Riassunto Diritto Penale Generale Fiore
Riassunto Diritto Penale Generale Fiore
Riassunto Diritto Penale Generale Fiore
DIRITTO PENALE
PARTE GENERALE
INTRODUZIONE
Si definisce reato il fatto dell’uomo per la cui realizzazione la legge prevede, come conseguenza
giuridica, l’applicazione di una pena criminale. In pratica, è reato il fatto che la legge rende tale
mediante la minaccia di una pena.
Il nostro sistema non conosce altra definizione di reato e questa costituisce il riflesso del c.d.
principio di legalità dei reati e delle pene, enunciato all’art.1 cp – reati e pene: disposizione
espressa di legge.
Art. 1.
Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che
1
FUNZIONI E CARATTERI DEL DIRITTO PENALE
Un'altra caratteristica del diritto penale, oltre alla gravità delle sanzioni, è il fatto che esso prevede
l’uso della forza come reazione dell’ordinamento giuridico alla realizzazione di determinati
comportamenti. Il suo specifico ruolo è quello di scongiurare il verificarsi di comportamenti
socialmente indesiderati tramite, appunto, il ricorso alla minaccia della sanzione.
Le entità protette dal diritto penale sono designate dalla dottrina con il nome di beni giuridici, il cui
contenuto e qualificazione dipende dalle scelte che, storicamente, il legislatore compie alla luce
della situazione sociale, economica e politica del tempo.
La serietà e la gravità delle conseguenze minacciate dal diritto penale implica alcune considerazioni
fondamentali: l’esigenza, prima di tutto, che il diritto penale circoscriva realmente il suo intervento,
che deve essere necessario ed inevitabile, in quanto unico mezzo adeguato al raggiungimento di
determinati compiti di tutela sociale. In questo senso si parla di una funzione sussidiaria del diritto
penale, rispetto agli altri rami dell’ordinamento giuridico, che ne sottolinea il carattere di ultima
ratio nella gerarchia degli strumenti giuridici del controllo sociale.
La tutela apprestata dal diritto penale ha, inoltre, carattere necessariamente frammentario; esso, nel
provvedere alla protezione di determinate sfere di interessi, “ritaglia”, tra le infinite possibili forme
di aggressione, solo quelle più significative e caratterizzate, in modo da lasciare, tra esse, spazi di
liceità di comportamento indifferenti al diritto penale.
2
Art. 62.
Attenuano il reato, quando non ne sono elementi costitutivi o circostanze attenuanti speciali, le circostanze seguenti:
3) l'avere agito per suggestione di una folla in tumulto, quando non si tratta di riunioni o assembramenti vietati dalla
legge o dall'autorità, e il colpevole non è delinquente o contravventore abituale o professionale, o delinquente per
tendenza;
4) l'avere, nei delitti contro il patrimonio, o che comunque offendono il patrimonio, cagionato alla persona offesa dal
reato un danno patrimoniale di speciale tenuità ovvero, nei delitti determinati da motivi di lucro, l'avere agito per
conseguire o l'avere comunque conseguito un lucro di speciale tenuità, quando anche l'evento dannoso e pericoloso sia
di speciale tenuità;
5) l'essere concorso a determinare l'evento, insieme con l'azione o l'omissione del colpevole, il fatto doloso della
persona offesa;
6) l'avere, prima del giudizio, riparato interamente il danno, mediante il risarcimento di esso, e, quando sia possibile,
mediante le restituzioni; o l'essersi, prima del giudizio e fuori del caso preveduto nell'ultimo capoverso dell'articolo 56,
adoperato spontaneamente ed efficacemente per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato.
3
OGGETTO E PARTIZIONI DELLA SCIENZA DEL DIRITTO PENALE
Se diamo uno sguardo, anche sommario, alle strutture degli ordinamenti contemporanei, ci
accorgiamo che in essi sono presenti sia misure che mirano alle prevenzione, sia altre che hanno
carattere retributivo, e questa situazione è dovuta alla storia e alle evoluzioni sociali che si sono
succedute nel tempo spesso tra loro contraddittorie o in tensione.
Appare chiaro che contenuto e funzione della sanzione penale dipendono da una serie di fattori e, in
primo luogo, dai caratteri dell’ordinamento politico-istituzionale e dalle idee generalmente
condivise circa i fini dello Stato.
L’elaborazione di una teoria penale presuppone innanzitutto la ricostruzione e la descrizione
dell’ossatura costituzionale del diritto penale, vale a dire quella griglia dei principi regolativi che
ne determinano la fisionomia complessiva.
4
LE FONTI NORMATIVE DEL DIRITTO PENALE ITALIANO
La principale fonte normativa del diritto penale italiano è costituita dal codice penale del 1° luglio
1931, anche se non tutto il diritto penale è ivi contenuto.
Un posto particolarmente importante è occupato dalle disposizioni costituzionali che al diritto
penale fanno, direttamente o indirettamente, riferimento, nella misura in cui enunciano principi
regolativi fondamentali del diritto penale vigente.
Nel nostro sistema esistono altri due organici testi di legge in forma di codice penale, i codici
penali militari di pace e di guerra, che si applicano ai militari appartenenti ad armi, corpi, navi,
aeromobili o servizi in generale, destinati ad operazioni di guerra.
Le misure di sicurezza (artt.199 ss.) trovano la loro disciplina all’interno dello stesso codice
penale, mentre la materia delle misure di prevenzione è disciplinata essenzialmente in testi
legislativi a parte.
5
PARTE PRIMA
Problema centrale era proprio la questione penale del diritto, che necessitava di esigenze di legalità
e certezza come punto fondamentale di partenza. Da qui partì l’elaborazione di Montesquieu prima
e Beccaria subito dopo. Montesquieu si pose con chiarezza il problema penale nelle sue
articolazioni fondamentali: fondamento del diritto di punire, rapporto fra crimini e pene, tra
repressione penale e grado di libertà degli uomini. La libertà del cittadino consiste nella “sicurezza”
e questa è condizionata dalle leggi penali e, di conseguenza, è dalla bontà di queste che dipende il
grado di libertà del cittadino. Regole per la procedura criminale, imparzialità del giudice, garanzie
per la difesa dell’accusato e, soprattutto, pene proporzionate alla qualità del crimine, per poterne
ottenere un effetto deterrente.
Montesquieu si rifece all’assunto di Pufendorf secondo cui le leggi penali devono avere riguardo
alle sole azioni esterne dell’uomo e compilò una classificazione dei delitti, e delle relative pene,
secondo la loro qualità, proponendo quattro classi di reati: contro la religione, contro i costumi,
contro la tranquillità e contro la sicurezza dei cittadini.
Il contributo principale di Montesquieu allo sviluppo della dottrina penale dell’illuminismo viene
ravvisato nell’aver indicato leggi fisse e stabili, precostituite al giudizio, come criterio fondamentale
di razionalizzazione di ogni sistema penale.
Beccaria continuò sugli studi di Montesquieu con i principi di proporzionalità e ragionevolezza
delle pene, come attributi che ne condizionano l’efficacia, vale a dire la capacità di prevenire i
delitti.
Beccaria indica nella legalità la prima condizione di libertà e la traduce nel principio della riserva
di legge in materia penale. Necessario corollario, derivato da Montesquieu, è la divisione dei poteri,
come esigenza di terzietà del giudice, dal momento che il sovrano, il quale rappresenta la società,
“non può formare che leggi generali che obbligano tutti i membri, ma non già giudicare che uno
abbia violato il contratto sociale. È dunque necessario che un terzo giudichi della verità del fatto:
che vi sia cioè un magistrato le cui sentenze possano consistere in mere asserzioni o negative di fatti
particolari”. Questo esige innanzitutto leggi scritte in una lingua comprensibile e raccolte in un libro
che possa liberamente circolare.
La legge penale, in particolare, dovrà descrivere con parole chiare e precise il fatto da punire, di
modo che ogni cittadino sappia quando sia reo e quando innocente, in base a leggi stabilite da un
codice che giri fra le mani di tutti i cittadini, i quali avranno diritto ad un pubblico processo.
L’attenzione rivolta da Beccaria ai temi che oggi definiremmo processuali, manifesta la sua piena
consapevolezza che le regole della procedura costituiscono una determinazione essenziale del
sistema penale.
Nella sua opera, il processo di secolarizzazione del diritto penale appare interamente realizzato e
dalle sue mani esce definitivamente “desacralizzato”; la pena non conserva nulla della espiazione e
Beccaria finisce col negare ogni connessione tra la concezione religiosa del male e del peccato e la
scienza della legislazione penale.
Ciò che contrassegna il suo lavoro sta anche nella finalità della pena, identificata come l’ufficio di
“impedire al reo di far nuovi danni ai suoi concittadini e di rimuoverne altri dal farne uguali”.
Il trattato “Dei delitti e delle pene” fu una grande lezione di metodo, capace di rendere il pensiero
moderno consapevole dell’esigenza di una vera scienza del diritto penale.
7
Quanto le idee di Beccaria fossero penetrate nella cultura prerivoluzionaria lo si vide, poi, dal testo
della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789) e dalla Dichiarazione dei diritti
dell’uomo (1793), che tradussero in espliciti principi normativi alcuni degli enunciati più
significativi del trattato Dei delitti e delle pene.
Da Beccaria prende avvio anche l’illuminismo penale italiano con Gaetano Filangieri, il quale
elaborò una sistemazione concettuale delle categorie penalistiche dalla imputabilità, al dolo, al
tentativo, ponendo nuove basi per la classificazione dei reati e delle pene, in una forma che
anticiperà le codificazioni ottocentesche.
Mario Pagano, contemporaneo di Filangieri, proseguì sullo studio analitico dei principi e delle
categorie del diritto e della procedura penale, anticipando l’elaborazione del concetto di
prevenzione generale. La pena è per Pagano “la perdita di un diritto per un diritto violato o per un
dovere omesso”, e da questo consegue che, per essere giusta, deve corrispondere al delitto sia per la
qualità che per quantità. Il fine del diritto penale resta, tuttavia, quello di prevenire i delitti, come in
Beccaria e Filangieri.
Feuerbach è considerato il fondatore della moderna scienza del diritto penale; egli non si limitò ad
accogliere e sviluppare il discorso avviato da Beccaria e dall’illuminismo penale italiano ma,
accentuando il valore del principio di legalità, fornì contributi essenziali all’affermarsi di un sistema
teorico del diritto penale, la cui principale chiave di lettura fosse la garanzia delle libertà individuali
e la certezza del diritto.
Il codice penale italiano del 1889 fu il primo codice penale unitario. Esso entrò in vigore il 1°
gennaio 1890, passato alla storia come Codice Zanardelli. La nuova legislazione penale appariva
dominata da spirito di mitezza; richiedeva, per la punibilità del tentativo, l’inizio di esecuzione del
delitto; distingueva e graduava la responsabilità dei concorrenti nel reato; disciplinava per la prima
volta l’estradizione, escludendola per i reati politici; introduceva l’istituto della liberazione
condizionale dei condannati. Il codice si teneva ben saldo agli scopi della prevenzione generale,
8
forniva una soddisfacente sistemazione alle categorie dell’imputabilità ai criteri di imputazione
soggettiva del reato (dolo, colpa, responsabilità obiettiva), alle cause di giustificazione. Saldo era il
principio di stretta legalità alla regola della irretroattività della legge penale.
Purtroppo i contenuti garantistici venivano spesso elusi dal ricorso alla legislazione di pubblica
sicurezza e alla misure di polizia: ove le garanzie dei diritti individuali si attenuavano fin quasi a
scomparire.
Non meraviglia, allora, se il codice del 1889 ebbe anche l’effetto di spaccare letteralmente in due la
cultura giuridica del tempo.
A partire dalla metà degli anni ’70 la reazione alla Scuola Classica del diritto penale fu portata
avanti dalla c.d. Scuola Positiva del diritto penale.
La prima espressione sistematica di questo orientamento è costituita dall’opera di Cesare
Lombroso che, partendo da studi basati sull’osservazione empirica, ritenne di essere pervenuto alla
determinazione del tipo antropologico del delinquente, il “delinquente nato” e, su queste basi,
impostò i fondamenti di una nuova criminologia.
La Scuola positiva pervenne alla formulazione di proposte radicalmente innovative del sistema
penale tradizionale. I criteri dell’intervento non attengono alla qualità e gravità del delitto, ma alla
pericolosità del delinquente, rispetto ai beni oggetto di tutela. In questo modo non trovarono spazio
i concetti di imputabilità morale, e la pena perse il carattere retributivo. In parole semplici, l’accento
fu spostato interamente sulla prevenzione speciale, da perseguirsi sia in forma di terapia, sia in via
eliminativa, fino alla condanna a morte o al carcere a vita, per i delinquenti ritenuti incorreggibili.
Da noi, invece, la Scuola positiva ispirò e produsse un “Progetto preliminare di codice penale
italiano”, il c.d. Progetto Ferri, che appariva fondato su teorie positiviste: dalla negazione di ogni
distinzione fra delinquenti imputabili e non imputabili, alla segregazione a tempo assolutamente o
relativamente indeterminato, alla parificazione del delitto tentato a quello consumato, alla
costruzione di circostanze aggravanti e attenuanti esclusivamente in funzione della pericolosità del
delinquente, ecc.
Il Progetto Ferri suscitò polemiche e forti opposizioni, comunque travolte e superate dai mutamenti
politico-istituzionali che di lì a poco si sarebbero prodotti in Italia.
Il diritto penale italiano fra il codice Rocco e la Costituzione Repubblicana. Gli atteggiamenti
della dottrina.
Non si sono mai compiutamente determinate, nel nostro Paese, le condizioni politiche adatte al varo
di un nuovo codice penale. Tuttavia si sono susseguiti interventi legislativi di carattere settoriale che
ora non è il caso di citare. Ciò che interessa rilevare, fin da ora, è il significato che per il diritto
penale rivestono le norme che ad esso dedica la Costituzione della Repubblica.
Vediamo le disposizioni costituzionali di importanza preminente, contenute negli art.25 2° e 3° co,
e nella’art.27 1°, 3° e 4° co Costituzione.
Art. 25 Costituzione
Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge.
10
Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto
commesso.
Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge.
Art. 27 Costituzione
Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla
rieducazione del condannato.
Il primo articolo ribadisce, a livello costituzionale, il principio della riserva di legge e della
irretroattività della legge penale, nonché il principio di legalità delle misure di sicurezza.
Una più forte carica innovativa contiene il secondo articolo che esprime, a livello costituzionale, il
c.d. principio di colpevolezza e con esso, in primo luogo, l’esigenza della riferibilità psicologica
del fatto all’autore, come presupposto della sua rimproverabilità.
11
PARTE SECONDA
LA LEGGE PENALE
Art. 1.
Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che
Art. 2.
Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato.
Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata
Se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena
detentiva inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell'articolo 135. (1)
Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono
più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile.
Se si tratta di leggi eccezionali o temporanee, non si applicano le disposizioni dei capoversi precedenti.
12
Le disposizioni di questo articolo si applicano altresì nei casi di decadenza e di mancata ratifica di un decreto-legge e
Art. 25 Costituzione
Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge.
Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto
commesso.
Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge.
La portata del principio di legalità viene generalmente articolata nella enunciazione di quattro
regole fondamentali, che sono:
1. La c.d. riserva di legge.
2. La regola della tassatività e determinatezza della fattispecie penale.
3. Il divieto di interpretazione analogica.
4. L’irretroattività della legge penale.
Continuando su questo discorso, dobbiamo escludere la potestà legislativa delle Regioni in materia
penale, come si evince dall'art.117 Cost.2°co riformato in tal senso, il quale sancisce la legislazione
esclusiva dello Stato in materia di “ordinamento civile e penale”.
La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei
vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.
a) politica estera e rapporti internazionali dello Stato; rapporti dello Stato con l'Unione europea; diritto di
asilo e condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all'Unione europea;
b) immigrazione;
13
e) moneta, tutela del risparmio e mercati finanziari; tutela della concorrenza; sistema valutario; sistema
tributario e contabile dello Stato; perequazione delle risorse finanziarie;
f) organi dello Stato e relative leggi elettorali; referendum statali; elezione del Parlamento europeo;
m) determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono
essere garantiti su tutto il territorio nazionale;
o) previdenza sociale;
r) pesi, misure e determinazione del tempo; coordinamento informativo statistico e informatico dei dati
dell'amministrazione statale, regionale e locale; opere dell'ingegno;
Sono materie di legislazione concorrente quelle relative a: rapporti internazionali e con l'Unione europea
delle Regioni; commercio con l'estero; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione, salva l'autonomia delle
istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale; professioni;
ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all'innovazione per i settori produttivi; tutela della salute;
alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili;
grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e
distribuzione nazionale dell'energia; previdenza complementare e integrativa; armonizzazione dei bilanci
pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e
ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di
credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale. Nelle materie di
legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei
principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato.
Spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla
legislazione dello Stato.
14
Le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, nelle materie di loro competenza, partecipano
alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari e provvedono all'attuazione e
all'esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell'Unione europea, nel rispetto delle norme di
procedura stabilite da legge dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo in
caso di inadempienza.
La potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega alle
Regioni. La potestà regolamentare spetta alle Regioni in ogni altra materia. I Comuni, le Province e le
Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell'organizzazione e dello
svolgimento delle funzioni loro attribuite.
Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella
vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche
elettive.
La legge regionale ratifica le intese della Regione con altre Regioni per il migliore esercizio delle proprie
funzioni, anche con individuazione di organi comuni.
Nelle materie di sua competenza la Regione può concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali
interni ad altro Stato, nei casi e con le forme disciplinati da leggi dello Stato.
Inoltre l'art.120 Cost. vieta alle Regioni di adottare misure che ostacolino la libera circolazione
delle persone o la libera professione, impiego o lavoro.
La Regione non può istituire dazi di importazione o esportazione o transito tra le Regioni, nè adottare
provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose tra le
Regioni, nè limitare l'esercizio del diritto al lavoro in qualunque parte del territorio nazionale.
Il Governo può sostituirsi a organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni
nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria oppure di
pericolo grave per l'incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedono la tutela dell'unità
giuridica o dell'unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i
diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali.
La legge definisce le procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del
principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione.
Decisivo è il dettato dell'art. 3 Cost.: “Tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge”, che mira
proprio ad evitare disparità di trattamenti che si potrebbero verificare a causa di diverse
regolamentazioni.
Art. 3 Costituzione
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di
razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
15
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la
libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva
partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Un differente trattamento giuridico dello stesso precetto, da Regione a Regione, è possibile solo a
condizione che la stessa legge penale statuale abbia previsto tale diversificazione di trattamento,
demandando la relativa potestà alle singole legislazioni regionali. In questo caso la legge regionale
si configura come integrativa del precetto penale statuale.
Leggi delegate art.76 e 77 1°co Cost. e Decreti legge art. 77 2° e 3° co Cost. sono ritenute fonte
legittima di produzione di norme penali.
Art. 76 Costituzione
L'esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non con determinazione di
principî e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti.
Art. 77 Costituzione
Il Governo non può, senza delegazione delle Camere, emanare decreti che abbiano valore di legge
ordinaria.
Quando, in casi straordinari di necessità e d'urgenza, il Governo adotta, sotto la sua responsabilità,
provvedimenti provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso presentarli per la conversione alle
Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni.
I decreti perdono efficacia sin dall'inizio, se non sono convertiti in legge entro sessanta giorni dalla loro
pubblicazione.
Le Camere possono tuttavia regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non
convertiti.
Sulle leggi delegate, il Potere Legislativo formula criteri più o meno dettagliati, rimettendo la
concretizzazione nelle mani dell'Esecutivo; quanto al decreto legge, abbiamo qualche perplessità in
più dal momento che, da un lato, le esigenze di ponderazione richieste dalla normazione penale
sembrerebbero in contrasto con le ragioni di “necessità e urgenza” che giustificano il decreto;
dall'altro, almeno per tutto il periodo di vigenza del decreto, prima della conversione in legge, è
eluso, di fatto, il sindacato del Parlamento sulla eventuale normazione penale.
Possiamo concludere quindi concordando con la dominante opinione che deduce dalla parificazione
costituzionale dell'efficacia normativa della legge delegata e dei decreti legge a quella delle leggi in
senso stretto, anche la conseguenza della loro ammissibilità come fonte di norme penali.
16
Art. 25 Costituzione
Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge.
Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto
commesso.
Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge.
e non lo potrebbe essere anche alla luce del fatto che, sia il Consiglio d'Europa che la Commissione
Europea, sono privi di un'adeguata rappresentatività popolare e mancano di quella legittimazione
democratica necessaria all'emanazione di norme penali; allo stesso modo, il Parlamento Europeo,
pur avendo un'investitura popolare, al momento non è dotato di una significativa potestà legislativa.
Si ammette tuttavia che la norma comunitaria possa limitare o, addirittura, neutralizzare una norma
penale statale che contrasti con essa; i rapporti tra diritto nazionale e diritto comunitario sono
regolati dall'art.11 Cost., sulla base del “primato” del secondo sul primo.
Art. 11 Costituzione
L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di
risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle
limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni;
promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.
Dobbiamo escludere la consuetudine dal novero delle fonti, in primo luogo perchè una
incriminazione non può nascere da una “tradizione”, infatti nullum crimen, nulla poena, sine lege
scripta e, di conseguenza a contrario, la desuetudine non può determinare l'abrogazione di un
precetto penale. Possiamo parlare di una funzione “integratrice” della consuetudine con le dovute
cautele, senza far confusione, quando si tratta della recezione, da parte della norma penale, di un
giudizio di valore extra-giuridico, ad essa preesistente, che la norma integra nel comando o nel
divieto penale, non diversamente da qualsiasi altro dato della realtà fenomenica che concorra a
definire il contenuto del precetto.
La riserva di legge implica, oltre alla predeterminazione del fatto previsto come reato, anche la
determinazione della sanzione ad esso applicabile, secondo il principio nulla poena sine lege,
recepito nell’art.1 cp – reati e pene: disposizione espressa di legge.
Dopotutto, una norma che prevede il fatto da punire, ma non la relativa sanzione, sarebbe un
nonsenso e contrasterebbe con il principio di legalità dei reati e delle pene, allo stesso modo nel
caso in cui si lasciasse al giudice discrezionalità sul “come punire” il reo.
Art. 1.
Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che
17
come reato, descriva un processo della realtà, in modo tale che, una volta verificatosi in concreto,
sia agevolmente riconoscibile la sua corrispondenza all'azione descritta come vietata dalla legge,
logicamente dietro minaccia della pena; con l'ulteriore obiettivo di scongiurare, fin dove possibile,
l'arbitrio del giudice e dell'interprete, la norma penale deve fornire una descrizione, più o meno
dettagliata, del fatto punibile, mediante la previsione, astratta e generale, dei suoi caratteri
essenziali: in modo tale da delineare una fattispecie, immediatamente riconoscibile quando si
verifichi nella realtà fenomenica.
