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Le imprevedibili ragioni del cuore
Le imprevedibili ragioni del cuore
Le imprevedibili ragioni del cuore
E-book297 pagine4 ore

Le imprevedibili ragioni del cuore

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Info su questo ebook

È il secondo dopoguerra. Nella periferia londinese, il giovane Robert White, ancora alle prese con i suoi progetti di vita, si imbatte nelle dissertazioni di un originale sociologo francese. Lo studioso ritiene che la società, dopo le dittature, non debba incorrere nei medesimi errori del passato. Le istituzioni devono avere un controllo sulle generazioni future mediante un comune denominatore. Un campione dello sport potrebbe rappresentare il nuovo modello-mito da utilizzare contro le spinte rivoluzionarie e contestatrici.

Robert realizza il suo progetto quando finalmente incontra David Cole. David è la figura perfetta e inconsapevole di tale strategia, fatta di intrighi e potere. La vita del grande campione si svolge nell’ambito di un appassionante susseguirsi di eventi che attraversano le manifestazioni dell’animo umano. Le circostanze porteranno David a viaggiare nei luoghi più lontani e struggenti dell’Africa, dove imprevedibilmente incontra l’amore.

La storia dei protagonisti mette così in risalto le sfaccettature più intime dell’essere: il sacrificio, il dolore, la fama, l’amore assoluto, l’ipocrisia e il tradimento.

Giovanni Paoletti è nato a Cisterna di Latina l’11 febbraio 1964. Di professione è avvocato.
Le imprevedibili ragioni del cuore è il suo primo romanzo.  
LinguaItaliano
Data di uscita2 lug 2024
ISBN9791223601013
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    Anteprima del libro

    Le imprevedibili ragioni del cuore - Giovanni Paoletti

    cover01.jpg

    Giovanni Paoletti

    Le imprevedibili ragioni del cuore

    © 2024 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-8989-3

    I edizione luglio 2024

    Finito di stampare nel mese di luglio 2024

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    Le imprevedibili ragioni del cuore

    … il pianto di un bambino capriccioso è leggero come il vento…;

    le lacrime di un bambino che piange per fame,

    ono più pesanti di tutta la terra…!

    Gianni Rodari

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di Lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Il romanzo è ambientato in un periodo storico tra il 1950 e gli inizi degli anni Ottanta.

    La storia è opera della fantasia dell’autore anche se si sviluppa, a volte, nell’ambito di fatti storici realmente accaduti.

    Ogni riferimento a società, associazioni e altro è puramente casuale.

    PRIMA PARTE

    I Capitolo

    Come tutte le mattine, Robert White apriva la porta della terrazza e raggiungeva la poltrona sistemata davanti alla balaustra.

    Lentamente si lasciava scivolare sulla seduta e con lo sguardo fisso osservava il mare.

    Era la figura di un uomo anziano, una sfinge immobile, ferma davanti al limite più estremo tra la terra e l’immensa distesa d’acqua e cielo che si apriva davanti agli occhi.

    Aveva impregnato le pupille del colore ceruleo del mare della Cornovaglia.

    Le nubi gli passavano davanti; seguiva il movimento continuo delle loro forme, come fossero le note di uno spartito che solo lui sembrava decifrare.

    Il vento gelido gli sferzava sulla testa, facendo roteare in modo ripetitivo i capelli bianchi che gli battevano sul viso congestionato.

    Rimaneva lì seduto anche quando la pioggia fredda e tagliente lo colpiva e con lo sguardo smarrito fissava il vuoto.

    Aspettava che la notte lo avvolgesse nel buio più totale, sottraendolo, come la metafora vivente del suo stato d’animo, alla luce e alla realtà.

    La sua vita era stata straordinaria, ma ora nulla era rimasto.

    La fama, la gloria erano lontane e avevano lasciato il posto al peggiore dei mali: al senso doloroso della colpa.

    Avrebbe potuto fare qualcosa, aveva avuto la possibilità di impedire gli eventi, ma non aveva fatto nulla.

