Cosa mi dice il mare
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Anteprima del libro
Cosa mi dice il mare - Lorenza Stroppa
L’autrice
Lorenza Stroppa Nata a Pordenone nel 1974, dove vive assieme al marito, due figli, un cane e due gatti a sbafo. Ha iniziato ad amare i libri da bambina, quando ha compreso che potevano aiutarla a sconfiggere la paura del buio. Dal 2003 lavora come editor per la casa editrice Ediciclo. Tiene corsi di scrittura e lezioni di editing per la Scuola Macondo, la Scuola del Viaggio e l’Agenzia Herzog; è docente di editoria turistica al Master in Editoria dell’Università Cattolica di Milano.
Ha tradotto diversi libri dal francese e dall’inglese, ha scritto (a quattro mani con Flavia Pecorari) la trilogia urban fantasy Dark Heaven, edita dal 2012 al 2014 da Sperling &Kupfer e uscita con lo pseudonimo Bianca Leoni Capello, La città portata dalle acque (Bottega Errante Editore, 2017) e il romanzo Da qualche parte starò fermo ad aspettare te (Mondadori, 2020). www.lorenzastroppa.it
camera con vista – 27
Bottega Errante Edizioni
Via Pradamano 4
33100 Udine
www.bottegaerranteedizioni.it
info@bottegaerranteedizioni.it
Editing: esagramma
ISBN 9791280219718
© Bottega Errante Edizioni s.r.l. 2022
È vietata la riproduzione totale o parziale del testo senza l’autorizzazione dell’autore e della casa editrice.
Lorenza Stroppa
Cosa mi dice il mare
Bottega Errante Edizioni
A chi vede il mare anche con gli occhi chiusi.
E sa dove corrono le onde.
Il mare è pieno di storie. Le custodisce gelosamente, le tiene nascoste, celate alla vista e alla memoria. Ma se lo interroghi, il mare risponde.
Pietro Spirito, I custodi degli abissi
I Bretoni nascono con l’acqua del mare intorno al cuore, affinché l’acqua salata non abbia mai il sapore delle lacrime.
Adagio locale
Prologo
Northampton, 1999
È un autunno caldo, un colpo di coda dell’estate, l’aria profuma di castagne e nostalgia. Io e Gus erriamo pigri da un banchetto all’altro. Gli oggetti del mercatino delle pulci sono ammassati come in un bazar. Lui si ferma a guardare le bussole, lo affascinano quelle russe, con i caratteri in cirillico.
Una foglia mi plana in testa, osservo le macchie sulle venature, mi ricordano quelle sulle mani di mia mamma. Le ha sempre chiamate le formiche della vecchiaia
. Il pensiero da lei passa a mio padre, al gelo nei suoi occhi quando ci siamo salutati a Calais. E poi a Blanche, che non avrà mai quelle macchie.
Mi fermo davanti a un tavolino ricoperto di sveglie. Ce ne sono di art déco, con i piedini ricurvi e i numeri sottili, anni Sessanta, colorate e dagli angoli stondati, ottocentesche, con i fregi… Le lancette sono quasi tutte ferme alla stessa ora: le due meno dieci. È un classico, l’ho letto anche in un libro, una di quelle coincidenze inspiegabili: quasi tutti gli orologi fermi sono bloccati su quell’ora. Ne sollevo una.
«Ha buon occhio. Quella è della prima decade del Novecento, viene dalla Germania» mi dice una signora corpulenta che sbuca da sotto il ripiano. Sussulto: ha qualche pelo sul mento e il collo più largo che abbia mai visto in una donna.
«Non l’avrò mica spaventata, cara?».
«No, no» rispondo, e riappoggio la sveglia con cautela.
«Le serve un consiglio? Deve fare un regalo?».
«Io… a dire il vero, non lo so».
Si mette una mano sul petto. «All’amore pone fine il tempo, non il cuore. Tempus fugit, chi ha tempo non aspetti tempo…» declama, e poi mi fa l’occhiolino: «Le servirà una sveglia, per sentire il tempo».
Ma io rimango ferma alla prima frase: «All’amore pone fine il tempo».
Il mio tempo, da quando sono fuggita da Douarnenez, è fermo, sospeso in una rarefatta felicità. Forse se riprendesse a girare in avanti, se superasse questa fase di stasi, sarebbe più facile lasciarsi alle spalle i ricordi.