Tale descrizione di fattispecie deve avere inoltre i caratteri di tassatività e determinatezza che
rendono possibile la riconduzione del singolo concreto fatto punibile al modello delineato dal
legislatore: mentre la determinatezza designa una caratteristica attinente alla formulazione della
fattispecie, la tassatività riguarda, invece, il momento applicativo, avendo la funzione di impedire
al giudice l'estensione dell'incriminazione oltre i casi da essa espressamente previsti. Dalla norma
penale deve emergere con sufficiente precisione sia il bene che si vuole proteggere, sia le possibili
modalità di aggressione allo stesso; la legge, in altre parole, non può limitarsi a dire che il furto è
reato, ma deve fornire il “modello” dell'azione furtiva. Un'ulteriore implicazione della regola della
tassatività è costituita dalla pretesa che il fatto vietato sia realmente suscettibile di verificarsi nella
realtà, in modo da essere riconoscibile nella sua tipicità. Tassatività e determinatezza della
fattispecie legale, in materia penale, sono assunte dalla Corte Costituzionale come requisiti di
validità delle norme incriminatrici.
Anche la tecnica di redazione delle fattispecie penali ha una importanza fondamentale, dal
momento che, quanto maggiore è la precisione della formulazione legislativa, tanto più il giudice
risulta vincolato al contenuto del precetto e tanto più il messaggio legislativo sarà efficace. In ogni
caso non dobbiamo dimenticare che la norma penale contiene pur sempre un comando astratto e che
il suo grado di concretizzazione dipende sempre dal contenuto prescrittivo. Ad esempio, la norma
che descrive un processo biologico, come è il caso dell'omicidio ex art.575 cp - omicidio (chiunque
cagiona la morte di uomo...), ha un maggior grado di concretezza rispetto a quella che punisce
chiunque promuova associazioni dirette “a distruggere o deprimere il sentimento nazionale” ex
art.271 cp – associazioni antinazionali (abrogato).
Da tali esempi, possiamo dedurre che giocano un ruolo significativo:
1. la natura del bene protetto dalla norma e la sua importanza nel sistema degli interessi
tutelati;
2. il grado di prossimità dell'azione vietata rispetto al momento della lesione del bene;
3. la prevalenza di elementi puramente descrittivi o, viceversa, di elementi valutativi nella
previsione della condotta vietata;
4. il grado di complessità dell'azione avuta di mira dal legislatore.
I beni materiali (la vita, la salute, la libertà personale, il domicilio) hanno un maggior grado di
“afferrabilità” dal punto di vista della descrizione normativa, rispetto ad altri. Quanto più è ampia la
sfera di protezione assicurata al bene dal diritto penale, tanto meno acuta è l'esigenza di
differenziazione fra le diverse modalità di aggressione, che risulta invece decisiva quando si tratta
di isolare, fra tutte le possibili forme di aggressione, quelle, e soltanto quelle, a cui la norma penale
intende reagire.
Quando poi un bene è talmente importante e degno di tutela, si punisce addirittura anche solo la
condotta idonea a metterne in pericolo l'integrità.
Infine, quanto maggiore è il peso degli elementi valutativi nella descrizione del fatto vietato, tanto
più ardua risulta la concretizzazione del precetto; basti pensare all'art.529 cp – atti e oggetti
osceni: nozione, che evoca il comune senso del pudore quale criterio fondante per il concetto
dell'osceno penalmente rilevante.
Quanto alla tecnica prescelta per contrassegnare la condotta punibile, essa può far leva sul dato
dell'evento (omicidio ex art.575 cp - omicidio) o sulle specifiche modalità del comportamento
18
(furto ex art.624 cp - furto); oppure sull'atteggiamento della vittima (violazione di domicilio ex
art.614 cp – violazione di domicilio) o, ancora, sulla finalità che l'autore si propone (esercizio
arbitrario delle proprie ragioni ex art.392 cp – esercizio arbitrario delle proprie ragioni con
violenza sulle cose); ne consegue, in misura più o meno ampia, una maggiore o minore tassatività e
determinatezza della previsione normativa.
Da un punto di vista meramente classificatorio, possiamo distinguere tra fattispecie a forma
vincolata, ovvero quelle in cui il legislatore descrive in modo più o meno dettagliato quali sono le
modalità di condotta rilevanti per il diritto penale (furto ex art.624 cp) e fattispecie a forma aperta,
in cui il legislatore appare indifferente alle specifiche modalità del comportamento, imperniando la
previsione sul risultato dell'azione, in termini di lesione o messa in pericolo del bene protetto.
Da un altro punto di vista, distinguiamo elementi descrittivi della fattispecie penale, quelli cioè che
si concretano in una mera descrizione di dati della realtà empirica, ed elementi normativi, per
l’intelligenza del cui contenuto è necessario il ricorso ad una norma giuridica diversa da quella
incriminatrice, ovvero ad un giudizio normativo “non giuridico”. Gli elementi normativi del primo
tipo non pongono problemi di determinatezza, essendo di regola individuabile con sufficiente
certezza la norma giuridica alla quale rinviano: nel furto (art.624 cp), ad esempio, l'altruità della
cosa sottratta si ricava agevolmente dalle legge civili in materia di proprietà e possesso; gli elementi
normativi del secondo tipo danno qualche problema in più, trattandosi di rinvio a regole sociali, di
costume, per definizione assai più incerte e mutevoli, rispetto alle norme giuridiche. Si pensi ancora
una volta al concetto di “osceno” o agli “atti contrari alla pubblica decenza” ex art.726 cp – atti
contrari alla pubblica decenza. Il grado di determinatezza della fattispecie dipende qui
interamente dal grado di puntualità e conoscibilità delle regole di giudizio richiamate.
Comunque il legislatore penale dovrebbe rifuggire dal ricorso ad elementi che siano destinati a
restare del tutto “indeterminati”, per la difficoltà di rintracciare la regola di giudizio idonea a
conferirgli determinatezza. La normazione penale, inoltre, dovrebbe ridurre al minimo l'uso di una
terminologia “connotativa”, carica cioè di elementi di valore ideologicamente non neutri
(associazione “sovversiva”, notizie “tendenziose”, etc.) e, in ogni caso, dovrebbe designare nel
modo più chiaro il bene che intende proteggere, dando preferenza a termini semplici e di univoco
significato. Infine, quanto più la condotta vietata è lontana dal punto della concreta lesione di un
bene giuridico, tanto più la sua descrizione dovrebbe essere minuziosa: la fattispecie a forma
vincolata dovrebbe essere qui preferita a quella a forma aperta.
Il divieto di analogia.
L'analogia è quel procedimento interpretativo che, in mancanza di una espressa statuizione
legislativa, deduce la disciplina di un caso non regolato dalla regola dettata per un caso simile
(analogia legis) o dai principi generali dell'ordinamento giuridico (analogia iuris). L'analogia
costituisce dunque l'unico mezzo di integrazione dell'ordinamento giuridico positivo, inteso ad
assicurarne la completezza e destinato a colmare eventuali lacune del diritto positivo.
Questo particolare procedimento di produzione normativa non è ammesso nel diritto penale, il quale
tende a salvaguardare il suo carattere di frammentarietà e con esso anche la sua caratteristica
incompletezza e le sue provvidenziali lacune. Il giudice penale, quindi, non può applicare
analogicamente la norma che andrebbe a colmare la lacuna. Stesso discorso vale per la cd
interpretazione estensiva poiché si tratta sempre di un procedimento per analogia, dal momento
che estende ad un caso non previsto la disciplina prevista per altri casi, in un certo senso, “simili”.
Con qualche esempio possiamo evidenziare la linea di demarcazione tra interpretazione e
ragionamento per analogia: l'art.625 cp – circostanze aggravanti prevede come ipotesi aggravata
di furto, fra le altre, quelle “del fatto commesso sul bagaglio dei viaggiatori in ogni specie di
veicoli, nelle stazioni, scali o banchine”; orbene, appartiene all'ambito dell'interpretazione chiedersi
se la qualifica di “viaggiatore” competa anche ai componenti il personale di un autoveicolo in
servizio di trasporto viaggiatori; concreterebbe, viceversa, un procedimento analogico l'estensione
dell'aggravante anche agli appartenenti al personale in servizio presso le stazioni, a cui in nessun
19
modo può attribuirsi la qualifica di viaggiatori!
Il divieto di analogia in materia penale ha come destinatario il giudice; ma giustamente si ritiene che
da esso debba farsi derivare la illegittimità costituzionale di quelle disposizioni in cui il legislatore
si sia servito di enunciazioni di tipo casistico: “in casi simili”, “in casi analoghi”, quando dalla
norma non sia desumibile il criterio di similitudine, alla cui stregua si dovrebbero individuare i casi
non espressamente menzionati. È ammessa la cd analogia in bonam partem, vale a dire in
relazione alle norme che prevedono cause di non punibilità del fatto previsto dalla legge come reato
o ipotesi di attenuazione della pena. Infatti, le norme che “tolgono” illiceità al fatto penalmente
sanzionato non sono norme penali, bensì autonome norme non penali, aventi effetti sull'intero
ordinamento giuridico. Va infine precisato che il divieto di analogia non riguarda le norma del
diritto processuale penale.
Il principio di irretroattività.
L'art.2 co1 cp – successione di leggi penali stabilisce che: “Nessuno può essere punito per un fatto
che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato”.
La Costituzione all'art.25 recita che: “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge
20
che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”.
Art. 2.
Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato.
Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata
Se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena
detentiva inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell'articolo 135.
Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono
più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile.
Se si tratta di leggi eccezionali o temporanee, non si applicano le disposizioni dei capoversi precedenti.
Le disposizioni di questo articolo si applicano altresì nei casi di decadenza e di mancata ratifica di un decreto-legge e
Art. 25 Costituzione
Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge.
Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto
commesso.
Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge.
Il divieto di applicazione retroattiva della legge penale concerne tutte le norme giuridiche, anche
non penali, da cui potrebbe dipendere la rilevanza penale “sopravvenuta” del fatto; basti pensare,
per fare un esempio, all'elenco delle sostanze nocive e pericolose. Inoltre, riguardo “al tempo in cui
fu commesso il fatto”, esso deve essere stabilito avendo riguardo al tempo in cui si è realizzata nel
mondo esterno la condotta che la norma sopravvenuta qualifica come reato. Se infatti ci si riferisse
all'evento, cioè al risultato lesivo, si potrebbe incorrere proprio in una applicazione retroattiva, dal
momento che l'evento si può ben verificare ad una certa distanza di tempo dal compimento
dell'azione.
Alla regola della irretroattività si collega il contrapposto principio di non ultrattività della norma
penale: nel senso che essa non si applica ai fatti commessi dopo la sua abrogazione e sia nel senso
che i suoi effetti cessano anche rispetto ai fatti commessi durante la sua vigenza e per i quali sia
intervenuta una sentenza di condanna passata in giudicato. Infatti l'art.2 co2 cp – successione di
leggi penali stabilisce che: “Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge
posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti
penali”.
È qui opportuno ricordare che le leggi non sono abrogate se non da leggi posteriori per
dichiarazione espressa del legislatore o per naturale incompatibilità con le precedenti; tutto ciò
anche per garantire l'eguaglianza, costituzionalizzata, di tutti i cittadini dinanzi alla legge, che
sarebbe violata qualora dovessero permanere gli effetti di una condanna dopo l'abrogazione della
21
legge incriminatrice.
L'art.2 co4 cp stabilisce: “Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato le posteriori sono
diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata
pronunciata sentenza irrevocabile”.
Secondo tele disposizione abbiamo successione di leggi quando una legge sopravvenuta:
A) Abroga una norma incriminatrice preesistente sostituendola con un'altra avente lo stesso oggetto.
B) Pur in assenza di esplicita abrogazione, disciplina una materia già regolata da una o più norme
incriminatrici preesistenti, modificandone l'originario ambito di applicazione.
C) Modifica una norma preesistente innovando, in qualsiasi modo, alla disciplina in essa contenuta.
Non crea problemi la situazione che vede l'innovazione nell'aumento o nella diminuzione della
pena. Più problematici sono quei casi inerenti ad una innovazione delle stesso precetto penale; qui si
tratta di stabilire se il tipo di fatto oggetto del giudizio risulta rilevante alla stregua sia delle legge
preesistente che di quella successiva (principio della continuità del tipo di illecito); solo a queste
condizioni si può ritenere non violato il principio di irretroattività della legge penale.
Poco problematiche sono le ipotesi in cui la nuova formulazione allarga o restringe l'ambito di
punibilità di alcune condotte.
Ben più problematiche sono le ipotesi in cui la vecchia e la nuova formulazione si presentano in un
rapporto tale che una si possa definire come norma speciale rispetto all'altra, nel senso che contenga
più elementi di specificazione della condotta incriminata. La regola generale vuole che la
disposizione speciale deroga alla legge generale, salvo che sia altrimenti specificato e stabilito.
Bisogna solo fare alcune precisazioni: se la disposizione precedente è stata abrogata vi è un chiaro
fenomeno di successione di leggi penali; se la vecchia disposizione non è stata abrogata vigerà il
divieto di applicazione retroattiva della nuova disposizione, mentre per quelli già preveduti nella
vecchia disposizione continuerà ad applicarsi la precedente incriminazione, restando dunque
escluso un fenomeno di successione di leggi penali.
Non sembra risolta la disputa interpretativa relativa all'ipotesi in cui si verifica il passaggio da una
norma incriminatrice “generale” ad una, relativamente a quest'ultima, avente carattere “speciale”: la
recente giurisprudenza ha ricondotto il problema sul piano del rapporto tra norme: si è infatti
affermato che, quando la norma successiva attribuisce rilevanza ad elementi prima non inclusi nella
descrizione del fatto tipico – aggiungendo alla fattispecie elementi che restringono l'ambito delle
incriminazioni – se questo determina una disomogeneità nella struttura delle incriminazioni, è
ravvisabile un caso di abolitio criminis: e ciò anche se l'interesse tutelato dalle due norme sia lo
stesso. La conseguenza è che, se anche il fatto concreto commesso sotto la vigenza della precedente
disciplina (generale) presentasse anche gli elementi richiesti dalla nuova incriminazione (speciale),
bisognerebbe comunque applicare il comma 2 dell'art.2 del cp; quindi la condotta posta in essere
nella vigenza della norma preesistente dovrebbe considerarsi non punibile.
La continuità del tipo di illecito andrà affermata o esclusa sulla base delle analisi dei rapporti
strutturali tra le fattispecie considerate: per aversi abrogazione, gli elementi specializzanti della
nuova fattispecie devono risultare eterogenei e incompatibili con la precedente incriminazione,
segnalando una discontinuità nell'atteggiamento punitivo del legislatore che confermi una volontà
abrogatrice delle precedenti incriminazioni. Quando ciò non avviene la successione naturalmente
riguarderà solo i fatti pregressi che nella struttura della incriminazione presentano le caratteristiche
richieste dalla normativa sopravvenuta, così che ad essi si può guardare, già in astratto, come ad una
sorta di “sottofattispecie”, che consente di individuare un “nucleo comune” tra vecchia e nuova
incriminazione. Per gli altri fatti, cioè quelli in cui non sono presenti gli elementi specializzanti
previsti dalla nuova disposizione, dovrà invece parlarsi di abolitio criminis.
Per individuare la legge più favorevole al reo bisogna rapportare tutte le discipline applicabili al
caso concreto: questo significa che se una legge elevasse la pena minima applicabile ad un reato,
ma contemporaneamente diminuisse la pena massima, l'una o l'altra legge risulterebbe più
favorevole, a seconda che il giudice ritenga di applicare, in concreto, il minimo o il massimo della
pena.
22
L’art.2 co5 cp – successione di leggi penali stabilisce che: “Se si tratta di leggi eccezionali o
temporanee, non si applicano le disposizioni dei capoversi precedenti”. Ha carattere di legge
eccezionale quella legge che è dettata con espresso e specifico riferimento a situazioni del tutto
particolari: stato di guerra, gravi calamità naturali, epidemie. Sono invece leggi temporanee quelle
leggi rispetto alla cui vigenza il legislatore ha prefissato un termine di durata.
La sentenza n°5 Corte Costituzionale del 1985 ha attribuito al decreto legge non convertito la sola
efficacia ricollegabile alla regola della irretroattività della norma penale incriminatrice per
l'evidente prevalenza del principio fissato nell'art.25 Costituzione:
Art. 25 Costituzione
Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge.
Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto
commesso.
Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge.
Ha invece escluso la rilevanza del decreto legge non convertito rispetto al fenomeno della
successione di leggi penali, così come regolato dai commi 2 e 3 dell'art.2 cp. In altre parole, se con
il d.l. è abrogata una incriminazione preesistente, la sua “riviviscenza” a seguito della caducazione
del d.l. non potrà spiegare effetti rispetto alle condotte realizzate nel periodo di provvisoria vigenza
della norma contenuta nel decreto, che resteranno non punibili, in quanto non costituenti reato
“secondo la legge del tempo” in cui furono commesse. Ma né l'abolitio criminis né la modificazione
in senso più favorevole al reo potranno, invece, spiegare effetto nei confronti delle condotte
antecedenti all'emanazione del decreto, la cui qualificazione giuridica resterà affidata alla legge
previgente o a quella posteriore al d.l. non convertito, se più favorevole.
Con riguardo alla dichiarazione di incostituzionalità delle norme penali ci viene in aiuto
l'art.136 Costituzione, che recita: “Quando la Corte Costituzionale dichiara l'incostituzionalità di
una norma di legge o di un atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno
successivo alla pubblicazione della decisione.” Con successive pronunce si è ottenuto l'effetto di
consentire alla dichiarazione di incostituzionalità di spiegare effetti nel procedimento in cui la
relativa questione era stata sollevata. Così si arriva a dare efficacia retroattiva alle pronunce della
Corte abrogative di norme penali incriminatrici.
Quando la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge,
la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione.
La decisione della Corte è pubblicata e comunicata alle Camere ed ai Consigli regionali interessati,
affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali.
23
L’EFFICACIA DELLA LEGGE PENALE NELLO SPAZIO
Regole generali sull’efficacia della legge penale nello spazio. Nozione di “territorio dello
Stato” neldiritto vigente e determinazione del locus commissi delicti.
Il principio di territorialità della legge penale, enunciato dall'art.3 cp – obbligatorietà della
legge penale, seppur con più o meno ampie limitazioni, obbliga al rispetto di questa tutti i cittadini
o stranieri che si trovano nel territorio dello Stato e altresì tutto coloro che, cittadini e stranieri, si
trovano all'estero a determinate condizioni.
Art. 3.
La legge penale italiana obbliga tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano nel territorio dello Stato , salve le
La legge penale italiana obbliga altresì tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano all'estero, ma limitatamente ai
Per cittadino si intende chi appartiene per origine o elezione ai luoghi soggetti alla sovranità dello
Stato e gli apolidi residenti nel territorio dello Stato. Quanto alla nozione di territorio dello Stato,
agli effetti penali è tale “il territorio della Repubblica e ogni altro luogo soggetto alla sovranità dello
Stato”. La territorialità è inoltre estesa alle navi e agli aeromobili di nazionalità italiana.
Leggiamo l'art.6 cp – reati commessi nel territorio dello Stato: “Il reato si considera commesso
nel territorio dello Stato, quando l'azione o omissione che lo costituisce è ivi avvenuta in tutto o in
parte, ovvero si è verificato l'evento che è la conseguenza dell'azione o dell'omissione”. Questo
significa che si applicherà la legge penale italiana sia all'ipotesi dell'omicidio compiuto da chi, al di
qua del confine dello Stato, spara e uccide una persona che si trova al di là del confine, sia alla
ipotesi inversa; e che dovrà considerarsi “commesso nel territorio dello Stato” anche quel reato di
cui solo un segmento si sia ivi realizzato: si pensi al transito in Italia di un pacco postale contenente
droga, proveniente da uno Stato estero a persona residente in altro Stato estero.
Art. 6.
Chiunque commette un reato nel territorio dello Stato è punito secondo la legge italiana.
Il reato si considera commesso nel territorio dello Stato , quando l'azione o l'omissione, che lo costituisce, è ivi avvenuta
in tutto o in parte, ovvero si è ivi verificato l'evento che è la conseguenza dell'azione od omissione.
E' punito secondo la legge italiana il cittadino o lo straniero che commette in territorio estero taluno dei seguenti reati:
2) delitti di contraffazione del sigillo dello Stato e di uso di tale sigillo contraffatto;
24
3) delitti di falsità in monete aventi corso legale nel territorio dello Stato, o in valori di bollo o in carte di pubblico
credito italiano;
4) delitti commessi da pubblici ufficiali a servizio dello Stato, abusando dei poteri o violando i doveri inerenti alle loro
funzioni;
5) ogni altro reato per il quale speciali disposizioni di legge o convenzioni internazionali stabiliscono l'applicabilità
Si tratta di reati particolarmente gravi nei riguardi dello Stato, come i delitti contro la personalità
dello Stato, delitti di contraffazione del sigillo dello Stato, falsità di moneta avente corso legale,
delitti commessi da pubblici ufficiali a servizio dello Stato e ogni altro reato per il quale speciali
disposizioni di legge o convenzioni internazionali stabiliscono l'applicabilità della legge penale
italiana.
B)L'art.9 co1 cp – delitto comune del cittadino all’estero stabilisce che è anche punibile secondo
la legge italiana il cittadino che commette in territorio estero un delitto per il quale la legge italiana
prevede la pena dell'ergastolo o della reclusione non inferiore, nel minimo, a 3 anni. La punibilità è
condizionata dalla presenza del colpevole nel territorio dello Stato.
Art. 9.
Il cittadino, che, fuori dei casi indicati nei due articoli precedenti, commette in territorio estero un delitto per il quale la
legge italiana stabilisce la pena di morte (1) o l'ergastolo, o la reclusione non inferiore nel minimo a tre anni, è punito
secondo la legge medesima, sempre che si trovi nel territorio dello Stato.
Se si tratta di delitto per il quale è stabilita una pena restrittiva della libertà personale di minore durata, il colpevole è
punito a richiesta del ministro della giustizia ovvero a istanza, o a querela della persona offesa.
Nei casi preveduti dalle disposizioni precedenti, qualora si tratti di delitto commesso a danno delle Comunità europee,
di uno Stato estero (2) o di uno straniero, il colpevole è punito a richiesta del ministro della giustizia, sempre che
l'estradizione di lui non sia stata conceduta, ovvero non sia stata accettata dal Governo dello Stato in cui egli ha
commesso il delitto.
L'art.10 cp – delitto comune dello straniero all’estero, disciplina l'ipotesi di delitti commessi in
territorio estero da uno straniero “a danno dello Stato Italiano”: il fatto è punibile solo se la pena
prevista è l'ergastolo o la reclusione non inferiore, nel minimo, a 1 anno, che il colpevole si trovi nel
territorio dello Stato e che vi sia richiesta del Ministro di Grazia e Giustizia, ovvero su istanza o
querela della persona offesa.
Art. 10.
Lo straniero, che, fuori dei casi indicati negli articoli 7 e 8, commette in territorio estero, a danno dello Stato o di un
cittadino, un delitto per il quale la legge italiana stabilisce la pena di morte ( 1) o l'ergastolo, o la reclusione non inferiore
nel minimo a un anno, è punito secondo la legge medesima, sempre che si trovi nel territorio dello Stato, e vi sia
richiesta del ministro della giustizia, ovvero istanza o querela della persona offesa.
25
Se il delitto è commesso a danno delle Comunità europee, di uno Stato estero o di uno straniero, il colpevole è punito
secondo la legge italiana, a richiesta del ministro della giustizia, sempre che:
2. si tratti di delitto per il quale è stabilita la pena di morte ( 1) o dell'ergastolo, ovvero della reclusione non inferiore nel
3. l'estradizione di lui non sia stata conceduta, ovvero non sia stata accettata dal Governo dello Stato in cui egli ha
C)L'art.8 cp – delitto politico commesso all’estero, contiene la definizione generale del delitto
politico: “Agli effetti della legge penale, è delitto politico ogni delitto che offende un interesse
politico dello Stato, ovvero un diritto polito del cittadino. È anche considerato delitto politico il
delitto comune determinato, in tutto o in parte, da motivi politici”.
