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A con Zeta
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E-book386 pagine5 ore

A con Zeta

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Info su questo ebook

C’è una bambina di nome Derdâ: deve abbandonare la scuola e il suo villaggio in Turchia per seguire a Londra un marito crudele. C’è un bambino di nome Derda: vive in una baracca dietro un cimitero di Istanbul e si guadagna il pane lucidando le tombe. Come la A e la Zeta, non potrebbero essere più lontani, e in mezzo ci sono tutte le parole che devono ancora dirsi. Derdâ corre per le vie di Londra con un dizionario in mano; si è guadagnata la libertà facendo la pornostar in chador. Derda si fa tatuare il nome di uno scrittore sulle dita; corre per le vie di Istanbul con un romanzo in tasca e una pistola in pugno. Loro non lo sanno, ma si stanno correndo incontro. Lui troverà lei in un video porno; lei troverà lui all’incrocio tra letteratura e vita. Si riconosceranno grazie a un libro, a unirli per sempre saranno i corpi e le parole; come la A e la Zeta, saranno l’una per l’altro inizio e fine. Un romanzo tenerissimo e insolente.
LinguaItaliano
Data di uscita21 mar 2019
ISBN9788871688831
A con Zeta
Autore

Hakan Günday

Hakan Günday was born in 1976 on the island of Rhodes in Greece and currently lives in Istanbul. He is the bestselling author of eight novels, which have been published in nineteen territories. More received Le Prix Medicis Etranger 2015 and his novel The Few was named Best Turkish Novel of 2011. His novel Ziyan (Loss) was a finalist for the Prize Lorientales 2015 in France and was awarded the France-Turkey 2014 Author Award. He lives in Istanbul.

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    Anteprima del libro

    A con Zeta - Hakan Günday

    DERDÂ

    Aveva sei anni e a sei anni sarebbe morta. Tremava impaurita, non poteva staccare gli occhi dall’insetto. Aveva di fronte un soffitto grande come un campo di girasoli, ma lei non riusciva a vedere altro: un insetto delle dimensioni di un seme di girasole. Le zampe appuntite e pelose, le antenne sottili quanto un ciglio. Un corpo immobile come in un dipinto, una macchia nerastra sul cemento che l’oscura penombra aveva tinto di un grigio cupo. Lo stesso colore degli occhi pieni di lacrime della bambina.

    Teneva stretta nei pugni sudati la coperta tirata su fino al mento e pensava a quando l’insetto le sarebbe caduto in faccia. Era al piano superiore di un letto a castello senza scala, a mezzo metro scarso di distanza dal soffitto. Si sarebbe addormentata, prima o poi. Nel sonno avrebbe aperto la bocca, e l’insetto ne avrebbe approfittato per scivolarle tra i denti. Oppure sarebbe caduto prima sulla coperta restandovi un po’, fin quando non gli fosse venuto appetito e allora, poggiando gli arti sul suo piccolo viso, si sarebbe infilato in una delle narici divorando ciò che avrebbe trovato. Per un secondo la bambina si sporse dal letto per capire quanto fosse lontana dal pavimento. Ma un secondo non fu sufficiente. Non riuscì a distinguere chiaramente il pavimento, poiché, per tenere d’occhio l’insetto, aveva rivolto di nuovo lo sguardo al soffitto.

    Aveva già visto degli insetti prima d’allora. Sui muri di casa sua e anche su quelli delle case altrui. Anzi, si poteva dire che in ogni casa in cui avesse messo piede aveva visto almeno un insetto. Vengono dal canale diceva suo padre. Aveva visto insetti più grossi che, venuti dal canale, si erano arrampicati e poi, non riuscendo a reggere il proprio peso, erano cascati nel braciere. Ne aveva visti anche di minuscoli, come i pidocchi, che erano stati la ragione per cui le avevano tagliato i capelli. Così come aveva visto quelli che sparivano fuggendo lesti tra le crepe dei muri e quelli che aspettavano quietamente di essere uccisi sotto i sacchi di barbabietole. Aveva visto anche topi. E una volta perfino un lupo. Un lupo mille volte più grande dell’insetto che ora la ossessionava. Di nessuno di essi aveva avuto paura. Non aveva mai tremato, né pianto. Forse perché allora non era sola. In realtà, neanche adesso era sola. Oltre a chi dormiva nel letto di sotto, c’erano trentacinque bambine intorno a lei. Ma quelle non contavano. Non conosceva il nome di nessuna di loro e ormai era troppo tardi per impararlo. Dormivano. Le sentiva russare. Udiva il rumore dei respiri che si facevano strada nei loro nasi tappati. Le bambine si rigiravano da una parte all’altra, borbottando nel sonno, piegando i cuscini per appoggiarvi i visi gelidi, sfregando il tallone contro la gamba, e non si curavano per nulla dell’insetto.

