La famiglia X
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Info su questo ebook
i chiaro c’è ben poco nella sua vita, in cui, dopo l’arresto dei suoi genitori, irrompono assistenti sociali, un’anziana signora, l’affascinante e ribelle figlia del sindaco e infine i suoi genitori affidatari, una coppia di papà.
Un romanzo sui tesori nascosti intorno a noi, nelle persone che incontriamo per caso e che diventeranno la nostra vita.
Edizione ad alta leggibilità con il font EasyReading.
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Anteprima del libro
La famiglia X - Matteo Grimaldi
1. Quello che facciamo
Devo parlargliene ai miei genitori di quei due che sono venuti oggi a scuola?
La mamma non fa altro che ripetermi di stare attento alle persone che fanno domande su di me, su di lei e sul papà. E su quello che facciamo. Altri ottanta scalini per decidere. Odio non sapere qual è la cosa giusta da fare.
Sono in tutto centonovantasette, che iniziano dal lago e arrivano fin sulla cima di Girone dove abito io. La scuola sta più o meno a metà. Diciamo fra il novantottesimo e il novantanovesimo.
Mi fermo alla fontana della Madonnina, mi tolgo il maglione e lo infilo nello zaino.
Al mattino non azzecco mai i vestiti giusti, e alla mamma che glielo chiedo a fare? Tanto non mi ascolta e mi dice sempre che va bene. Rimango in canottiera. Non ne potevo più di quel pizzicore sulle braccia e dietro le spalle. L’acqua ha un gusto metallico, ma la sensazione è bellissima: una specie di pausa gelida.
A Girone la primavera è l’estate, e l’estate brucia come l’inferno. Siamo ad aprile e il caldo è una colla che tiene insieme umido, puzza di pesce e sudore. Il risultato dell’addizione è una specie di liquame che si forma sulla faccia, scende lungo il collo, la schiena, e non ti molla.
Il balcone della signora Guerra è il segnale che sono quasi arrivato a casa.
Lo scorgo da lontanissimo, tutto colorato di fiori. Abitiamo vicini da sempre, ma non ci conosciamo per niente. In un paese di settecentocinquanta abitanti, che ogni anno diventano un po’ meno, è strano non conoscersi. Ma i miei genitori mi tengono alla larga da tutti. Il paese è piccolo e non c’è da fidarsi di nessuno, dice sempre la mamma. Perciò supero il suo portone e raggiungo il mio.
La mamma sbuca dall’ombra del corridoio e mi viene incontro. Che è agitata lo capisco da come tiene gli occhi bassi.
«Dove cavolo sei stato tutto questo tempo?» Io non so che dire. Anzi, mi sembra di averci messo anche meno del solito a tornare da scuola.
«Molla lo zaino» dice sfilandomelo dal braccio e lasciandolo cadere sul pavimento.
Si muove veloce, cambia idea e torna indietro, respira dalla bocca. So quello che sta per succedere prima ancora che me lo dica.
«Dobbiamo andare al lago».
Ecco, appunto. È quello il posto. Ha così tanta fretta di uscire che non si è neanche cambiata.
«Ma io ho fame».
«Ti preparerò qualcosa dopo».
E invece non mi preparerà un bel niente. Se ne andrà in camera, come fa tutte le volte che torniamo dal lago, e si sveglierà quando rientrerà papà. Io, nel frattempo, avrò messo un paio di wurstel in padella. Maionese e ketchup nel piatto. Il pranzo ideale, alle quattro del pomeriggio.
«Ti prometto che questa storia finirà presto».
Sappiamo entrambi che si tratta di un’altra bugia.
In macchina non dirci niente fa sembrare quelle poche curve un vero e proprio viaggio.
La mamma parcheggia davanti al rudere abbandonato del Bahia Cafè, all’ombra della tettoia. È una posizione strategica, nascosta alla strada principale da alcuni alberi alti. Da qui possiamo controllare entrambe le vie d’accesso al lago, anche le scale.
Il lago di Girone è diventato un posto frequentato da gente poco raccomandabile, perciò se ne tengono tutti alla larga.