Così ho comprato la prima sveglia, e poi, quando il suo ticchettio non mi è più bastato, anche un’altra e un’altra ancora, fino a che la mia collezione, rumorosa e stravagante, ha invaso la casa.
«Ma non le possiamo spegnere o perlomeno accendere a scaglioni?» mi ha chiesto un giorno Gus, infastidito dal ticchettio asincrono. «Sembra che stia per scoppiare una bomba».
«Se le fermiamo c’è il rischio che si rovini il meccanismo, che si ossidi e smetta di girare».
Mi aveva guardata dubbioso: «Finora ha sempre funzionato, anche per questa ad esempio» e aveva sollevato una delle mie preferite, una sveglia del diciottesimo secolo, il quadrante dipinto a mano, il disegno di una volpe fulva sul fondo, «non credo che un’altra pausa le farebbe dei danni».
«Io però non voglio correre il rischio».
L’argomento è tornato fuori altre volte, Gus sa essere tenace quando vuole. Ma io non gli ho mai detto la verità. Non gli ho confessato che le sveglie mi servono per capire che tutto scorre, che tutto passa. Che è possibile andare oltre.
Mi prenderebbe per matta. E non avrebbe torto.
STACCO
I nostri nomi diventarono numeri. E con il tempo capimmo perché. I numeri non avevano volto. Erano molto più facili da affrontare.
Benjamin Jacobs
Il mare torna sempre
Northampton, 2015
Il vento muove la brughiera come le onde del mare e, anche se l’orizzonte blu è coperto dalle colline, lontano diverse miglia dalla campagna inglese, ne sento il richiamo. Non si è mai taciuto, è un prurito, un tarlo che nell’ultimo periodo si è fatto più insistente, sovrastando anche il ticchettio delle sveglie.
Faccio scivolare lo zaino dalla spalla, lasciandolo cadere, e mi siedo a terra.
Mi ero convinta che fosse stato il mio amore per Gus a innescare la miccia, la cecità, il concerto del cuore, l’attrazione verso quello straniero che per me ha rappresentato tutto, anche la fuga da un paese troppo piccolo, troppo stretto.
Ma forse c’è dell’altro.
Allungo le gambe e mi appoggio di schiena alla roccia.
«Non sono stata attenta, non ho ascoltato» mormoro, consegnando le parole al vento.
Da dove vengo io l’amicizia è quasi un vincolo di sangue, un patto d’onore. Si dà, si riceve, ci si aiuta. Ognuno ha il suo ruolo, come in un alveare. A Douarnenez, sulla costa bretone, dove l’oceano ti ingoia l’anima e te la restituisce ricoperta di lacrime salate, i legami sono qualcosa di sacro e necessario, che io ho profanato.
Nel tempo – sono trascorsi diciotto anni dalla mia fuga – mi sono detta che allora ero troppo giovane, che l’amore aveva attecchito in me alla pari di una pianta infestante, occupando tutto. Ma il mare, quel suono incessante che viene a lambirmi nei sogni, nei pensieri, mi sussurra un’altra verità, e da un po’ di tempo faccio fatica a ricordarmi chi sono, chi sono veramente.
«Mamma, guarda!».
La voce, che tende a virare in un falsetto stridulo per l’eccitazione, è di Roux. Avanza con quell’andatura ballonzolante tutta braccia e gambe che hanno gli adolescenti, peli in faccia e speranza nello sguardo.
Lo studio con distacco, valutandone la solidità. Potrebbe accettarlo? mi chiedo. Quando si fa vicino, mi impongo un sorriso che cancella ogni ombra e fingo interesse per il carapace di granchio che mi sta mostrando. È rossastro, le chele rattrappite.
«Non è strano trovarlo a così tanta distanza dal mare?» mi chiede.
«No, non è poi così strano». Trattengo il desiderio di infilare una mano in quei ricci arruffati dal vento. «Il mare torna sempre, è sempre sotto di noi».
Anche quando non lo vuoi.
L’alluvione
Da quel giorno sulla collina l’assedio del mare è andato in crescendo, montando dentro di me come una marea. Mi sono immersa nel vortice della quotidianità, la spesa, le faccende di casa, le attenzioni a Roux, a Gus, ma la sensazione di non avere più scampo mi stringeva sempre più la gola. Ho cercato di tenerla a bada, ho ascoltato il ticchettio scandito dalle sveglie, mi sono concentrata sui compiti basilari, occupandomi delle piccole cose con cura. Ma accadeva di continuo che perdessi la concentrazione, che mi scordassi pezzi di vita lungo la strada.