    Doveva scappare. Doveva scendere dal letto prima che l’insetto le cadesse addosso. Ma come poteva fare? Almeno ci fosse stata la scala! Perfino per salire le aveva dovuto dare una spinta la bambina che dormiva sotto. Quella che le aveva detto: La prossima volta sbrigatela da sola! La bambina arrabbiata.

    Di scatto si tirò la coperta sul volto. Quando la lanugine della coperta infeltrita dal tempo cominciò a pungerle le guance, capì di aver commesso un grosso errore. Aveva perso di vista l’insetto. Di certo era ancora lì. Le cose che non si possono vedere mica spariscono! E poi che senso aveva nascondersi se non poteva tenere d’occhio il suo nemico? Era ancora più pericoloso. L’insetto avrebbe potuto fare ciò che voleva e nessuno se ne sarebbe accorto. Ormai era sfuggito alla sorveglianza.

    Sul suo viso apparvero gocce di sudore. Sulle tempie si fecero più evidenti le pustole della varicella. Il ritmo dei suoi respiri superò quello dei battiti del cuore. Doveva scappare da quel posto! Doveva salvarsi da quell’insetto e dalla solitudine! Doveva trovare un modo. Un modo per scendere da quel letto. Ci doveva essere una via di fuga. Ne bastava una. La ricerca non durò a lungo. Scelse la più breve. Imboccò la scorciatoia dell’accada quel che accada! Con la mano sinistra scostò la coperta e con l’altra si spinse nel vuoto. Non importava dove sarebbe atterrata.

    Quando la sua faccia colpì il pavimento si udì come uno schiocco. Ma anche se si era fratturata l’osso del collo, nessuno sembrava averla sentita. Il suo cuore, che fino a un istante prima batteva come le ali di un colibrì, si fermò. Aveva sei anni. Quella crepa nel soffitto, che la paura e il buio facevano somigliare a un insetto, aveva solo un anno di più. Era lì da sette anni e da sette anni, a luci spente, stava lì a ricordare la forma di un insetto. Per fare apparire i peli sulle zampe, poi, bastava che la lampada fosse accesa e che la porta del dormitorio fosse aperta.

    Derdâ aprì gli occhi al rumore dello schiocco. Vide la bambina che giaceva sul pavimento col collo ritorto. Nonostante il buio, la riconobbe. Era la bambina a cui, qualche ora prima, aveva detto fissandola: Tu dormi sopra! Sorreggendola per le gambe l’aveva aiutata ad arrampicarsi, ma subito dopo aveva aggiunto: Se solo fiati, ti taglio la lingua! Lo aveva detto urlando in modo che tutte sentissero. Ora invece era stesa a terra. Lì accanto al letto. Doveva proprio essere caduta. Non poteva certo essere saltata!

    Tirò fuori la mano da sotto il cuscino e le toccò il braccio. Non servì, allora le diede una scrollata tenendola per la spalla. Levò lo sguardo scrutando tra i letti di metallo della camerata. Controllò se si fosse svegliato qualcuno. Non vedendo nessuno si tranquillizzò. Scese lentamente dal letto e si inginocchiò accanto alla bambina. La sollevò, leggera come un gattino, e la girò verso di sé. Il viso minuto era ricoperto di sangue. Derdâ alzò la testa e si guardò intorno. Sicura che nessuna delle altre fosse sveglia, cominciò a piangere. Si coprì la bocca mordendosi il labbro inferiore. Singhiozzò piano, per non svegliare nessuno.