    La governante si era abituata a chiamarlo più volte pensando che l’udito ormai cedeva agli anni, ma Robert in realtà era distante. Era con la mente alla ricerca di una ragione che lo potesse giustificare. Cercava un perdono che non sarebbe mai arrivato.

    Viveva ormai da molti anni nella casa in Cornovaglia, nel distretto della cittadina di St. Ives.

    Aveva comprato la proprietà con i primi guadagni. In quella casa era stato felice e aveva trascorso le vacanze con la moglie, ogni volta che era stato possibile.

    In realtà era un vecchio bastione costruito sulla sommità di un piccolo promontorio roccioso affacciato sulla baia.

    A Robert era subito piaciuto perché gli ricordava la prua di una nave in navigazione, un avamposto incuneato sul mare, dove poteva disintossicarsi dalla città.

    Il terrazzo era il luogo più incantevole. Il parapetto era costruito come l’orlo di un abito sulle rocce più sporgenti.

    Da quel punto aveva visto innumerevoli spettacoli della natura, imponenti e selvaggi.

    Tempeste di onde plumbee abbattersi sulle rocce, lanciando in aria spruzzi d’acqua schiumosa. Il vento impetuoso infilarsi nelle grotte scavate nella parete sottostante, tanto da rimandare un suono simile a un lamento cavernoso.

    A volte, invece, il cielo era luminoso e limpido come uno specchio e la vista spaziava fino a decifrare il contorno più lontano della costa.

    Il panorama della Cornovaglia era uno spettacolo mai uguale a se stesso, sempre in continuo cambiamento.

    Spesso si univa alle battute di pesca che partivano la mattina all’alba dal porticciolo incastonato nella baia.

    In un primo momento aveva avuto difficoltà ad essere ospitato in barca, ma una volta diventato famoso i pescatori facevano a gara per accoglierlo.

    Seduto in disparte, sulla paratia di dritta, durante la navigazione gli piaceva riempirsi i polmoni con grandi respiri, di aria fresca e salmastra.

    I marinai lo guardavano perplessi, chiedendosi cosa mai potesse trovarci di così straordinario in quell’aria che loro erano costretti a respirare ogni giorno!

    Ora che era rimasto solo, senza le persone che aveva amato, i ricordi ritornavano in modo inesorabile procurandogli uno stato di infinita nostalgia.

    Pensava continuamente alle passeggiate con la moglie lungo i sentieri fiancheggiati da prati verdi e da fiori selvatici, che conducevano nei punti più impervi della costa.

    Avevano ammirato le spiagge selvagge della Cornovaglia, lambite da un mare turchese dove troneggiavano imponenti faraglioni di granito.

    Gli ritornavano alla mente i panorami di Kynance Cove quando, seduti su una roccia, si perdevano ad ammirare l’orizzonte fino a sentire il vento fresco penetrare tra i vestiti.

    Nelle notti luminose dalla terrazza guardavano gli scogli affioranti, disseminati nel mare scuro, luccicare al bagliore della luna, tanto da sembrare fedeli sentinelle a difesa della baia.

    In primavera si divertivano ad ascoltare i versi degli uccelli che dischiudevano le uova in una piccola grotta, incavata nella parete di roccia, dove era costruita la loro casa.

    Nei momenti di gloria gli eventi erano stati così superiori, alla propria volontà, da non poterli contrastare e quindi con falsa inconsapevolezza li aveva assecondati.

    Ma questo era il tormento ormai di un uomo anziano che aveva deciso di punire se stesso, perché sapeva di essere stato solamente un arrivista.

    Aveva rincorso la fama, i soldi e uno status privilegiato, come ogni essere umano e il destino lo aveva assecondato.

    Era stato come tutti gli altri del suo ambiente, ma questo certo non lo poteva assolvere.

    Il mondo lo aveva dimenticato. Erano passati tanti anni da quando si era ritirato e la storia che ha bisogno continuamente di altri miti, lo aveva superato.

    Solo qualche volta, sempre più di rado, veniva citato in qualche trasmissione televisiva.

    Nessuno poteva immaginare cosa fosse accaduto e come la vita di tante persone sarebbe potuta cambiare.

