L’oblio nei tuoi occhi
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Giulio dovrà fare i conti con l’ormai sopito sentimento paterno, che lo porterà a oltrepassare il ruolo di medico, conducendolo, giorno dopo giorno, a scoprire i misteri che avvolgono la vita di Christine.
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Anteprima del libro
L’oblio nei tuoi occhi - Paola Sbarbada Ferrari
Paola Sbarbada Ferrari
L’oblio nei tuoi occhi
© 2024 – Gilgamesh Edizioni
Via Giosuè Carducci, 37 – 46041 Asola (MN)
gilgameshedizioni@gmail.com – www.gilgameshedizioni.com
Tel. 0376/1586414
È vietata la riproduzione non autorizzata
In copertina: Progetto grafico di Dario Bellini.
© Tutti i diritti riservati
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Indice dei contenuti
PROLOGO
CAPITOLO 1
CAPITOLO 2
CAPITOLO 3
CAPITOLO 4
CAPITOLO 5
CAPITOLO 6
CAPITOLO 7
CAPITOLO 8
CAPITOLO 9
CAPITOLO 10
CAPITOLO 11
CAPITOLO 12
CAPITOLO 13
CAPITOLO 14
CAPITOLO 15
CAPITOLO 16
CAPITOLO 17
CAPITOLO 18
CAPITOLO 19
CAPITOLO 20
CAPITOLO 21
CAPITOLO 22
CAPITOLO 23
CAPITOLO 24
CAPITOLO 25
CAPITOLO 26
CAPITOLO 27
CAPITOLO 28
CAPITOLO 29
CAPITOLO 30
CAPITOLO 31
CAPITOLO 32
CAPITOLO 33
CAPITOLO 34
CAPITOLO 35
CAPITOLO 36
CAPITOLO 37
CAPITOLO 38
CAPITOLO 39
CAPITOLO 40
CAPITOLO 41
CAPITOLO 42
CAPITOLO 43
CAPITOLO 44
CAPITOLO 45
CAPITOLO 46
CAPITOLO 47
CAPITOLO 48
CAPITOLO 49
EPILOGO
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Della stessa autrice, un romanzo imperdibile edito da Gilgamesh Edizioni
Un REGALO per te dalla nostra Casa Editrice
Ringraziamenti
ANUNNAKI
Narrativa
226
A Silvana
I vostri figli non sono figli vostri.
Sono i figli e le figlie del desiderio
che la vita ha di sé stessa...
Kahlil Gibran, I figli
PROLOGO
Marzo 2006
Erano già le quattro del pomeriggio, quando Christine si rese conto che non si era ancora presa una pausa dal momento in cui aveva fatto ritorno a casa, dopo la giornata di lavoro presso la scuola in cui insegnava Lingua e Letteratura Italiana. Il giovedì le toccavano sempre le ultime due ore, le più odiate dagli insegnanti, le più impegnative, perché gli studenti, reduci dalla lunga mattinata di lezioni, erano ormai troppo stanchi per poter prestare ancora attenzione. Doveva ammettere a sé stessa, però, che il proprio metodo di insegnamento e il suo approccio verso quei ragazzini erano azzeccati e, nonostante la stanchezza e la fame, gli allievi riuscivano ad ascoltarla con interesse e dedizione. Quel giorno era in programma una prova scritta: i compiti che stava correggendo parevano proprio volersi complimentare con lei e dimostravano, ancora una volta, che le nozioni di analisi grammaticale e analisi logica della lingua italiana piacevano a quasi tutta la classe. Si disse che era ora di mettere a tacere quel languorino che si era insinuato tra gola e stomaco. Appena si alzò, guardò oltre le vetrate. Il lago di Annecy era di un blu sconvolgente, qua e là spuntavano pennellate di colore bianco, quello delle barche a vela che, in quel pomeriggio assolato, avvisavano tutte le genti che la primavera era finalmente arrivata. Il cielo era azzurro, nemmeno una nuvola ad oscurare il caldo sole, nonostante fosse solo marzo. Aprì la porta-finestra e un soffio di vento inaspettato le scompigliò i lunghi capelli ramati e i fogli dei compiti, ciascuno con il voto scritto in rosso, sino a poco prima impilati sul tavolo. Le voci dei ragazzini gioiosi, provenienti dal parco, la rallegrarono. Decise di prepararsi una tazza di frutta e yogurt. Uscì sul terrazzo e si sedette sulla comoda poltroncina a dondolo in vimini bianco. Ormai