Il pèlago: La Nemesi - Libro III
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Anteprima del libro
Il pèlago - Dmitri A. Bystrolëtov-Tolstoj
Piano dell’opera:
Libro primo: Ipoteca sull’immortalità
Libro secondo: Quattro metamorfosi
Libro terzo: Il pèlago
Libro quarto: Luce in lontananza (disperso)
Libro quinto: Viaggio al termine della notte
Libro sesto: Il filo di seta
Libro settimo: Gioventù in gabbia
Libro ottavo: Prova di solitudine
Libro nono: Memorie da una casa di vivi
Libro decimo: Umanità
Libro undicesimo: La dura via dell’immortalità
AVVERTENZA (del traduttore)
Nella traslitterazione, dall’alfabeto cirillico, dei nomi e delle espressioni russe si è seguito per lo più il sistema fondato sulla grafia in uso nei paesi slavi che hanno adottato l’alfabeto latino integrandolo con lettere speciali; pertanto:
c indica sempre il suono della z italiana in pizza; per es. Trocki (in luogo del più usato Trotzki)
č indica la c dolce di "cena"
e viene pronunciata generalmente come je (in alcuni casi, in particolare quando la e è iniziale, ho riportato la trascrizione fonetica, per es. Ježov); in altri casi, se accentata, come jò (p. es. Bystroljòtov); per i nomi geografici – allo scopo di non ingenerare confusioni - ho mantenuto la grafia della e come viene riportata nella toponomastica dell’Istituto Geografico De Agostini; scrivo dunque Enisej e non Jenisej come richiederebbe la pronuncia.
g ha sempre il suono duro di "gatto"
š indica la sc di "scena"
šč come sopra ma più palatale
y corrisponde a una i più dura
, pressappoco come una u francese (ü tedesca)
z corrisponde alla s dolce in "casa"
ž indica il suono j del francese jour
j ha sempre suono di i consonantica (mai la pronuncia francese o inglese); dopo l e n serve a palatalizzare queste consonanti, ottenendo il suono del gl di foglia e gn di sogno; come finale dei cognomi non si pronuncia
‘ come la j, palatalizza la consonante precedente
kh indica il suono della ch tedesca in Buch
N. B.: onde evitare equivoci dovuti all'impiego del vocabolo Lager
, usato dall’A., parola tedesca, il cui primo significato è quello di accampamento
, ma che a noi riporta alla mente i famigerati campi di sterminio nazisti, ho preferito sostituirla con il termine più decisamente russo "gulag, fusione delle due parole
Gosudarstvenni Lager, ovvero
Lager di Stato, termine che – dopo i libri di Solženicyn e altri (ARCIPELAGO GULAG in prima fila) – evoca in noi italiani un deciso riferimento ai non meno mortiferi
campi di lavoro" punitivi sovietici.
.
PREFAZIONE
(del traduttore)
Presento la traduzione del 3° volume delle memorie di prigionia della spia sovietica Dmitrij Bystrolëtov. Spia? Sì, anche. Anche medico, giurista, artista, poliglotta. Ma chi ha letto gli altri volumi sinora tradotti si sarà reso conto che il mestiere più congeniale al nostro autore era senza alcun dubbio quello di scrittore: un memorialista con una tecnica narrativa da grande romanziere. Dopo tutto una grande parentela non poteva non lasciargli qualche traccia: figlio (illegittimo: ma nella Russa zarista era considerato tale chiunque fosse nato al di fuori di un matrimonio religioso) di un Tolstoj scrittore (non il grande, però) era tuttavia nipote, nemmeno tanto alla lontana, del grande Lev. Ed a questi paragonabile senza dubbio per la grandiosità di alcune sue descrizioni, la sapienza nel creare certe atmosfere, sia drammatiche – come è naturale in libri di ricordi di una prigionia subita ingiustamente, in compagnia peraltro di numerosi altri intellettuali, spesso di elevata cultura e nobiltà intellettuale di cui un dittatore ancora più folle di un Hitler si volle, per suoi reconditi scopi, liberare – sia di grande umanità, sia spesso anche umoristiche. Perché anche in una situazione disperata come quella in cui vive non perde il suo spirito di osservazione e la sua capacità di capire le profondità dell’animo umano e quindi nemmeno perde la capacità di saper anche sdrammatizzare ogniqualvolta gli risulti possibile.