Art. 8.
Il cittadino o lo straniero, che commette in territorio estero un delitto politico non compreso tra quelli indicati nel n. 1
dell'articolo precedente, è punito secondo la legge italiana , a richiesta del ministro della giustizia .
Se si tratta di delitto punibile a querela della persona offesa , occorre, oltre tale richiesta, anche la querela.
Agli effetti della legge penale, è delitto politico ogni delitto, che offende un interesse politico dello Stato, ovvero un
diritto politico del cittadino. E' altresì considerato delitto politico il delitto comune determinato, in tutto o in parte, da
motivi politici.
Come si può notare la definizione è molto ampia. È delitto oggettivamente politico quello che
offende un interesse politico dello Stato, nella sua nozione comprensiva di popolo, territorio,
sovranità, forma di governo. Ricomprendiamo anche quei delitti che ledono un diritto politico del
cittadino, inteso come diritto di partecipazione alla formazione della volontà dello Stato; delitto
soggettivamente politico è invece il delitto comune che sia “determinato in tutto o in parte da
motivi politici.”
L'estradizione è un istituto del diritto internazionale che consiste nella consegna di un individuo, da
parte di uno Stato ad un altro Stato, affinché sia giudicato (estradizione processuale) o sottoposto
all'esecuzione della pena (estradizione esecutiva); è attiva quando è richiesta, passiva quando
concessa. Nel nostro ordinamento è ammessa solo a regime di doppia incriminazione e solo se è
consentita dalle convenzioni internazionali.
26
I LIMITI PERSONALI ALL’OBBLIGATORIETA’
DELLA LEGGE PENALE: LE “IMMUNITA’”
27
PARTE TERZA
IL REATO
L'esercizio di un diritto o l'adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della
Se un fatto costituente reato è commesso per ordine dell'autorità, del reato risponde sempre il pubblico ufficiale che ha
dato l'ordine.
Risponde del reato altresì chi ha eseguito l'ordine, salvo che, per errore di fatto abbia ritenuto di obbedire a un ordine
legittimo.
Non è punibile chi esegue l'ordine illegittimo, quando la legge non gli consente alcun sindacato sulla legittimità
dell'ordine.
Fermo sempre restando il fatto che la presa d'atto dell'esistenza di una norma permissiva, che rende
lecito (non-antigiuridico) il fatto, non può essere confuso o ricompreso nella dimensione della
tipicità, neppure come un suo elemento negativo.
Essenziale a tale modello tripartito è proprio l'esigenza che, dopo l'accertamento del fatto, occorre
procedere ad una ulteriore indagine concernente la sua antigiuridicità e, a decidere di questa, sarà il
rapporto del fatto con l'intero ordinamento giuridico, ovvero con tutte le sue norme.
Antigiuridica è così solo la realizzazione di un fatto tipico quando è riconducibile solo sotto la
norma penale che lo vieta; essa sarà invece conforme al diritto, quindi non-antigiuridica, quando
sia riconducibile anche ad un'altra norma dell'ordinamento, che la consente o la impone: norma
penale che in realtà penale non è ed ha, proprio per questo, l'efficacia di escludere l'antigiuridicità
del fatto, non solo ai sensi del diritto penale, ma in assoluto, con l'effetto di impedire che al fatto si
ricolleghino anche eventuali conseguenze civilistiche, amministrative, etc.
Un punto di frizione tra la concezione tripartita e bipartita sta nel modo in cui vengono concepiti i
rapporti tra fatto tipico antigiuridicità. In polemica con la concezione tripartita Belinghiana stanno i
sostenitori della dottrina degli elementi negativi del fatto, che considera il fatto tipico come
antigiuridicità tipicizzata e configura nella esistenza di una causa di giustificazione una ipotesi di
esclusione dello stesso fatto tipico. Ne consegue un rovesciamento del procedimento tradizionale di
29
costruzione del reato: l'esistenza della antigiuridicità è indiziata dalla constatazione del fatto tipico,
ma può essere affermata solo quando sia accertata la mancanza di cause di giustificazione.
Per la concezione bipartita del reato, viceversa, è l'antigiuridicità a costituire il presupposto della
tipicità. Il carattere tipico sarebbe dato appunto dalla sua antigiuridicità e perciò, presupporrebbe
anche la mancanza di cause di giustificazione.
La questione a cui la proposta di uno schema bipartito del reato chiede di dare una risposta è questa:
se le cause di giustificazione siano realmente ciò che il nome designa, vale a dire circostanze la cui
sussistenza ha l'effetto, appunto, di giustificare (rendere quindi lecito) il compimento di una azione
o non siano, invece, circostanze che eliminano in radice la sussistenza della stessa condotta tipica.
Lo Stato deve fornirci la materia dei suoi divieti, deve darci il “quid” del divieto descrivendolo
chiaramente. La realizzazione della condotta vietata non è sempre “incondizionatamente
antigiuridica”. Le norme che “permettono” ciò che l'ordinamento vieta in nessun modo limitano o
modificano la materia del divieto ma, semplicemente, eliminano l'obbligo di osservare il divieto in
quella particolare situazione. Se la materia del divieto è l'uccisione di un uomo, attraverso il
momento “legittima difesa” essa non viene eliminata, ma ciò che viene eliminata è l'efficacia del
divieto di uccidere, che in quella particolare situazione non si applica.
L'errore fondamentale della dottrina degli elementi negativi del fatto sta proprio nel contestare una
reale differenza di valore giuridico fra ciò che è permesso e ciò che è irrilevante dal punto di vista
giuridico-penale. Compiere una passeggiata è un fatto del tutto irrilevante per il diritto penale,
perché assolutamente “non tipico”; uccidere un uomo in stato di legittima difesa non è, invece, per
nulla “indifferente” dal punto di vista del diritto penale.
Si tratta infatti di una condotta “autorizzata” dall'ordinamento, ma non di una condotta “irrilevante”.
In altre parole, vi sono comportamenti rilevanti in quanto tipici, che sono proibiti in quanto
antigiuridici, e vi sono comportamenti, anch'essi rilevanti per il diritto penale in quanto tipici ma
che non sono proibiti dall'ordinamento in quanto da esso permessi perchè giustificati. Questi ultimi
vanno distinti da tutti quei comportamenti “non tipici”, che sono sempre irrilevanti per il diritto
penale.
La dottrina degli elementi negativi del fatto misconosce proprio la specifica funzione delle norme
permissive che, essendo destinate a rendere lecito il compimento di azioni previste come reato (cioè
di azioni tipiche) presuppongono necessariamente, per la loro rilevanza, l’esistenza di una condotta
che presenti già tutti gli elementi del “fatto che costituisce reato” e che, proprio per questo, non
possono essere configurate, al tempo stesso, come elementi di modificazione del fatto tipico.
La verità è che l'accertamento dell'antigiuridicità dipende proprio da due constatazioni successive e
autonome, ovvero la rispondenza dell'azione al fatto e la negazione di eventuali cause di
giustificazione.
I limiti della concezione belinghiana e la successiva evoluzione della dottrina del fatto tipico.
Col passare del tempo si fece strada l'idea della esistenza di fattispecie in cui l'illiceità non può
essere definita senza il riferimento ad elementi psicologici, o genericamente soggettivi.
Alcuni reati, ad esempio, si possono distinguere da altri solo per il diverso atteggiamento del reo, il
quale “sorpassa” il fatto mirando ad un ulteriore risultato, e un esempio sta nella differenza tra il
ratto a fine di matrimonio da quello a fine di libidine.
La scoperta di questi elementi mostrò che la distinzione tra antigiuridicità e colpevolezza non
poteva fondarsi sulla separazione tra oggettivo e soggettivo. E proprio il superamento della
contrapposizione tra questi due momenti, su cui si fondava la sistematica classica, spianò la strada a
nuove teorie.
Decisivo a riguardo fu Welzel che coniugò una rinnovata concezione di bene giuridico, quale
elemento di ricostruzione della fattispecie; innanzitutto occorre restituire la funzione originaria al
bene come oggetto di tutela normativa contro cui si dirige la condotta incriminata.
Nasce così un nuovo criterio per valutare l'idoneità dell’azione a costituire il nucleo del fatto tipico:
questa non può più essere determinata esclusivamente in base alla sua efficienza causale per la
lesione del bene, ma deve essere stabilita a partire dal suo significato come processo della vita
sociale. In questo modo, con Welzel, si supera la concezione meramente “causale”, a favore di una
sua configurazione come azione finalistica. Anche se l'azione umana, per essere posta a base del
fatto tipico, doveva essere azione volontaria, il contenuto della volontà non giocava alcun ruolo per
il configurarsi del fatto tipico.
Il concetto di azione, così inteso, aveva solo potuto svolgere una funzione negativa, di separazione
da tutto ciò che, non essendo “sorretto” da volontà, non è azione; ma non appariva idoneo a
configurare la condotta umana nello specifico significato di valore della tipicità, che doveva essere
desunta unicamente dalla sua efficienza causale per la lesione del bene. La dimensione della
causalità materiale, infatti, non è di per sé idonea a segnalare le differenze tra “uccidere” e
“cagionare la morte”: vale a dire fra l’azione come struttura significativa e l’azione come processo
causale.
Ora, ciò che distingue l'azione dell'uomo da ogni altro accadimento della realtà è il fatto che essa
costituisce esercizio della finalità, vale a dire attività orientata in modo finalistico; l'uomo intravede
i possibili effetti della sua azione e così “pilota” il proprio agire verso un determinato risultato.
Azione è, quindi, un accadere finalistico e non semplicemente causale.
La volontà cosciente dello scopo, che guida il divenire causale, costituisce la “spina dorsale”
dell'azione finalistica. Si può agevolmente sostenere che la volontà finalistica, in quanto dà forma
obiettivamente all'accadere esterno, fa parte dell'azione come suo elemento costitutivo. Se qualcuno
resta ferito da una revolverata, sulla base della causalità, potremo dire soltanto che un uomo ha
riportato una lesione a causa, appunto, di un'arma da fuoco; ma per stabilire se sia trattato di un
ferimento, di un fatto accidentale, di un tentato omicidio o di una lesione colposa, dovremo fare
riferimento in primo luogo al contenuto della volontà dell'agente.
Alla concezione tradizionale che esauriva la tipicità dell'azione nella sua efficienza per la lesione
del bene, la dottrina finalistica sostituiva, così, il concetto dell'azione come processo della vita
sociale, quale è appunto alla base della descrizione normativa del reato.
31
Proprio il nuovo concetto di azione costituì la premessa di una revisione della sistematica del reato,
a partire dalla nozione di fatto tipico.
Poiché finalità e dolo sono nozioni del tutto equivalenti, la prima conseguenza della nuova dottrina
dell'azione fu proprio la inclusione del dolo nel fatto tipico, il cui ufficio è appunto quello di
descrivere la condotta vietata, in tutti i suoi fattori costitutivi.
32
IL FATTO
A) Autore
Autore è colui che realizza nel mondo esterno il fatto tipico di un determinato reato; può essere solo
un essere umano ovvero una persona fisica. La qualità di autore è del tutto indipendente dal giudizio
sulla “colpevolezza” del soggetto che agisce e dalla sua punibilità in concreto. Il minore non
imputabile che sottrae un oggetto al banco di un supermercato non per questo cessa di essere
“autore” del fatto tipico del furto.
Di regola, autore di un fatto preveduto dalla legge come reato può essere chiunque (“chiunque
cagiona la morte di un uomo...art.575 cp - omicidio).
Art. 575.
Omicidio.
Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno.
In alcuni casi però la sfera dei potenziali autori è circoscritta dalla legge a determinate categorie di
soggetti; ad esempio il delitto di infanticidio può essere commesso solo dalla madre del neonato
(art.578 cp – infanticidio in condizioni di abbandono materiale e morale).
Art. 578.
La madre che cagiona la morte del proprio neonato immediatamente dopo il parto, o del feto durante il parto, quando il
fatto è determinato da condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto, è punita con la reclusione da
A coloro che concorrono nel fatto di cui al primo comma si applica la reclusione non inferiore ad anni ventuno.
Tuttavia, se essi hanno agito al solo scopo di favorire la madre, la pena può essere diminuita da un terzo a due terzi.
I reati il cui fatto tipico può essere realizzato da qualsiasi persona si dicono reati comuni, mentre
quelli i cui autori possono essere solo determinate persone si definisco reati propri. Nel reato
proprio assume una specifica rilevanza la qualità o la posizione del soggetto attivo posto in una
particolare relazione rispetto al bene protetto dalla norma ed è proprio questa relazione che
determinata l'esistenza stessa dell'illecito penale, che non si configurerebbe in assenza di essa o si
configurerebbe in maniera diversa: un esempio della prima situazione è l'omissione di referto
(art.365 cp- omissione di referto), il cui fatto tipico può essere realizzato solo da chi esercita la
professione sanitaria; se tale omissione fosse commessa da una persona comune allora si parlerebbe
di appropriazione indebita.
Art. 365.
Omissione di referto.
Chiunque, avendo nell'esercizio di una professione sanitaria prestato la propria assistenza od opera in casi che possono
presentare i caratteri di un delitto pel quale si debba procedere d'ufficio, omette o ritarda di riferirne all'autorità indicata
34
nell'articolo 361 è punito con la multa fino a euro 516.
Questa disposizione non si applica quando il referto esporrebbe la persona assistita a procedimento penale.
Esistono tuttavia situazioni ambigue poiché, pur potendo essere poste in essere da chiunque,
richiedono che, al momento del fatto, il soggetto si trovi in una particolare relazione con il bene
protetto: pensiamo al delitto di falso giuramento (art.371 cp – falso giuramento della parte) e di
falsa testimonianza (art.372 cp – falsa testimonianza) che possono essere commessi certo da
“chiunque”, ma richiedono sempre che il soggetto attivo rivesta, al momento della condotta, la
qualità di parte in giudizio civile, cui sia stato deferito il giuramento, ovvero la qualità di testimone
davanti all'autorità giudiziaria.
Art. 371.
Chiunque, come parte in giudizio civile, giura il falso è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.
Nel caso di giuramento deferito d'ufficio, il colpevole non è punibile, se ritratta il falso prima che sulla domanda
Art. 372.
Falsa testimonianza.
Chiunque, deponendo come testimone innanzi all'autorità giudiziaria o alla Corte penale internazionale, afferma il falso
o nega il vero, ovvero tace, in tutto o in parte, ciò che sa intorno ai fatti sui quali è interrogato, è punito con la reclusione
Chiunque, senza essere concorso nei reati preveduti dai tre articoli precedenti, detiene per il commercio, pone in
commercio, ovvero distribuisce per il consumo acque, sostanze o cose che sono state da altri avvelenate, corrotte,
adulterate o contraffatte, in modo pericoloso alla salute pubblica, soggiace alle pene rispettivamente stabilite nei detti
articoli.
Anche se nella maggior parte dei casi soggetto passivo può essere “chiunque”, in non pochi casi le
qualità personali del soggetto passivo sono determinanti, come nel caso della corruzione di
35
minorenne (art.609 quinquies cp – corruzione di minorenne), dove è necessario che il soggetto
passivo abbia una età minore di 14 anni.
Art. 609-quinquies.
Corruzione di minorenne.
Chiunque compie atti sessuali in presenza di persona minore di anni quattordici, al fine di farla assistere, è punito con la
Salvo che il fatto costituisca più grave reato, alla stessa pena di cui al primo comma soggiace chiunque fa assistere una
persona minore di anni quattordici al compimento di atti sessuali, ovvero mostra alla medesima materiale pornografico,
La pena è aumentata.
b) se il reato è commesso da persona che fa parte di un'associazione per delinquere e al fine di agevolarne l'attività;
c) se il reato è commesso con violenze gravi o se dal fatto deriva al minore, a causa della reiterazione delle condotte, un
pregiudizio grave.
La pena è aumentata fino alla metà quando il colpevole sia l'ascendente, il genitore, anche adottivo, o il di lui
convivente, il tutore, ovvero altra persona cui, per ragioni di cura, di educazione, di istruzione, di vigilanza o di
custodia, il minore è affidato, o che abbia con quest'ultimo una relazione di stabile convivenza.
Rapina.
Chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, mediante violenza alla persona o minaccia, s'impossessa
della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene è punito con la reclusione da tre a dieci anni e con la multa da euro
Alla stessa pena soggiace chi adopera violenza o minaccia immediatamente dopo la sottrazione, per assicurare a sé o ad
La pena è della reclusione da quattro anni e sei mesi a venti anni e della multa da euro 1.032 a euro 3.098:
1) se la violenza o minaccia è commessa con armi , o da persona travisata, o da più persone riunite;
3) se la violenza o minaccia è posta in essere da persona che fa parte dell'associazione di cui all'articolo 416-bis;
36
3-bis) se il fatto è commesso nei luoghi di cui all’articolo 624-bis o in luoghi tali da ostacolare la pubblica o privata
difesa;
3-quater) se il fatto è commesso nei confronti di persona che si trovi nell’atto di fruire ovvero che abbia appena fruito
dei servizi di istituti di credito, uffici postali o sportelli automatici adibiti al prelievo di denaro.
Le circostanze attenuanti, diverse da quella prevista dall’articolo 98, concorrenti con le aggravanti di cui al terzo
comma, numeri 3), 3-bis), 3-ter) e 3-quater), non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a queste e le
diminuzioni di pena si operano sulla quantità della stessa risultante dall’aumento conseguente alle predette aggravanti.
Anche la natura e la qualità dell'oggetto concorrono a definire la tipicità del fatto dal punto di vista
oggettivo-materiale. La fattispecie del furto e della appropriazione indebita (art.646 cp –
appropriazione indebita) si realizzano solo se l'oggetto materiale dell'azione è il denaro o la cosa
mobile altrui.
Art. 646.
Appropriazione indebita.
Chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropria il denaro o la cosa mobile altrui di cui abbia, a
qualsiasi titolo, il possesso, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino
a euro 1.032 .
Si procede d'ufficio, se ricorre la circostanza indicata nel capoverso precedente o taluna delle circostanze indicate nel n.
11 dell'articolo 61.
Danneggiamento.
Chiunque distrugge, disperde, deteriora o rende, in tutto o in parte, inservibili cose mobili o immobili altrui, è punito, a
querela della persona offesa, con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a euro 309.
La pena è della reclusione da sei mesi a tre anni e si procede d'ufficio, se il fatto è commesso:
2) da datori di lavoro in occasione di serrate, o da lavoratori in occasione di sciopero, ovvero in occasione di alcuno dei
3) su edifici pubblici o destinati a uso pubblico o all'esercizio di un culto, o su cose di interesse storico o artistico
ovunque siano ubicate o su immobili compresi nel perimetro dei centri storici ovvero su immobili i cui lavori di
costruzione, di ristrutturazione, di recupero o di risanamento sono in corso o risultano ultimati, o su altre delle cose
5) sopra piantate di viti, di alberi o arbusti fruttiferi, o su boschi, selve o foreste, ovvero su vivai forestali destinati al
rimboschimento;
5-bis) sopra attrezzature e impianti sportivi al fine di impedire o interrompere lo svolgimento di manifestazioni sportive.
Peri reati di cui al secondo comma, la sospensione condizionale della pena è subordinata all’eliminazione delle
conseguenze dannose o pericolose del reato, ovvero, se il condannato non si oppone, alla prestazione di attività non
retribuita a favore della collettività per un tempo determinato, comunque non superiore alla durata della pena sospesa,
D) Condotta
Nucleo essenziale della fattispecie oggettivo-materiale è la condotta del soggetto che, per essere
tipica, deve corrispondere, nelle sue esterne modalità di realizzazione, a quella descritta da una
norma incriminatrice speciale. Tale condotta tipica può consistere in un fare, cioè in un'azione,
oppure in un non fare ovvero in una omissione. Proprio la distinzione tra un comportamento attivo
e uno omissivo ha grande importanza sistematica.
E) Evento
I cd reati di pura condotta.
Nella maggior parte dei casi la legge non si limita a descrivere l'azione o l'omissione vietata, ma
contiene il riferimento espresso ad un accadimento, che modifica la realtà preesistente, conseguente
alla condotta dell'autore.
Il tipo di relazione che deve esistere tra la condotta e il suo risultato si definisce rapporto di
causalità: esso rappresenta la premessa essenziale dell'imputazione dell'evento alla condotta di un
determinato autore.
I reati in rapporto ai quali la legge penale descrive, quale elemento costitutivo della fattispecie
legale, un determinato accadimento naturalistico, ben distinto dalla condotta, anche se individuabile
come sua conseguenza, si dicono comunemente reati di evento.
I reati la cui fattispecie legale si esaurisce nella descrizione del comportamento incriminato
vengono definiti invece reati di pura condotta e vengono distinti in reati di pura azione e reati di
pura omissione.
Caratteristico reato con evento naturalistico è l'omicidio (art.575 cp - omicidio).
Art. 575.
Omicidio.
Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno.
Reato di pura azione nel senso appena accennato è il falso giuramento in giudizio civile (art.371
cp – falso giuramento della parte).
Art. 371.
Chiunque, come parte in giudizio civile, giura il falso è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.
Nel caso di giuramento deferito d'ufficio, il colpevole non è punibile, se ritratta il falso prima che sulla domanda
38
giudiziale sia pronunciata sentenza definitiva, anche se non irrevocabile.
Reato di pura omissione è l'omessa denuncia di reato (art.361 cp – omessa denuncia di reato da
parte del pubblico ufficiale e art.362 cp – omessa denuncia da parte di un incaricato di
pubblico servizio).
Art. 361.
Il pubblico ufficiale, il quale omette o ritarda di denunciare all'autorità giudiziaria, o ad un'altra autorità che a quella
abbia obbligo di riferirne, un reato di cui ha avuto notizia nell'esercizio o a causa delle sue funzioni, è punito con la
La pena è della reclusione fino ad un anno, se il colpevole è un ufficiale o un agente di polizia giudiziaria, che ha avuto
Le disposizioni precedenti non si applicano se si tratta di delitto punibile a querela della persona offesa.
Art. 362.
L'incaricato di un pubblico servizio che omette o ritarda di denunciare all'autorità indicata nell'articolo precedente un
reato del quale abbia avuto notizia nell'esercizio o a causa del servizio, è punito con la multa fino a euro 103.
Tale disposizione non si applica se si tratta di un reato punibile a querela della persona offesa, né si applica ai
responsabili delle comunità terapeutiche socio-riabilitative per fatti commessi da persone tossicodipendenti affidate per
Considerando l'evento dal punto di vista della lesione del bene protetto, non esistono reati senza
evento, poiché il reato è, per definizione, aggressione ad un bene giuridico e il risultato di tale
aggressione non può che identificarsi con un evento di lesione o messa in pericolo del bene. Questo
però non necessariamente coincide con una modificazione della realtà naturale.
Anche i “reati di pura condotta” implicano, in realtà, un “evento” di lesione del bene, anche se esso
non si manifesta nella forma di una modificazione del mondo esterno, distinguibile dalla condotta
del soggetto.