si era ambientata, erano trascorsi più di sei mesi da quando si era trasferita in Alta Savoia. Giulio e Sara avevano acquistato quel bell’appartamento con vista Lago, e lo avevano arredato in modo impeccabile. Sin da subito, si era sentita accolta dal vicinato e dai colleghi della scuola dove insegnava. Era felice di vivere ad Annecy: i profumi e i colori del lago riuscivano sempre a conferirle il buon umore. Spesso gli altri professori la invitavano a pranzo, ma quasi sempre preferiva declinare l’invito: si giustificava adducendo a impegni improcrastinabili, destinati soltanto a nascondere il suo carattere schivo. Saltuariamente, però, trascorreva quell’ora di convivio assieme ai colleghi francesi, sorprendendosi ogni volta della loro gradevole compagnia. Il gruppo di bambini urlanti pareva non voler smettere di prendere a calci il pallone. Christine li guardava divertita e al contempo incuriosita, paragonandoli ai propri allievi che, suppergiù, erano loro coetanei. Sorrise tra sé. Aveva quasi terminato il proprio yogurt quando vide il pallone atterrare oltre la siepe che delimitava il parco dal giardino condominiale. I ragazzini, dopo un momento di smarrimento, scoppiarono in una fragorosa risata. Il più spavaldo del gruppo si fece avanti, camminando a passo deciso in direzione di Christine, la quale aveva assistito alla scena come se si trattasse di un insieme di fotogrammi; quando egli le fu vicino, fu colta da un capogiro. La tazza che, sino a un attimo prima teneva tra le mani, andò in mille pezzi. Il cuore iniziò a galopparle nel petto. Ebbe la netta sensazione di essere letteralmente risucchiata in un vortice. Come un automa, scese le scale rapidamente, uscì dal portone e corse in giardino.
Madame, pourriez-vous me donner le ballon, s’il vous plaît?
Christine si piegò per raccoglierlo e, guardando il ragazzino negli occhi, sussurrò: Le voilà!
Merci, madame
ringraziò il bambino, senza mai abbassare lo sguardo.
Christine non riuscì più a deglutire, tantomeno a formulare una sola frase che potesse avere un senso compiuto, il cervello s’era preso una pausa. Il bambino rimase un attimo in più a fissarla e se ne andò, voltandosi a guardarla più volte.
Lo contemplò correre via, verso il resto del gruppetto che lo osservava quasi in adorazione e, improvvisamente, capì.
CAPITOLO 1
12 settembre 2001
La luna s’era nascosta dietro una nuvola. Il cielo, sopra quel piccolo paesino delle Alpi piemontesi, era divenuto ancora più scuro. L’orologio del campanile della chiesa segnava l’una. All’improvviso un’esplosione illuminò la notte. Seguì un fragore immenso, quindi il crollo dei calcinacci. Le sirene delle ambulanze e quelle dei vigili del fuoco avevano svegliato anche coloro che, avendo il sonno profondo, non si erano accorti di nulla. Tutti gli abitanti erano scesi in strada, smaniosi di capire cosa fosse accaduto: una bomba? Una fuga di gas? Il terremoto? Quasi fosse un tam-tam, la notizia si diffuse; infine, fu chiaro: la piccola casa della famiglia Usvaldi era esplosa e poi crollata su sé stessa. La ragione, al momento, era ignota, anche se una fuga di gas pareva essere la più accreditata. Nessuno riuscì più a riprendere sonno perché ormai erano tutti in trepida attesa di conoscere le sorti della famiglia Usvaldi. Christine si risvegliò nel letto d’ospedale in preda agli spasmi dovuti al grande mal di testa. I suoi soccorritori scoppiarono in lacrime nell’istante esatto in cui riuscirono a estrarla viva da sotto le macerie: la casa era andata completamente a fuoco senza lasciare scampo al resto dei componenti della famiglia.