E per la verità c’era ben poco da sdrammatizzare: i milioni di individui eliminati da Stalin, o direttamente mediante fucilazione o indirettamente tramite deportazione nei gulag siberiani oltre il circolo polare, di dove ben pochi tornarono, non invitavano certo all’umorismo se non a quello amaro dell’oppresso. Tanto più che a questi milioni di eliminati direttamente vanno aggiunti i numerosi familiari che ne seguirono la sorte: perché il regime non mancava di prendersela anche con mogli, mariti, padri, madri e figli, condannandoli, in quanto familiari di nemici del popolo
, all’emarginazione sociale: perdita del lavoro, perdita dell’assistenza sociale e di ogni diritto. Incalcolabili furono i suicidi soprattutto di mogli di deportati (tra le quali la moglie e la madre dello stesso Bystrolëtov: pagine sublimi, toccanti quante mai mi è stato dato di leggere, scrive a tal proposito nell’ultima parte del V volume, VIAGGIO AL TERMINE DELLA NOTTE).
Se il primo libro di NEMESI, IPOTECA SULL’IMMORTALITÀ
, narra del suo imprigionamento e del processo-farsa che ne seguì, con la condanna a 20 anni di campo di lavoro e rieducazione
e il secondo QUATTRO METAMORFOSI
del suo soggiorno nel campo di Noril’sk, questo terzo volume tratta del suo trasferimento in un campo dove le condizioni di vita erano relativamente più tollerabili, trattandosi di un gulag per malati. E fu questo che probabilmente contribuì a salvargli la vita, oltre al fatto di essere stato utilizzato come medico durante una parte della sua prigionia, dato che ciò gli risparmiò le spesso intollerabili fatiche del lavoro fisico forzato in condizioni climatiche proibitive. E in questo senso ammalarsi – ammalarsi seriamente, intendo – poteva significare, se la malattia non si rivelava insuperabile, salvarsi la pelle.
Orbene, qui si narra della sua malattia (una pleurite purulenta grave, conseguenza dei traumi toracici subiti durante gli interrogatori generosamente accompagnati da torture; malattia che l’aveva portato sull’orlo della morte) e del suo inserimento nella lista dei tradotti a un gulag con condizioni più tollerabili, dove sarebbero stati curati
: e ci è facile immaginare in che cosa potevano consistere le cure, a quei tempi. Ricordiamoci che erano gli anni dal 1938 in poi, gli anni della guerra, in cui mancava il necessario anche alla popolazione libera, figuriamoci se medicinali e trattamenti medici potevano essere concessi a nemici del popolo
! Una scodella di minestra in più e l’esenzione dal lavoro forzato, oltre a un’assistenza sanitaria fatta di buone parole fino alla morte o alla guarigione: questo era il massimo ottenibile in un gulag per prigionieri malati!
Sui gulag sovietici non abbiamo molta letteratura in Italia; conosciamo quel che ha scritto Solženicyn soprattutto, ma ancor più interessanti – perché concordanti in tutto con la narrazione del nostro autore – sono, almeno in parte, i RACCONTI DELLA KOLYMÁ
di Varlam Šalamov (1907-1982) che visse molti anni, come il Nostro, in uno dei gulag più famigerati, quello della Kolymà, nell’estremo Nord-Est dell’URSS. In uno dei suoi racconti dice chiaramente qual era l’atteggiamento di diffidenza del popolo nei confronti dei tribunali sovietici: dato che gli organi
del Ministero degli Interni non possono sbagliare e il tribunale deve essere per principio al di sopra di ogni sospetto, esservi convocati, sia pure come testimoni, costituisce già di per sé un fatto da evitare in ogni modo: perché già il solo fatto di aver avuto in qualche modo a che fare con la giustizia
è una dimostrazione di colpevolezza e se un giudice inquirente indaga su d’una persona significa che ha buoni motivi per ritenerla colpevole: non le resterà altro da fare che confessare, con le buone o con le cattive. Il giudice, per il fatto stesso di essere stato nominato giudice, non può sbagliare: è al di sopra di ogni sospetto (V. Šalamov: op. cit.: racconto I COMITATI DEI POVERI, ed. Einaudi). Questo, in aggiunta ai pieni poteri attribuiti dal popolo
a un dittatore come Stalin, spiega come poté verificarsi quella catastrofica mattanza che va sotto la denominazione di purghe staliniane
del 1937-1940.
