Processo dei consoli romani (210 a.C.)
Il processo dei consoli si riferisce ad una determinata seduta del Senato romano, avvenuta negli anni della Roma repubblicana (anno 210 a.C.) e riportata nelle testimonianze di Tito Livio, durante la quale ambasciatori provenienti da Siracusa, da Capua e dall'Etolia sostennero un processo accusando i loro conquistatori o alleati, ovvero i consoli Marco Claudio Marcello, Quinto Fulvio Flacco e Marco Valerio Levino.
Dalla difesa dei magistrati romani:
«Quanto ai Siracusani, avendoli soccorsi, oppressi com'erano da tiranni stranieri, cosa ancora più indegna, ed essendoci affaticati quasi per tre anni a combattere quella città fortissima, preferendo poscia gli stessi Siracusani di servire piuttosto ai tiranni, ch'essere presi da noi, com'ebbimo presa e liberata Siracusa, la rendemmo loro. Né vogliam negare, che la Sicilia è provincia nostra... anzi al contrario vogliamo, che voi, e tutti i popoli sappian questo...
Ci pentiremo forse del castigo dato ai Campani, del quale non si possono dolere essi medesimi? Costoro... ebbimo stretti a noi prima con alleanza, poi coi matrimoni, e quindi colle parentele, infine col dono della cittadinanza, primi di tutti i popoli d'Italia... si diedero ad Annibale; indi sdegnati, che gli assediassimo, mandarono Annibale a combattere a Roma. Di costoro se né la città, né un uomo solo fosse rimasto, chi potrebbe rimproverarci, che gli avessimo trattati più duramente che non si abbiano meritato?...
Quanto a voi, o Etoli, noi abbiam presa per difendervi la guerra contro Filippo; voi fatta avete la pace con lui senza di noi. E forse direte, che mentre eravamo occupati nella guerra Cartaginese, costretti dal timore, avete accettate le condizioni della pace da colui, il quale era allora il più potente; e così anche noi, pressati da cure maggiori, abbiamo abbandonata la guerra, che avevate lasciata...»
Inoltre, durante quella seduta senatoria, vennero sorteggiate le provincie in mano a Roma e la sorte venne cambiata da un accordo tra i due consoli vigenti, Marcello e Levino, che di comune accordo, proprio a causa del diverbio con gli ambasciatori della Sicilia, si scambiarono i ruoli, ovvero Levino rinunciò all'amministrazione dell'Italia e quindi alla guerra con Annibale, mentre Marcello, rinunciò alla Trinacria e si preparò ad affrontare colui che si rivelerà essere il suo mortal nemico, il cartaginese Annibale. E dopo che il processo in aula finì, i consoli dovettero rispondere anche alle proteste popolari scoppiate nell'urbe a causa delle ristrettezze economiche dovute al contesto bellico intrapreso da Roma.[1]
Antefatti
modificaLe conquiste di Siracusa e Capua
modificaQueste due città nell'anno 210 a.C. erano da poco state conquistate; Siracusa tra il 211 e il 210 a.C., a seguito del noto assedio del 212 nel quale perse la vita anche il genio matematico Archimede,[2] mentre Capua venne conquistata nel 211 a.C. dopo che Annibale vi tolse la sua postazione e i Romani riuscirono ad entrare e conquistarla.[3] Entrambe queste città erano di importanza strategica per Roma, poiché Siracusa era stata fino a quel momento potenza commerciale e militare di primario rilievo, approdo ottimo, se non fondamentale, per assicurarsi il controllo sulle sponde del Mediterraneo. Capua anch'essa era considerata di primaria importanza data la vicinanza con il confine dell'urbe romana e il legame di parentela tra campani e latini che facevano di Capua una postazione da difendere per tutelare la serenità della capitale, Cicerone nelle sue orazioni arrivò a definirla "la seconda Roma".
Dopo le relative conquiste vi fu grande malcontento tra le popolazioni conquistate, tanto più che si trattava di città abituate da secoli ad avere la propria autonomia, indipendenza e potere. Fu l'inaspettato e nuovo stato di povertà e sottomissione che spinse i popoli conquistati a chiedere giustizia a Roma. E la notorietà di quei due nomi è testimoniata dalle parole riportate da Tito Livio, il quale nella sua storia romana narra:
«Accerchiato da questa moltitudine, entrò in Roma... seco menandovi coloro, che vinti in guerra venivano ad accusare riputatissimi capitani per l'eccidio di nobilissime città.»
Siracusa doveva accusare Marco Claudio Marcello, colpevole, secondo l'accusa, di aver spogliato la città di tutti i suoi preziosi e aver ridotto la popolazione alla povertà. Capua invece accusava i consoli romani, prima Gneo Fulvio Centumalo Massimo e in seguito Quinto Fulvio Flacco, di aver compiuto eccidi sui suoi esponenti politici e di costringere la popolazione nella più crudele condizione sociale.