Erano trascorsi alcuni giorni da che Christine era stata ricoverata e aveva subito una delicata operazione alla testa. L’intervento s’era concluso ottimamente e da poco s’era risvegliata. Entrò nella camera l’infermiera per sostituirle la flebo e la vide sveglia, le si avvicinò e le chiese sommessamente:
Come si sente ora?
Christine la guardò smarrita. Riuscì a risponderle con un grande sforzo, a causa dell’arsura nella gola:
Dove mi trovo?
la voce impaurita.
All’ospedale, purtroppo è stata vittima di un’esplosione, ricorda qualcosa?
rispose con calma la donna.
No
disse Christine, scuotendo il capo. Allora l’infermiera aggiunse:
Certo, ora è in stato di shock ma, stia tranquilla, tra qualche giorno andrà meglio; è stata molto fortunata, sa?
La donna inerme che giaceva nel letto guardò l’infermiera con aria interrogativa, tuttavia, ebbe la forza di risponderle:
Sì, andrà meglio
ma poi, cambiando espressione, aggiunse:
Mi scusi infermiera, come mi chiamo? Io non sono certa di ricordarlo…
L’infermiera, nonostante l’imponente stazza, si fece piccola piccola e sbiancò. I medici non avevano preso minimamente in considerazione che potesse aver perso la memoria. L’infermiera assunse un tono sicuro e di circostanza, quindi le rispose:
I l suo nome è Christine Usvaldi; ora cerchi di riposare, vedrà, tra qualche giorno la memoria tornerà.
Christine la guardò con perplessità, ripetendo a bassa voce: …Christine Usvaldi… Christine Usvaldi
.
CAPITOLO 2
I pensieri di Christine
Sono sdraiata in questo letto a me sconosciuto. Qualcosa non quadra. Mi duole tutto il corpo, la testa mi scoppia. Da ore sono circondata da personale medico. Sembrano schegge impazzite. Non parlano, rimangono in silenzio lanciandosi occhiate d’intesa, mi osservano di sottecchi, quasi a volermi nascondere l’evidenza. Sono conscia ormai di aver subito un grave incidente di cui, però, non ricordo nulla. Il cranio mi pulsa a tal punto da annientare la mia concentrazione. Sto tentando disperatamente di ricordare il mio nome, chi sono e quale sia la mia età, ma, non appena credo di avere acchiappato un ricordo, ecco che quello svanisce e io torno al punto di partenza. Rimane soltanto un grande vuoto. Ora sono qui sola nella stanza, il panico mi assale, mi pervade. Ecco che finalmente è entrata un’infermiera; prima non l’avevo notata, mi parla con condiscendenza. Mi racconta che mi trovo lì perché la notte prima sono stata vittima di un incidente, aggiunge che sono stata fortunata, poteva andare molto peggio, ne deduco che io sia viva per miracolo. Mi distraggo un secondo per poi rincorrere nuovamente i pensieri confusi annidati nel mio cervello. Devo sforzarmi, so che ce la posso fare. L’infermiera è davvero dolce con me, mi sistema le coperte e i cuscini e mi invita a bere un succo di frutta con una cannuccia: viste le mie condizioni non sono in grado di gestire nemmeno un banale bicchiere. Lo assaggio, il gusto è buono anche se non sono certa che sia davvero il mio gusto preferito... Tuttavia, lo ingurgito come una forsennata: la mia gola arde così tanto che lo trovo un toccasana, chissà che non mi aiuti anche a ricordare... Mi faccio coraggio, guardo la donna in camice e le domando quale sia il mio nome. La vedo bloccarsi e sbiancare improvvisamente. Come mai questa reazione? Sono davvero una paziente così grave? Si riprende immediatamente, credo che voglia dissimulare quindi risponde con un filo di voce: ora lo so, il mio nome è Christine Usvaldi. Quelle due insignificanti parole mi rappresentano e mi identificano nel mondo, tutto ciò non mi conferisce alcun sollievo e nessuna reazione positiva o negativa. Sono inghiottita dall’oblio che mi stritola da ore. Temo di avere smarrito per sempre me stessa.