Per meglio ancorare alla nozione di fatto tipico il requisito di aggressione al bene, una parte della
dottrina ricorre alla nozione di “offesa” e la distingue da quella di “evento”: per offesa si dovrebbe
intendere la lesione o messa in pericolo del bene protetto, quale requisito essenziale del fatto,
mentre alla nozione di evento dovrebbe riservarsi un significato più ristretto, sostanzialmente
coincidente con quella dell'evento in senso naturalistico. L'offesa sarebbe quindi presente in tutti i
reati, ivi compresi quelli di pura condotta, l'evento, invece, sarebbe presente solo in quelle
fattispecie in cui esso appare isolabile dalla condotta, in quanto modificazione del mondo esterno
sensibile.
Le tipologie dell’offesa.
Il realizzarsi della condotta tipica può avere come conseguenza la lesione del bene protetto o la sua
semplice messa in pericolo. Nella maggior parte dei casi la legge richiede una effettiva lesione:
basti pensare all'omicidio che si realizza quando all'azione omicida segue la morte di un uomo. Al
39
tempo stesso, e non di rado, per i beni di una certa importanza basta la semplice messa in pericolo.
In questo modo diventa chiara la distinzione tra i reati di danno e reati di pericolo, facilmente
praticabile in relazione ai reati con evento “materiale” (o naturalistico), in cui la norma
incriminatrice isola nettamente, come risultato dell'azione o omissione costituente reato, il dato che
corrisponde all'evento e che concreti, al tempo stesso, l'offesa (lesione o messa in pericolo) del
bene. Non appena però il bene perde il suo spessore materiale e corrisponde ad un'entità di carattere
ideale (pensiamo al pudore, all'onore, l'ordine pubblico), diventa più difficile la valutazione legale.
Da qui anche la tendenza a connotare come “reati di pericolo” tutte le fattispecie in cui l'oggetto
dell'aggressione sia un bene di carattere “ideale”.
Nell'ambito dei reati di pericolo si distingue tradizionalmente tra reati di pericolo concreto e reati
di pericolo astratto: la caratteristica differenziale sta nel fatto che, mentre nei reati di pericolo
concreto l'accertamento del verificarsi del pericolo deve essere compiuto caso per caso da giudice,
nei reati di pericolo astratto tale accertamento non sarebbe richiesto, essendo invece sufficiente che
si sia realizzata la condotta descritta nella fattispecie incriminatrice di parte speciale, a cui la legge
assegna un generico carattere di pericolosità, rispetto a determinati beni giuridici.
I reati di pericolo concreto sono di agevole individuazione nel momento in cui si accerti l'avvenuto
verificarsi del pericolo: esempio è l'art.432 cp – attentati alla sicurezza dei trasporti, che punisce
“chiunque pone in pericolo la sicurezza dei pubblici trasporti”.
Art. 432.
Chiunque, fuori dei casi preveduti dagli articoli precedenti, pone in pericolo la sicurezza dei pubblici trasporti per terra,
per acqua o per aria, è punito con la reclusione da uno a cinque anni.
Si applica la reclusione da tre mesi a due anni a chi lancia corpi contundenti o proiettili contro veicoli in movimento,
Se dal fatto deriva un disastro, la pena è della reclusione da tre a dieci anni.
Accertare l'esistenza di un pericolo significa accertare l'esistenza di una situazione oggettiva, il cui
evolversi “avrebbe verosimilmente condotto ad un evento di lesione del bene protetto”.
Occorre ora soffermarsi su questa definizione di pericolo, poiché contiene alcune implicazioni:
a) accertamento del pericolo: si traduce in un giudizio sulla “pericolosità” di situazioni di fatto,
obiettivamente accertate. Mettere i massi sui binari prima del passaggio di un treno fonda il giudizio
di pericolosità per la sicurezza dei pubblici trasporti.
b) oggetto del giudizio di pericolosità: può essere tanto una situazione di fatto che consegue alla
condotta dell'agente quanto la condotta medesima, se in essa è insito il rischio del verificarsi di un
certo evento dannoso. Un esempio potrebbe essere quello di chi compia, a bordo di un natante,
spericolate evoluzioni in mare, intralciando il percorso di un mezzo marittimo di linea.
c) prognosi postuma: è un giudizio di probabilità che, pur essendo formulato dopo il fatto, tuttavia
si riporta idealmente alla precedente situazione, per dedurne la “verosimiglianza” di una probabile
verificazione dell'evento materiale da essa cagionato.
Come si è già detto, si parla di reati di pericolo astratto in relazione a quelle ipotesi incriminate in
quanto la condotta prevista è suscettibile di esporre a pericolo un determinato bene, e accerta che la
messa in pericolo sia effettivamente verificata. Per non incorrere in superficiali errori interpretativi,
dobbiamo impostare correttamente il problema per tali ipotesi di reato: si deve prendere atto che è
del tutto impensabile che si rinunci alla tutela di determinati beni che non sarebbe realizzabile se
ristretta alle sole ipotesi di pericolo concreto.
40
Si può quindi dire che nel reato di pericolo astratto il legislatore abbia incriminato il fatto per la sua
attitudine lesiva rispetto al bene tutelato, pure senza richiedere che si accerti, caso per caso, il
verificarsi di un danno effettivo o di un concreto pericolo di danno.
Diviene così chiaro come il problema dei reati di pericolo astratto sia, in realtà, quello della
vincibilità o meno della presunzione di pericolo, insita nella previsione legislativa.
Dobbiamo però distinguere i casi in cui il legislatore, pur non richiedendo un evento di pericolo
concreto, ha tuttavia delineato la fattispecie in modo tale che la previsione normativa impone la
valutazione caso per caso della “pericolosità” della condotta. Norme di questo tipo sono contenute
negli art.440 cp – adulterazione e contraffazione di sostanze alimentari e art.441cp –
adulterazione o contraffazione di altre cose in danno della pubblica salute, che puniscono chi
“mette in pericolo” la salute pubblica.
Art. 440.
Chiunque, corrompe o adultera acque o sostanze destinate all'alimentazione, prima che siano attinte o distribuite per il
consumo, rendendole pericolose alla salute pubblica, è punito con la reclusione da tre a dieci anni.
La stessa pena si applica a chi contraffà, in modo pericoloso alla salute pubblica, sostanze alimentari destinate al
commercio.
Art. 441.
Chiunque adultera o contraffà, in modo pericoloso alla salute pubblica, cose destinate al commercio, diverse da quelle
indicate nell'articolo precedente, è punito con la reclusione da uno a cinque anni o con la multa non inferiore a euro 309.
Il pericolo incriminato rimane “astratto”, nel senso che esso non si è ancora profilato, ma
l'affermazione della tipicità della condotta è interamente affidata ad un giudizio sulla sua attitudine
lesiva.
L'idoneità di una condotta a cagionare un pericolo per il bene protetto deve essere valutata per
giudicare della tipicità del fatto, quando la legge la descrive con l'esclusivo riferimento alla tensione
degli atti verso un risultato di lesione del bene. Si pensi all'art.241 cp – attentati contro
l’integrità, l’indipendenza o l’unità dello Stato, che punisce con l'ergastolo chi “commette un
fatto diretto a sottoporre il territorio dello Stato o parte di esso alla sovranità di uno Stato straniero”.
Art. 241.
Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque compie atti violenti diretti e idonei a sottoporre il territorio dello
Stato o una parte di esso alla sovranità di uno Stato straniero, ovvero a menomare l'indipendenza o l'unità dello Stato, è
La pena è aggravata se il fatto è commesso con violazione dei doveri inerenti l'esercizio di funzioni pubbliche.
Qui l'elusione della regola dell'idoneità comporterebbe come conseguenza la rilevanza penale di
qualsiasi manifestazione soggettivamente diretta verso il fine descritto nella norma, anche in
assenza della benché minima attitudine lesiva: come nel caso di un Altoatesino di lingua tedesca che
invii una petizione al Governo Austriaco per sollecitare l'annessione dell'Alto Adige all'Austria.
41
Una parte della dottrina propone, opportunamente, di riservare solo a questa categoria di fatti la
denominazione di reati a pericolo astratto, suggerendo di connotare come reati di pericolo
presunto quelle ipotesi normative in cui la legge descrive in modo più o meno puntuale la condotta
incriminata, senza lasciare alcuno spazio all'interprete e al giudice in ordine alla valutazione del
pericolo, che il legislatore ha ritenuto di collegare in via, appunto, presuntiva, alla condotta vietata.
Ipotesi a titolo esemplificativo sono le norme che vietano la fabbricazione, la detenzione e il porto
abusivo di armi e materiali esplodenti, detenzione e porto abusivo di armi e detenzione e spaccio di
sostanze stupefacenti.
Solo interpretando le singole fattispecie possiamo stabilire se parlare di pericolo presunto o no.
Rapporto di causalità.
Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l'evento dannoso o pericoloso, da cui
dipende l'esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione.
In ogni caso l'art.40 cp non chiarisce cosa debba intendersi per rapporto di causalità, né indica i
criteri per la sua individuazione. L'esistenza di un rapporto causale fra condotta ed evento
42
costituisce un elemento senz'altro necessario, ma non sempre sufficiente a fondare l'imputazione
oggettiva.
A tal proposito il successivo art.41 cp – concorso di cause può darci una mano, dal momento che
stabilisce:
Art. 41.
Concorso di cause.
Il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall'azione od omissione del
Le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l'evento. In
tal caso, se l'azione od omissione precedentemente commessa costituisce per sé un reato, si applica la pena per questo
stabilita.
Le disposizioni precedenti si applicano anche quando la causa preesistente o simultanea o sopravvenuta consiste nel
In tal modo, l'art.41 cp – concorso di cause sancisce l'irrilevanza, in via di principio, delle cd
concause concorrenti o concomitanti dell'evento, vale a dire di quegli ulteriori fattori del
processo causale, produttivo dell'evento, che siano ad essa preesistenti, coevi o sopravvenuti.
Dobbiamo ricordare però che l'enunciato dell'art.41 cp – concorso di cause è sicuramente
incompleto, prima di tutto perchè è difficile comprendere quando e a quali condizioni una causa
“sopravvenuta” possa ritenersi sufficiente “da sola” a determinare l'evento. Ciò, a stretto rigore, è
impossibile, dal momento che la causa sopravvenuta, per definizione, si innesta in un processo
causale già avviato. È estremamente difficile, d'altra parte, segnare il confine che dovrebbe separare
le cause sopravvenute “da sole sufficienti a determinare l'evento”, da quelle che non possiedono tale
caratteristica.
Quanto meno il co2 art.41 cp – concorso di cause, va letto nel senso che la causa sopravvenuta
esclude la rilevanza del rapporto di causalità fra condotta ed evento quando, per la sua natura e le
sue caratteristiche, le si debba riconoscere, già in astratto, una efficienza causale, rispetto alla
produzione dell'evento, che permetta di prescindere totalmente dalla circostanza “storica” che la
collega alla condotta dell'autore.
Da questo punto di vista appare certo più visibile la differenza che passa tra l'incendio dell'ospedale,
da una parte, e le complicazioni medico-chirurgiche, dall'altra.
Non a caso la dottrina, per risolvere il problema della rilevanza delle “concause”, usava far leva
sulla distinzione fra causa e occasione, degradando appunto a mera occasione la condotta
dell'agente quando l'effetto causale del fattore concomitante sia configurabile anche a prescindere
dalla coincidenza con i fattori causali direttamente riconducibili alla condotta dell'autore.
Comunque, il confine tra “causa” e “occasione”, rimane difficile da tracciare con precisione. Sta di
fatto che è proprio la ratio dell'art.41 cp a risultare di non agevole costruzione e, al tempo stesso,
non si può dire che l'art.41 cp esaurisca l'intera tematica del rapporto causale, nel punto in cui
stabilisce, in via di principio, l'irrilevanza dei fattori concomitanti.
Ora analizziamo quelle che tradizionalmente sono le tre principali teorie che, nel corso del tempo,
si sono contese il campo per definire i termini della dipendenza causale:
1 – Teoria della conditio sine qua non.
Tale teoria ritiene che deve considerarsi causa ogni singola condizione dell'evento, ogni antecedente
senza il quale l'evento non sarebbe venuto in essere: essa considera equivalenti tutte le condizioni,
portando, però, a conseguenze assurde: ad esempio, chi ferisce una persona, deceduta
successivamente per un incidente fortuito durante il tragitto verso l'ospedale, dovrebbe rispondere di
43
omicidio consumato e non solo di tentato omicidio o lesioni, avendo posto in essere una condizione
antecedente ed essenziale all'evento “morte”.
2 – Teoria della causalità adeguata.
Questa ritiene che il rapporto di causalità tra condotta ed evento sussiste quando un soggetto ha
determinato l'evento con una azione adeguata e cioè idonea a determinare l'evento, in chiave di
probabilità. Contro la teoria si obietta che essa fa riferimento ad un elemento, la “probabilità”
appunto, estraneo alla causazione effettiva dei fenomeni naturali. Essa finisce per limitare
eccessivamente il campo della responsabilità umana e rischia di considerare atipici gli effetti della
condotta in tutti i casi in cui l'evento è frutto di una data causa, ma sono ignoti i meccanismi del
processo di sviluppo causale (si pensi, ad esempio, al campo della farmacologia).
3 – Teoria della causalità umana.
Interpretando sistematicamente gli artt.40 e 41 cp si richiede per la sussistenza del rapporto di
causalità: che il soggetto abbia posto in essere una “condizione dell'evento”, un antecedente senza il
quale l'evento stesso non sarebbe venuto in essere; che il verificarsi dell'evento “non” dipenda dal
concorso di fattori causali eccezionali, cioè quelli che hanno una probabilità minima, insignificante,
di verificarsi, se non in rarissimi casi, sfuggendo alla signoria dell'uomo e risultando umanamente
imprevedibili.
La dottrina dominante, preso atto che il codice vigente si mostra orientato verso la teoria della
conditio sine qua non, ha in qualche modo “corretto”, “rimodernato”, tale teoria, apportandovi
alcuni temperamenti. Si è dunque pensato che:
a) occorre selezionare come antecedenti causali le sole condotte che assumono rilevanza rispetto
alla fattispecie incriminatrice, di volta in volta considerata. In ogni caso, la obiezione relativa
all'eccessiva estensione del concetto di causa non tiene conto della operatività del “dolo” e della
“colpa”, come fattori che contribuiscono a “circoscrivere” l'ambito di rilevanza di tutti i possibili
antecedenti del risultato lesivo;
b) in ordine al problema della causalità alternativa ipotetica (si pensi ai casa in cui, pur mancando
l'azione del soggetto, l'evento si sarebbe comunque verificato perchè prodotto da un'altra causa
intervenuta quasi contemporaneamente, esempio: distruzione di qualcosa con la dinamite, che
sarebbe stata distrutta comunque dal successivo incendio) si è detto che il rapporto di causalità
intercorre tra la condotta e l'evento concretamente verificatosi, nell'esempio visto, tra la condotta e
quell'evento (distruzione della cosa ad opera dello scoppio della dinamite) verificato hic et nunc –
qui e ora – e non con l'astratto evento-distruzione della cosa;
c) in ordine alla cd causalità addizionale (si pensi ai casi in cui un evento è prodotto dal concorso
di più condizioni, venute in essere separatamente e indipendentemente, e capace ciascuna di
produrre da sola l'evento; un esempio è costituito dalla somministrazione di più dosi di veleno da
parte di soggetti (che agiscono ciascuno all'insaputa dell'altro) si è detto che il procedimento di
eliminazione mentale (caratteristico della teoria condizionalistica: un'azione è conditio sine qua non
di un evento, se non può essere mentalmente eliminata senza che l'evento stesso venga meno) non
deve essere applicata in modo acritico: deve ritenersi che hanno efficacia causale le “condizioni
dell'evento che, cumulativamente considerate, ne costituiscano un presupposto necessario e che lo
sarebbero alternativamente se l'altra condizione mancasse...in realtà vanno ritenuti responsabili
entrambi gli agenti”.
Responsabilità per dolo o per colpa o per delitto preterintenzionale. Responsabilità obiettiva.
Nessuno può essere punito per un'azione od omissione preveduta dalla legge come reato, se non l'ha commessa con
coscienza e volontà.
Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se non l'ha commesso con dolo, salvi i casi
La legge determina i casi nei quali l'evento è posto altrimenti a carico dell'agente, come conseguenza della sua azione
od omissione.
Nelle contravvenzioni ciascuno risponde della propria azione od omissione cosciente e volontaria sia essa dolosa o
colposa.
Art. 43.
Il delitto:
è doloso, o secondo l'intenzione, quando l'evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell'azione od omissione e da
cui la legge fa dipendere l'esistenza del delitto, è dall'agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione
od omissione;
è preterintenzionale, o oltre l'intenzione, quando dall'azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più
è colposo, o contro l'intenzione quando l'evento, anche se preveduto, non è voluto dall'agente e si verifica a causa di
negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.
La distinzione tra reato doloso e reato colposo, stabilita da questo articolo per i delitti, si applica altresì alle
contravvenzioni, ogni qualvolta per queste la legge penale faccia dipendere da tale distinzione un qualsiasi effetto
giuridico.
a) Con l'incriminazione del reato doloso di azione la legge vieta di “volere” determinate condotte,
in quanto antecedenti causali di determinate lesioni di beni. Qui il livello di tipizzazione normativa
del fatto incriminato è massimo, e di regola si attua mediante la concreta descrizione dell'azione e/o
dell'evento che non si devono volere, essendone penalmente vietata la realizzazione finalistica.
46
b) Nell'incriminazione del reato colposo di azione la legge punisce i comportamenti che, per
definizione, sono indirizzati alla realizzazione di finalità penalmente indifferenti, rispetto ai quali
l'imprudenza, la negligenza, etc, si presentano come antecedenti causali. La legge penale, in altre
parole, incrimina l'intrapresa di azione, indirizzata ad un fine lecito, quando l'agente abbia tuttavia
trascurato di attivarsi nei modi opportuni, per scongiurare l'ingresso di conseguenze dannose per i
beni tutelati.
c) La peculiarità delle norme penali che prevedono il reato omissivo doloso consiste nel fatto che
esse contengono, sia pure per implicito, non già un divieto, ma un comando. Esse comandano di
intraprendere determinate azioni, in quanto idonee a realizzare situazioni socialmente positive o ad
evitare il realizzarsi di situazioni socialmente indesiderate; ciò che viene penalizzato è il mancato
attivarsi del soggetto. Il dolo i reati omissivi corrisponde all'omissione cosciente e volontaria
dell'azione che l'ordinamento si attende, con la consapevolezza di poter agire nel senso richiesto.
I reati si distinguono in delitti e contravvenzioni, secondo la diversa specie delle pene per essi rispettivamente stabilite
da questo codice.
Sono delitti i fatti costituenti reato per i quali la legge stabilisce le pene dell'ergastolo, della
reclusione o della multa; sono contravvenzioni quei fatti costituenti reato per i quali è dalla legge
comminata la pena dell'arresto ovvero quella dell'ammenda (art.17 cp – pene principali: specie).
Art. 17.
1) la morte;
2) l'ergastolo;
3) la reclusione;
4) la multa.
1) l'arresto;
2) l'ammenda.
Non esiste altro criterio che non sia quello del riferimento alla pena prevista dalla legge per stabilire
se ci si trovi difronte a un delitto o ad una contravvenzione.
Anche se i reati più gravi trovano collocazione nei delitti, tuttavia le due categorie dei reati non
sono distinguibili, in via di principio, né in base alla qualità dell'illecito né in base alla sua intrinseca
gravità.
I beni giuridici, anche di primaria importanza, vengono tutelati prevalentemente con il ricorso alle
contravvenzioni.
Si aggiunga che, proprio per il fatto che le contravvenzioni si presentano di più facile accertamento
e implicano, quindi, maggiore potenzialità repressive, accade frequentemente che il legislatore opti
47
per la qualificazione contravvenzionale, anche il presenza di fatti che potrebbero considerarsi
suscettibili di essere qualificati come delitti per la loro gravità.
In linea tendenziale si può dire che la scelta dell'incriminazione a titolo contravvenzionale sia
riservata agli illeciti caratterizzati:
a)dall'inosservanza di norme a carattere prevenzionistico-cautelare;
b)dall'inosservanza di norme concorrenti la disciplina di attività soggette ad un potere
amministrativo.
48
CONDOTTA ED ELEMENTO PSICOLOGICO
NEL REATO DOLOSO DI AZIONE
Il delitto:
è doloso, o secondo l'intenzione, quando l'evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell'azione od omissione e da
cui la legge fa dipendere l'esistenza del delitto, è dall'agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione
od omissione;
è preterintenzionale, o oltre l'intenzione, quando dall'azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più
è colposo, o contro l'intenzione quando l'evento, anche se preveduto, non è voluto dall'agente e si verifica a causa di
negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.
La distinzione tra reato doloso e reato colposo, stabilita da questo articolo per i delitti, si applica altresì alle
contravvenzioni, ogni qualvolta per queste la legge penale faccia dipendere da tale distinzione un qualsiasi effetto
giuridico.
Un esame più preciso deve stabilire cosa debba intendersi per “voluto” e quali circostanze l'agente
deve “conoscere” perchè si concreti il dolo di un determinato reato.
Finalità e dolo.
In via di prima approssimazione, si può affermare che, nei reati dolosi di azione, l'evento può dirsi
voluto, quando l'agente abbia messo in moto, consapevolmente, energie causali dirette ed idonee
alla produzione dell'evento. Occorre partire dalla consapevolezza che non vi è nessuna azione
49
umana cosciente che non sia guidata una finalità. Questa volontà finalistica abbraccia, ad un tempo,
lo scopo da raggiungere e i mezzi prescelti per il suo conseguimento e, nel presceglierli, tiene anche
conto delle conseguenze secondarie che si connettono al loro uso. Infatti l'uomo è in grado di
antivedere gli effetti del suo comportamento nel modo esterno.
Il dolo diretto.
All'autore del fatto può imputarsi, a titolo di dolo, la causazione dell'evento perchè egli ha
(preveduto e) voluto quell'evento come conseguenza della sua azione od omissione. Sono questi i
casi del cd dolo intenzionale o dolo diretto di primo grado.
All'essenza di questa volontà finalistica appartiene anche la selezione dei mezzi per il
conseguimento dello scopo; si ha dolo diretto di primo grado di omicidio, ad esempio, non solo
quando si agisce allo scopo di uccidere qualcuno, ma anche quando l'uccisione di un uomo è il
mezzo prescelto per realizzare un evento di natura diversa, come nel caso dell'uccisione di una
sentinella allo scopo di violare una installazione militare.
Si parla invece di dolo diretto di secondo grado in rapporto a quegli eventi che rientrano nella
volontà di azione dell'autore in quanto costituiscono effetti secondari altamente probabili delle
concrete e specifiche modalità della condotta posta in essere. Il soggetto è consapevole che alla
realizzazione del suo disegno si collegano ulteriori effetti, cioè altre conseguenze, nel senso
dell'art.43 cp; quello che l'autore si rappresenta come conseguenza della sua azione è in ogni caso
da lui voluto. Ciò vale anche per gli eventi da lui non desiderati: se uno incendia un battello per
riscuotere i soldi della assicurazione affogando qualcuno senza volerlo, avrà agito dolosamente non
solo riguardo alla fattispecie “incendio” ma anche a quella di “omicidio”.
Ciò che è aldilà dell'evento non incide sulla struttura del fatto tipico e, perciò, neppure ha influenza
sul dolo. Il dolo dell'omicidio resta identico sia che l'agente uccide per pura malvagità, per vendetta,
per conseguire una eredità. Questi profili psicologici riguardano unicamente il piano delle
circostanze aggravanti o attenuanti.