    La piccola che si era lanciata nel vuoto per paura di un insetto immaginario era di Yatırca. Yatırca, villaggio di miliziani governativi. Yatırca, villaggio di confidenti. Come dicevano le bambine, Yatırca era un villaggio di spie e di figli di puttana. Chi veniva da Yatırca non andava aiutato. Alla gente di là non si tendeva la mano neanche da morti. Per questa ragione Derdâ, quella notte, non informò l’insegnante di turno. Si limitò a piangere, poi aggirò lentamente il corpo e si rimise silenziosamente a letto. Perché anche lei era di Yatırca. E ci aveva messo quattro anni per far dimenticare quella verità a quattrocentoventinove bambine.

    Un lembo del lenzuolo pendeva dal lato sinistro del letto a castello fino al pavimento. Ricordava una vela triangolare. E il letto sembrava una nave, un veliero che navigava nella notte. Derdâ ne aveva visto uno in un libro illustrato. Un libro in cui erano raffigurati oceani di un azzurro profondo e navi multicolori che solcavano l’acqua con le loro vele candide issate sugli alberi. Un libro in cui bambine con le mantelle gialle sorridevano con lo sguardo rivolto all’orizzonte. E tutte erano felici. Ma era soltanto un libro. Un libro stupido. Forse il libro più stupido e ingannevole mai esistito! Perché quelle bambine non esistevano in realtà. Altrimenti, in quelle pagine, ci sarebbero state le loro fotografie e non quelle illustrazioni che sembravano dipinte con gli acquerelli. Derdâ sussurrò: Dio mio, fammi morire nei sogni.

    Nel sonno stava per correggersi, ma si addormentò all’istante sul veliero in cui era coricata. Aveva undici anni. Dieci e uno.

    La bastarda di Yatırca è crepata!»

    Derdâ si era svegliata, ma avrebbe dato la vita per ripiombare nel sonno. Restò in ascolto: «È caduta, si è spaccata la testa! E quell’imbecille di Derdâ dorme ancora! Alzati! Forza, alzati!»

    Riconobbe la voce. Era Nazenin. Suo padre era stato ucciso sei anni prima. Era stato ucciso mentre tentava di assaltare un commissariato. Tutta la provincia si era immediatamente sollevata per riavere indietro la sua salma, ma le proteste erano state sedate dai carri armati delle Forze speciali che avevano occupato rapidamente tutte le strade. Spettò quindi all’organizzazione chiedere conto della mancata restituzione del cadavere. I militanti attesero la notte per lanciare i razzi, ma per uno strano caso il primo palazzo a essere colpito fu quello di Nazenin, proprio accanto al comando provinciale della gendarmeria. Un piccolo errore di calcolo. Due pareti della casa del defunto furono completamente distrutte, fatte a pezzi insieme a un bambino in fasce. Alla fine, non ci fu nessun funerale da celebrare e neanche una salma. Il cadavere dell’uomo, durante l’attacco, era finito in una delle grotte che circondavano il commissariato, imprigionato per sempre dalla natura. Il responsabile provinciale si scusò innumerevoli volte con la famiglia di Nazenin, tuttavia l’organizzazione corrispose solo metà della somma in denaro che aveva promesso come prezzo del sangue. L’altra metà, invece, continuò a pagarla la popolazione della provincia, in una moneta più antica: stima e rispetto per la famiglia. Grazie al credito concesso dalla Banca dell’agricoltura, la famiglia di Nazenin riuscì a ricostruire le due pareti della casa e, anni dopo, furono perfino aggiunte due camere, con l’indennità riservata alle vittime del terrorismo. Quanto a Nazenin, la figlia maggiore, con la quota di stima che le spettava, raggiunse il rango di capo-camerata nel dormitorio del collegio che frequentava. In più, come sostenevano tutti, era una fortuna che il neonato che aveva perso la vita nell’assalto fosse femmina. Non ci sarebbe stata alcuna faida.

    Derdâ dischiuse le palpebre allo strattone di Nazenin.