Come detto, in questo terzo volume D. Bystrolëtov narra del suo trasferimento, per malattia, a un altro campo di lavoro, più leggero
, in una chiatta sigillata sul fiume Enisej in compagnia di circa cinquecento malati, di cui si prenderà cura per tutta la durata del viaggio.
Molto ha da raccontare: episodi agghiaccianti, come gli autolesionismi, gli abusi e i soprusi dei criminali comuni sui politici
, uomini (e donne) che già sono passati attraverso il sopruso di processi-farsa e torture; gli incontri con personaggi interessanti, episodi toccanti e umanissimi, storie d’amore e disperazione, narrati con una partecipazione che non può lasciare indifferente il lettore, episodi umoristici che stemperano la tragedia in un sorriso. E descrizioni magistrali di paesaggi e situazioni: si resterà colpiti dalla narrazione della malattia, sulla quale quasi sorvola mettendo in rilievo invece deliri e visioni da quella provocate; soprattutto colpirà la descrizione di un paesaggio africano: vi sembrerà di essere in pieno deserto del Sahara e di essere in preda a un miraggio: credo che ben pochi scrittori siano stati in grado di far vivere così i fenomeni della Natura quanto questo impareggiabile romanziere dal vero!
Un’avvertenza: qui come nei libri precedenti abbiamo notato come venga spesso usato il termine fascista: a noi suona un po’ strano, perché diamo al termine un significato preciso. Per i sovietici, per i cittadini di educazione strettamente sovietica, era usuale definire fascista tutto ciò che non era puramente sovietico, ovvero la quintessenza del comunismo (senza se e senza ma, come s’usa ora dire): fascista è insomma tutto ciò che viene dall’estero, sia pure da quello sovietizzato, se non approvato da Mosca. Eppure DB per il suo lavoro di agente segreto era stato in ogni parte del globo, e con ogni popolo e con ogni sistema di governo era stato a contatto. Non possiamo pensare che la sua non comune intelligenza non gli consentisse di vedere con chiarezza le luci e le ombre del suo come di ogni altro Paese (e del resto, come si vedrà leggendo, lui stesso non si dichiara alieno dal pensare che ingannare il popolo sia spesso utile ove ciò faciliti la costruzione del socialismo
). Ma dobbiamo ricordarci che lui scriveva già durante la prigionia, prendendo appunti che, se gli si fossero stati trovati addosso, avrebbero significato condanne ulteriori, non solo per lui, ma anche per i suoi familiari. Nemmeno dopo la liberazione volle abbandonare il suo Paese e pubblicare le sue memorie all’estero (gliele avrebbero pagate a peso d’oro, a quei tempi, in occidente!) mettendo nei guai la sua nuova famiglia: avrebbe voluto che fossero pubblicate in URSS e quindi era giocoforza incensare il regime! Né Khruščov né tanto meno Brežnjev avrebbero mai consentito pubblicazioni in cui si menzionassero cose men che edificanti avvenute in Unione Sovietica. E Gorbačòv era ancora lontano… DB era comunque un sovietico convinto (non avrebbe scelto la professione di agente segreto, in caso contrario): mettiamoci dunque nei suoi panni usando la giusta comprensione. Capiremo meglio il suo mondo e godremo di una narrazione di prim’ordine.
IL PÈLAGO
E come quei che con lena affannata
uscito fuor del pelago a la riva
si volge a l'acqua perigliosa e guata,
così l'animo mio, ch'ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò già mai persona viva.