    Le sue decisioni rispondevano ad un nome in codice, a voci senza volto di cui lui era stato l’esecutore finale, l’ultima pedina di persone potenti e sconosciute.

    Le pareti della casa erano tappezzate da vessilli e fotografie che raccontavano la sua vita.

    C’erano le foto con la Regina d’Inghilterra, quando gli fu data l’onorificenza di baronetto, c’erano decine e decine di fotografie scattate in tutto il mondo… tutte sempre con David.

    II Capitolo

    La cruna dell’ago è stretta, una fessura quasi impercettibile, per infilarci il filo occorre precisione, attenzione.

    La madre di Robert, quando eseguiva questa azione, assumeva con tutto il corpo una postura diritta e rigida.

    Inforcava gli occhiali, con lo sguardo aguzzo prendeva la punta del filo, appena inumidita di saliva e fissava la cruna dell’ago. Tutto intorno sembrava sospeso. Per un attimo i suoni si attutivano, nessuno parlava, ogni cosa sembrava assistere al gesto compito della donna.

    Con grazia misurata avvicinava l’estremo del filo alla piccola fessura e con maestria chirurgica, sempre al primo tentativo, riusciva nell’impresa.

    Robert guardava la madre con rapita ammirazione, consapevole che solo lei era deputata nella famiglia, per tradizione e per comprovata abilità, ad infilare il filo nella cruna dell’ago.

    Nel contempo pensava di volere dimostrare in qualche modo la sua abilità e precisione, proprio come faceva la madre.

    Abitavano ad Essex, un sobborgo di Londra, a circa trenta minuti di treno dalla città.

    Vivevano in una piccola villetta a schiera, uguale a quelle di tutto l’isolato, con un giardinetto davanti all’ingresso della casa. Il padre aveva dipinto il portone di giallo e si vantava che così riusciva più facilmente a trovare la via di casa, soprattutto il venerdì, quando tornava dal pub.

    La facciata era rivestita di mattoncini rossi, in tipico stile anglosassone. L’ingresso era sovrastato, al primo piano, da una finestra esagonale bianca, corrispondente alla camera da letto dei genitori.

    Nel complesso l’intera casa aveva un aspetto grigiastro, in tinta con le giornate piovose inglesi.

    Il nominato fumo di Londra era ben rappresentato dalla casa dei signori White. Doveva essere ristrutturata, ma le possibilità economiche non c’erano.

    Il padre lavorava nelle ferrovie statali e la madre era casalinga.

    Robert era stato educato a non sprecare nulla, ogni cosa era frutto di sacrificio. Doveva fare il proprio dovere negli studi, altrimenti poteva salutare i libri e quindi imparare un mestiere.

    Molti degli amici invece, già dopo la scuola dell’obbligo, si erano persi facendo lavoretti presso qualche artigiano del posto in cambio di una misera paghetta; altri non facevano proprio nulla. Lui li vedeva girovagare con la bicicletta, tutto il giorno fuori di casa, sporchi e con le ginocchia sbucciate.

    In quel contesto non era stato facile decidere il proprio destino. Il futuro per la giovane età era tutto suo, ma nello stesso tempo incerto.

    Spesso ricordava, grazie agli studi classici, come il destino di ogni uomo per la mitologia greca era deciso dalle tre Moire: comparse nella Teogonia di Esiodo come figlie della Notte e come figlie di Zeus, personificavano il destino ineluttabile. Potevano tessere la vita di ognuno e reciderla a loro volere.

    Tuttavia, pensava che affidarsi alla mitologia per sperare in un brillante futuro non era la soluzione migliore!

    Le tre Moire, probabilmente, era facile che dimenticassero di tessere un bel futuro per un giovane sconosciuto che viveva con una ordinaria famiglia nei sobborghi di Londra!

    Aveva ricevuto una educazione rigida. La madre era anglicana con sfumature di puritanesimo nei momenti in cui si ergeva a fare le raccomandazioni materne. Invece il padre, spesso assente da casa per motivi di lavoro, era puritano nei suoi comportamenti: lavoro fuori casa dal lunedì al venerdì pomeriggio, venerdì sera al pub, il sabato lavori in casa, la domenica a messa.