    «La tua amica di Yatırca è caduta dal letto stanotte. Alzati! La maestra Yeşim ti ha chiamato».

    Derdâ non parlò, fece solo dondolare la testa. Si raddrizzò e poggiò i piedi sul pavimento. Li ritirò immediatamente. Alzò lo sguardo su Nazenin che torreggiava su di lei e ricevette l’ordine che si aspettava.

    «E pulisci anche qui!» le disse.

    Sul pavimento c’era il sangue della bambina morta.

    «Non ti avevo detto di farla dormire sotto, quella bambina?»

    Yeşim era arrivata in quel collegio soltanto sei mesi prima. Alla vista del plesso, costruito in un’area di duemila metri quadri, era stata sul punto di tornare sui suoi passi. Quando aveva saputo che quattrocentotrenta bambine erano sotto la responsabilità di soli quattro insegnanti aveva addirittura sentito l’impulso di correre via. Se non avesse dovuto attendere almeno cinque anni per fare domanda di trasferimento, l’avrebbe fatto senz’altro.

    «Dico a te, mi stai ascoltando?» disse Yeşim.

    Ah, se solo la scuola in cui lavorava fosse stata una di quelle in cui si poteva dire: Chiamate le famiglie! Ma in quella scuola, in genere, i familiari degli studenti si presentavano imbracciando un AK-47 e domandavano Non ci occupiamo abbastanza bene di te, signora maestra?, facendo intendere che se ne sarebbero potuti occupare in un altro modo, se proprio ci teneva. In questa scuola non esistevano bambine pigre, indisciplinate, cattive o soltanto discole. Secondo i genitori, gli insegnanti non erano altro che spie, decise a fare il lavaggio del cervello ai loro figli. Insegnanti che si sentivano dire continuamente: Ecco! Sono venuti a strapparci i nostri figli! Per quella gente, le bambine erano tenute prigioniere in quel collegio perché i loro padri avevano imbracciato le armi contro lo Stato. Venivano torturate con l’insegnamento delle scienze sociali, della matematica e del turco, sottoposte ai più svariati abusi, dai compiti a casa agli esami scritti. Per quale motivo delle ragazze di quattordici anni, già in età da marito, dovevano avere a che fare con degli insegnanti di sesso maschile che, piuttosto, avrebbero potuto prenderle in sposa? E poi queste scuole non erano conformi ai dettami della fede. Ma c’è forse altra scelta? L’organizzazione non può mica occuparsi sempre di tutti! Se rimaneva solo lo Stato c’era poco da fare. Quelli gettavano le bambine tra le braccia di Yeşim, tenendole per la nuca, come si fa con i cani rabbiosi con cui le figlie giocavano davanti alle loro immacolate abitazioni di fango e letame. E lei le accoglieva a braccia aperte. Ma Yeşim, di punto in bianco, poteva anche afferrarti per le spalle.

    «Derdâ, rispondimi! Hai idea di cosa hai fatto?»

    Ma Derdâ era forse in grado di rispondere? Era rimasto qualcosa di lei? Quale parte del suo corpo aveva undici anni? Le gambe, le unghie, le guance scavate? Dov’era rimasta bambina? Nelle ciocche di capelli che sfuggivano perennemente dalle trecce, come vapore? Nei talloni che non sarebbero mai guariti?

    «Va bene, Derdâ, facciamo così. Adesso va’ in mensa a fare colazione. E lavati anche le mani e la faccia».

    La ventiseienne Yeşim era un’insegnante esattamente come Derdâ era una bambina. Tolse le mani dalle spalle gracili, ma, prima di lasciarla andare, fece un ultimo tentativo. Sollevò il viso della bambina tenendola per il mento. Pensava che forse, guardandola fissa negli occhi, avrebbe vuotato il sacco. Stettero lì a fissarsi, come una gatta domestica e una randagia, a un palmo di distanza l’una dall’altra. Yeşim fu sconfitta. Furono le labbra cucite di Derdâ a uscire vittoriose.