Tutti tranne noi e loro, che sono sempre puntualissimi.
«Intanto prendila» dice la mamma evitando i miei occhi pieni di disaccordo.
Apro il bauletto e tiro fuori la palla di carta stagnola. È leggera, eppure faccio fatica a tenerla fra le mani.
Il lago è fermo, come se stesse aspettando con noi.
A un tratto mi accorgo che non è deserto come sembrava. La riconosco anche se è lontana, perché ho la sua immagine stampata in testa. È Zoe Bruni e guarda dalla nostra parte. Ci manca solo che mi veda. Invece si volta e sparisce fra la vegetazione. Che ci fa la figlia del sindaco da queste parti? Ecco la macchina. Ora non è il momento di pensarci.
Funziona così. Raggiungo l’auto a passo svelto. Entro, mi siedo al posto del passeggero. Quello è l’attimo più brutto. Non vola un fiato. Non devo guardarlo in faccia, è la regola. Appoggio il pacchetto da qualche parte, lui mi mette in mano i soldi. Non succede mai niente, ma è comunque meglio sbrigarsi. Torno alla Punto, e via, dritti a casa a mangiare i wurstel.
Sono in due. Uno sta dietro. Non so come siano fatti. Non lo devo sapere. Metto la palla di stagnola nel piccolo scomparto dell’accendisigari. Tutto sembra andare come al solito, fino a un certo punto. «Come ti chiami?»
Perché mi sta parlando? Scappo e mando a monte tutto? I miei mi ammazzerebbero. «Senti, dammi i soldi e vado via, ok?»
Non guardarlo Michael, non guardarlo! «Stai tranquillo» dice appoggiandomi una mano sul braccio.
Sento il cuore sbattere contro le pareti del petto. Mi manca il respiro.
OK, via di qui!
Apro lo sportello. La sua mano mi stringe il polso. Rinuncio subito. L’altro scende dalla macchina e corre verso la mamma. Sbucano altre persone che fino a un istante prima erano invisibili. Poliziotti in divisa.
Due volanti bloccano la Punto.
Io e la mamma ci guardiamo attraverso i finestrini, attraverso tutto quel caos. Vorrei fare qualcosa. Qualcosa per lei.
Mi volto verso il tipo per la prima volta.
Ha gli occhi azzurri come i miei e quelli di mia madre e di mio padre.
«È tutto OK, Michael».
Allora sa come mi chiamo, penso mentre fanno salire la mamma in una delle loro automobili.
E ora?
2. Di casa in casa
Dove mi sta portando questo qui?
Vorrei tornare indietro nel tempo di qualche ora, a quando sono rientrato da scuola e la mamma mi è venuta incontro per dirmi che bisognava andare subito al lago. Vorrei dirle: non stavolta. Fermarla. Ma non si può cambiare quello che è già successo.
Molto meglio contare che pensare.
Nove semafori, tre distributori di benzina, due gruzzoli di poche case, cinque ciminiere che formano una scala crescente e sputano un fumo grigio scurissimo. Secondo me è anche un po’ colpa loro se fa tutto questo caldo. E poi milioni di metri di sterpaglie. Dico milioni di metri per dire tantissime.
Le sterpaglie è un po’ difficile contarle, figuriamoci dal finestrino di un’auto che va veloce.
Le gomme grattano sulla ghiaia. Finalmente ci fermiamo.
Siamo in città, davanti a un palazzo così bianco che forse è stato appena ritinteggiato. Accanto all’ingresso c’è una targa dorata. Faccio appena in tempo a leggere Dipartimento per le Politiche che il tipo mi spinge all’interno. Si ferma davanti a una porta. Stavolta ho il tempo di leggere: Servizi Sociali, Famiglia e Volontariato. Stiamo per entrare nella stanza di Giusti C puntato e Cappellini F puntato, dice il biglietto di carta attaccato sul vetro.
Il tipo apre e mi indica una poltrona davanti a una scrivania.
«Io vado. Tu aspetta qui che loro arrivano subito».
L’orologio sul muro segna le sei passate.
La lancetta dei minuti sta