, a riempirmi la testa delle sue lamentele, mentre con la mano libera mi toglievo i pelucchi dai calzettoni. Quando abbiamo riattaccato, mi sono guardata intorno: quella casetta stava iniziando ad avere un odore diverso, di Yankee Candle al Cinnamon Stick o Vanilla Cupcake, che si mescolava perfettamente con il profumo dei libri e delle riviste. Mancava una torta di mele ed ero pronta per essere la protagonista di una commedia romantica americana.
E mi sono resa finalmente conto che stavo seduta su quel divano che tanto disprezzavo in maniera del tutto immotivata.
L’avevo fatto senza pensarci e mi sono ritrovata improvvisamente a scoprire che quello sarebbe stato il mio angolino.
Ma ho comunque continuato a disprezzarlo, quel divano.
Mi sembrava che continuasse a fare a cazzotti col mio nido, con quei mobili bianchi e l’arredamento minimale. Sembrava me, appena arrivata a Milano: non ci azzeccavo niente, soprattutto arrivando da una piccola città come Padova.
E malgrado quella dispotica confidenza dettata da quella che si rivelò essere una convivenza forzata, mi ostinavo a non farmelo piacere.
Il giorno in cui ho dato le dimissioni, non appena sono rientrata a casa, mi sono preparata una tisana e mi sono accoccolata in quell’angolino, tra i cuscini e la coperta, e ho iniziato a riflettere sul fatto che quel divano fosse effettivamente la metafora perfetta della mia permanenza in una città caotica ed egoista come Milano. Sebbene quest’ultima mi avesse offerto una possibilità, una sorta di tentativo di libertà e indipendenza, pagavo tutto a caro prezzo.
L’appartamento costava tre quarti del mio stipendio e non ci stavo praticamente mai, visto che tutta la mia giornata la passavo al lavoro; non avevo neanche mai le forze di uscire, la sera. Ero sempre stanca e i pochi amici che mi ero fatta erano proprio i miei colleghi, quindi in un modo o nell’altro sarei finita a parlare sempre e solo di lavoro.
Non staccavo un attimo la testa dalle responsabilità, dai pensieri, dalle mille cose che avrei voluto fare fuori da quel negozio e dalla notevole mancanza di tempo e forze per realizzarle.
Senza rendermene conto, ho iniziato a singhiozzare. Sentivo di aver perso un mucchio di tempo a fare qualcosa che non mi stava arricchendo, ma mi svuotava e basta, o al massimo mi faceva andare avanti senza presentare alcuna svolta particolarmente significativa nelle mie giornate.
Ho chiamato mia madre, quella sera. Era da due o tre mesi che non mi facevo una chiacchierata con lei, perché