    «Ne parliamo dopo…»

    Mentre seguiva con lo sguardo la bambina che spariva dietro la porta, Yeşim tirò fuori un pacchetto di sigarette dal cassetto superiore della scrivania. Ne prese una e l’accese con la fiamma dell’accendino. Il suo viso fu avvolto dal fumo soffiato via dalla bocca. Gli occhi le lacrimarono un po’. Alla prima boccata le venne in mente di fuggire. Valutò di uscire dall’edificio scolastico, di attraversare il giardino, di oltrepassare il cancello di ferro e correre verso il villaggio per salire sul primo minibus per la città. Andasse a farsi fottere quel dannato posto! Un paio di boccate dopo, ritornò sulla sua decisione. Schiacciò la sigaretta nel portacenere. Credeva fosse spenta, ma non era così. Due fili di tabacco continuavano a bruciare. Provò di nuovo. E poi ancora. Si annerì la punta delle dita, la cenere si insinuò sotto le unghie, ma la sigaretta non si spense. Lasciò perdere. Chiuse gli occhi e cominciò ad aspettare. Qualsiasi cosa, un terremoto, un incendio, una valanga, una catastrofe qualunque. Qualcosa che potesse mettere un punto a tutto, come una penna divina. Aspettò. E accadde ciò che attendeva.

    La porta sgangherata della stanza si spalancò senza che nessuno bussasse. Era il vicepreside dell’istituto, Nezih. Si sporse con la testa e osservò attraverso le lenti degli occhiali la giovane insegnante che sedeva a occhi chiusi sulla poltrona durante l’orario di lavoro.

    «Yeşim hanım,¹ le sembra il caso di dormire?»

    Yeşim aprì gli occhi.

    «La famiglia della bambina deceduta non potrà venire» continuò il vicepreside. «La strada dal villaggio è chiusa. Per ora la metteremo nel congelatore per la carne, in cucina, almeno fino all’arrivo dei gendarmi. Forza, adesso vada anche lei in mensa. Non è il caso che le bambine restino sole».

    Anche se non somigliava a nessuna delle catastrofi che Yeşim attendeva, la notizia di un cadavere conservato nel congelatore fu abbastanza tetra. Sentì tutto il petto contrarsi, mentre lo stomaco e le viscere le si torcevano come se fossero divenuti duri come pietre. Il corpo era pesante quasi avesse ingoiato una statua. Era sicura che Nezih, che continuava a osservarla, avrebbe insistito. E infatti andò proprio così.

    «Yeşim hanım, qui nessuno ha il tempo di aspettarla. Forza!»

    Il mozzicone nel portacenere continuava a bruciare. Yeşim era assorta a contemplare, con lo sguardo al soffitto, il fumo che man mano si disperdeva. Fece un ultimo pensiero. Allora è così che le persone impazziscono si disse, e poi non pensò più. Afferrò il portacenere e lo scagliò con forza contro Nezih. Lo mancò. Colpì la porta, mentre il vicepreside occhialuto fuggiva verso il corridoio. Con la mano ormai libera, Yeşim prese una pesante spillatrice che seguì la stessa traiettoria. Poi fu la volta di un portapenne, un quaderno e un libro di cinquecento pagine. Infine, lanciò per aria le prove d’esame. Si sparsero per la stanza svolazzando come uno stormo di uccelli selvatici che cadevano urtandosi l’un l’altro. Da uno spiraglio della porta giungeva la voce di Nezih: «Yeşim hanım! Ragazza mia! Yeşim! Collega!»

    La voce del vicepreside rimbombava in tutta la stanza, ma Yeşim non ascoltava. D’un tratto i suoi occhi furono catturati da un set da scrivania che le aveva regalato sua madre: una stilografica, una biro e un tagliacarte. Con uno scatto fulmineo afferrò quest’ultimo per il manico e, dopo averlo levato su di sé, lo affondò con forza conficcandoselo in quello stomaco che sembrava divenuto pietra. Se fosse morta, i problemi sarebbero finiti. Sfortunatamente restò in vita.

    ¹ Letteralmente ‘signora’, utilizzato per rivolgersi in modo formale a una donna. [N.d.T.]