L'arrivo a Roma e l'inizio del processo
modificaRoma nominò consoli per l'anno 210 a.C., Marco Claudio Marcello e Marco Valerio Levino. Levino ne ebbe notizia quando ancora si trovava in Etolia e stava combattendo con i suoi soldati la guerra intrapresa contro Filippo V, re di Macedonia. La lettera lo informava della sua nomina al consolato e lo invitava quindi a lasciare stare la guerra in corso poiché il suo posto in battaglia sarebbe stato preso da Publio Sulpicio Galba Massimo. Levino dunque si accingeva a lasciare la Grecia e ritornare a casa, sennonché si ammalò e dovette rinviare di molto tempo il suo ritorno.[4]
Nel frattempo Marco Claudio Marcello convocò il Senato solo per dire che in assenza del suo collega, egli non avrebbe discusso né dei fatti di Roma, né di quelli delle province romane. Ma, poiché sapeva che i suoi nemici stavano tramando contro di lui, volle precisare che se anche i siciliani fossero venuti a chiedere udienza al Senato di Roma, questo li avrebbe accolti solamente al ritorno di Marco Valerio Levino.[5]
Il censore Marco Cornelio Cetego, nel tempo in cui Roma aspettava il ritorno del console Levino, approfittò di questa calma per spedire alle influenti famiglie romane e al popolo lettere false nelle quali si accusava il prolungarsi della guerra in Sicilia e il cattivo operato del console Marco Claudio Marcello, invitando i più a ribellarsi a questa nuova situazione politica.[6]
Effettivamente il popolo romano non era molto contento della scelta fatta dal Senato riguardo ai consoli; egli riteneva che fossero stati dati incarichi troppo grandi a due generali votati più alla guerra che al fabbisogno civile popolare:
«L'ozio, simmoce avviene, suscitò i rumori della plebe; dolevansi, che per la lunghezza della guerra fossero devastate le campagne per tutto nelle vicinanze di Roma, dov'era passato Annibale ostilmente; che l'Italia fosse votata d'uomini per le leve; che quasi ogni anno si udissero eserciti disfatti; e che si fossero eletti due consoli, ambedue bellicosi, ambedue caldi troppo, e feroci, i quali, non che lasciar la città respirare alquanto in tempo di guerra, la guerra suscitar potrebbero anche in mezzo a pace tranquilla.»
Annibale in Italia, la seconda guerra punica in corso e le recenti conquiste, avevano dunque messo in agitazione il popolo romano che sembrava protendere più a favore delle lettere di Cetego che non avere fiducia nel Senato.
Finalmente il console Marco Valerio Levino tornò in Italia e passando per Capua si ritrovò accerchiato da una moltitudine di capuani i quali, disperati, lo supplicavano di condurli con lui a Roma poiché avevano saputo che dei siciliani sarebbero stati ricevuti dai senatori per lamentarsi delle relative ingiustizie subite, allora essi volevano fare lo stesso e denunciare il cattivo comportamento tenuto dai consoli precedenti e dagli attuali amministratori, nella persona di Quinto Fulvio Flacco, che opprimevano la città da poco conquistata:
«Il console Levino, passando per Capua, fu attorniato da una moltitudine di Capuani, che lo scongiuravano colle lacrime agli occhi, che permettesse loro di andare a Roma al senato a pregarlo... che non volesse consumare la loro rovina, né lasciasse, che Quinto Flacco spegnesse affatto il nome Campano.»
La risposta di Flacco fu la seguente:
«Flacco rispose, non aver egli nimisità privata nessuna coi Campani; era nimicizia pubblica, ed ostile, e sempre la manterrebbe, sino a tanto che sapesse nodrir essi l'animo stesso verso il popolo Romano. Perciocché non v'ha nazione al mondo, non popolo più avverso al nome di Roma»
Livio poi ci parla di come fosse tenuta la città di Capua sotto l'amministrazione dell'ex console Quinto Fulvio Flacco:
«Li teneva egli chiusi dentro le mura, perché se alcuno ne scampasse fuori per qualche via, andrebbero vagando, quai fere belve, per le campagne, straziando, trucidando tutto quello, in che si abbattessero. Altri eran fuggiti ad Annibale, altri andati a metter fuoco a Roma. Troverebbe il console nella piazza mezzo abbruciata i vestigi della scelleratezza de' Campani... sì che egli non reputava cosa sicura permettere ai Capuani, ch'entrassero in Roma.»
L'incendio al quale faceva riferimento Flacco era effettivamente avvenuto quella notte a causa di nobili campani che, dando la colpa a un loro schiavo, avevano incendiato le campagne di Roma e le fiamme, prima di essere spente, avevano quasi del tutto bruciato il tempio di Vesta, salvato infine da schiavi rimessi in libertà. I campani colpevoli dell'incendio doloso vennero uccisi dopo un processo in pubblica piazza.[7] I sospetti dunque gravavano sulla città di Capua in quanto ribelle. Ma il console Levino riuscì a convincere Flacco a permettere a degli ambasciatori di Capua di partecipare al processo che da lì a poco si sarebbe svolto in Roma e durante il quale si sarebbero anche stabilite le sorti della città di Capua, a patto però che i capuani promettessero di ritornare, qualunque fosse l'esito del processo, nella loro città dopo cinque giorni, altrimenti, Flacco avrebbe ucciso come punizione dei loro concittadini presi a caso. I capuani promisero e seguirono così Levino a Roma.[8]
Levino entrò a Roma accompagnato dai Capuani e dagli Etoli, anch'essi desiderosi di giustizia per i fatti riguardanti la loro nazione di Grecia in rivalità con i Romani. Entrarono in Senato, i Siciliani si ritrovarono di fronte il console Marco Claudio Marcello. Essendo tutti presenti i magistrati romani diedero inizio alla seduta senatoriale.