Ho saltato i colloqui generali con i professori di Roux. Avevo scritto la data nel calendario del cellulare, avevo spento il memo trillante che mi aveva ricordato l’appuntamento il giorno prima. E poi, buio.
«Come è andata con i prof?» mi ha chiesto Roux, la sera a cena.
Ho sbattuto gli occhi, celando la fitta di sgomento. «Non sono potuta andare».
Gus ha distolto l’attenzione dalle notizie del telegiornale e mi ha guardata: «Come mai, cosa è successo?».
«Susan ha avuto un piccolo incidente, niente di grave, solo un colpo di frusta, ma ha chiamato me perché suo marito è di nuovo in missione e ho perso tutto il pomeriggio».
La bugia mi è uscita fluida, naturale. E Susan non è un’amica di Gus, quindi non correvo il rischio che potesse intercettarla. Abbiamo continuato a parlare della dinamica dell’incidente per un po’, finché Roux non mi ha chiesto: «E ora? Come si fa?».
«Chiederemo un incontro extra ai prof delle materie importanti» gli ho detto accompagnando la risposta con un sorriso, per tranquillizzarlo. «Magari ti scrivo la richiesta sul diario, va bene?».
Ho visto la sua fronte corrugarsi. «Non so se avranno tempo».
«Si fa quel che si può, tesoro. Tanto vai bene a scuola, e Susan aveva più bisogno».
Ho rimosso anche l’anniversario di matrimonio, che quest’anno era una cifra tonda, perciò più importante. Gus aveva organizzato una cenetta romantica in un ristorante stellato, a sorpresa, e mi ha regalato un braccialetto lavorato a mano con una bellissima pietra d’ambra. Io non ero preparata, avevo i capelli da lavare, la camicetta stropicciata e, soprattutto, non gli avevo comprato nulla. Ho fissato l’ambra per tutta la serata, chiedendomi se la mosca imprigionata nella pietra fosse più libera di me.
Mi è capitato di lasciare il forno acceso, ho dimenticato di bagnare il ficus, sono passata con il rosso, ho preso le medicine sbagliate.
«La mamma sta diventando vecchia» ha detto Roux, scherzando con suo padre, quando mi sono scordata di recuperarlo a casa di un suo amico.
Fino a qui ci si poteva ancora ridere su, passavano per delle dimenticanze dovute allo stress, erano quasi accettabili.
Poi però è successo qualcosa che mi ha dato il colpo di grazia.
È accaduto durante una giornata qualunque, senza che potessi prevederlo. Uno tsunami mi ha sommerso.
Quel giorno ho accompagnato al parco Roux e suo cugino Stan. Il tempo non era dei migliori ma soffiava un vento da nord che forse avrebbe allontanato le nubi, e così abbiamo deciso di uscire lo stesso. I ragazzi volevano provare gli skateboard nuovi. Sono abbastanza grandi da arrangiarsi, ma lo skate park è in periferia, così ho accettato di accompagnarli con la macchina. Sarebbe andato a riprenderli mio cognato Mark. Dopo averli lasciati mi sono fermata a guardarli dalla panchina sotto gli alberi, nascosta tra le fronde. Li ho visti scivolare e cadere, provare a saltare – con quel rumore infernale che fa la tavola quando sbatte – e di nuovo cadere. Roux e Stan scherzavano, si copiavano nei movimenti, e parlavano ininterrottamente. Per essere due adolescenti maschi chiacchierano fin troppo. Nonostante abbiano un anno di differenza e si vedano solo nei ritagli di tempo, sono molto affiatati, ma è lo zio Mark il collante del loro legame. Mio cognato – più giovane di Gus di una decina d’anni – ci sa fare con i ragazzi e loro lo adorano.
Quel giorno Mark ha deciso di fare una sorpresa ai due skater in erba presentandosi al parco in anticipo. L’ho visto avanzare, jeans strappati e felpa con cappuccio a celare i primi capelli grigi, e salutarli con quei rituali tutti pugni e ancheggiamenti. Si è messo a fianco di Roux – che con lo skate è un filo più imbranato di Stan – e ha cercato di dargli qualche dritta.
Roux ha provato a saltare con la tavola ed è caduto, sbattendo il gomito. Ha cercato di trattenere le lacrime, da bravo adolescente, il volto rosso per lo sforzo. Mark se n’è accorto e gli ha messo una mano sulla spalla, lo ha distratto con qualche battuta. La strategia ha funzionato.