    La scuola, che era stata, nello stesso giorno, scenario di una morte e di un tentato suicidio, stava accogliendo i suoi ospiti in divisa. I gendarmi cercavano di scherzare con le bambine, ma i loro visi non sorridevano. Il preside della scuola dava segno di ascoltare ma, in realtà, non sentiva nulla. Nezih si massaggiava meticolosamente le tempie con i polpastrelli, ma in verità non aveva mal di testa. Derdâ masticava un boccone, ma non lo ingoiava. Quanto a Yeşim, coricata nell’unica branda dell’infermeria, non aveva altro desiderio che la morte. Eppure continuava a vivere.

    Erano state prese decisioni. Tutto era stato predisposto. I gendarmi avrebbero trasferito Yeşim in città insieme al cadavere della bambina. In ospedale avrebbero potuto valutare meglio le sue condizioni. L’accaduto era senza precedenti. Era come se il centro di gravità della scuola si spostasse ogni volta che le bambine erano lasciate incustodite. Oscillava a destra e a manca come una barca raggiunta da un’onda improvvisa ma, nel cortile della scuola, Derdâ era l’unica ad avere la nausea. Gli altri non avevano nessun problema di equilibrio. Per questo, fu soltanto Derdâ a stramazzare al suolo, come se fosse caduta in mare. Non affogò perché la girarono immediatamente a pancia in giù, di modo che non inghiottisse la lingua. In realtà in quella posizione non sembrava nemmeno svenuta, ma semplicemente sdraiata.

    Quando si svegliò, Derdâ percepì il profumo di Yeşim. Sollevò il capo cercando l’insegnante con lo sguardo, ma l’infermeria era deserta. Non riuscendo a reggere il peso della testa si lasciò cadere sul cuscino. L’impatto dei capelli che le separavano la nuca dal cuscino non produsse alcun rumore. E se anche ciò fosse avvenuto, Derdâ non avrebbe potuto udirlo perché aveva iniziato a piangere.

    Nello stesso giorno aveva provocato una morte e un tentato suicidio. Per quanto si sforzasse di tenere gli occhi chiusi per il rimorso, continuava a vedere Yeşim e la bambina di Yatırca. Forse Derdâ non aveva un rene in più, ma aveva una doppia coscienza e un doppio rimorso. Forse poteva passare alla storia medica come la prima persona con una doppia coscienza, ma quello che era successo era stato un po’ troppo per il suo piccolo corpo. Per questo non riusciva ad alzarsi dalla branda. Mi sbatteranno in prigione… continuava a dire dentro di sé. I gendarmi scopriranno tutto e poi mi metteranno in prigione!

    In realtà Derdâ, più che la gendarmeria, doveva temere un’altra istituzione. Una di gran lunga più antica: la famiglia. O quantomeno una parte di essa: sua madre. Non aveva un padre. Era andato via, a Istanbul, dodici anni prima. Esattamente quattro giorni dopo aver messo incinta la madre. Non era più tornato. Però fu corretto e non gli si poté rimproverare di aver lasciato la moglie da sola poiché era incinta. Si erano sposati dinnanzi a Dio, un imam e due testimoni. Ma quando tutti la abbandonarono, alla donna restò soltanto Dio. Perfino Lui però sarebbe accorso in suo aiuto soltanto alla fine della sua vita. Questo perché, durante tutta la sua esistenza, la sua unica preghiera era stata: Dio, salvami! Prendi la mia vita! La grazia che chiedeva sarebbe stata accolta e Dio l’avrebbe ascoltata, naturalmente, ma la donna non aveva pazienza. Anche per questo motivo, non avrebbe aspettato che a Derdâ crescessero i seni per venderla. Non poteva più aspettare. Aveva già atteso undici lunghi anni. I primi due li aveva passati presso la famiglia del marito assente, sentendosi rivolgere ogni sorta di insulto per non aver partorito un maschio. Quelli restanti li aveva trascorsi facendo le pulizie nel dormitorio riservato agli insegnanti della cittadina in cui era fuggita con la figlia. Era stanca di umiliarsi. Non aveva più neanche un secondo da perdere. Era stanca di piegarsi in due per trascinare continuamente due secchi su e giù per i tre piani dell’edificio. Era stufa di consumarsi le ginocchia per stare china a strofinare il pavimento, e non sopportava più la candeggina che le corrodeva la pelle delle mani. L’unica era tornare al villaggio, costruire una casa e comprare qualche animale. Dopotutto, la figlia non sembrava intenzionata a restare in quella scuola. Altrimenti perché sarebbe svenuta nel cortile? Perché mai il vicepreside l’avrebbe chiamata dicendole di venire a vedere come stesse la figlia? Quell’idiota che la gente chiama vicepreside, lo sapeva quanto costa il biglietto del minibus? Era lui a pulire i bagni degli insegnanti? Era lui a tossire per i vapori dell’acido muriatico? Avrebbe portato via la figlia da quella scuola e, se qualcuno avesse provato a impedirlo, l’avrebbe rapita. Di sicuro avrebbe trovato un modo e poi sarebbe andata al villaggio. In fin dei conti, era sempre una figlia della tribù. Anche se non aveva un soldo, aveva comunque Derdâ. I suoi parenti l’avrebbero aiutata a trovare un modo. Dopotutto, chi non desiderava una creatura innocente di undici anni? In cambio dei soldi per una casa e qualche animale, avrebbe dato via Derdâ. E la figlia si sarebbe sposata per il bene di sua madre. In fondo, era questo il dovere di una figlia…