Lo scambio delle province
modificaAll'ordine del giorno non vi fu subito il processo ai consoli da parte dei popoli vinti, piuttosto si discusse dell'andamento della guerra nell'Egeo, Marco Valerio Levino infatti espose in che stato egli aveva lasciato la Macedonia, la Grecia, l'Arcadia, la Locride e l'Etolia, elencando ciò che le sue legioni avevano fatto per mare e per terra, dicendosi soddisfatto di essere riuscito a tenere il re Filippo lontano dall'Italia, altro non disse sulla provincia che aveva precedentemente governato.[9]
Poi fu il turno di stabilire chi dovesse governare e guidare le conquiste che Roma aveva fatto. I Padri coscritti, ovvero i senatori, stabilirono che:
«l'Italia, e la guerra con Annibale fosse dell'uno dei consoli; l'altro avesse la flotta, ch'era stata sotto gli ordini di Tito Otacilio Crasso, e insieme il governo della Sicilia col pretore Lucio Cincio Alimento. Si assegnaron loro i due eserciti ch'erano nell'Etruria, e nella Gallia, composti da quattro legioni»
Prima di procedere con il sorteggio che avrebbe stabilito a quale dei due consoli sarebbe spettata la guerra contro Annibale, i senatori stabilirono anche i vari compiti amministrativi, tra i quali ci fu l'assegnazione del governo di Capua a Quinto Fulvio Flacco per un anno intero. Si diminuì l'esercito dell'urbe di Roma e quello dei suoi Alleati. Al pretore della Sicilia si ordinò di licenziare tutto l'esercito di terra che era stato di Marco Cornelio Cetego e di tenere solo quello di mare, sostituito poi dall'esercito di Canne diviso in due legioni. Infine dopo altri decreti riguardanti le province di Puglia, Sardegna e l'esercito romano, venne fatto il tanto atteso sorteggio tra i due consoli per dividersi l'uno l'Italia e l'altro la Sicilia.[10]
La sorte decretò che Marco Valerio Levino tenesse il consolato dell'Italia e quindi che affrontasse Annibale, ancora sul suolo italiano pronto a dar battaglia con l'esercito di Cartagine. A Marco Claudio Marcello la sorte riservò invece la Sicilia con la flotta romana, ma delle grida provenienti dagli spalti bloccarono la procedura in atto.[11]
I siciliani infatti, che erano seduti di fronte ai consoli, non appena capirono che Marcello sarebbe ritornato in Sicilia iniziarono a lamentarsi attirando su di essi gli occhi di tutti i presenti. Iniziarono a circondare il Senato dicendo a gran voce che assegnare la Sicilia a Marcello significava come permettergli di prendere Siracusa due volte:
«...adfirmantes, se non modo suam quisque patriam, sed totam Siciliam, relicturos, si eo Marcellus iterum cum imperio redisset. Nullo suo merito eum ante inplacabilem in se fuisse: quid iratum, quod Roman de se questum venisse Siculos sciat, facturum? Obrui Aetnae ignibus, aut mergi freto, satius illi insulae esse, quam velut dedi noxae inimico.»
«[Dissero] che lascerebbero non solamente ciascuno la patria sua, ma tutti eziandio la Sicilia, se ci tornasse nuovamente Marcello a comandare. Senza, che il meritassero, egli era stato dianzi loro implacabile nemico; che farebbe ora sdegnato, poi che sa, che son venuti a Roma i Siciliani per querelarsi di lui? Meglio per quell'isola che i fuochi dell'Etna la divorino, o che il mare la inghiotta, piuttosto che essere consegnata, quasi a carnefice, al suo nemico.»
Le parole forti dei Siciliani indussero il Senato a discussione e questi discorsi già fatti precedentemente alle nobili famiglie romane e l'invidia che molti influenti romani avevano verso Marcello, fecero in modo che l'assegnazione delle provincie venisse ridiscussa, ma a quel punto fu Marcello che prese la parola:
«Perché nessuno possa dire, che il timore li ritiene dal querelarsi liberamente di colui, sotto il potere del quale stanno per cadere, esser egli pronto, se nulla importa al collega, a scambiar la provincia.
Perciocché, se sarebbe stata ingiusta cosa concedere al suo collega, fuor della sorte, la scelta della provincia, quanto non sarebbe maggiore ingiuria, anzi oltraggio, la sorte, ch'era toccata a lui, trasferirla nel collega?»
Il console Levino non ha nulla in contrario e quindi avviene lo scambio delle province.
«...inter ipsos consules permutatio provinciarum, rapiente fato Marcellum ad Hannibalem, facta est: ut, ex quo primus adversae pugnae gloriam ceperat, in ejus laudem postremus Romanorum imperatorum, prosperis tum maxime bellicis rebus, caderet.»
«Si fa tra i consoli lo scambio delle provincie, la forza del destino tirando Marcello verso Annibale, cosicché, siccome, nella fortuna avversa della guerra, primo egli si aveva acquistata gloria vincendolo, così nel mezzo delle belliche prosperità, ultimo dei comandanti Romani a di lui lode cadesse.»
Il processo e il verdetto per i siciliani
modificaDopo l'assegnazione delle province si passò a esaminare la causa della presa di Siracusa e le relative querele che il popolo siciliano additava contro il console Marcello. I siracusani iniziarono a dire e a svelare particolari di come si fosse giunti alla guerra intrapresa contro Roma. Dissero che non la città ma i suoi tiranni volevano essere ostili ai romani, si menzionò l'uccisione del re Jeronimo, dicendo che l'ultimo sovrano siracusano, ancora sedicenne, era stato ucciso per volere della nobiltà siracusana, filo-romana che aveva decretato l'assassinio del re come se fosse affare di pubblico consiglio, allo stesso modo dissero che settanta giovani nobili aretusei, durante l'assedio di Roma, avevano deciso di aiutare Marcello ad entrare nella polis, mettendosi quindi contro i propri comandanti e i tiranni siracusano-cartaginesi, Ippocrate ed Epicide, ma che a causa dell'indugiare del generale romano vennero scoperti e tutti e settanta furono condannati a morte dai tiranni.[12] Inoltre ricordarono al console Claudio Marcello il barbaro saccheggio che egli aveva compiuto a danno dei Leontinesi, alleati dei siracusani, e ciò nonostante Marcello non poteva dire di non aver trovato ancora siracusani disponibili al dialogo, pur consapevoli delle colpe dei loro ex-alleati romani.[13]
Infine rimproveravano al console il fatto di aver voluto prendere la città per mano dello spagnolo Merico e del siracusano Soside, due soldati che tradendo l'esercito aretuseo avevano aperto le porte ai romani e in seguito vennero da Roma ricompensati con oro e terre. Per l'accusa dei siracusani, Marcello si era così comportato in modo da poter dire che la città non si era voluta dare spontaneamente e che quindi egli aveva il diritto di saccheggiarla e impadronirsene con la forza e con la violenza.[14]
«Si non Hieronymus ad Hannibalem deficisset, sed populus Syracusanus et senatus, si portas Marcello Syracusani pubblice, et non, obpressis Syracusanis , tyranni eorum Hippocrates et Epicydes, clausissent, si Karthaginiensium animis bellum cum populo Romano gessissent; quid ultra, quam quod facerit, nisi ut deleret Syracusas, facere hostiliter Marcellum potuisse?»