Dolo indiretto o eventuale.
Ai fini del dolo, si considera come voluto anche ciò che l'agente si è ragionevolmente e
fondatamente rappresentato come possibile conseguenza del proprio agire, accettando l'eventualità
del suo verificarsi.
Il dolo relativo a questi eventi che l'agente si è configurato come possibile si definisce dolo
indiretto o eventuale; tale ultimo attribuito concerne il carattere solo possibile (cioè appunto
eventuale) del risultato in questione.
Presupposto essenziale del dolo eventuale è che l'autore si sia rappresentato come possibile
l'accadimento.
Si capisce subito che i confini tra dolo diretto e dolo eventuale non sono poi così netti, essendo
contrassegnati dal labile confine tra probabilità e possibilità e così lo spazio occupato dal dolo
indiretto o eventuale si può dire corrispondente a quello del dubbio (circa la possibilità che un certo
evento si verifichi). La problematica del dolo eventuale sta dunque tutta nell'interrogativo: quando
si può dire “voluto” l'evento che l'autore si è rappresentato solo come possibile (ma dubbia)
conseguenza della propria condotta? Per dare una risposta a questa domanda sono state proposte
varie soluzioni che fanno leva sul momento volitivo (teorie della volontà) o su quello intellettivo
(teorie della rappresentazione). Dal punto di vista della rappresentazione si fanno rientrare nel
dolo tutte quelle conseguenze dell'azione che il soggetto si è rappresentato con alto grado di
verosimiglianza. Non bisogna però allargare troppo tale ipotesi di soluzione, altrimenti si rischia di
far rientrare, ad esempio, anche la condotta del medico che intraprende l'unico trattamento
praticabile per salvare la vita del paziente, pur nella consapevolezza che le sue condizioni generali
rendano assai verosimile che egli non sopravviva al trattamento.
La formula più accreditata nella dottrina contemporanea è quella che identifica il dolo eventuale con
l'atteggiamento psicologico di chi, pur ritenendo in concreto la realizzazione dell'evento una
possibile conseguenza della propria azione, tuttavia non se ne astiene, quindi accetta,
consapevolmente, il rischio del suo verificarsi (cd. teoria dell'accettazione del rischio).
50
Oggetto del dolo.
Alla stregua dell'art.43 cp – elemento psicologico del reato, il dolo ha come suo caratteristico
oggetto l'evento dannoso o pericoloso da cui la legge fa dipendere l'esistenza del reato. Ma non vi
è dubbio che quanto meno il momento intellettivo del dolo abbia come oggetto l'intero complesso
dei dati della realtà empirica, che sono rilevanti per la realizzazione di una determinata fattispecie
delittuosa. Tale principio è normativamente fondato all'art.47 cp – errore di fatto: “L'errore sul
fatto che costituisce reato esclude la punibilità dell'agente.”
Art. 47.
Errore di fatto.
L'errore sul fatto che costituisce il reato esclude la punibilità dell'agente. Nondimeno, se si tratta di errore determinato
da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo.
L'errore sul fatto che costituisce un determinato reato non esclude la punibilità per un reato diverso.
L'errore su una legge diversa dalla legge penale esclude la punibilità, quando ha cagionato un errore sul fatto che
costituisce il reato.
Ciò vuol dire che l'errore o l'ignoranza di uno o più fra gli elementi costitutivi del fatto tipico,
esclude la punibilità perchè esclude l'esistenza del dolo.
In altre parole, il dolo implica la conoscenza di tutti gli elementi che sono necessari e sufficienti
a realizzare la fattispecie obiettiva di un reato. Ad esempio, per la sussistenza del dolo nel furto è
bensì necessario che l'agente sappia che la cosa sottratta è altrui, ma è del tutto irrilevante che egli
sappia a chi appartiene.
A) Come mostrano gli esempi, l'agire doloso implica, in primo luogo, la conoscenza dei
presupposti la cui esistenza è necessaria per l'esistenza del fatto tipico. Tra i presupposti del fatto,
naturalmente, rientrano anche le qualifiche soggettive dell'autore stesso, da cui eventualmente
dipenda l'esistenza del fatto tipico, come nei cd “reati propri”. L'ignoranza della qualifica rivestita
impedisce infatti all'agente anche di cogliere il carattere tipico del suo agire. Si deve però
specificare che oggetto del dolo non è la qualifica soggettiva nella sua configurazione giuridica,
bensì il substrato di fatto che ne determina la rilevanza; l'imprenditore commerciale in dissesto che
occulti, in danno dei creditori, parte dei suoi beni, risponderà di bancarotta fraudolenta anche se
ignori che la legge penale lo qualifichi “imprenditore”. Vale anche per l'altruità della cosa nel furto,
per fare un altro esempio.
B) Analogo trattamento, in quanto oggetto del dolo, deve riservarsi alle ipotesi di illiceità o
antigiuridicità specifica. Sono questi i casi in cui la norma richiede, per la punibilità del fatto, che
esso sia realizzato “abusivamente”, “indebitamente”, “illegittimamente”, etc. Il dolo del reato si
configura solo se l'agente si rende conto del carattere indebito, abusivo, etc, della propria condotta.
C) Oggetto del dolo nei reati di azione è, naturalmente, la condotta stessa del soggetto, nelle sue
specifiche modalità, quando la legge attribuisce ad esse una “funzione costitutiva del tipo di reato”.
D) Quanto al nesso causale, anche esso deve essere percepito nell'essenziale dall'agente; non è però
necessario che egli conosca, in dettaglio, i processi causativi dell'evento. Se Tizio da una coltellata a
Caio è sufficiente che egli preveda la possibilità di ucciderlo, ma è del tutto indifferente che creda
possa avvenire per dissanguamento o per diverso processo fisiologico, così il dolo di omicidio
rimane inalterato, essendo le modalità di causazione dell'evento finale perfettamente prevedibili al
momento dell'azione, anche se l'autore si prospettava un processo causale del tutto differente.
51
basa l'offesa penalmente rilevante.
La coscienza dell'offesa non può mai essere confusa con la coscienza dell'antigiuridicità penale,
poiché essa non ha niente a che vedere con la conoscenza o meno del divieto penale, né include la
puntuale conoscenza dei termini giuridici della lesione del bene; ma corrisponde, molto più
semplicemente, alla consapevolezza della portata offensiva dell'evento, rispetto all'interesse
tutelato.
La tesi che il dolo comprenda la coscienza dell'offesa nel senso chiarito, trova un evidente supporto
normativo in una puntuale lettura dell'art.43 co1 cp – elemento psicologico del reato, che indica
come oggetto del dolo non già semplicemente l'evento, bensì proprio “l'evento dannoso o
pericoloso”, e tale interpretazione altro non è che il corollario logico della concezione del reato
come lesione di un bene giuridico.
Art. 43.
Il delitto:
è doloso, o secondo l'intenzione, quando l'evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell'azione od omissione e da
cui la legge fa dipendere l'esistenza del delitto, è dall'agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione
od omissione;
è preterintenzionale, o oltre l'intenzione, quando dall'azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più
è colposo, o contro l'intenzione quando l'evento, anche se preveduto, non è voluto dall'agente e si verifica a causa di
negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.
La distinzione tra reato doloso e reato colposo, stabilita da questo articolo per i delitti, si applica altresì alle
contravvenzioni, ogni qualvolta per queste la legge penale faccia dipendere da tale distinzione un qualsiasi effetto
giuridico.
L'importanza pratica dei casi in cui potrebbe assumere rilievo la mancata coscienza dell'offesa non
può essere ricondotta allo stesso ambito nel quale potrebbe farsi valere l'efficacia scusante
dell'errore sulla legge penale. Infatti, non sono ipotesi di errore sul divieto quelle che esigono
rilevanza attraverso l'assunzione della coscienza dell'offesa come momento costitutivo del dolo.
Vengono, invece, in questione i casi di errore rilevante ex art.47 cp – errore di fatto, in cui l'errore
dell'agente non cade propriamente né sui presupposti del fatto, né sulle modalità della condotta, né
sul rapporto di causalità, ma concerne appunto il contenuto lesivo del fatto. Si pensi a chi indirizzi
ad un terzo in pubblico epiteti di cui conosce benissimo l'innocuo significato lessicale, ignorando
però che, secondo l'uso locale, costituiscono grave ingiuria. In questo caso il fatto risulta
oggettivamente lesivo dell'altrui reputazione; ma nell'agente manca il dolo dell'ingiuria o della
diffamazione, proprio perchè è assente la consapevolezza del significato di offesa che la condotta
assume rispetto al bene tutelato.
52
c) dolo di danno è configurabile quando il soggetto ha voluto effettivamente ledere il bene protetto
dalla norma.
d) dolo di pericolo è configurabile nei casi in cui il soggetto ha voluto soltanto minacciare il bene
protetto.
e) dolo generico quando la legge richiede la semplice coscienza e volontà del fatto materiale,
essendo indifferente per l'esistenza del reato il fine per cui si agisce.
f) dolo specifico si ha nei casi in cui, ai fini dell'esistenza del reato, si richiede che il soggetto abbia
agito per una particolare finalità, che tuttavia non deve necessariamente realizzarsi perchè il reato
sia consumato: ad esempio l'art.624 cp richiede, per la configurazione del furto che il soggetto abbia
agito “al fine di trarne profitto”.
g) dolo iniziale è quello che sussiste solo nel momento dell'azione o dell'omissione.
h) dolo concomitante è, invece, quello che accompagna lo svolgimento del processo causale che
produce l'evento.
i) dolo successivo è quello che si manifesta dopo il compimento dell'azione o omissione.
l) dolo d'impeto si ha quando la decisione di commettere il reato sorge improvvisa e viene
immediatamente eseguita.
m) dolo di proposito si ha quando intercorre un consistente distacco temporale tra il sorgere
dell'idea criminosa e la sua esecuzione.
n) dolo di premeditazione si ha nei casi in cui l'intervallo temporale è utilizzato per la
preordinazione dei mezzi e delle modalità dell'azione criminosa.
53
L’ILLECITO OMISSIVO DOLOSO
Omissione di soccorso.
Chiunque, trovando abbandonato o smarrito un fanciullo minore degli anni dieci, o un'altra persona incapace di
provvedere a se stessa, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia o per altra causa, omette di darne immediato
avviso all'autorità è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a 2.500 euro.
Alla stessa pena soggiace chi, trovando un corpo umano che sia o sembri inanimato, ovvero una persona ferita o
altrimenti in pericolo, omette di prestare l'assistenza occorrente o di darne immediato avviso all'autorità.
Se da siffatta condotta del colpevole deriva una lesione personale, la pena è aumentata; se ne deriva la morte, la pena è
raddoppiata.
Rapporto di causalità.
Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l'evento dannoso o pericoloso, da cui
dipende l'esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione.
54
La fattispecie oggettiva dei reati omissivi.
Il giudizio sulla rilevanza penale di una condotta omissiva comporta la verifica di alcuni presupposti
essenziali:
a) Per prima cosa deve potersi affermare la possibilità di compiere l'azione omessa. Non lanciarsi
in acqua per salvare qualcuno se non si sa nuotare o se le condizioni del mare sono proibitive, non
costituisce reato omissivo. Si noti che sono i casi in cui manca una possibilità di successo.
b) L'azione che ci si aspetta deve poter essere concretamente pretesa: essa quindi non deve essere
tale da esporre l'autore stesso, o altri, a rischi o pregiudizi non esigibili.
c) I requisiti generali, appena descritti, di una omissione penalmente rilevante devono,
naturalmente, essere inerenti ad una condotta di omissione che sia tipica: o perchè conforme alla
previsione espressa di un reato di omissione, o perchè tale da rientrare nello schema della
equivalenza causale ex art.40 cp – rapporto di causalità.
d) Ciò comporta, in relazione ai reati omissivi impropri, la verifica di un ulteriore presupposto:
occorre infatti stabilire, con elevato grado di somiglianza, che il compimento dell'azione dovuta
avrebbe scongiurato il verificarsi dell'evento lesivo. Quest'ultima considerazione introduce il
difficile tema della causalità dell'omissione, di cui si impone un'analisi più ravvicinata.
Art. 40.
Rapporto di causalità.
Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l'evento dannoso o pericoloso, da cui
dipende l'esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione.
La dottrina tende a limitare l'ambito di applicazione alle fattispecie che siano imperniate sulla
realizzazione di un evento tipico, le cd fattispecie causalmente orientate. Da qui si autorizza
l'interprete a duplicare il risultato che derivi sia da una condotta attiva che da una omissiva.
La sfera di operatività dell'art.40 cp – rapporto di causalità sarebbe esclusa nei reati personali
attivi, ad esempio nell'incesto ex art.564 cp - incesto, oppure nei reati abituali reiterati come i
maltrattamenti ex art.572 cp – maltrattamenti contro familiari e conviventi.
Art. 564.
Incesto.
Chiunque, in modo che ne derivi pubblico scandalo, commette incesto con un discendente o un ascendente, o con un
affine in linea retta, ovvero con una sorella o un fratello, è punito con la reclusione da uno a cinque anni.
La pena è della reclusione da due a otto anni nel caso di relazione incestuosa.
Nei casi preveduti dalle disposizioni precedenti, se l'incesto è commesso da persona maggiore di età con persona minore
55
Art. 572.
Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o
una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia,
o per l'esercizio di una professione o di un'arte, è punito con la reclusione da due a sei anni [c.p. 29, 31, 32] .
(.....) (2)
Se dal fatto deriva una lesione personale grave [c.p. 583], si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva
una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a
ventiquattro anni.
Art. 43.
Il delitto:
è doloso, o secondo l'intenzione, quando l'evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell'azione od omissione e da
cui la legge fa dipendere l'esistenza del delitto, è dall'agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione
od omissione;
è preterintenzionale, o oltre l'intenzione, quando dall'azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più
56
è colposo, o contro l'intenzione quando l'evento, anche se preveduto, non è voluto dall'agente e si verifica a causa di
negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.
La distinzione tra reato doloso e reato colposo, stabilita da questo articolo per i delitti, si applica altresì alle
contravvenzioni, ogni qualvolta per queste la legge penale faccia dipendere da tale distinzione un qualsiasi effetto
giuridico.
Affrontiamo ora il problema causale nei reati omissivi impropri: l'assunto è che non impedire un
evento equivale a cagionarlo ex art.40 cp – rapporto di causalità. Quindi il punto di riferimento
per il giudizio di equivalenza causale è costituito dalla azione dovuta che il soggetto ha omesso.
È un giudizio ipotetico, poiché ci si dovrà chiedere se, in presenza dell'azione doverosa, l'evento
lesivo sarebbe venuto meno. Si tratta di un giudizio di carattere meramente probabilistico.
In altre parole si tratta di accertare se l'attuazione della condotta dovuta avrebbe indotto una
deviazione del processo causale, tale da inibire il verificarsi dell'evento lesivo. Ad esempio, nel caso
del ferroviere che abbia omesso di attivare lo scambio così da provocare uno scontro, ci si chiederà
se il compimento dell'azione doverosa avrebbe evitato la collisione.
Si potrebbe così dire che l'omissione è causa dell'evento, allorché essa non può essere
idealmente sostituita con l'azione doverosa senza che, al tempo stesso, anche l'evento venga
meno. In tal modo, nel caso del casellante di cui sopra, si giungerà a conclusione differenti, a
seconda che l'operazione doverosa costituisce un adempimento di routine, da assolvere ad intervalli
di tempo prestabiliti, oppure se doveva essere compiuta a seguito di un mutamento di percorso,
comunicato al momento all'operatore; in questo ultimo caso, se l'ordine fosse giunto troppo tardi,
verrebbe meno una omissione penalmente rilevante.
La verità è che la possibilità di formulare giudizi di certezza, circa l'efficacia impeditiva di una certa
condotta ritenuta doverosa rispetto ad un dato evento, risulta il più delle volte una prospettiva
illusoria; né è possibile fissare arbitrariamente una soglia di rilevanza della probabilità statistica di
successo dell'intervento omesso, che possa valere per tutti i casi ed in qualsiasi settore.
Per ovviare a questi gravi inconvenienti applicativi appare preferibile una soluzione di parte
speciale: attraverso la creazione “mirata” e frammentaria di fattispecie omissive proprie, il
rimprovero legislativo al quale collegare la responsabilità penale del soggetto, non dovrebbe dunque
più riguardare il mancato impedimento dell'evento, ma il non essersi attivato in presenza di
condizioni e circostanze, normativamente predeterminate, che rendevano tale attivazione doverosa.
Si tratterebbe di una soluzione sicuramente più rispettosa del principio di legalità, in quanto la
valutazione della rilevanza della condotta omissiva è affidata al legislatore.
57
stabilire quando si può diventare “autori” di questo specifico reato di omissione. Nell'esempio
dell'art.593 cp – omissione di soccorso, l'ordine si rivolge a “chiunque”, ma solo quando ricorrono
le situazioni descritte dalla norma incriminatrice.
Discorsi diversi nei reati omissivi impropri (commissivi mediante omissione) ove è meno agevole
individuare e circoscrivere l'ambito di coloro a cui compete la “posizione di garante”, quando
manchi una espressa previsione della fattispecie omissiva e la sua rilevanza debba essere stabilita
mediante ricorso alla equivalenza ex art.40 cp.
Meno agevole è stabilire quando concretamente l'obbligo extrapenale di agire si converte
nell'obbligo di impedire l'evento, di cui l'art.40 cp. Se i genitori omettono di nutrire il figlio che per
questo muore, risulta chiara la responsabilità genitoriale dalla semplice lettura dell'art.30
Costituzione, ma è più problematico stabilire la loro responsabilità nel caso della morte per droga
del figlio diciassettenne.
La più recente elaborazione del problema privilegia un approccio costituito da un punto di partenza
che propone una bipartizione delle posizioni di garanzia.
1 - Posizione di controllo – È quella avente lo scopo di neutralizzare una fonte di pericolo per
salvaguardare tutti i beni giuridici che possono essere minacciati, come nel caso di chi detiene rifiuti
tossici o nocivi, il cui stoccaggio richieda determinate precauzioni atte ad evitare danni all'ambiente
o alla salute.
2 – Posizione di protezione – È quella avente per scopo la tutela di dati beni giuridici contro ogni
tipo di pericolo idoneo a minacciarne l'integrità; si pensi al caso dei genitori nei confronti dei figli
minori.
Quanto alle fonti da cui tali posizioni nascono, esse possono derivare:
a) da una precedente condotta antidoverosa del soggetto;
b) da un obbligo di sorveglianza relativo a cose di cui il soggetto è responsabile in ordine alla
loro utilizzazione e/o conservazione
c) da un obbligo di sorveglianza su persone del cui comportamento il soggetto è responsabile;
Inoltre, le posizioni di protezione possono derivare:
a) da un rapporto giuridicamente rilevante tra il soggetto e il titolare del bene da proteggere;
b) da un contratto;
c) da un altro rapporto diverso da quelli appena elencati.
59
LA FATTISPECIE DELL’ILLECITO COLPOSO
Art. 43.
Il delitto:
è doloso, o secondo l'intenzione, quando l'evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell'azione od omissione e da
cui la legge fa dipendere l'esistenza del delitto, è dall'agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione
od omissione;
è preterintenzionale, o oltre l'intenzione, quando dall'azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più
è colposo, o contro l'intenzione quando l'evento, anche se preveduto, non è voluto dall'agente e si verifica a causa di
negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.
La distinzione tra reato doloso e reato colposo, stabilita da questo articolo per i delitti, si applica altresì alle
contravvenzioni, ogni qualvolta per queste la legge penale faccia dipendere da tale distinzione un qualsiasi effetto
giuridico.
La fattispecie oggettiva del reato colposo sussiste, dunque, quando si accerti che la lesione o la
messa in pericolo del bene non si sarebbe verificata, se il soggetto avesse tenuto una condotta
conforme alle regole di diligenza idonee a scongiurare la situazione dannosa o pericolosa.
Appare chiaro che le norme che incriminano una condotta colposa hanno bisogno di essere integrate
dalla individuazione della regola di diligenza che è stata violata, ed è proprio l’accertamento di tale
violazione che configura l’esistenza stessa della fattispecie oggettiva.
Il contenuto di illecito del reato colposo emerge dunque dalla valutazione di tre elementi:
1. L’esistenza di una condotta obiettivamente contraria a una specifica norma precauzionale.
2. L’evitabilità della situazione di danno o di pericolo.
3. La possibilità di osservare la regola di diligenza da parte dell’autore.
La fattispecie oggettiva dei reati colposi.
Anche le fattispecie colpose, come quelle dolose, si possono distinguere a seconda che
corrispondano a reati di mera condotta, nei quali non è richiesta la verificazione dell’evento in
senso naturalistico, e reati di evento, nei quali l’evento verificatosi deve essere conseguenza della
condotta vietata.
60
A costituire la fattispecie oggettiva, nei reati di mera condotta, è sufficiente che l’autore abbia
tenuto un comportamento, attivo od omissivo, obiettivamente contrario alla norma di diligenza
evocata dall’incriminazione.
La maggior parte dei delitti colposi è senza dubbio costituita da delitti di evento, modellati di solito
sulla corrispondente ipotesi dolosa.
Per affermare l’esistenza di un reato colposo di evento, è innanzitutto necessario che si accerti
l’esistenza di un nesso causale fra condotta ed evento e, quest’ultimo, deve poter essere ricollegato
direttamente alla violazione della regola precauzionale come suo specifico ed ineliminabile
antecedente. Chi guida un’auto in direzione vietata, non per questo risponderà delle lesioni o della
morte di un pedone trasportato, cagionate dall’improvviso scoppio di un pneumatico, che non sia in
alcun modo in rapporto con la direzione vietata che il soggetto stava percorrendo.
La rilevanza del rapporto causale deve essere esclusa anche quando si stabilisca, con elevato grado
di certezza, che una condotta conforme alla regola precauzionale non sarebbe valsa ad evitare
l’evento.
In sintesi, si può dire che la rilevanza del rapporto causale dipenda da una triplice constatazione:
1. che l’evento si è prodotto in conseguenza di una condotta obiettivamente contraria ad una
regola precauzionale;
2. che l’osservanza della regola avrebbe evitato il prodursi dell’evento;
3. che la norma precauzionale trasgredita aveva come scopo proprio quello di evitare la
produzione dell’evento;
La tipicità del fatto colposo si ricava, quindi, sempre dal raffronto con una ipotetica condotta
caratterizzata dall’osservanza della diligenza oggettiva, richiesta in quel caso; allora, per affermare
che vi è stata negligenza, imprudenza, imperizia, è necessario stabilire preventivamente quale fosse
la misura della diligenza richiesta. Andiamo a rileggere l’art.43 3°co cp – elemento psicologico
del reato.
Art. 43.
Il delitto:
è doloso, o secondo l'intenzione, quando l'evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell'azione od omissione e da
cui la legge fa dipendere l'esistenza del delitto, è dall'agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione
od omissione;
è preterintenzionale, o oltre l'intenzione, quando dall'azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più
è colposo, o contro l'intenzione quando l'evento, anche se preveduto, non è voluto dall'agente e si verifica a causa di
negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.
La distinzione tra reato doloso e reato colposo, stabilita da questo articolo per i delitti, si applica altresì alle
contravvenzioni, ogni qualvolta per queste la legge penale faccia dipendere da tale distinzione un qualsiasi effetto
giuridico.