    «Saniye abla!²»

    Lei distolse lo sguardo dal finestrino del minibus e si guardò intorno. Scacciò i pensieri in cui era assorta e diede il denaro all’autista. Giunta all’ingresso del collegio, pensò che il viaggio di ritorno lo avrebbe trascorso con Derdâ seduta sulle ginocchia perché non aveva abbastanza soldi anche per lei.

    «Yenge,³ tua figlia non sta bene. Non aver paura, non è niente di grave. Scusaci per averti fatto venire fin qui, ma ho pensato che le avrebbe fatto piacere vederti».

    A parlare era stato Nezih. Adesso toccava a Saniye. Toccava a lei parlare e mostrarsi felice.

    «Voglio portare con me la bambina, signor vicepreside. Una settimana di riposo al villaggio le farà bene. Poi la riaccompagnerò».

    I pensieri di Nezih erano tutti rivolti a Yeşim. Pensava che certe persone non riescono proprio ad abituarsi. Certe persone non riescono proprio ad ambientarsi in queste zone del paese. Ed era chiaro fin dall’inizio, lo sentiva. In quella ragazza c’era qualcosa di strano, sin da quando era arrivata. Comunque era pazza. Perché mai, altrimenti, avrebbe tentato di uccidersi?

    «Allora, vicepreside?»

    «Come?»

    «La bambina dico. Voglio portarla al villaggio per una settimana».

    «Al villaggio? Dove? A Yatırca? Ma non era chiusa, la strada?»

    «No. Noi dobbiamo andare a Kurudere».

    Nezih era giù di corda. Nemmeno rispose. La sua mente era concentrata su Yeşim. O meglio, sui suoi seni. Come quella notte, quando li aveva palpati. La notte in cui era entrato nella sua stanza e si era seduto sulla sedia accanto al letto. La stessa in cui le aveva tappato la bocca con una mano mentre con l’altra aveva iniziato a toccarla. Pensava a quando, fissandola negli occhi, le aveva sussurrato: Zitta! Se voglio ti faccio ammazzare. Non troveranno neanche il tuo cadavere! La notte in cui Yeşim aveva continuato a tremare, raggelata dalla paura. Nezih pensava a quando aveva lasciato quella stanza buia, dopo esserle venuto sul viso e averle detto: Tranquilla, non ti scoperò. Ma ormai Yeşim era andata. Chi avrebbe toccato adesso? Chi altri sarebbe andata da brava a lavarsi la faccia e avrebbe continuato a comportarsi come se niente fosse? Chi poteva avere paura come Yeşim? Quelle dell’ultimo anno? O magari quelle più piccole? Poi, vide Nazenin passargli accanto. Nazenin e i suoi capelli biondi. Perché no pensò. E si sentì sollevato.