(Dante, Inferno, I, 22-27)
(Citazione inserita dal traduttore,
perché gli è parsa del tutto appropriata)
1 – LA SCIVOLATA
L’estate scorsa ebbi occasione di passare le vacanze sulla costa del Caucaso. Dopo alcune settimane di calura secca scoppiarono improvvisamente temporali con piogge torrenziali. Quando finalmente tornò a splendere il sole uscii per andarmene un po’ a zonzo e uno sdrucciolevole viottolo in mezzo al bosco mi condusse fino a un ponte gettato da una parte all’altra d’una gola. Tre giorni prima giù nel profondo stavano, impolverati, tronchi d’albero spezzati e ammassi di rami secchi, sotto i quali gorgogliava timidamente un invisibile ruscello. Avanzai sopra il ponte e mi fermai sbalordito: immediatamente sotto i miei piedi scorrevano ruggenti con fracasso i flutti scompigliati del torrente montano: turbinavano, si accavallavano sollevando spruzzi in aria, quasi cercando, come cani rabbiosi, di addentare l’arcata di cemento del ponte che poco prima pareva così ridicolmente massiccio, e ora tremava e sembrava malfermo e fragile. In quel paiolo infernale l’acqua d’un verde-grigio ribolliva e schiumava rabbiosa. Tra le nuvole grigio-azzurrognole degli spruzzi vedevo sotto di me volteggiare impetuosi tronchi e rami strappati via chissà dove dall’alto delle montagne. Quelli più robusti si facevano vedere per un istante e sparivano oltre con brusche giravolte, mentre altri, più vecchi o più deboli cedevano all’impeto dei colpi e si spezzavano in due o si frantumavano con gemiti disperati.
Lasciato il ponte mi diressi seguendo la gola verso il mare. In tutta prossimità della riva il corso del fiume si allargava improvvisamente e come sfiancato perdeva la sua ferocia e gorgogliava stancamente sotto i mucchi di alberi spezzati quasi come tre giorni avanti. Mi fermai là per un po’, osservando i tronchi che rallentavano, quasi estenuati, la loro corsa come per farsi un timido riposino sulla ghiaia della riva e con un ultimo sobbalzo si arrestavano infine sulle pietre già asciugate e scaldate dal sole…
Tornato sul ponte mi sporsi dal parapetto, chiusi gli occhi e a lungo respirai il freddo pulviscolo dell’acqua.
Che cosa mi ricorda questo burrone?
pensavo tra il rumoreggiare e l’urlare delle acque. Qualcosa di tempi beati lontani e nello stesso tempo tormentosamente vicini… Qualcosa che non devo, non posso dimenticare… Qualcosa che volevo tenere a mente per poterlo poi raccontare ad altri…
Appoggiai la fronte sul cemento freddo del parapetto. Dov’è stato che, come un povero fragile nuotatore, son stato trascinato via in un simile vortice ribollente di morte?
E d’improvviso ricordai.
La mattina di un giorno festivo – era il giugno del 1940, nel punto-gulag n. 1 del campo di lavoro correzionale
di Noril’sk – il recluso con funzioni di comandante, l’ex bandito Paška Gurin, infilò inaspettatamente la testa nel nostro balok¹ semibuio e gridò: Ehilà, voialtri, aiutanti della morte! Via, radunarsi fuori! E senza ciance! Pale e picconi son già là, alla porta!
Di malavoglia, a tastoni, ci vestimmo e brontolando sgusciammo fuori. E ci arrestammo in estasi. Ma che giornata! Un cielo più azzurro e puro che in qualsiasi Italia, un sole rovente, come il gran fornello a petrolio del nostro cittadino sovrintendente, un’aria languida e carezzevole come non fosse quella stessa che una settimana prima, maledetta, ci aveva tagliuzzato le facce scagliandoci addosso una paurosa tormenta nera, una neve abbagliante con il suo scintillio da milioni di carati, e anche se non ne avevi voglia non potevi far a meno di notare gli artistici arabeschi gialli che riempivano i muri, ma quel che più era importante, – urrah! – la terra si mostrava, la terra vera, reale si faceva vedere, il suolo caldo della nera radura che fumava al sole proprio là dove ancora giovedì scorso una furiosa tempesta di neve ne aveva ammassato un cumulo ad altezza d’uomo e anche più alto. Il diavolo mi porti, la vita sta tornando! La vita!
Ma se non sono riusciti a sopraffarci dieci mesi d’inverno, nemmeno i capi ci riusciranno a sbranarci: resisteremo! In barba a tutto!
pensava