«Se non Jeronimo, ma il popolo ed il senato Siracusano si fossero dati ad Annibale; se i Siracusani avessero pubblicamente chiuse le porte a Marcello, e non i loro tiranni, ed oppressori, Ippocrate, ed Epicide; se avessero fatta la guerra al popolo Romano coll'accanimento dei Cartaginesi, che avrebbe potuto fare Marcello più ostilmente di quel che fece, fuorché smantellar del tutto Siracusa?»
I Siracusani aggiunsero inoltre che come atto di giustizia venisse loro concesso di riprendersi tutti i beni che il console Marcello e i soldati romani avevano trasferito da Siracusa a Roma, ciò che egli riusciva a riconoscere doveva essere riportato in patria.[15]
A questo punto il console Marco Valerio Levino, una volta terminato il discorso dei siciliani, disse loro di abbandonare l'aula e aspettare il verdetto fuori dal Senato romano.[16] Ma Marco Claudio Marcello lo interruppe, dicendo che voleva che i siracusani rimanessero dentro l'aula mentre egli parlava e che ascoltassero di presenza ciò che lui stava per dire ai senatori:
«... Maneant immo, inquit Marcellus, ut coram his respondeam, quando ea conditione pro vobis, Patres conscripti, bella gerimus, ut victos armis accusatores habeamus. Duae captae hoc anno urbes Capua Fulvium reum, Marcellum Syracusae habeant.»
«... anzi restino, disse Marcello, così che io risponda in loro presenza, poiché a tal patto noi facciamo la guerra per voi, Padri Coscritti, dove coloro che furono vinti siano i nostri accusatori, e due città prese in quest'anno si levino accusatrici, Capua contro Fulvio, e Siracusa contro Marcello.»
Disse Marcello, ricordando all'aula che non era cosa consueta né ordinaria che dei popoli appena vinti venissero a reclamare davanti ai senatori dell'urbe. Rimasto dentro il Senato ascoltarono quindi la risposta del console Claudio Marcello, che fu la seguente:
«Non adeo majestatis, inquit, populi Romani imperiique hujus oblitus sum, Patres conscripti, ut, si de meo crimine ambigeretur, consul dicturus caussam, accusantibus Graecis, fuerim. sed non, quid ego fecerim, in disquisitionem venit, quam quid isti pati debuerint. qui si non fuerunt hostes, nihil interest, nunc, an vivo Hierone, Syracusas violeverim. Sin autem desciverunt, legatos nostros ferro atque armis petierunt, urbem ac moenia clauserunt, exercituque Karthaginiensium adversus non tutati sunt; quis passos esse hostilia, quum fecerint, indignatur?»
«O Padri coscritti non sono dimentico a tal modo della maestà del popolo Romano, e di questa mia dignità, che se si dubitasse di mia condotta, avessi console accusato da Greci, a difendere la mia causa. Ma non si tratta di esaminare quello, che ho fatto, bensì piuttosto ciò che meritavan costoro di soffrire; i quali, se non ci furono nemici, non fa differenza, che io abbia mal concia Siracusa adesso, o pure vivente Jerone. Se poi si ribellarono, se si fecero addosso ai nostri legati con le armi e col ferro, se ci han chiusa la città e le mura, e con l'esercito dei Cartaginesi le han difese contro di noi, chi vorrà sdegnarsi, che abbiano sofferto tratti ostili, quando essi stessi ne hanno commesso?»
Per quanto riguarda poi l'accusa che i siracusani gli facevano sull'aver preferito i traditori dell'esercito piuttosto che i capi di Siracusa, egli disse:
«Tradentes urbem principes Syracusanorum aversatus sum: Sosim et Mericum Hispanum, quibus tantum crederem, potiores habui. Non estus extremi Syracusanorum, quippe qui aliis humilitatem objiciatis. Quis est vestrûm, qui se mihi portas aperturum, qui armatos milites meos in urbem accepturum promiserit? Odistis et axsecramini eos, qui facerunt, et ne hic quidem contumeliis in eos dicendis parcitis: tantum obest, ut et ipsi tale quidquam facturi fueritis.»
«Ho rigettato i capi dei Siracusani, che mi volean consegnare la città; ho preferito Soside e Merico Spagnolo, a questi soli prestando fede. Ditemi, o Siracusani, chi è di voi che mi abbia promesso d'aprirmi le porte, di ricevere i miei soldati con le armi in città? Odiaste, ed odiate tuttora, ciò che fecero, e non vi astenete nemmeno qui di caricarli d'ingiurie, e potrete dire che avreste fatto voi lo stesso?»
Il console parlava a ragion veduta, dal momento che di fatto Siracusa decise quasi all'unanimità di dichiarare guerra a Roma, avendo intuito che mai l'Urbe avrebbe lasciato la polis siceliota libera all'interno di confini indipendenti; da troppo tempo, infatti, Siracusa era stata abituata a combattere e sottomettere le poleis circostanti, per poter accettare tacitamente di sottostare al potere romano. Queste le ragioni di Marcello contro la pretesa degli ambasciatori siracusani che dicevano la loro città esser stata pronta e disposta ad accogliere i romani senza provare a difendersi.[17] Aggiunse ulteriormente il console:
«Et, antequam absiderem Syracusas nunc legatis mittendis, nunc ad conloquium eundo, tentavi pacem: et, postquam neque legatos violandi verecundia erat, nec mihi ipsi congresso ad portas cum principibus responsum dabatur, multis terra marique exhaustis laboribus, tandem vi atque armis Syracusas cepi.»