Ho guardato Stan, che dall’alto della rampa osservava la scena scuro in volto.
È stata quella espressione a scatenare il cedimento della mia diga.
L’espressione di un figlio che non si sente considerato. Di un ragazzino geloso del suo migliore amico. Un’espressione che racchiudeva invidia, insicurezza e un briciolo impercettibile di odio.
La voce del mare, imperiosa, ha ruggito dentro di me, impartendomi un ordine perentorio.
È questa, la verità, mi ha detto. E poi mi ha sommersa del tutto.
Da allora ho passato settimane in balia della mareggiata, annaspando.
Con Gus e Roux ho finto di accusare un’influenza, mi sono data malata. Ma questi non sono i sintomi di una malattia. L’acqua non mi lascia in pace.
Devo fare qualcosa. Non posso continuare così, figurarsi badare a una famiglia. Sono giunta al capolinea, di fronte ai miei demoni. Ed è arrivato il momento di affrontarli.
La fuga potrebbe sembrare una non risposta, lo so, ma è l’unica soluzione che conosco, l’unica che mi dà l’opportunità di fermarmi e rivivere tutto. Per comprendere esattamente, senza filtri e senza scuse, l’entità di ciò che ho fatto.
È come se avessi nascosto sotto il tappeto la polvere di anni e ora non ci fosse più posto. Sta per scappare fuori, a meno di non provare a pulirla per davvero, quella polvere, sporcandomi le mani, liberando le mie paure.
Osservo Roux, preso da un videogioco sparatutto. I suoi occhi si muovono a scatti veloci, inseguendo i nemici. Mi assale un senso di angoscia e di preoccupazione. Sarà spaventoso, lasciare lui e Gus, ma necessario, per il bene di entrambi. E l’unico modo, forse, per ritrovare un equilibro e un po’ di lucidità.
Qualche giorno fa ho scritto una lettera a Gus, per spiegare e per evitare che provi a cercarmi, a inseguirmi. È da codarda, scappare via così, lo so. E, forse, le parole non basteranno.
Caro Gus,
devo partire. Ciò che è accaduto a Douarnenez è un macigno che mi porto dietro e ho bisogno di ripercorrere quel tempo, sospendendo questo, per capire.
Per tutti questi anni mi sono rifiutata di parlartene, mi sono negata qualsiasi tipo di sfogo. Non pensare che sia colpa tua, ero io che non ero in grado, o che non volevo, affrontare la verità. Tu hai fatto fin troppi tentativi per stanarmi, ma io ho preferito concentrarmi su di
noi, sulla nostra famiglia, su questo tempo scandito dagli impegni quotidiani e dal rumore, costante, delle mie sveglie.
Però nell’ultimo periodo i ricordi sono affiorati con prepotenza e mi stanno rubando il sonno. Avevo provato a parlartene – male, con le parole sbagliate, lo so – quella sera che litigammo…
Per favore, non cercarmi, non preoccuparti. Lasciami lo spazio che mi serve per affrontare tutto questo. Lo so che ti chiedo tanto, e ancora di più chiedo a Roux, ma non sono più la moglie e la mamma che sono stata finora e ho bisogno di ritrovarmi. Spero che capirai, anche se non mi azzardo a pensare che mi giustificherai. Roux non la prenderà bene, lo so. Vede sempre tutto bianco o nero, per lui non può esistere qualcosa fuori dagli schemi. Anche se ho provato più volte ad ammorbidire questo suo lato manicheo. Non è mai stato un tipo facile, il nostro Roux. Quando era piccino andavamo al laghetto di Blackstone, ricordi? E c’era quella coppia di cigni bianchi, bellissimi. Un giorno si presentarono con una nidiata di piccoli arruffati e adorabili. Ricordo che avevo faticato a tenere Roux a distanza, papà cigno era particolarmente protettivo e poteva diventare pericoloso. Rimanemmo a guardarli a lungo, poi Roux mi chiese: «Perché sono grigi se la mamma e il papà sono bianchi?». Provai a spiegargli che nascevano così e poi diventavano bianchi, ma lui si impuntò, non gli sembrava plausibile, o giusto, chissà. Mi piantò su una solfa che non hai idea.
Il nostro piccolo Roux.
Stagli vicino, ti prego.
Un abbraccio,
Corinne
Ho conservato la lettera nella borsa. Per giorni l’ho portata con me, percependone le vibrazioni negative, come il veleno in una fialetta. Ma oggi l’ho tirata fuori e ora la stringo tra le mani sudate, inquieta.