    La routine poteva sembrare ripetitiva, ma era in perfetta sintonia con la vita delle famiglie di quel periodo.

    Robert, finiti gli studi classici nella scuola di Est Spring, aveva ricevuto dal padre la proposta di entrare nelle ferrovie.

    La compagnia statale stava ampliando le tratte di percorrenza, soprattutto nel Nord del Paese e assumeva nuovo personale. Nelle assunzioni c’era una velata prelazione per i figli dei ferrovieri e la paga era buona sin dall’inizio. Inoltre, nel contratto di lavoro, da poco, erano stati inseriti dei benefit che consistevano in buoni viaggio espressi in miglia, per il dipendente e la famiglia. La novità fu appresa con entusiasmo da tutto l’ambiente.

    Infatti era possibile percorrere tutte le tratte ferroviarie con la famiglia, totalmente gratis.

    Il padre di Robert, capendo l’importanza del momento, la sera dopo cena richiamava il figlio nel salottino davanti al caminetto, perennemente acceso, e gli decantava la bellezza del lavoro del ferroviere.

    Si dilungava in racconti, a volte apparentemente improbabili, provocando un sommesso sorriso della madre che, seduta accanto, ascoltava in religioso silenzio, mentre eseguiva qualche lavoretto di cucito.

    Una volta, durante i racconti, quando la madre si era di poco allontanata, il padre con fare nuovo, tanto da creare un certo imbarazzo in Robert, si lasciò andare dicendogli in modo ammiccante: … e poi stare diversi giorni da soli, fuori casa, non è poi così male…!.

    Robert ascoltava con il cuore che pulsava sempre più forte.

    Da una parte non voleva tradire le aspettative del padre e presumeva anche quella della madre, anche se lei in merito non si era mai espressa, dall’altra non si vedeva proprio come ferroviere. Spesso, mentre il padre gli parlava, lui con la mente vagava. Cercava di immaginarsi con il cappello in testa e la divisa, poi tentava di ricordare come si diceva ferrovia in Latino. Non ricordando la parola si autoassolveva, pensando che i Romani dopo tutto avevano inventato la biga e non le ferrovie!

    I conciliaboli andavano avanti da diverso tempo, senza essere arrivati ad una conclusione: né il padre si spingeva a dirgli chiaramente di fare la domanda alle ferrovie, né il figlio diceva espressamente che non avrebbe mai fatto il ferroviere.

    Robert non era stato mai così esplicito per il senso di rispetto che aveva per la famiglia e per la consapevolezza che gli studi avrebbero comportato notevoli sacrifici.

    La decisione si era arenata, era in stallo, tanto che il padre ad un certo punto aveva interrotto le dissertazioni sulle qualità della vita del ferroviere.

    Un giorno Robert mentre sfogliava il giornale, comprato dal padre, come solo ogni sabato, si era soffermato a leggere un articolo del sociologo francese Serge Vertè.

    Il sociologo teorizzava che dopo la tragedia della seconda guerra mondiale i vecchi miti erano morti. Era caduto il nazismo, il fascismo e quindi l’idea di Istituzioni dominate da una oligarchia era finita.

    Le società che si stavano trasformando in Nazioni democratiche, avevano bisogno di nuovi modelli nei quali ci fosse una partecipazione dal basso, da parte del popolo.

    Tale prospettiva aveva comunque bisogno di nuovi riferimenti di aggregazione di massa, che la gente poteva accettare facilmente senza sentirsi oppressa o costretta. Era necessario che ci fossero riferimenti comuni con cui identificarsi, fatti di regole semplici tanto da essere spontaneamente accettate, senza avere paura di ricadere negli errori del passato.

    Vertè sosteneva che un ruolo era senz’altro svolto dalla religione, la quale costituiva un comune denominatore dell’anima delle persone. Gli uomini potevano condividere i medesimi principi e potevano credere nella medesima cosa: in Dio.

    Tuttavia, proseguiva il sociologo, la società aveva bisogno anche di un comune denominatore che rimanesse meno elitario, spirituale e quindi più laico.