«Prima di assediare Siracusa ho tentato la pace e col mandare ambasciatori, e con l'andare in persona a conferire; ma poiché senza rossore si usò contro quelli la violenza e a me non si dava risposta, correndo mille pericoli per mare e per terra, ho preso finalmente Siracusa con la forza.»
Per finire Marcello disse che il popolo siracusano doveva prendersela con Annibale, con Cartagine, per la guerra intrapresa al loro fianco, ma mai potevano prenderla con il Senato di Roma che, a dire di Marcello, non aveva colpe della loro ostilità verso la potenza romana. Durante la sua difesa aggiunse che egli non rinnegava, né si pentiva, di aver spogliata Siracusa per adornare e rendere le vie di Roma degne di una capitale, ma non riteneva fosse assolutamente il caso di restituirle ai vinti siracusani. Invitava infine i senatori a pensare al bene della Repubblica romana piuttosto che alle pretese dei popoli conquistati.[18][19]
Il giudizio dei senatori
modificaDetto ciò, i senatori fecero uscire sia i consoli che gli ambasciatori e presero tra di loro un verdetto che, come era prevedibile, ragionando da popolo conquistatore, tendeva molto di più a dare ragione a Marco Claudio Marcello che non ai siracusani, suoi accusatori che, in questo caso, divenivano anche accusatori della Repubblica.[19] Ma in privato tra di loro ammisero:
«Tra codesto lottare dei tiranni, e del comandante Romano, posta nel mezzo, quasi premio del vincitore, la bellissima e nobilissima città, granaio un tempo, ed erario del popolo Romano, venne a perire; città, dalla cui magnificenza, e da cui doni in più tempo, e ultimamente in questa stessa punica guerra, era stata la repubblica soccorso. Se a noi tornasse Gerone dal regno di morte, con qual fronte gli si potrebbe mostrare Siracusa e Roma!
Con qual dolore vedrebbe il fedelissimo alleato del popolo Romano la sua città mezzo distrutta e spogliata, ed entrando in Roma, sul suo primo liminare e quasi sulla stessa porta, appese le preziose spoglie della sua cara patria!?»
A dire ciò fu il patrizio Tito Manlio Torquato, futuro console e dittatore, severo romano che prese saldamente le difese della Repubblica, nonostante questa aperta riflessione.[20] Infatti il giudizio finale dei senatori, la maggior parte di essi, decretò:
«Doversi tenere per fermo e rato quanto egli avesse fatto nel corso della guerra e dopo la vittoria; nel resto, che il Senato avrebbe a cuore le cose di Siracusa, e commetterebbe a Levino di tener bene quella città quanto più gli fosse possibile, adoperando in maniera comunque che mai la Repubblica romana dovesse in alcun modo ricevere dei danni per questo.»
I senatori, una volta decretato, si recarono al Campidoglio dove fecero rientrare Marcello, lì impegnato a passar in rassegna le leve militari. Vennero fatti rientrare i siciliani e i consoli nell'aula senatoria, in maniera che si potesse legger loro quanto dal Senato stabilito. Saputa la decisione romana gli ambasciatori Siracusani andarono verso Marcello chiedendogli clemenza e chiedendogli di perdonare le loro forti parole poiché vi erano stati indotti a questo processo contro di lui.[21] Anzi dissero al console che da quel momento in avanti il nome dei Marcelli a Siracusa sarebbe stato onorato e rispettato con una festa che avrebbe ricordato la sua denominazione la festa Marcellea[22] Il console, probabilmente appagato da questa nuova proposta, perdonò in singolar modo i Siracusani, permettendo loro di lasciare l'aula del Senato senza alcuna punizione, nonostante le pesanti accuse ricevute.[23]
Il processo e il verdetto per i capuani e gli etoli
modificaBen più complicato era invece il verdetto per la causa di Capua, poiché i campani si trovavano in quel momento in forte contrasto con il popolo romano, il quale si sentiva tradito da dei suoi stretti alleati italici con cittadinanza romana da molto tempo.
I Campani, in loro difesa, opponevano il fatto che erano desiderosi della propria libertà, come del resto i Siracusani e le altre città appena conquistate. Inoltre il modo severo con cui Roma li aveva trattati era per loro motivo di dispiacere e reclamo. Ai tempi dell'assedio dei romani un capuano difensore della propria città disse:
«Tanta aviditas supplicii expetendi, tanta sanguinis nostri hauriendi est sitis. Nec injuria forsitan. nos quoque idem fecissemus, si data fortuna asset. Itaque quando aliter Diis inmortalibus visum est, quum mortem ne recusare quidem debeam; cruciatus contumeliasque, quas sperat hostis, dum liber, dum mei potens sum, effugere morte, praterquam honesta, etiam leni, possum. Non videbo Ap. Claudium et Q. Fulvium, victoria insolenti subnisos, naque vinctus per urbem Romanam triumphi spectaculum trahar, ut deinde in carcerem aut ad palum deligatus, lacerato virgis tergo, cervicem securi Romanae subiciam; nec dirui incendique patriam videbo, nec rapi ad stuprum matres Campanas virginesque et ingenuos pueros»
«Tanto sono avidi di punirci, tanta sete hanno di succhiarci tutto il sangue nostro. Né forse a torto; avremmo fatto lo stesso, se la fortuna ce lo permetteva. Poiché pertanto piacque altrimenti agli dei immortali... posso, mentre son libero, mentre son padrone di me stesso, i tormenti fuggire, e gli obbrobri, che preserva il nemico, con una morte, non che onorata, dolce eziandio. Non vedrò Appio Claudio e Quinto Fulvio Flacco insolenti e arroganti per la loro vittoria, né sarò trascinato in catene attraverso la città di Roma come spettacolo del [loro] trionfo, per poi morire in un carcere oppure, legato ad un palo, con la schiena lacerata dalle vergate, porgere il collo alla scure romana. Non voglio vedere l'incendio e la distruzione della mia patria, né assisterò agli stupri delle madri, delle giovani o dei nobili fanciulli di Capua.»