    «Va bene, va bene. Prendi la bambina e vai. Mi raccomando però, non più di una settimana».

    «Dio vi benedica, signore».

    Nezih non amava che gli baciassero le mani, così impedì a Saniye di chinarsi prendendola per le spalle. Pensò che fosse una bella donna. Se solo non avesse emanato quella puzza di candeggina!

    ² Letteralmente ‘sorella maggiore’. Utilizzato spesso per rivolgersi a una donna in modo colloquiale ma rispettoso. [N.d.T.]

    ³ Letteralmente ‘cognata’. Sull’uso si veda la nota 2. [N.d.T.]

    Derdâ non riusciva a capire. Chiese di nuovo.

    «Una settimana?»

    Saniye, intenta a sistemare in due borse la roba tirata fuori dall’armadietto del dormitorio, levò lo sguardo su Derdâ.

    «Il vicepreside ci ha dato il permesso per una settimana».

    «Ma devo fare i compiti».

    Saniye la fissò dritta negli occhi.

    «Li puoi recuperare quando torni».

    «Allora torno tra sette giorni, giusto?»

    Saniye le lanciò uno sguardo.

    «Certo, bimba mia» disse. «Che abbiamo da fare al villaggio? E poi anch’io ho preso solo una settimana di permesso».

    Meglio che essere arrestata pensò Derdâ. Sempre meglio che essere portata via dai gendarmi. D’improvviso si ricordò dei libri di scuola, non era ancora riuscita a capire bene le frazioni. Almeno al villaggio avrebbe avuto tanto tempo per studiare.

    «Aspetta, fammi andare a prendere i libri in classe».

    Stavolta Saniye restò in silenzio, senza neanche guardarla in faccia. Diede solo un’occhiata alla lunga treccia che, a ogni passo della bambina, ondeggiava come una coda di cavallo. Impazziranno per lei disse tra sé. Un sorriso le apparve sul volto.

    La classe era vuota. Derdâ cominciò a tirare fuori dal suo banco i libri e i quaderni. Li sistemò con estrema cura nello zaino. Odiava le pagine stropicciate. Poi, quando fu la volta del libro di matematica, entrò Nazenin.

    «Dove vai?»

    «È venuta mia madre, andiamo al villaggio» rispose Derdâ. Come tutte le volte che restava sola con Nazenin, agì in fretta e mise il libro nella borsa senza preoccuparsi di stropicciarlo. Non doveva consentire alla paura, che le faceva corrugare la fronte, di esplodere e diffondersi per tutto il corpo.

    «Quando torni?»

    «Tra una settimana».

    C’era qualcosa di strano in Nazenin. Anche la sua voce non aveva l’aggressività di sempre. Di solito, le sue parole erano come pugni, così violente da rendere superfluo l’uso delle mani. Adesso invece stava lì a guardarla, in silenzio. Derdâ cercava di chiudere la cerniera della borsa e lei stava lì a fissarla. Nazenin aveva quindici anni. In qualsiasi altro posto sarebbero valsi per venticinque.

    «Ma tornerai, non è vero?» chiese.

    Derdâ non sapeva che dire davanti a questo improvviso interesse di Nazenin nei suoi confronti. Non aveva ancora imparato a parlare senza alcun timore.

    «Certo che ritorno. L’ha detto anche mia madre. Tra una settimana sarò qui».

    Derdâ si mise in spalla lo zaino e mosse un primo passo, ma Nazenin si mise sul suo cammino a distanza di schiaffo. Nazenin era più alta di Derdâ della misura di un libro spesso, ma lei colmò la differenza allungando il collo quanto più possibile. Per qualche battito dei loro cuori, Derdâ e Nazenin si guardarono negli occhi, e quest’ultima rivide tutte le ragazze che, come Derdâ, erano andate via. Nessuna di loro aveva fatto ritorno. Nessuna sapeva che non sarebbe tornata mai più. Quando fosse stato il momento, anche lei sarebbe andata via. Sarebbe andata via con lo zio e avrebbe abbandonato per sempre la scuola. Sarebbe andata via. Per sempre. Nazenin si fece da parte e Derdâ riprese

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