CAPITOLO 3
Estate 1989
Furio era orgoglioso del proprio operato: quella mattina si era svegliato appena dopo l’alba, esattamente come le mattine precedenti: erano le giornate più lunghe dell’anno ed egli aveva deciso di tinteggiare l’esterno di casa durante le vacanze estive: l’impresa era finalmente ultimata. Guardò, sorridendo, il risultato del proprio operato. Erano trascorsi dieci anni da quando aveva acquistato quella casetta semplice, ma confortevole. Pochi metri quadri, allegra e con le ante verdi. Quando nacque la figlia Christine, lui e la moglie Ines decisero di lasciare la città, optando per quel piccolo paese nel cuore delle Alpi piemontesi, alla ricerca della tranquillità e di un’aria più sana e quando videro quella casa con il cartello VENDESI, se ne innamorarono immediatamente. Furio aveva cessato da tempo di contare le meravigliose giornate trascorse in quel luogo, insieme all’amata Ines e alla loro figlioletta. Si girò per osservare il rigoglioso giardino, merito del suo pollice verde: c’erano diversi cespugli di rose di colori diversi; Furio poi, aveva piantato dei sempre verdi e qua e là campeggiavano vasi di piante grasse; inoltre, egli aveva persino realizzato un’area destinata all’orto. Che soddisfazione poter raccogliere la verdura e portarla in tavola. Era proprio fiero di sé. Ricordò, con nostalgia, quanto la figlia Christine, da piccolissima, amasse mangiare i pomodorini maturi durante l’estate, mostrandosi a lui con la bocca impiastricciata e ridendo a crepapelle. Per stare al gioco della figlioletta, Furio la rincorreva per tutto il giardino, urlandole Ora ti acchiappo!
. Con l’acquisto della casa, aveva coronato il sogno di una vita. Era consapevole di essere un uomo fortunato: la sua era una famiglia davvero unita, lì, nel cuore delle Alpi. Certo, la vita non gli aveva regalato nulla, i sacrifici, suoi e della propria moglie, erano stati copiosi. Pensò con tenerezza a Ines, una donna tanto riservata al di fuori della famiglia e, al contempo, così amorevole nei suoi confronti e in quelli della loro figlia. Furio, stendendo l’ultima pennellata sulla parete frontale della casa, riconosceva quanto loro tre fossero legati ed ancorati in un rapporto esclusivista. Furio ed Ines erano entrambi figli unici ed entrami orfani da anni: grazie alla determinazione e al loro solido amore, ce l’avevano fatta comunque e senza l’intervento di nessun altro. Christine aveva compiuto dieci anni: era giunto per lui il momento di migliorare l’attitudine, seppure già ben sviluppata, al risparmio, in vista del prossimo futuro della piccola. La bambina a settembre avrebbe iniziato le medie; Furio si persuase che i prossimi tre anni sarebbero volati e, in un attimo, Christine avrebbe iniziato le superiori, quindi l’università. Entrambi dovevano essere pronti ad affrontare le spese necessarie affinché la figlia potesse proseguire gli studi che le avrebbero un domani concesso di potersi affermare in una professione. Furio sorrise tra sé e sé, non era il caso di angustiarsi con così tanto anticipo, bisognava pensare al futuro senza dimenticare di godersi il presente. Sentì la gioia montargli dal cuore:
Ehi, ragazze, uscite, forza! Venite a vedere quanto è bravo papà! Ora la casa è tutta tinteggiata di fresco
, esclamò facendo un passo indietro soddisfatto. La piccola casa ora era di color giallo girasole e le ante verdi, smaltate e rimesse anche loro a nuovo, spiccavano come non mai.
Ines, con sguardo severo, il viso pallido e la chioma ramata, lievemente spettinata, si palesò dinnanzi a lui, sulla soglia dell’ingresso principale:
Furio, contieniti, per favore, non vorrai svegliare il vicinato? È ancora mattino presto, ed è domenica!
Ines, non fare la guasta feste
, disse appoggiando latta, rulli e pennello,
Sei stato bravo, Furio! Ora, però, sbrigati, c’è la colazione pronta! Si fredderà tutto, altrimenti. Ti prego.
Arrivo, Ines, arrivo!
.
I tre si ritrovarono a tavola esattamente come tutte le mattine precedenti. Furio, osservando le