Dal momento che si richiede la misura come “necessaria” a scongiurare l’evento, e che questa non
può corrispondere ad una immobilità dei consociati in vista anche di rischi minimi o improbabili di
verificazione, tale misura incontra, quindi, due limiti fondamentali:
61
1. sono oggettivamente imputabili all’autore tutte e solo le conseguenze obiettivamente
prevedibili;
2. l’altro limite si ricava dal concetto di rischio consentito, individuato come quello
praticamente ineliminabile in molte attività perché non rinunciabile: pensiamo ai voli
spaziali, al traffico aereo o all’opera di realizzazione delle grandi infrastrutture come
elementi di sviluppo della vita collettiva.
Ma quale è il limite del rischio consentito, socialmente adeguato? La risposta non è semplice e
sicuramente non può essere data in modo esauriente, quindi il punto di equilibrio va individuato
volta per volta.
Si distingue tra colpa generica e colpa specifica, a seconda che il carattere colposo della condotta
vada ricondotto alla violazione di norme di cautela dettate dalla comune prudenza ed esperienza,
ovvero alla inosservanza di puntuali regole di comportamento, dettate con specifico riferimento
all’ambito di condotta di cui si tratta.
Nel nostro ordinamento, la distinzione fra colpa generica e specifica è contenuta nell’art.43 3°co cp
– elemento psicologico del reato, laddove si fa riferimento ai concetti di negligenza, imprudenza
e imperizia e nella parte in cui l’evento si produce a seguito di inosservanza di leggi, regolamenti,
ordini o discipline.
Art. 43.
Il delitto:
è doloso, o secondo l'intenzione, quando l'evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell'azione od omissione e da
cui la legge fa dipendere l'esistenza del delitto, è dall'agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione
od omissione;
è preterintenzionale, o oltre l'intenzione, quando dall'azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più
è colposo, o contro l'intenzione quando l'evento, anche se preveduto, non è voluto dall'agente e si verifica a causa di
negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.
La distinzione tra reato doloso e reato colposo, stabilita da questo articolo per i delitti, si applica altresì alle
contravvenzioni, ogni qualvolta per queste la legge penale faccia dipendere da tale distinzione un qualsiasi effetto
giuridico.
Colpa generica.
62
Colpa specifica.
Questa è di più agevole individuazione della regola di diligenza violata, in quanto preventivamente
positivizzata in una norma di legge, o in un regolamento o che può trovarsi in ordini provenienti
da soggetti pubblici o privati, aventi comunque l’autorità di imporre norme comportamentali.
L’obbligo della diligenza oggettiva può essere violato sia mediante una condotta attiva, sia
mediante condotta omissiva. Possono così aversi delitti colposi commissivi e delitti colposi
omissivi. Molto spesso la condotta rilevante per la fattispecie di reato colposo risulta costituita da
una commistione di comportamenti attivi ed omissivi.
Art. 43.
Il delitto:
è doloso, o secondo l'intenzione, quando l'evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell'azione od omissione e da
cui la legge fa dipendere l'esistenza del delitto, è dall'agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione
od omissione;
è preterintenzionale, o oltre l'intenzione, quando dall'azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più
è colposo, o contro l'intenzione quando l'evento, anche se preveduto, non è voluto dall'agente e si verifica a causa di
negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.
La distinzione tra reato doloso e reato colposo, stabilita da questo articolo per i delitti, si applica altresì alle
contravvenzioni, ogni qualvolta per queste la legge penale faccia dipendere da tale distinzione un qualsiasi effetto
giuridico.
Dal punto di vista dell’elemento soggettivo, due sono le ipotesi di colpa penalmente rilevante, alle
quali corrisponde la tradizionale distinzione tra colpa cosciente e colpa incosciente.
Si ha colpa cosciente quando l’autore si rappresenta come possibile conseguenza della sua azione
od omissione il verificarsi di un evento dannoso o pericoloso, ma ritiene che l’evento in questione
non si verificherà. L’addebito di colpa cosciente non può che riguardare i soli casi di reato di
evento.
Si ha colpa incosciente quando l’autore non viola in maniera consapevole la regola oggettiva di
diligenza, né tantomeno si rappresenta il rischio a cui concretamente espone il bene protetto.
Alla fattispecie soggettiva del reato colposo appartiene, in primo luogo, la non-volizione
dell’evento che, nella colpa cosciente si realizza nella previsione dell’evento e nella, erronea,
convinzione che non si realizzerà, mentre nella colpa incosciente si radica nella mancata o erronea
rappresentazione delle circostanze da cui scaturiva l’obbligo di osservare una particolare regola di
diligenza.
63
Su questa particolare struttura psicologica della condotta colposa si appunta il giudizio sull’addebito
di colpa, che concerne la esigibilità in concreto dell’osservanza della norma di diligenza violata, da
parte del singolo autore.
Il diritto civile distingue tradizionalmente la colpa secondo il “grado” di essa, grave, lieve,
lievissima, mentre ciò non avviene per il diritto penale, ove la rilevanza della colpa per un’ipotesi di
reato è indipendente dal grado di essa, nel senso che può venire in considerazione anche la più lieve
delle colpe.
64
Il vigente codice penale menziona all’art.133 cp – gravità del reato: valutazione agli effetti della
pena gli indici ai quali il giudice deve attenersi nello stabilire la pena di infliggere in concreto;
l’interprete è quindi obbligato a definire in base a quali criteri si debba determinare il grado della
colpa.
Art. 133.
Nell'esercizio del potere discrezionale indicato nell'articolo precedente, il giudice deve tener conto della gravità del
reato, desunta:
1) dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall'oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell'azione;
2) dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato;
Il giudice deve tener conto, altresì, della capacità a delinquere del colpevole, desunta:
2) dai precedenti penali e giudiziari e, in genere, dalla condotta e dalla vita del reo, antecedenti al reato;
La colpa del conducente che superi di soli 5 chilometri orari il limite di velocità sarà, in parole
povere, meno grave della colpa di chi lo superi di dieci, venti o più chilometri orari.
Non solo quindi la colpa cosciente costituisce ipotesi di maggior gravità rispetto a quella
incosciente; ma lo stesso tipo di errore colposo potrà avere un peso diverso, agli effetti dell’art.133
cp – gravità del reato: valutazione agli effetti della pena, a seconda che si sia di fronte ad un
soggetto di provata esperienza e capacità o di un apprendista.
Assumono, inoltre, rilevanza le condizioni soggettive che possono aver dato causa, o concorso a
dare causa, alla violazione della diligenza: diversa sarà, nel grado, la colpa del casellante che ometta
di azionare lo scambio, a seconda che egli sia stato vinto dal sonno perché stremato da un lungo
turno di lavoro o perché distrattosi per amoreggiare con la fidanzata.
I fattori oggettivi e quelli soggettivi dovranno dunque combinarsi, nella valutazione, rimessa al
giudice dall’art.133 cp – gravità del reato: valutazione agli effetti della pena.
65
LE CAUSE GENERALI DI ESCLUSIONE DEL FATTO TIPICO
Premessa.
La presenza di tutti gli elementi – oggettivi e psicologici – di un fatto corrispondente a quello
descritto da una norma incriminatrice speciale dà luogo alla tipicità.
L’esistenza di un fatto tipico costituisce un presupposto necessario, ma non sufficiente, per la
punibilità. Questa, infatti, può essere esclusa per effetto di una norma che, nel caso concreto,
autorizza o addirittura impone la realizzazione del fatto, come avviene nelle ipotesi della legittima
difesa o dell’adempimento del dovere.
La punibilità del fatto può risultare esclusa, inoltre, per il ricorrere di condizioni che precludano la
possibilità di muovere un addebito in termini di colpevolezza individuale.
In tutti questi casi, si può dire che la legge escluda l’applicabilità della pena, in relazione ad un fatto
che presenta tutti i caratteri della tipicità.
Art. 45.
Non è punibile chi ha commesso il fatto per caso fortuito o per forza maggiore.
Art. 42.
Responsabilità per dolo o per colpa o per delitto preterintenzionale. Responsabilità obiettiva.
Nessuno può essere punito per un'azione od omissione preveduta dalla legge come reato, se non l'ha commessa con
coscienza e volontà.
Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se non l'ha commesso con dolo, salvi i casi
La legge determina i casi nei quali l'evento è posto altrimenti a carico dell'agente, come conseguenza della sua azione
od omissione.
Nelle contravvenzioni ciascuno risponde della propria azione od omissione cosciente e volontaria sia essa dolosa o
colposa.
66
Lo stesso articolo disciplina, insieme alla forza maggiore, anche il caso fortuito. In questo caso,
alla radice dell’evento, vi è un fattore causale non dominabile dall’autore e non prevedibile.
L’imprevedibilità sta a significare che lo sviluppo del processo che produce l’evento è del tutto
anomalo.
Al riguardo, è opportuna una precisazione.
L’art.45 cp – caso fortuito o forza maggiore, va riferito ai casi in cui il fortuito – cioè il fattore
imprevedibile – interferisce tuttavia in una serie causale innescata dalla condotta umana piegandone
il decorso e indirizzandolo verso esiti anomali: si pensi alla deviazione dell’attrezzo lanciato dal
discobolo per effetto di un improvviso (imprevedibile) colpo di vento. Appare chiaro come il
soggetto, con la sua condotta, non ha né creato, né accresciuto, alcun rischio giuridicamente
riprovato per il bene giuridico.
L’art.46 cp – costringimento fisico esclude la punibilità del fatto per chi vi è stato costretto,
mediante violenza fisica, e la trasferisce in capo all’autore di detta violenza.
Art. 46.
Costringimento fisico.
Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato da altri costretto, mediante violenza fisica alla quale non
In tal caso, del fatto commesso dalla persona costretta risponde l'autore della violenza.
Dobbiamo distinguere i casi di vis absoluta, quando la vittima non ha possibilità di determinazione
alcuna sul fatto, e i casi di vis compulsiva, dove residuano per la vittima margini, seppur
ridottissimi, di autodeterminazione. Un esempio del primo caso è una persona che guidi la mano di
un altro nell’apporre una firma, mentre un esempio del secondo caso è la rivelazione di un segreto
sotto tortura.
Il vero autore del fatto è l’autore della violenza, che si serve della vittima come di uno strumento;
non a caso, si stabilisce il trasferimento dell’imputazione, da chi subisce il costringimento a chi lo
pone in essere.
Si parla, a questo riguardo, di autore mediato che è il vero autore, dal momento che detiene
l’effettiva padronanza dei decorsi causali.
Art. 47.
Errore di fatto.
L'errore sul fatto che costituisce il reato esclude la punibilità dell'agente. Nondimeno, se si tratta di errore determinato
da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo.
L'errore sul fatto che costituisce un determinato reato non esclude la punibilità per un reato diverso.
L'errore su una legge diversa dalla legge penale esclude la punibilità, quando ha cagionato un errore sul fatto che
costituisce il reato.
67
Per capire meglio il discorso, è opportuno procedere ad alcuni esempi.
1. Tizio, al termine di una riunione con amici, prende il soprabito di un altro ospite,
scambiandolo per il proprio, e va via (art.624 cp – furto).
2. Caio, in un poligono di tiro, spara a quello che ritiene essere un fantoccio ma che in realtà è
una persona che rimane uccisa (art.575 cp – omicidio).
3. Sempronio si introduce in un appartamento di un terzo, ritendendolo il suo che, invece, è
situato al piano inferiore (art.614 cp – violazione di domicilio).
4. Mevio, nel riordinare un archivio, invia al macero un atto pubblico originale, credendolo una
fotocopia (art.490 cp – soppressione di atti pubblici).
Appare chiaro che, in questi casi, la fattispecie oggettiva è realizzata dall’agente perfettamente, ma
stesso discorso non può farsi per la fattispecie soggettiva, poiché l’autore è in errore in quanto gli
manca la rappresentazione degli elementi essenziali delle fattispecie in esame, ovvero l’altruità
della cosa o dell’abitazione, la qualità di “uomo” della sagome e la natura di “atto” del documento
distrutto; in parole chiare, non sa che sta commettendo, rispettivamente, furto, omicidio, violazione
di domicilio e soppressione di atti pubblici.
I limiti di rilevanza dell’errore sul fatto sono segnati dalla essenzialità del dato erroneamente
percepito dall’agente, per il configurarsi della fattispecie legale: l’errore, cioè, deve cadere su
elementi, la cui mancata conoscenza impedisce che il soggetto si rappresenti un fatto corrispondente
al modello legale di un determinato reato.
È importante sottolineare che dolo ed errore si escludono a vicenda; dove c’è errore sul fatto non
può esservi dolo.
Poiché la non punibilità del fatto viziato da errore consegue alla mancanza del dolo, si può dire che
esso costituisca una applicazione della regola più generale, contenuta nell’art.42 2°co cp –
responsabilità per dolo o per colpa o per delitto preterintenzionale: responsabilità obiettiva,
secondo cui “nessuno può essere punito per un delitto se non lo ha commesso con dolo”.
Art. 42.
Responsabilità per dolo o per colpa o per delitto preterintenzionale. Responsabilità obiettiva.
Nessuno può essere punito per un'azione od omissione preveduta dalla legge come reato, se non l'ha commessa con
coscienza e volontà.
Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se non l'ha commesso con dolo, salvi i casi
La legge determina i casi nei quali l'evento è posto altrimenti a carico dell'agente, come conseguenza della sua azione
od omissione.
Nelle contravvenzioni ciascuno risponde della propria azione od omissione cosciente e volontaria sia essa dolosa o
colposa.
E così è anche del tutto perfettamente logico che l’art.47 cp – errore di fatto, a sua volta, precisi
che, quando l’errore sul fatto sia “determinato da colpa”, la punibilità non sia esclusa “quando il
fatto è preveduto dalla legge come reato colposo”.
68
Art. 47.
Errore di fatto.
L'errore sul fatto che costituisce il reato esclude la punibilità dell'agente. Nondimeno, se si tratta di errore determinato
da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo.
L'errore sul fatto che costituisce un determinato reato non esclude la punibilità per un reato diverso.
L'errore su una legge diversa dalla legge penale esclude la punibilità, quando ha cagionato un errore sul fatto che
costituisce il reato.
In altre parole, se l’agente è pervenuto ad una erronea rappresentazione per aver violato una regola
di diligenza oggettiva, e se tale violazione è a lui imputabile da un punto di vista soggettivo, egli
dovrà rispondere a titolo di colpa del fatto oggettivamente realizzato. L’insorgere di questa ipotesi
di responsabilità è però condizionata dall’esistenza della previsione normativa del fatto come reato
colposo. Negli esempi fatti, allora, potrà esservi responsabilità a titolo di colpa sono nel caso sub 2,
perché solo l’omicidio, fra i reati in questione, è punito anche a titolo di colpa, come stabilito
dall’art.589 cp – omicidio colposo che, appunto, punisce chiunque cagiona per colpa la morte di
un uomo.
Art. 589.
Omicidio colposo.
Chiunque cagiona per colpa la morte di una persona è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni.
Se il fatto è commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale o di quelle per la
prevenzione degli infortuni sul lavoro la pena è della reclusione da due a sette anni.
Si applica la pena della reclusione da tre a dieci anni se il fatto è commesso con violazione delle norme sulla disciplina
1) soggetto in stato di ebbrezza alcolica ai sensi dell'articolo 186, comma 2, lettera c), del decreto legislativo 30 aprile
Nel caso di morte di più persone, ovvero di morte di una o più persone e di lesioni di una o più persone, si applica la
pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse aumentata fino al triplo, ma la pena non può
Art. 47.
Errore di fatto.
L'errore sul fatto che costituisce il reato esclude la punibilità dell'agente. Nondimeno, se si tratta di errore determinato
da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo.
69
L'errore sul fatto che costituisce un determinato reato non esclude la punibilità per un reato diverso.
L'errore su una legge diversa dalla legge penale esclude la punibilità, quando ha cagionato un errore sul fatto che
costituisce il reato.
Da ricordare è che è decisivo, per la rilevanza dell’errore, che l’agente, per effetto della falsa
rappresentazione, non si renda conto di ciò che in realtà sta facendo. La non punibilità del fatto
dipende, appunto, dalla mancanza dell’elemento psicologico del reato.
Ma, dal punto di vista psicologico, chi si impossessa di una cosa altrui, scambiandola per sua, si
trova esattamente nella stessa situazione di chi versa in errore sulla proprietà di una cosa, a seguito
della erronea interpretazione di una sentenza civile sull’oggetto. In entrambi i casi, l’errore ha
impedito all’agente di riconoscere una “qualità” della cosa – precisamente la sua altruità – la cui
percezione era essenziale perché si avesse il dolo caratteristico della fattispecie del furto.
La distinzione che conta, dunque, non è quella fra errore di fatto ed errore di diritto, bensì quella fra
errore sul fatto ed errore sul divieto: solo chi versa in errore sul fatto si può dire che non sa quel
che fa. Chi versa in errore sul divieto, invece, sa quel che fa, anche se crede, erroneamente, che il
suo fatto non ricada nell’ambito di una incriminazione: egli dunque versa in errore sulla legge
penale, errore che, a norma dell’art.5 cp – ignoranza della legge penale di regola non è rilevante.
Art. 5.
70
abusivamente si riferisce certo alla violazione di disposizioni legislative, extrapenali, che regolano
l’esercizio delle professioni; e, tuttavia, l’ignoranza di queste disposizioni di regola non potrà essere
invocata a propria scusa, poiché generalmente si configura come un vero e proprio errore sul
divieto.
Art. 348.
Chiunque abusivamente esercita una professione, per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato, è punito
con la reclusione fino a sei mesi o con la multa da euro 103 a euro 516.
Analoghe difficoltà si incontrano nella determinazione del criterio discretivo tra errore sul fatto ed
errore sul divieto, quando i parametri normativo-valutativi siano di carattere non-giuridico (sociali,
morali, etc.), in materia di atti osceni per fare un esempio, la cui mancata rappresentazione esclude
il dolo richiesto per il tipo di fatto incriminato dall’art.527 cp – atti osceni.
Art. 527.
Atti osceni.
Chiunque, in luogo pubblico o aperto o esposto al pubblico, compie atti osceni è punito con la reclusione da tre mesi a
tre anni.
La pena è aumentata da un terzo alla metà se il fatto è commesso all’interno o nelle immediate vicinanze di luoghi
Se il fatto avviene per colpa, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 51 a euro 309.
Resta ancora da stabilire, però, se nella nozione di legge diversa da quella penale, debbano farsi
rientrare anche quegli elementi normativi definiti da una norma penale, che assuma una funzione di
qualificazione ai fini del tipo di fatto descritto da un’altra norma incriminatrice. La dottrina è,
giustamente, orientata ad ammettere la nozione di legge diversa da quella penale come coincidente
con quella di legge diversa dalla norma penale incriminatrice; quando si tratta di un errore che
incide sulla rappresentazione del proprio fatto da parte dell’agente, non vi è alcuna ragione
discretiva per escludere la rilevanza dell’errore. In quel caso, infatti, la norma, pur appartenendo al
novero delle norme penali, assolve tuttavia a una funzione identica a quella che svolge una qualsiasi
norma extrapenale che serva a qualificare un elemento del fatto, incriminato da un’altra
disposizione: una funzione, cioè, come giustamente si osserva “definitoria e non precettiva”.
L’art.47 2°co cp – errore di fatto disciplina il caso della responsabilità per reato diverso,
stabilendo che “l’errore sul fatto che costituisce un determinato reato, non esclude la punibilità per
un reato diverso”. Ciò vuol dire che, quando l’agente realizza la fattispecie oggettiva di un
determinato reato, rispetto al quale, però per effetto dell’errore, manca il dolo, egli non cesserà di
essere punibile per quel reato diverso, rispetto al quale egli era in dolo.
Art. 47.
Errore di fatto.
L'errore sul fatto che costituisce il reato esclude la punibilità dell'agente. Nondimeno, se si tratta di errore determinato
da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo.
71
L'errore sul fatto che costituisce un determinato reato non esclude la punibilità per un reato diverso.
L'errore su una legge diversa dalla legge penale esclude la punibilità, quando ha cagionato un errore sul fatto che
costituisce il reato.
Chi cagiona la morte di un uomo, credendo erroneamente che vi sia il consenso della vittima, non
sarà punibile per omicidio comune ex art.575 cp – omicidio, ma per il meno grave delitto di cui
all’art.579 cp – omicidio del consenziente.
Art. 575.
Omicidio.
Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno.
Art. 579.
Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con la reclusione da sei a quindici anni.
2) contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un'altra infermità o per
3) contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero
Il successivo art.48 cp – errore determinato dall’altrui inganno regola il caso del reato
determinato dall’inganno di un terzo.
Art. 48.
Le disposizioni dell'articolo precedente si applicano anche se l'errore sul fatto che costituisce il reato è determinato
dall'altrui inganno; ma, in tal caso, del fatto commesso dalla persona ingannata risponde chi l'ha determinata a
commetterlo.
Anche qui, come nella ipotesi del costringimento fisico, la legge prevede il trasferimento della
responsabilità penale dall’autore materiale all’autore mediato del reato.
Un esempio può essere quello del cacciatore che induca un compagno a sparare in direzione di un
cespuglio, dietro cui intraveda una sagoma in movimento, assicurandogli che si tratti di un
72
cinghiale, mentre sa benissimo che dietro il cespuglio c’è un suo nemico, del quel intende in tal
modo sbarazzarsi. Solo chi pone consapevolmente in essere l’inganno, infatti, prevede e vuole
l’evento, come conseguenza dell’azione od omissione dell’autore materiale; quest’ultimo, invece,
non sa quel che fa e non prevede, né vuole, l’evento (falsa attestazione, morte di un uomo)
causalmente connesso alla propria condotta.
Beninteso, l’esecutore materiale del fatto non sfuggirà alla responsabilità per delitto colposo,
qualora, nell’indursi ad agire abbia tuttavia violato elementari misure di cautela.
Art. 49.
Non è punibile chi commette un fatto non costituente reato, nella supposizione erronea che esso costituisca reato.
La punibilità è altresì esclusa quando, per la inidoneità dell'azione o per l'inesistenza dell'oggetto di essa, è impossibile
Nei casi preveduti dalle disposizioni precedenti, se concorrono nel fatto gli elementi costitutivi di un reato diverso, si
Nel caso indicato nel primo capoverso, il giudice può ordinare che l'imputato prosciolto sia sottoposto a misura di
sicurezza.
Questo comma serve a rendere chiaro che, nel configurare il modello legale di un reato, la norma
penale si riferisce sempre ad azioni idonee a costituire una effettiva minaccia: il fatto tipico di reato,
cioè, si avrebbe solo se sia presente una effettiva capacità lesiva dell’azione.
La derivazione del principio formulato nell’art.49 2°co cp – reato supposto erroneamente e reato
impossibile, da quello più generale della offensività o necessaria lesività dei fatti costituenti reato
è evidente ed innegabile: parlare di una necessaria attitudine lesiva del fatto non significa altro se
non ribadire la regola per cui l’illecito penale si configura solo in funzione dell’effettiva aggressione
al bene, così importante da doversi tutelare con la minaccia della pena.
Come non può parlarsi di illecito penale quando manca una lesione effettiva, così è lo stesso quando
manca la “possibilità” di tale lesione; questo principio concerne l’essenza stessa della tipicità e altro
non rappresenta se non l’esigenza di una effettiva rispondenza del fatto alla ipotesi normativa.