Con altrettante parole dure proseguiva dicendo:
«Albam, unde ipsi oriundi erant, a fundamentis proruerunt, ne stirpis, ne memoria originum suarum exstaret: nedum eos Capuae parsuros credam, cui infestiores, quam Karthagini, sunt.»
«Diroccaron dai fondamenti Alba, don'erano usciti, perché non restasse memoria della stirpe ed origin loro; tanto son lungi dal credere, che risparmin Capua, contro cui sono più stizziti, che contro Cartagine stessa.»
La città di Alba, alla quale si riferiscono i capuani probabilmente è Alba Longa, definita culla delle origini romane e la cui posizione italiana non è mai stata identificata. Tito Livio la identifica presso il Monte Albano laziale, ma restano tutte ipotesi senza certezza. Poi il difensore capuano prosegue nel suo sentito e forte discorso. Alla fine l'esito dell'assedio capuano volse a favore dei romani. I politici capuani, considerati i colpevoli della rivolta italica, vennero accusati dai comandanti romani e condannati. Molti, per protesta, di avvelenarono ancor prima di cadere in mano romana,[24] altri invece furono cercati nei rispettivi rifugi in altre città e vennero lì uccisi per ordine dei comandanti romani, nonostante il Senato si fosse opposto a tale metodo.[25]
Tito Livio ci parla del pensiero e del discorso dei capuani in quei frangenti:
«Indi fu data udienza ai Campani, il cui discorso fu assai più commovente, la causa alquanto più difficile. Perciocché non potean negare di essersi meritati un castigo, né vi erano tiranni su cui far ricadere la colpa; ma si stimavano abbastanza puniti, essendo morti tanti senatori di veleno, tanti sotto la scure; pochi nobili avanzare, cui né la coscienza spinse ad aggravar la mano sopra di sé, né lo sdegno del vincitore privò di vita; pregar essi, ch'erano pur cittadini Romani, la più parte congiunti per antiche parentele, o per recenti coniugazioni, che si renda loro, ed à suoi la libertà, e insieme qualche parte dei loro beni.»
I senatori, ascoltate le ragioni dei capuani, li fecero uscire dall'aula e ragionarono tra di essi come fare per dare una risposta a Capua; si pensò di richiamare Quinto Fulvio Flacco, colui che in quel momento reggeva il governo di Capua poiché il console che l'aveva conquistata, Appio Claudio Pulcro, era morto dopo la presa della città. Ma non si voleva far venire a Roma Quinto Fulvio e lasciare così Capua scoperta, quindi si prese di buon grado la venuta in Senato di Marco Attilio Regolo, ex-console e veterano militare di Roma, Gaio Fulvio Flacco, fratello del governatore di Capua, e di Quinto Minucio Termo e Lucio Veturio Filone, entrambi importanti esponenti della Repubblica e testimoni della battaglia di Capua in quanto colleghi del console Appio Claudio Pulcro.[26]
Essendo dunque presenti adeguati esponenti romani per la faccenda di Capua, si diede avvio al processo senza richiamare dalla città in questione Quinto Fulvio Flacco. Come era successo prima tra Marco Claudio Marcello e i Siciliani, adesso in difesa di Roma parlò Marco Attilio Regolo, il quale disse:
«...presa Capua, mi sovviene d'essere intervenuto al consiglio dei consoli, quando si ricercò quale dei Campani avesse ben meritato della patria nostra; e non essersi trovate, che due donne, Vestia Oppia Atellana, abitante di Capua, e Faucula Cluvia, in addietro femmina di partito; quella aver fatti ogni dì sacrifici per la salute, e la vittoria del popolo Romano; questa aver portato di nascosto alimenti ai prigionieri bisognosi; di tutti gli altri Campani essere stato l'animo simile a quello dei Cartaginesi; ed aver Fulvio fatti percuoter di scure quelli, che avanzavano gli altri per dignità, piuttosto che per colpa. Non vedo, che il senato possa deliberare dei Campani, che son cittadini di Roma, senza che il popolo ne lo autorizzi; il che trovo essersi fatto dai nostri maggiori nel caso dei Satricani, che si erano ribellati, avendo prima il tribuno della plebe Marco Antistio provato, che potesse il senato dare il suo giudizio nell'affare dei Satricani. Sono dunque di avviso, che si debba trattare coi tribuni della plebe... così ch'essi propongano una legge, per cui ci sia data facoltà di statuire sul fatto dei Campani»
La situazione dei Campani era quindi ben differente da quella dei siciliani, poiché essi erano cittadini romani, quindi i consoli, né i senatori, avevano il potere di stabilire punizioni e leggi senza prima avere ascoltato il volere del popolo romano espresso mediante un tribuno della plebe. Ciò fu fatto; venne quindi domandato ai popoli romani cosa volevano decidere riguardo alla sorte dei loro concittadini ribelli:
«Tutti i Campani, Atellani, Calatini, Sabatini, che si diedero in potere ed arbitrio del popolo Romano nelle mani del console Fulvio, e che diedero con seco il contado, la città, le cose tutte umane e divine, le masserizie, e se altro diedero, vi domando, o Quiriti, quello che vi piace ne sia fatto»
Il giudizio dei senatori e il plebiscito popolare
modificaE con un plebiscito popolare venne stabilito che:
«Quello, che vorrà il senato, raccolto, giurato, e con la pluralità di voti, quello vogliamo, comandiamo.»