Mi rifugio nella stanza delle sveglie. Il loro ticchettio mi accoglie come le fusa di un gatto. Mi avvicino alla mia preferita, un modello degli anni Trenta con i numeri sottili e panciuti, il quadrante candido, due fregi delicati lungo le colonnine ai lati. Ha un lunario sotto le lancette che sembra una bocca, per quello mi piace. Mi guarda con quel sorriso, che oggi però suona finto.
Ne scelgo un’altra, una bavarese in legno; nasconde un piccolo cucù grigio dietro a una porticina. Forzo l’anta e osservo il pennuto uscire, ondeggiante. Ma l’uccellino sotto il mio sguardo si trasfigura, e diventa un gabbiano, gli occhi di giaietto che mi fissano, giudicanti. Richiudo la porticina e provo con un’altra sveglia.
Questa è di vetro, gli ingranaggi come organi esposti che si muovono, fluidi. La sollevo, tenendola in mano, e mentre la guardo, un po’ ipnotizzata, il movimento si blocca. Così, all’improvviso. Gli organi sono fermi, morti. Un singhiozzo mi si incastra tra i polmoni e la gola.
Decido di provare il tutto per tutto. Aspetto lo scadere dell’ora, quando i rintocchi fanno vibrare le pareti. Di solito è il mio momento preferito, quello in cui vibro anch’io, ritrovando il mio nord, come l’ago delle bussole che piacciono a Gus.
Mi metto al centro della stanza, circondata dalle sveglie, le lancette che tagliano il tempo, che avanzano senza curarsi del passato. Trattengo il respiro, osservando lo scatto degli ingranaggi. Percepisco l’attimo esatto in cui le lancette si allineano e i tamburelli si sollevano. Poi calano, e cominciano il loro movimento, lenti e cadenzati; la melodia si espande in mille direzioni, sfasata, ma non mi entra sottopelle, non vibra dentro di me come sempre. Al contrario, la cacofonia mi confonde, mi tira da tutte le parti e io mi disperdo, sono un fascio di luce che attraversa un prisma, un formicaio appena calpestato.
Mi chiudo la porta alle spalle, zittendo le sveglie. Purtroppo non hanno più potere su di me.
Liscio la busta della lettera, che scotta tra le mie dita: è giunto il momento di partire.
Trascino la valigia in salotto e chiamo Roux.
«Un attimo» mi dice, vuole finire prima lo schema.
Arriva svogliato, la testa ancora al videogioco. Gli parlo lentamente, uso parole vaghe, mi sforzo di apparire calma e normale.
«Cosa significa che te ne vai?».
«Devo… devo mettere a posto alcune cose» stringo la maniglia del trolley, ho il palmo sudato.
«Per quanto starai via? Mamma?».
Di fronte ai suoi occhi indagatori glisso, lascio dei vuoti da riempire: come posso spiegargli qualcosa che faccio fatica a spiegare anche a me stessa? Gus era presente in quegli anni, sa quanto ciò che è accaduto a Blanche mi abbia segnata, forse capirà, forse no. Ma Roux è meglio lasciarlo fuori per il momento. Di fronte al mio silenzio lui, così ipersensibile quando si tratta di me, ha un momento di spaesamento. Lo vedo dalle dita contratte, dal pomo di Adamo spuntato da poco che va su e giù, come se stesse ingoiando parole che non dice. Poi si volta verso le finestre della cucina, ignorandomi.
Dovrei avvicinarmi a lui, abbracciarlo, dirgli che tornerò presto, che andrà tutto bene, ma non ci riesco. Lascio la lettera per Gus sotto il cuscino e mi chiudo la porta di casa alle spalle.
La balena
Il giorno che Roux inizia a contare, sulla riva di Douarnenez si spiaggia una balena. Sobbolle, come se fosse piena di lava, e la coda si agita, stanca. L’occhio, vispo e terrorizzato, ci mette un po’ a calmarsi, e poi rimane immobile. A trecento chilometri da lì, in Inghilterra, Roux inizia a contare le fessure di luce della tapparella. Quelle della finestra della sua camera sono 87, un numero primo per niente felice, si dice, anche se composto da un 8, il numero fortunato per i cinesi. Passa alle tapparelle della camera di sua madre, e poi a quelle del bagno, per poi finire con il salotto e la cucina. In tutto fanno 526 fessure che, diviso due, diventano 263. Un altro numero primo. Insoddisfatto, Roux inizia a contare le piastrelle