Si faccia il caso dell’alterazione di banconote in modo così grossolano da non risultare idoneo a
trarre in inganno nessuno: per esempio, aggiungendo con un pennarello uno zero alla cifra indicata
sulla banconota.
È facile capire che la funzione dell’art.49 2°co cp – reato supposto erroneamente e reato
impossibile sta nell’offrire una soluzione per i casi in cui, al dato che rappresenta l’evento in senso
naturalistico, non corrisponde un’apprezzabile compromissione dell’interesse tutelato dalla norma
incriminatrice.
In questo modo, tale disposizione, si profila anche come il veicolo normativo attraverso cui dare
ingresso alla regola della irrilevanza penale delle cc.dd. azioni socialmente adeguate.
L’idea della adeguatezza sociale non è altro che un punto di vista nell’interpretazione della
fattispecie: pensiamo alla condotta di atti osceni, ex art.527 cp – atti osceni che, se fosse ancorata
sempre e comunque al concetto causale legato alla esibizione di certe parti del corpo, non si
73
capirebbe perché non è punibile la modella che posa nuda o la mamma che, in luogo aperto al
pubblico, si scopre il seno per allattare il figlio.
74
L’ANTIGIURIDICITA’
Tipicità e antigiuridicità nella struttura dell’illecito penale: rapporti fra norme di divieto e
norme permissive.
Per prima cosa, occorre ricordare che l’accertamento dell’antigiuridicità presuppone che sia già
stata accertata la tipicità del fatto. Sull’esistenza di un fatto tipico, si fonda, di regola, la ragionevole
presunzione di essere anche di fronte ad una fatto antigiuridico.
L’accertamento dell’antigiuridicità se presuppone, in positivo, l’esistenza del fatto tipico, richiede,
in negativo, l’inesistenza di situazioni che abbiano una efficacia giustificante; in presenza di tali
situazioni, il fatto resta tipico ma non antigiuridico.
L’eventuale operare di una norma permissiva non modifica la materia del divieto, ma si limita ad
escluderne l’applicabilità al caso concreto. Pensiamo all’uccisione di un uomo, contenuto
dell’art.575 cp – omicidio, in relazione all’art.52 cp – difesa legittima: non si modifica il
contenuto della norma che punisce chiunque cagioni la morte di un uomo, né la causa di
giustificazione elimina il fatto che un uomo è stato ucciso; è facile comprendere, allora, che una
situazione di omicidio per legittima difesa, non presenta i caratteri del torto giuridico.
Art. 575.
Omicidio.
Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno.
Art. 52.
Difesa legittima.
Non è punibile chi ha commesso il fatto, per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od
altrui contro il pericolo attuale di una offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all'offesa.
Nei casi previsti dall'articolo 614, primo e secondo comma, sussiste il rapporto di proporzione di cui al primo comma
del presente articolo se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati usa un'arma legittimamente
La disposizione di cui al secondo comma si applica anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto all'interno di ogni altro
Dopo questa prima e veloce analisi, possiamo dedurre che il capitolo dell’antigiuridicità si traduce
quasi per intero nella individuazione e nell’analisi delle fattispecie permissive.
Il procedimento di ricostruzione delle fattispecie “permissive” va ricercato guardando all’intero
ordinamento giuridico, dal momento che le fonti di queste fattispecie possono essere rinvenute
non solo nel diritto penale, ma anche in altri settori dell’ordinamento; basti pensare alla previsione
contenuta nell’art.40 Cost sul diritto allo sciopero, nella quale va ricercata la fonte della non
antigiuridicità di alcune condotte tipiche, come il fatto di interruzione di pubblico servizio, ex
75
art.340 cp – interruzione di un ufficio o servizio pubblico o di un servizio di pubblica
necessità, che si realizzi nell’ambito di una condotta di sciopero.
Art. 40 Costituzione
Art. 340.
Chiunque, fuori dei casi preveduti da particolari disposizioni di legge cagiona un'interruzione o turba la regolarità di un
ufficio o servizio pubblico o di un servizio di pubblica necessità è punito con la reclusione fino a un anno.
I capi promotori od organizzatori sono puniti con la reclusione da uno a cinque anni.
In materia di cause di giustificazione non vige il divieto di applicazione analogica, per almeno due
valide ragioni: in primo luogo, queste costituiscono norme dell’ordinamento giuridico generale, che
esprimono principi validi anche al di là dell’ambito del diritto penale: si pensi allo “stato di
necessità” ex art.54 cp – stato di necessità che è configurato, praticamente negli stessi termini,
anche nell’art.2045 cc – stato di necessità.
Art. 54.
Stato di necessità.
Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo
attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che
Questa disposizione non si applica a chi ha un particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo.
La disposizione della prima parte di questo articolo si applica anche se lo stato di necessità è determinato dall'altrui
minaccia; ma, in tal caso, del fatto commesso dalla persona minacciata risponde chi l'ha costretta a commetterlo.
Quando chi ha compiuto il fatto dannoso vi è stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un
danno grave alla persona, e il pericolo non è stato da lui volontariamente causato, né era altrimenti evitabile, al
danneggiato è dovuta un'indennità, la cui misura è rimessa all'equo apprezzamento del giudice.
In secondo luogo, la ratio sottesa al divieto di analogica in materia penale è connessa al rigore del
principio di legalità, per evitare creazioni giurisprudenziali di reati; il divieto di applicazione
analogica è, perciò, tendenzialmente inoperante in bonam partem, ovvero non quando si tratti di
creazione di una norma incriminatrice, ma della estensione dei principi ispiratori di una norma
limitativa della responsabilità penale.
All’esclusione del divieto di analogia consegue, logicamente, la possibilità di riconoscere
l’esistenza di cause di giustificazione non previste espressamente dalla legge, ma desumibili in via
interpretativa.
76
Profili di una sistematica generale delle “circostanze di esclusione della pena” (art.59 cp):
individuazione della categoria delle “esimenti”.
La nostra legge non utilizza mai l’espressione “cause di giustificazione”, ma si limita a qualificare
determinati soggetti, o comportamenti, come non punibili. Non punibile, nel linguaggio del codice,
è sia chi agisce per legittima difesa, sia chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva
ancora compiuto i quattordici anni.
Studiando le ipotesi di “non punibilità” disciplinate agli artt.45-49 cp, si è già visto come a queste
previsioni normative corrispondano altrettante ipotesi in cui, per la mancanza di uno o più fra i suoi
elementi costitutivi, è lo stesso fatto tipico che non si configura.
Si può affermare, quindi, che la dimensione della tipicità, da un lato, quella della colpevolezza,
dall’altro, segnano i confini entro i quali deve essere collocata una serie di ipotesi di non punibilità.
Pur così delimitata, la categoria appare comunque più ampia di quella che corrisponde alle
tradizionali cause di giustificazione.
Di qui la necessità di una classificazione dei diversi gruppi di ipotesi, secondo criteri che diano
conto della specifica rilevanza che hanno all’interno del sistema positivo.
La dottrina ha così individuato un dato normativo comune a tutte le ipotesi costituito dell’art.59 cp
– circostanze non conosciute o erroneamente supposte, che stabilisce:
Art. 59.
Le circostanze che attenuano o escludono la pena sono valutate a favore dell'agente, anche se da lui non conosciute, o
Le circostanze che aggravano la pena sono valutate a carico dell'agente soltanto se da lui conosciute ovvero ignorate per
Se l'agente ritiene per errore che esistano circostanze aggravanti o attenuanti, queste non sono valutate contro o a favore
di lui.
Se l'agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena, queste sono sempre valutate a favore di
lui. Tuttavia, se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla
Questo articolo obbliga, così, l’interprete a stabilire a quali condizioni il legislatore si sia riferito
con le locuzioni “circostanze che escludono la pena” e “circostanze di esclusione della pena”; e
legittima, al tempo stesso, la configurazione di una categoria normativa unitaria, corrispondente
all’ambito di applicazione della doppia regola della rilevanza oggettiva e dell’efficacia scusante
dell’errore. D’altro canto, è proprio la disciplina dell’errore, contenuta nell’art.59 4°co cp a
confermare che, con l’espressione “circostanze di esclusione della pena”, il codice ha voluto
indicare quelle ipotesi normative di non punibilità che, da un lato, presuppongono la realizzazione
del fatto tipico e, dall’altro, non si riferiscono all’imputabilità o ad altre condizioni o qualità
personali del soggetto, rilevanti per il giudizio di colpevolezza.
È evidente, allora, che l’ambito delle “circostanze di esclusione della pena” non può essere confuso
con quello del fatto tipico: quando l’errore cade su un elemento essenziale del fatto è l’art.47 cp –
errore di fatto ad applicarsi, e non l’art.59 ult.co cp.
Sembra, dunque, ragionevole limitare l’efficacia dell’errore sulle “circostanze di esclusione della
pena”, a quelle ipotesi di non punibilità, in cui la situazione scriminante incide sulla rilevanza di un
fatto tipico con cui si realizza contestualmente, o al quale addirittura preesista.
77
Art. 47.
Errore di fatto.
L'errore sul fatto che costituisce il reato esclude la punibilità dell'agente. Nondimeno, se si tratta di errore determinato
da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo.
L'errore sul fatto che costituisce un determinato reato non esclude la punibilità per un reato diverso.
L'errore su una legge diversa dalla legge penale esclude la punibilità, quando ha cagionato un errore sul fatto che
costituisce il reato.
Sul piano terminologico, per questa categoria normativa è stata proposta, come equivalente della
locuzione “circostanze di esclusione della pena”, la denominazione di esimenti.
All’ambito delle esimenti vanno ovviamente, in primo luogo, le ipotesi tradizionali delle cause di
giustificazione.
È una categoria generale nella quale vanno ricomprese tutte le ipotesi di non punibilità richiamate
dall'art.59 cp. Nell'ambito delle esimenti rientrano, come sottospecie, i casi di non punibilità come
quelli previsti dall'art.384 cp – casi di non punibilità, nonché altre ipotesi di non
punibilità, determinate da ragioni di opportunità politico-criminale, come ad esempio la previsione
dell’art.649 cp - non punibilità del furto tra stretti congiunti.
Art. 384.
Nei casi previsti dagli articoli 361, 362, 363, 364, 365, 366, 369, 371-bis, 371-ter, 372, 373, 374 e 378, non è punibile
chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto da
Nei casi previsti dagli articoli 371-bis, 371-ter, 372 e 373, la punibilità è esclusa se il fatto è commesso da chi per legge
non avrebbe dovuto essere richiesto di fornire informazioni ai fini delle indagini o assunto come testimonio, perito,
consulente tecnico o interprete ovvero non avrebbe potuto essere obbligato a deporre o comunque a rispondere o
avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di astenersi dal rendere informazioni, testimonianza, perizia, consulenza o
interpretazione.
Art. 649.
Non punibilità e querela della persona offesa, per fatti commessi a danno di congiunti.
Non è punibile chi ha commesso alcuno dei fatti preveduti da questo titolo in danno:
I fatti preveduti da questo titolo sono punibili a querela della persona offesa , se commessi a danno del coniuge
legalmente separato , ovvero del fratello o della sorella che non convivano coll'autore del fatto, ovvero dello zio o del
Decisivo, al riguardo, è il rilievo che, in presenza di situazioni del tipo di quelle descritte da questi
due articoli, si deve escludere l’applicabilità sia delle pene che delle misure di sicurezza.
Le esimenti diverse dalle cause di giustificazione devono essere collocate in uno spazio intermedio
fra l’antigiuridicità e la colpevolezza, poiché, da un lato, non escludono l’illiceità del fatto e,
dall’altro, non hanno ancora alcun rapporto con i giudizi individualizzanti che contrassegnano il
momento della colpevolezza. Esse escludono la rilevanza del fatto tipico, solo per quanto concerne
l’inapplicabilità di una pena o di una misura di sicurezza, ma lasciano impregiudicate sia le
conseguenze giuridiche di esso in altri settori dell’ordinamento, sia taluni aspetti di rilevanza
intrasistematica, che conseguono alla commissione di un fatto tipico ed antigiuridico.
In via di prima approssimazione, allora, le esimenti possono essere suddivise in tre distinti
sottogruppi:
1. Le cause di giustificazione.
2. Le scusanti caratterizzate dal fatto che la non punibilità si colloca in un’ottica di
inesigibilità della pretesa normativa.
3. Ipotesi in cui la non punibilità è frutto di scelte di politica criminale.
Art. 50.
Non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto, col consenso della persona che può validamente disporne.
Il fondamento specifico di questa ipotesi di non punibilità risiede nel disinteresse, da parte del
titolare, alla tutela e alla integrità di un bene giuridico. I limiti di applicabilità dell’esimente in
questione, coincidono con quelli assegnati dall’ordinamento all’autonomia dei privati. Si pensi al
tossicodipendente che accetti di farsi rinchiudere a chiave in una stanza, per affrontare una crisi di
astinenza.
Quando il consenso interviene, esso non può avere altra funzione, se non quella di autorizzare la
causazione del pregiudizio del bene, che si è realizzato a seguito del compimento dell’azione tipica,
anche se questa non è punibile, in virtù del consenso prestato dall’avente diritto.
Notiamo che la condotta dell’autore è radicalmente alternativa rispetto a quella configurata nel tipo
di fatto incriminato. Un rapporto sessuale consensuale non è certo una “violenza carnale
autorizzata”, allo stesso modo che una visita a un amico non è una violazione di domicilio
giustificata.
Possiamo così trarre tre elementi che contrassegnano la struttura dell’art.50 – consenso dell’avente
diritto.
79
Il consenso deve essere valido, quindi prestato da un soggetto capace di prestare valido consenso in
quanto dotato di sufficiente maturità di giudizio; deve essere libero, quindi non costretto o in errore;
da un punto di vista oggettivo, il diritto deve essere disponibile, ovvero il soggetto deve poterne
validamente disporre, come il caso dei diritti patrimoniali e quelli che attengono alla sfera della
personalità quali onore, libertà personale, riservatezza, mentre indisponibile è il bene della vita,
tanto che si incriminano sia l’omicidio del consenziente, sia l’istigazione al suicidio; il consenso
deve sussistere al momento in cui il fatto è compiuto, e può essere anche tacito, purchè desunto da
fatti concludenti.
Art. 51.
L'esercizio di un diritto o l'adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della
Se un fatto costituente reato è commesso per ordine dell'autorità, del reato risponde sempre il pubblico ufficiale che ha
dato l'ordine.
Risponde del reato altresì chi ha eseguito l'ordine, salvo che, per errore di fatto abbia ritenuto di obbedire a un ordine
legittimo.
Non è punibile chi esegue l'ordine illegittimo, quando la legge non gli consente alcun sindacato sulla legittimità
dell'ordine.
Questa disposizione esprime in modo netto i termini del rapporto conflittuale che si instaura fra la
norma penale incriminatrice e un’altra norma dell’ordinamento giuridico, che sia fonte di diritti o di
doveri, quando gli uni e gli altri non possono realizzarsi, se non attraverso la realizzazione di un
fatto tipico.
La caratteristica principale è quella di autorizzare il compimento di fatti tipici; l’art.51 cp
rappresenta una esimente che potremmo definire in bianco, in quanto implica necessariamente il
rinvio ad una fonte normativa diversa, per lo più extrapenale, da cui il diritto o il dovere giuridico
derivano. La fonte originaria del principio di giustificazione non può che essere rinvenuta nella
legge ordinaria o in una norma costituzionale, trattandosi di disapplicare la legge penale
incriminatrice.
L’esercizio di un diritto – L’antigiuridicità del fatto resta esclusa in virtù del principio di non
contraddizione, in forza del quale l’ordinamento non può, da un lato, riconoscere l’esistenza di un
diritto e, dall’altro, sanzionare penalmente le condotte in cui il suo esercizio si concreta.
“Diritto”, nel senso dell’art.51 cp, è qualsiasi potere giuridico di agire: i poteri degli organi
pubblici; la potestà come quella genitoriale.
La prevalenza delle norme permissive sulle norme incriminatrici riposa sull’efficacia del principio
di specialità: la fattispecie giustificante, infatti, si configura sempre come una ipotesi normativa
specializzante, rispetto all’ambito coperto dalla norma che prevede il reato.
Procediamo ad un esempio per capire meglio.
L’art.896 codice civile – recisione di rami protesi e di radici, attribuisce al proprietario del fondo
il diritto di tagliare le radici degli alberi del vicino che si spingano nel suo fondo. Orbene, il taglio
delle radici costituisce una ipotesi di “danneggiamento”, punibile dall’art.635 cp –
danneggiamento; ma, configurandosi come una ipotesi “speciale” di danneggiamento, in quanto
contrassegnata dalla particolare collocazione delle radici, la relativa condotta tipica risulta
giustificata ex art.896 cc. Ovviamente il limite di esercizio di tale diritto di tagliare le radici sta
80
nell’abuso di diritto quando, cioè, il taglio è fatto in modo tale da arrecare danno irreparabile
all’albero e così troverà applicazione in pieno l’art.635 cp.
Adempimento del dovere – Adempimento imposto da una norma giuridica o da un ordine
legittimo della pubblica Autorità.
Esempio classico di adempimento del dovere è quello dell’agente di polizia che procede ad un
arresto in flagranza di reato, privando il soggetto della libertà personale ex art.605 cp – sequestro
di persona.
Quanto alla fonte del dovere di agire, si distingue fra quello che scaturisce da una norma giuridica
e quello che deriva da un ordine legittimo della pubblica autorità.
La nozione di norma giuridica, ai sensi dell’art.51 cp, comprende anche le norme di rango inferiore
alla legge e può provenire perfino da un ordinamento straniero, quando recepito a norma dell’art.10
Costituzione.
Quando all’ordine dell’autorità deve provenire da una pubblica autorità (non è rilevante, per
capirci, quella del dirigente di azienda).
L’efficacia esimente dell’ordine è, in ogni caso, vincolata alla sua legittimità formale, ovvero
quando il superiore è competente ad emanarlo e l’inferiore ad eseguirlo, e alla sua legittimità
sostanziale che, invece, dipende dall’esistenza dei presupposti di fatto e di diritto previsti dalla
legge (ad esempio, nell’ipotesi della custodia cautelare, essa presuppone l’esistenza di gravi indizi
di colpevolezza a carico del catturando).
Art. 52.
Difesa legittima.
Non è punibile chi ha commesso il fatto, per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od
altrui contro il pericolo attuale di una offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all'offesa.
Nei casi previsti dall'articolo 614, primo e secondo comma, sussiste il rapporto di proporzione di cui al primo comma
del presente articolo se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati usa un'arma legittimamente
La disposizione di cui al secondo comma si applica anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto all'interno di ogni altro
Alla base della non punibilità della azione commessa in caso di legittima difesa c’è il duplice
fondamento: il diritto di autotutela del singolo e le esigenza di difesa del diritto contro l’illecito.
Il suo carattere è la difesa da una aggressione la cui realizzazione segnerebbe la soccombenza del
diritto di fronte all’illecito.
I presupposti dell’azione difensiva legittima sono, sostanzialmente, quattro e riguardano:
1. il bene tutelabile;
2. l’attualità del pericolo di offesa;
3. la necessarietà dell’intervento difensivo;
4. l’ingiustizia dell’attacco.
Per quanto attiene all’ambito dei beni tutelabili, è comprensivo di qualsiasi situazione giuridica
attiva, la difesa dei diritti elementari della persona, quali la vita, l’incolumità, la libertà personale,
l’inviolabilità del domicilio, e via via tutti quei diritti riconducibili alla sfera della personalità, come
81
la dignità personale, il diritto alla riservatezza, il diritto all’immagine e i diritti patrimoniali.
Ovviamente, poiché la legittima difesa è data anche per la tutela di un diritto altrui, una azione del
genere sarà legittimata anche quando sia diretta ad evitare analogo danno a un terzo, che può essere
anche lo Stato.
La attualità del pericolo di offesa è un requisito essenziale della legittima difesa che viene, così
esclusa, quando il pericolo di offesa è stato altrimenti scongiurato e quindi non più esistente al
momento dell’azione, ma anche quando l’offesa è stata ormai consumata irrimediabilmente.
L’uso legittimo della violenza è, dunque, ammissibile nei confronti del ladro già in possesso della
cosa rubata, se può consentire il recupero della refurtiva. Nel caso di sequestro di persona, si potrà
invocare legittima difesa per tutto il tempo della prigionia.
Al requisito della attualità è connesso quello della necessarietà dell’intervento difensivo; questo è
tale quando il compimento dell’azione tipica appaia come l’unica risposta possibile alla domanda:
“che posso fare, per neutralizzare con certezza, e senza rischi, l’aggressione?”.
Ne consegue l’insussistenza di questa causa di giustificazione, se vi erano valide alternative al
compimento del fatto tipico, come nelle ipotesi in cui il soggetto poteva, senza rischi, sottrarsi al
pericolo scappando, evitando quindi di trovarsi “costretto” ad agire. Logicamente la fuga non
costituisce una valida alternativa, se rischia di pregiudicare altri, magari come il caso di una fuga
precipitosa in auto.
L’esistenza di alternative concrete e agevolmente praticabili costituisce un limite tendenziale della
legittima difesa: a questo criterio si rifà l’opinione che esclude l’applicabilità della legittima difesa,
quando la situazione di pericolo sia stata cagionata volontariamente dall’aggredito, come nel caso di
chi abbia determinato l’azione aggressiva con una grave provocazione. Stesso discorso vale per chi
accetti una “sfida”.
Al giudizio di necessità non è estraneo il calcolo della proporzione: si ritiene, infatti, che il
provocatore venga a trovarsi in stato di legittima difesa, quando la reazione sia del tutto
sproporzionata rispetto al fatto provocante.
I limiti dell’azione difensiva costituiscono anche il criterio di misura della proporzione che
condiziona la legittimità della reazione difensiva. Si tratta, quindi, di una valutazione di equilibrio e
proporzioni fra azioni: quella offensiva e quella difensiva.
Per dissipare i primi dubbi, basta ricorrere all’esempio secondo il quale sparare per uccidere o ferire
il ladruncolo che ruba arance dall’albero è tipica azione sproporzionata.
La dottrina dominante ha ormai abbandonato e ripudiato il criterio che desumeva la proporzione dal
rapporto fra i mezzi usati dall’aggressore e quelli usati dall’aggredito.
Il giudizio di proporzionalità tra offesa e difesa è un giudizio di natura dinamica, dal momento
che implica un giudizio globale, che tenga conto cioè, oltre che del valore dei beni, delle modalità
dell’attacco, dei rapporti di forza, dell’intensità dell’offesa, degli sviluppi dell’azione difensiva, del
tempo, del luogo, ecc.
La situazione della fanciulla che uccide lo stupratore nell’atto di commettere la violenza, è
certamente diverso dalla fucilata sparata contro il corteggiatore sull’uscio di casa, ma anche in
82
quest’ultimo caso, le circostanze concrete (tempo di notte, luogo isolato, sproporzione di forza tra i
soggetti) possono fondare quel principio di giustificazione che, tendenzialmente, si sarebbe portati
ad escludere.
Per questo si esige che l’aggredito, fra più mezzi a disposizione, scelga il meno dannoso; evitare di
uccidere, insomma, quando l’uccisione non è assolutamente necessaria.
Così, il riferimento al contegno a cui si sarebbe attenuta la forza pubblica nelle medesime
circostanze, può risultare decisivo per l’esistenza della proporzione fra offesa e difesa. Logicamente
dovrà tenersi in considerazione la differente preparazione dell’agente di polizia rispetto al privato
cittadino, al quale non potrà essere richiesta la medesima professionalità, freddezza, decisione e
capacità di affrontare la situazione di pericolo. Sarà sufficiente, pertanto, che l’azione difensiva si
svolga nel rispetto delle regole e dei valori essenziali, che lo stesso ordinamento giuridico pone alla
base della contrapposizione fra il lecito e l’illecito.