Con questo consenso dunque, il Senato di Roma decretò:
«Il senato consultato restituì primieramente i beni, e la libertà a Oppia, ed a Cluvia: se alcun altro premio chieder volessero al senato, venissero a Roma. Altri decreti furono fatti per ciascuna famiglia Capuana... di alcuni doversi confiscare i beni, e vendere essi, i loro figli, e le mogli, eccetto le figliuole, che si fossero maritate, innanzi che venissero in potere del popolo Romano. Altri fossero imprigionati, e di questi se ne sarebbe deliberato dopo. Quanto ad altri distinsero anche la somma del censo, onde stabilire, se si avessero a confiscare i beni, o no; decretarono, che i bestiami presi, eccetto i cavalli, e gli schiavi, eccetto i maschi giunti a pubertà, e tutto quello che non fosse compreso nel fondo, si avesse a restituire ai padroni; ordinarono, che tutti i Campani, Atellani, Calatini, Sabatini, eccetto quelli, i quali essi, o i loro padri si trovassero presso i nemici, fossero liberi, a condizione però, che nessuno di loro fosse cittadino Romano, o del nome Latino.»
Il verdetto per i popoli italici ribellatisi a Roma fu dunque molto severo e nulla venne loro risparmiato. Ma ancor più severo fu il verdetto per la città di Capua:
«e che nessuno di quelli, che fossero rimasti in Capua, nel tempo, in cui furono chiuse le porte ai Romani, rimanga in Capua, o nel contado Capuano dopo un dato giorno; si assegnasse loro un luogo, dove abitassero, di là del Tevere, che però non lo toccasse; quelli, che durante la guerra non erano stati né in Capua, né in altra città della Campania, che si fosse ribellata dai Romani, stessero di qua del fiume Liri verso Roma; e quelli, che si eran dati ai Romani, innanzi che Annibale venisse a Capua, si mettessero di qua del fiume Volturno; ma che nessuno di tutti questi avesse case, o poderi a meno di quindici miglia dal mare. Quelli che fossero trasportati di là del Tevere, né essi, né i loro posteri acquistassero, o possedessero, fuorché nel territorio Vejentano, o Sutrino, o Nepesino, purché nessuno avesse più di cinquanta giungeri. Comandarono, che i beni di tutti i senatori, e di tutti quelli, che avevano esercitati magistrati in Capua, in Atella, in Caluzia, fossero venduti in Capua. Gli uomini di condizione libera, che si avessero a vendere, fossero mandati a Roma, e quivi venduti. Le immagini, le statue di bronzo, che si dicessero prese dai nemici, secondo che fossero sacre, o profane, si rimettessero al collegio dei Pontefici.»
La popolazione di Capua fu dunque divisa, esiliata e ridotta in schiavitù. Infatti, ciò che Marcello aveva risparmiato a Siracusa, ovvero aveva impedito ai suoi soldati di catturare e fare schiavi i cittadini siracusani, il Senato ora non risparmiò invece a Capua la sofferenza del dover vedere i propri abitanti venduti come schiavi a Roma. Inoltre si decretò la confisca dei beni, delle abitazioni, l'allontanamento forzato dalla propria terra.[27]
Pochi furono coloro che poterono rimanere a Capua, pochi di coloro che vissero il tempo dell'assedio romano. Per questo motivo gli ambasciatori capuani lasciarono l'aula senatoriale ancor più sconfortati di quando vi erano giunti.[28]
Capua molti anni dopo si riprenderà, ma Roma la avrà trasformata ormai in un sito senza più potere amministrativo, né decisionale. Popolata da nuovi abitanti, rifiorita nel commercio, non fu più comunque la stessa Capua di prima, poiché adesso era totalmente assoggettata a Roma. Sorte simile la ebbe Siracusa, la quale, pur rimanendo apparentemente intatta, la sua popolazione, considerata a quei tempi la più numerosa, superiore persino a quella di Atene, si decimò a causa della povertà, della sottomissione e dell'abbandono dalla città ormai comandata da Roma.
Per quanto riguarda gli Etoli, il loro processo fu molto più breve e di difficile narrazione, in quanto Tito Livio si è soffermato principalmente sull'eccidio e sulle sorti delle due città; Siracusa e Capua. Ma come per i Campani e per i Siciliani, anche nel caso degli Etoli, i senatori romani non incolparono il console Marco Valerio Levino per aver abbandonato un alleato di guerra, in quanto, come ricordarono agli ambasciatori etoli lì presenti, furono essi per primi traditi poiché l'Etolia venne a patti con la Macedonia, ancor prima che Roma lo venisse a sapere, nonostante ufficialmente stessero combattendo dalla stessa parte. Per cui si rimandava al mittente ogni pretesa di giustizia o risarcimento per quegli avvenimenti accaduti in quel contesto.
La fine del processo e la rivolta del popolo romano
modificaI senatori, una volta finito il processo dei propri consoli, si dovettero occupare del popolo romano, il quale, ridotto in povertà a causa delle tante guerre che Roma aveva intrapreso, scese in piazza e aspettando l'uscita dei consoli dal Senato, li minacciò, dicendo che non ne potevano più di quella condizione di miseria e che quindi davano loro tre giorni per risolvere il problema civile oppure si sarebbero trovati ad affrontare una rivolta popolare nella stessa urbe:
«Dopo la ruina dei Siciliani, e dei Campani essersi assunto i consoli di perdere e straziare la plebe Romana; esausti per tant'anni dai tributi non altro rimaner loro, che la terra nuda e deserta. Aver i nemici bruciate le case, aver la repubblica levati i servi, che lavoravano i campi, ora comprandoli a poco prezzo per la milizia, ora ordinando leva di remiganti. Se alcuno aveva qualche po' di moneta, o di argento, sparì anche questo nelle paghe dei remiganti, e nelle annue imposte. Non v'ha però forza, non comando, che li possa costringere pure a dare ciò che non hanno. Vendessero pure i loro beni; incrudelissero contro la persona, che sola resta; non avanza loro né anche di che riscattarsi.»
Accerchiati dalla folla popolare, senza esserci modo di poter calmare la loro ira, i consoli furono costretti a promettere che avrebbero trovato una soluzione nello spazio di tre giorni. Il Senato dunque si riunì e alla fine deliberò:
«Privatis id, seu aequum, seu iniquum, onus iniungendum esse. Nam unde, quum pecunia in aerario non esset, paraturos navales socios? Quomodo autem sine classibus aut Siciliam obtineri, aut Italia Philippum arceri posse, aut tuta Italiae litra esse?»