    Un fenomeno di massa dove le persone potevano, accettando le medesime regole, sfogare le loro pulsioni, speranze e frustrazioni. Un sistema capace di sopire le spinte rivoluzionarie e contestatrici. Era infatti sempre necessario avere un controllo delle masse e di frange di persone che altrimenti avrebbero potuto destabilizzare le istituzioni.

    Il vero comune denominatore laico, della società postbellica, per il sociologo: era il calcio.

    Robert balzò in piedi, il calcio?!

    Lui aveva giocato per un breve periodo in una squadretta di periferia, ma non sentendosi dotato, preferì impegnarsi negli studi. Certo, non aveva mai pensato che un gruppo di ragazzi in calzoncini che correvano dietro ad una palla potessero avere un risvolto filosofico così rilevante.

    Continuò a leggere l’articolo.

    Il calcio poi avrebbe creato il suo campione, nel quale il bisogno di esaltazione dell’essere umano si sarebbe identificato. Il campione sarebbe diventato il nuovo eroe della società moderna, con il potere di catalizzare le aspettative incompiute delle persone. Tutti potevano identificarsi nel grande campione, senza che ciò potesse diventare pericoloso per la società. Questo sarebbe stato bravo solamente a tirare dei calci ad un pallone e non avrebbe potuto incidere, in alcun modo, nelle scelte politiche.

    In sostanza il campione avrebbe svolto il ruolo di anestetico sociale, senza essere in grado di disturbare la stessa società che lo aveva generato e lo amava come una propria creatura.

    Tuttavia il calcio doveva compiere un salto di qualità: doveva diventare un vero fenomeno di massa, capace di attrarre un interesse globale e di coinvolgere importanti finanziamenti dal mondo imprenditoriale.

    Aveva bisogno non più di improvvisati allenatori e dirigenti di società, ma di professionisti capaci di elevare tale sport ad un livello competitivo e celebrativo decisamente superiore, così da catturare l’interesse generale.

    Robert rimase molto colpito dal senso dell’articolo e dalle idee del sociologo. Era un argomento nuovo a cui non aveva mai pensato e che lo incuriosiva molto.

    Ripiegò l’articolo e se lo mise in tasca.

    Pensò che, in effetti, anche se l’Inghilterra aveva inventato il gioco del calcio, nessuno gli prestava la debita attenzione. Soprattutto non gli sembrava che qualcuno si rendesse conto del valore straordinario delle tesi del sociologo.

    Dopo qualche settimana si trovava a Londra per verificare la retta annuale dell’Università, passando davanti ad una edicola si fermò per vedere se ci fossero degli articoli del sociologo Vertè.

    Robert si mise a sfogliare vari giornali, scrutato dallo sguardo del giornalaio, quando trovò una pagina dello Street Journal interamente dedicata alle teorie del sociologo.

    L’articolo era una intervista in cui il giornalista con domande caustiche cercava di mettere in difficoltà il sociologo e le sue teorie. Però in tutte le risposte c’era sempre una lucida esposizione della tesi filosofica.

    I tempi cambiavano in fretta, le società occidentali avevano una spinta propulsiva enorme e c’era l’esigenza di incanalare i popoli in una democrazia, controllata questa volta da se stessa, nell’ambito delle proprie istituzioni, regole e nuovi miti.

    Il giornalista obiettava che il calcio era seguito in particolare dagli uomini. Il sociologo rispondeva che in verità le società del dopoguerra erano quasi tutte gestite da uomini, ma se il campione era bello e affascinante, il calcio avrebbe sicuramente catturato l’attenzione delle donne!

    Robert era veramente soggiogato dalle teorie del sociologo e pensava che gli sarebbe piaciuto farne parte. In quel campo c’era molto da fare.

    Un giorno, di ritorno da Londra, scese alla fermata vicina al campo di calcio. Dal finestrino del treno si vedevano i calciatori mentre facevano gli allenamenti ed eseguivano schemi di gioco.

    Si avvicinò al campo e si sedette su uno dei gradini di una piccola tribuna. Con attenzione si mise ad osservare lo sviluppo delle fasi di gioco, interrotte dall’allenatore che impartiva ordini incomprensibili:

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