«Che questo aggravio, fosse giusto o no, era pur forza imporlo ai privati; perciò non essendovi denaro nel tesoro, dove si poteva procacciarsi gente di mare? Come poi senza flotta tenere la conquista della Sicilia, o allontanare Filippo di Macedonia dall'Italia, o difendere le coste?»
Ma fu il console Marco Valerio Levino che, prendendo parola e presentatosi davanti al popolo, tentò di placarlo dicendo loro che i magistrati, e li stessi consoli per primi, avrebbero sofferto con il popolo le stesse ristrettezze economiche. Promise ai romani che avrebbero donato tutto ciò che possedevano per la causa della patria, ma che infine ad essa non potevano rinunciare:
«Magistratus senatui, et senatum populo... Si quid iniungere inferiori velis, id prius in te ac tuos si ipse iuris statueris, facilius omnes obedientes habeas. nec impensa gravis este, quum ex ea plus quam pro virili parte sibi quemque capere principum vident. Itaque classes habere atque ornare volumus populum Romanum? Privatos sine recusatione regimes dare? Nobismet ipsis primum imperemus. Aurum, argentum, aes signatum omne senatores crastino die in publicum conferamus: ita ut annulos sibi quisque, et conj, et liberis, et filio bullam... Ceterum omne aurum, argentum, aes signatum, ad triumviros mensarios extemplo defaramus, nullo ante senatusconsulto facto...»
«Siccome i magistrati il senato, ed il senato avanza il popolo, così debbon essi essere i primi ad incontrare ogni più grave ed aspro peso. Se vuoi alcuna cosa imporre agli inferiori, gli troverai più facilmente obbedienti, se innanzi ne avrai dato carico a te stesso ed a ai tuoi... Vogliamo che il popolo Romano abbia flotte, che le allestisca? Che i privati non ricusino di dar le ciurme? Imponiamo prima noi stessi. Domani noi senatori portiamo al tesoro tutto l'oro, la moneta di rame che abbiamo, sì che ognuno ritenga solamente un anello per sé, per la moglie, e per i figli... Tutto l'altro oro, argento, rame coniato, portiamolo subitamente ai triunviri della zecca, senza che ne sia fatto decreto del senato.»
Marco Valerio sperava così che gli altri nobili romani, e soprattutto il popolo, imitassero i consoli e i magistrati donando così tutto ciò che avevano senza lamentarsi per il bene della patria. Continuò infatti dicendo loro:
«Hanc uman viam, multa inter nos conlocuti, consules invenimus. Ingredimini, Diis bene juvantibus. Respublica incolumis et privatas res facile salvas praestat. publica prodendo, tua nequidquom serves.»
«Dopo di aver molto conferito insieme, non troviamo noi consoli altra via. Prendetela dunque col buon favore degli dei; la cosa pubblica salvata salva anche le cose private; abbandonando le pubbliche ti lusinghi invano di salvar le tue.»
Il popolo parve accettare volentieri questo sacrificio che i consoli e i senatori facevano insieme ad esso e, forse per timore di contraddire i propri comandanti o forse per volontà di seguire il progetto espansionistico di Roma, ringraziarono i consoli e misero fine alle proteste popolari.[29]
Note
modifica- ^ Livio, XXVI, 26-34.
- ^ Livio, XXV, 30-31.
- ^ Livio, XXVI, 12-14.
- ^ Livio, XXVI, 26.1-4.
- ^ Livio, XXVI, 26.5-7.
- ^ Livio, XXVI, 26.8.
- ^ Livio, XXVI, 27.1-9.
- ^ Livio, XXVI, 27.15-16, trad. da C. Luigi Mabil, pag. 367.
- ^ Livio, XXVI, 28.1-2, trad. da C. Luigi Mabil, pag. 370.
- ^ Livio, XXVI, 28.5-13.
- ^ Livio, XXVI, 29.1-2.
- ^ Livio, XXVI, 30.1-3, trad. da C. Luigi Mabil, pag. 378.
- ^ Livio, XXVI, 30.4-5.
- ^ Livio, XXVI, 30.6.
- ^ Livio, XXVI, 30.9-11, trad. da C. Luigi Mabil, pag. 381.
- ^ Livio, XXVI, 30.12.
- ^ Livio, XXVI, 31.6.
- ^ Livio, XXVI, 31.8-11, trad. da C. Luigi Mabil, pag. 386-387
- ^ a b Luigi Pompili Olivieri, pp. 104-105.
- ^ Livio, XXVI, 32.1-2.
- ^ Livio, XXVI, 32.7.
- ^ Cicerone nelle sue testimonianze informa che questa festa perdurava fino ai suoi anni, dunque fino alla nascita dell'Impero Romano d'Occidente.
- ^ Livio, XXVI, 32.8.
- ^ Livio, XXVI, 14.1-5.
- ^ Livio, XXVI, 15-16.
- ^ Livio, XXVI, 33.4-5.
- ^ Livio, XXVI, 34, trad. da C. Luigi Mabil, pag. 394-399.
- ^ Livio, XXVI, 34-13.
- ^ Livio, XXVI, 36.10.
Bibliografia
modifica- (LA) Tito Livio, Ab Urbe condita libri, XXI-XXX.
- Tito Livio, La storia Romana ... coi supplementi del Freinsemio, tradotta dal C. Luigi Mabil col testo a fronte, Volume 19, Tipogr. Dipartimentale, 1814.
- Luigi Pompili Olivieri, Annali di Roma, dalla sua fondazione sino a' di' nostri: Parte prima, contenente gli anni av. G.C, Perego-Salvioni, 1838.
- Titus Livius Patavinus, La storia romana di Tito Livio, Volume 7, 1814.