Art. 52.
Difesa legittima.
Non è punibile chi ha commesso il fatto, per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od
altrui contro il pericolo attuale di una offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all'offesa.
Nei casi previsti dall'articolo 614, primo e secondo comma, sussiste il rapporto di proporzione di cui al primo comma
del presente articolo se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati usa un'arma legittimamente
La disposizione di cui al secondo comma si applica anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto all'interno di ogni altro
83
dell’arma come mezzo di difesa potesse essere considerato come davvero necessario al caso
concreto.
Il vero problema risiede nella circostanza che la norma autorizza l’uso dell’arma, o di qualsiasi altro
mezzo idoneo, senza che venga in alcuna considerazione la misura di questo uso. Problemi sorgono
anche nel momento processuale, dove gli elementi per la presunzione di proporzione cono esposti
alla variabile percezione soggettiva e, naturalmente, si terrà più in considerazione ciò che
testimonierà l’aggredito (se mai l’aggressore sia sopravvissuto alla faccenda).
Altro elemento che sottolinea l’irragionevolezza della norma, è la richiesta che l’azione difensiva
provenga da qualcuno legittimamente presente in uno dei luoghi indicati e che, nel caso venga
utilizzata un’arma, questa sia legittimamente detenuta. Bisogna allora desumere che, nel caso in cui
l’arma non sia legittimamente detenuta, la norma non sarebbe applicabile, come altrettanto assurdo
è che, parlandosi di “ogni altro mezzo idoneo” si dovrebbe accettare che il ladro venga ucciso a
sprangate, ponendo la spranga come equivalente di una pistola.
La sensazione è che tale norma, oltre a riferirsi ai cittadini onesti e “precisi”, finisca per dare una
copertura giustificativa esagerata all’operato di quei soggetti che si occupano di sicurezza privata, in
quanto sono loro “legittimamente presenti” e “legittimati alla detenzione dell’arma”.
Art. 53.
Ferme le disposizioni contenute nei due articoli precedenti, non è punibile il pubblico ufficiale che, al fine di adempiere
un dovere del proprio ufficio, fa uso ovvero ordina di far uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica, quando
vi è costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza all'autorità e comunque di impedire
la consumazione dei delitti di strage, di naufragio, sommersione, disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio
La stessa disposizione si applica a qualsiasi persona che, legalmente richiesta dal pubblico ufficiale gli presti assistenza.
La legge determina gli altri casi, nei quali è autorizzato l'uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica .
Questa causa di giustificazione si può considerare come una particolarità del nostro ordinamento
penale. Dalla lettura del testo, emergono con certezza due cose.
In primo luogo, si tratta di una causa di giustificazione propria, cioè riferita ad una determinata
categoria di soggetti, vale a dire i pubblici ufficiali, estensibile anche ai privati che, eventualmente,
abbiano prestato assistenza su richiesta dello stesso pubblico ufficiale.
Il secondo rilievo è che la norma in questione è di carattere sussidiario, cioè può trovare
applicazione solo quando non risulti applicabile l’art.51 – esercizio di un diritto o adempimento
di un dovere o l’art.52 cp – difesa legittima.
Da questa considerazione nasce la perplessità sul fondamento stesso dell’art.53 – uso legittimo
delle armi, dal momento che gli artt.51 e 52 cp bastano e avanzano, per legittimare l’uso della
forza per bloccare un catturando, per disperdere una folla in tumulto o per arrestare chi sta
commettendo un grave reato.
I criteri di interpretazione suggeriti dalla giurisprudenza e dalla dottrina tendono, così, ad una lettura
restrittiva dei presupposti della giustificazione.
Si insiste allora sui requisiti della costrizione e della necessità, proponendo una lettura analoga a
quella in materia di legittima difesa: l’uso della violenza deve essere rigorosamente strumentale
rispetto all’adempimento del dovere e limitato al conseguimento dello scopo, in vista del quale la
giustificazione opera. Si aggiunga, infine, che fra i mezzi a sua disposizione, il pubblico ufficiale,
dovrà utilizzare quello meno lesivo.
84
La resistenza passiva e la fuga, ad esempio, legittimano l’impiego della forza e, al limite, anche
l’uso delle armi, purchè ci si ispiri a regole di cautela e di moderazione; contro un latitante in fuga si
potrà sparare, mirando a parti non letali, per arrestarne la corsa; contro i manifestanti si potranno
usare lacrimogeni e sfollagente, ma non sarà consentito sparare per uccidere o ferire.
Un ulteriore punto controverso, nella interpretazione dell’art.53 cp, concerne il significato da
attribuire al termine fine a cui il fatto del pubblico ufficiale è diretto. La condotta giustificata è
quella del pubblico ufficiale che adempie un dovere del proprio ufficio, in vista del fine in
questione; la giustificazione avrà efficacia a prescindere dal sentimento soggettivo dell’agente nel
compiere il proprio ufficio, ma non lo sarà nel caso in cui suoi personali rancori ne orientino la
condotta; un esempio è costituito dal fatto che l’agente, nel prestare servizio durante una
manifestazione, nel mezzo dei tumulti, prenda di mira un suo nemico riconosciuto nella folla,
cogliendo l’occasione per sbarazzarsene.
Art. 54.
Stato di necessità.
Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo
attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che
Questa disposizione non si applica a chi ha un particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo.
La disposizione della prima parte di questo articolo si applica anche se lo stato di necessità è determinato dall'altrui
minaccia; ma, in tal caso, del fatto commesso dalla persona minacciata risponde chi l'ha costretta a commetterlo.
Bisogna spendere qualche parola a proposito dei presupposti e limiti dello stato di necessità.
1. L’azione commessa in stato di necessità va esente da pena solo quando si sia trattato di
scongiurare il pericolo attuale di un danno grave alla persona, propria o altrui (la
differenza con la legittima difesa è ovvia, dal momento che questa è riconosciuta per
all’individuo per la tutela di qualsiasi diritto).
2. Riguardo la inevitabilità del pericolo, si sottolinea che la valutazione circa l’esistenza di
valide alternative alla commissione del fatto tipico non deve essere compiuta in astratto, ma
tenendo conto della concreta possibilità, da parte dell’agente, di farvi tempestivo ricorso.
3. Per l’applicabilità dell’esimente dello stato di necessità, l’art.54 cp richiede, esplicitamente,
che il pericolo non sia stato volontariamente causato dall’agente. Nella situazione di
pericolo da cui ha origine la necessità, il soggetto deve essere capitato involontariamente.
Non può, ad esempio, invocare l’esimente, il tossicodipendente che, in crisi di astinenza,
commette un reato contro il patrimonio per procurarsi il denaro necessario ad acquistare
eroina.
4. I termini della proporzione vanno ricostruiti sulla base di un rapporto tra fatto e pericolo;
fatto è l’aggressione in forma tipica di un bene inserito nel modello di una norma
incriminatrice; pericolo è la rilevante probabilità della lesione di un altro bene, che l’azione
necessitata tende a scongiurare. Non è quindi accettabile l’idea che il requisito della
proporzione debba essere ancorato ad un rigido criterio di proporzione fra i beni in gioco. È
ovvio che quando la differenza dei suddetti beni è evidente, come nel caso di chi sfondi un
cancello di una abitazione privata per salvare qualcuno, il problema non si pone anche se le
probabilità di successo siano scarsissime. Ma le cose stanno diversamente quando i beni in
gioco hanno pari importanza: il medico che altera l’ordine di intervento tra due pazienti, a
cui segue la morte di uno, potrà essere giustificato solo se la morte si prospettasse
imminente e, al tempo stesso, le chances di sopravvivenza siano elevate. La relativizzazione
del valore dei beni è ancora più marcata quando non sia in gioco la vita, ma altri beni della
persona, come l’incolumità, la riservatezza, l’onore, poiché pongono in dubbio la stessa
generalizzazione del principio, secondo cui il valore del bene da salvare dovrebbe essere
superiore o pari rispetto a quello sacrificato. Nell’esempio della bagnante che, smarrito il
costume, si impossessi dei vestiti di qualcuno per non sfilare nuda dinanzi ai bagnanti,
l’applicabilità dell’art.54 cp non può dipendere da una comparazione di natura economica
contro il pudore della bagnante, ma piuttosto dalle circostanze concrete in cui il fatto è stato
realizzato. La bagnante potrà essere giustificata se magari il fatto avviene di giorno e in una
spiaggia affollata e se costretta a percorrere un lungo tratto di strada a piedi, ma sarà negata
se il fatto è accaduto di notte e la donna abiti a pochi metri dalla spiaggia.
Riguardo ai limiti soggettivi all’applicabilità dell’art.54 cp, lo stesso articolo, al comma 2 esclude
quei soggetti che hanno un “particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo”. La ratio della
disposizione è chiara e si riferisce a quei soggetti ai quali è assegnato l’ufficio, ad esempio, del
mantenimento dell’ordine pubblico, lavoro che comporta dei rischi necessari. Al tempo stesso, però,
86
l’ordinamento non richiede l’eroismo e tantomeno l’inutile sacrificio della vita, poiché anche chi ha
il dovere di esporsi al pericolo deve provvedere alla propria salvezza, quando le circostanze non gli
consentirebbero altra via di uscita.
Errore ed eccesso nella disciplina normativa delle “circostanze di esclusione della pena”.
Art. 59.
Le circostanze che attenuano o escludono la pena sono valutate a favore dell'agente, anche se da lui non conosciute, o
Le circostanze che aggravano la pena sono valutate a carico dell'agente soltanto se da lui conosciute ovvero ignorate per
87
colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa.
Se l'agente ritiene per errore che esistano circostanze aggravanti o attenuanti, queste non sono valutate contro o a favore
di lui.
Se l'agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena, queste sono sempre valutate a favore di
lui. Tuttavia, se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla
L’eccesso colposo.
Può accadere che l’agente, nel dar corso all’azione, superi involontariamente i limiti segnati
dall’ipotesi normativa, o per errore nell’uso dei mezzi, o per un errore di valutazione della
situazione di fatto.
Queste ipotesi corrispondono alla figura dell’eccesso colposo ex art.55 cp – eccesso colposo.
88
Art. 55.
Eccesso colposo.
Quando, nel commettere alcuno dei fatti preveduti dagli articoli 51, 52, 53 e 54, si eccedono colposamente i limiti
stabiliti dalla legge o dall'ordine dell'autorità ovvero imposti dalla necessità, si applicano le disposizioni concernenti i
90
LA COLPEVOLEZZA
Nozione di colpevolezza.
Alla constatazione della tipicità e dell’antigiuridicità, è ancora necessario stabilire se esistono i
presupposti per affermare che l’autore sia anche personalmente responsabile per la realizzazione
del fatto tipico e antigiuridico. Il problema della colpevolezza, concerne la capacità personale e le
concrete possibilità di orientamento di un determinato autore nella scelta fra il diritto e l’illecito.
Tutti i sistemi penali evoluti nel nostro tempo sono saldamente imperniati sul c.d. principio di
colpevolezza, sull’idea cioè che la colpevolezza individuale dell’autore costituisca un presupposto
indispensabile per l’applicazione della pena.
91
IL PRINCIPIO DI COLPEVOLEZZA
NELLA PROSPETTIVA COSTITUZIONALE
L’art.27 1°co Cost. e il valore del principio di “personalità” della responsabilità penale.
Il principio nulla poena sine culpa è un principio costituzionale espresso nella Carta all’art.27
1°co, che esprime l’esigenza della colpevolezza individuale, come presupposto inderogabile della
responsabilità penale.
Art. 27 Costituzione
Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla
rieducazione del condannato.
Art. 42.
Responsabilità per dolo o per colpa o per delitto preterintenzionale. Responsabilità obiettiva.
Nessuno può essere punito per un'azione od omissione preveduta dalla legge come reato, se non l'ha commessa con
coscienza e volontà.
92
Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se non l'ha commesso con dolo, salvi i casi
La legge determina i casi nei quali l'evento è posto altrimenti a carico dell'agente, come conseguenza della sua azione
od omissione.
Nelle contravvenzioni ciascuno risponde della propria azione od omissione cosciente e volontaria sia essa dolosa o
colposa.
Quello che interessa è stabilire, in termini generali, entro quali limiti si muove l’illegittimità
costituzionale della responsabilità oggettiva.
In relazione ai casi in cui almeno un elemento del fatto, a differenza di altri elementi, non è coperto
dal dolo o dalla colpa dell’agente, la Corte esclude esplicitamente che l’art.27 1°co contenga un
tassativo divieto di responsabilità oggettiva e, al riguardo, si dovrebbe volta per volta stabilire quali
sono gli elementi più significativi della fattispecie, che non possono non essere coperti almeno dalla
colpa dell’agente, per non incorrere nella violazione del disposto dell’art.27 1°co Cost, nella parte
relativa al rapporto psichico tra soggetto e fatto.
In una pronuncia successiva, la Corte è tornata sull’argomento: chiamata a decidere della
costituzionalità dell’art.626 cp – furti punibili a querela dell’offeso, ha dichiarato illegittima la
norma nella parte in cui non estende la disciplina del furto d’uso alle ipotesi di mancata
restituzione, dopo l’uso momentaneo, della cosa sottratta, quando la mancata restituzione sia dovuta
a caso fortuito, o a forza maggiore.
Art. 626.
Si applica la reclusione fino a un anno ovvero la multa fino a euro 206, e il delitto è punibile a querela della persona
offesa:
1) se il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa sottratta, e questa, dopo l'uso momentaneo, è
2) se il fatto è commesso su cose di tenue valore, per provvedere a un grave ed urgente bisogno;
3) se il fatto consiste nello spigolare, rastrellare o raspollare nei fondi altrui, non ancora spogliati interamente dal
raccolto.
Tali disposizioni non si applicano se concorre taluna delle circostanze indicate nei numeri 1, 2, 3 e 4 dell'articolo
precedente.
(1) La Corte costituzionale con sentenza 13 dicembre 1988, n. 1085 ha dichiarato l'illegittimità del presente numero
nella parte in cui non estende la disciplina ivi prevista alla mancata restituzione, dovuta a caso fortuito o forza
Secondo il ragionamento della Corte, la restituzione della cosa “costituisce elemento essenziale e
significativo della fattispecie di furto d’uso; ma altrettanto significativa è la mancata restituzione
della cosa sottratta, al cui verificarsi la legge ricollega l’applicazione dell’art.624 cp – furto.
93
Art. 624.
Furto.
Chiunque s'impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri, è
punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da euro 154 a euro 516.
Agli effetti della legge penale, si considera cosa mobile anche l'energia elettrica e ogni altra energia che abbia un valore
economico.
Il delitto è punibile a querela della persona offesa, salvo che ricorra una o più delle circostanze di cui agli articoli 61,
Il dato obiettivo della mancata restituzione, per essere addebitato all’agente, deve essere investito
dal dolo o almeno dalla colpa dell’agente. In questo modo, se la mancata restituzione della cosa è
dovuta a caso fortuito o forza maggiore non è addebitabile all’agente, e di conseguenza
impediscono il rimprovero, a titolo di furto comune, dell’unitaria predetta ipotesi.
Con questa decisione, la Corte Costituzionale ha fornito un illuminante esempio di cosa si intende
per elementi significativi e caratterizzanti della fattispecie, che obbligatoriamente devono essere
coperti dal dolo o dalla colpa dell’agente.
Art. 43.
Il delitto:
è doloso, o secondo l'intenzione, quando l'evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell'azione od omissione e da
cui la legge fa dipendere l'esistenza del delitto, è dall'agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione
od omissione;
è preterintenzionale, o oltre l'intenzione, quando dall'azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più
è colposo, o contro l'intenzione quando l'evento, anche se preveduto, non è voluto dall'agente e si verifica a causa di
negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.
La distinzione tra reato doloso e reato colposo, stabilita da questo articolo per i delitti, si applica altresì alle
contravvenzioni, ogni qualvolta per queste la legge penale faccia dipendere da tale distinzione un qualsiasi effetto
giuridico.
Questo è il caso in cui il soggetto agente vuole l’evento dannoso o pericoloso ma, come
conseguenza del suo agire, si concretizza un evento più grave di quello voluto.
Una parte della dottrina ravvisa nella preterintenzione una ipotesi mista di dolo e responsabilità
oggettiva: nel senso che, su una condotta dolosa diretta a cagionare l’evento meno grave di quello
effettivamente realizzatosi, si innesterebbe una responsabilità (oggettiva) per l’evento più grave,
94
fondata sul mero rapporto da causalità fra condotta ed evento. Una impostazione simile porrebbe,
dunque, un problema di legittimità costituzionale della relativa previsione.
È stato giustamente notato che, in realtà, il delitto preterintenzionale, più che configurare una
ipotesi di dolo mista a colpa, rivela analogie strutturali con la condotta colposa: in questa, infatti,
ciò che viene incriminato è una azione volontaria, da cui deriva un risultato diverso da quello che
l’agente si era riproposto e comunque da lui non voluto. Ora, se collochiamo il delitto
preterintenzionale nella responsabilità oggettiva, si esclude la rilevanza del dato della prevedibilità
dell’evento più grave; il ricorso all’interpretazione sistematica, invece, permette subito di accorgersi
che il più severo trattamento dell’omicidio preterintenzionale non avrebbe ragionevolezza, se la
responsabilità a titolo di preterintenzione dovesse prescindere dalla prevedibilità dell’evento,
segnando con ciò la sua differenza dallo schema della responsabilità colposa.
Del resto, quando si consideri che il delitto preterintenzionale trova un limite nel caso fortuito, è
facile rendersi conto che, dal punto di vista dell’imputazione soggettiva, in tutti i casi di
preterintenzione risulta riconoscibile un elemento di prevedibilità dell’evento più grave, di per sé
sufficiente a fondare un rimprovero in termini di colpa. In altre parole, si tratta di prendere atto che
l’evento più grave, in quanto progressione non imprevedibile del risultato perseguito dall’agente,
poteva da questi essere evitato mediante un più attento controllo dei decorsi causali. Il dovere di
cautela, infatti, è norma d’obbligo in qualsiasi tipo di condotta, sia questa lecita o illecita.
Ricondotta nell’alveo della responsabilità per colpa, la figura del delitto preterintenzionale si rivela,
dunque, estranea alla tematica della responsabilità oggettiva. In concreto, nell’omicidio
preterintenzionale, si configura una sorta di escalation nell’aggressione della incolumità personale,
da parte di un soggetto che risulta tanto più rimproverabile per la caduta di controllo che porta ad un
ampliamento della misura del danno, la cui prospettazione sembra già implicita nell’attacco
all’incolumità personale. Per quanto attiene a tale figura di reato, non vi è dubbio che l’evento “più
grave” dovrebbe prospettarsi alla mente del reo come una eventualità “non tanto remota” e questo
sembra essere tutt’altro che irrilevante per la determinazione di una pena autonoma, e di gran lunga
maggiore, rispetto alla corrispondente fattispecie colposa e alle ipotesi di concorso fra il reato di
lesioni volontarie ed omicidio colposo.
95
LA COLPEVOLEZZA NELLA STRUTTURA DEL REATO
Art. 85.
Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso non era
imputabile.
La capacità di intendere corrisponde alla capacità del soggetto di percepire la realtà esterna e di
rapportarsi ad essa, in modo da comprendere anche il significato del proprio agire.
Per capacità di volere si intende, invece, la capacità di controllare i propri impulsi e di orientare la
propria volontà nel mondo esterno.
Sinteticamente, possiamo dire che questi due elementi concernono la capacità del soggetto di
autodeterminarsi secondo valori, in particolare quelli di cui sono portatrici le norme giuridiche.
96
L’ordinamento assume, allora, l’imputabilità come presupposto della colpevolezza; tale assunto è
ancora più comprensibile, se si nota il riferimento alle funzioni della pena: per gli scopi di
prevenzioni generale, ovvero la capacità dissuasiva verso la commissione dei reati, come di
prevenzione speciale, ovvero rieducazione e recupero, se il condannato non è capace di
comprendere il significato della minaccia della pena e non riesce a percepire gli effetti del recupero,
il diritto penale perde di significato.
Art. 97.
Non è imputabile chi nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva compiuto i quattordici anni.
Rispetto ai minori fra i quattordici e i diciotto anni, l’imputabilità deve essere accertata caso per
caso dal giudice, sulla base di quei fattori che possono aver condizionato il processo di maturazione
psicofisica del soggetto.
Vizio totale di mente – oltre il diciottesimo anno di età, la capacità di intendere e di volere si
ritiene presunta, ovviamente fino a prova contraria, quando cioè esistano, ad esempio, malattie
mentali o altre cause.
Art. 88.
Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la
Da questo articolo si desume, innanzitutto, che qualsiasi “infermità”, quindi non solo psichica ma
anche fisica, può assumere rilievo ai fini della esclusione dell’imputabilità, purchè abbia avuto
l’effetto di escludere la capacità di intendere e di volere.
Dal momento che deve sussistere al momento del fatto, possono assumere rilevanza anche i
“disturbi della personalità” se consistenti, rilevanti e gravi, tali da incidere concretamente sulla
mente, mentre sono esclusi gli “stati emotivi e passionali”.
Art. 90.
Infine, il successivo art.89 cp – vizio parziale di mente, affronta l’ipotesi in cui la capacità di
intendere e di volere non sia esclusa, ma “grandemente scemata”: la responsabilità penale sussiste,
ma la pena è diminuita, salva la possibilità di ricorrere, per il soggetto, a una misura di sicurezza.
97
Art. 89.
Chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da scemare grandemente, senza
escluderla, la capacità d'intendere o di volere, risponde del reato commesso; ma la pena è diminuita.
Art. 96.
Sordomutismo.
Non è imputabile il sordomuto che, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva, per causa della sua infermità,
Se la capacità d'intendere o di volere era grandemente scemata, ma non esclusa, la pena è diminuita.
Art. 95.
Per i fatti commessi in stato di cronica intossicazione prodotta da alcool ovvero da sostanze stupefacenti, si applicano le
Art. 91.
Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva la capacità d'intendere o di volere, a cagione
Se l'ubriachezza non era piena, ma era tuttavia tale da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità d'intendere o
Art. 93.
98
Le disposizioni dei due articoli precedenti si applicano anche quando il fatto è stato commesso sotto l'azione di sostanze
stupefacenti.
Qualora la situazione di incapacità non derivi da caso fortuito o forza maggiore, l’imputabilità non è
né esclusa né diminuita.
Art. 5.
Tale norma trova il suo fondamento nell’esigenza di non compromettere l’efficacia delle norme
penali; diversamente, per sfuggire ai rigori delle stesse, sarebbe sufficiente tenersene all’oscuro.
Tuttavia, la portata dell’art.5 cp – ignoranza della legge penale, va parzialmente modificata, in
quanto, con la sentenza 364/88, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di
essa nella parte in cui non esclude l’ignoranza inevitabile.
Occorre partire dalla lettura dell’art.27 Costituzione, nella parte in cui si stabilisce che le pene
devono tendere alla rieducazione del condannato;
99
Art. 27 Costituzione
Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla
rieducazione del condannato.
Tra i requisiti soggettivi di imputazione costituzionalmente richiesti viene, quindi, dalla Corte
attribuito un ruolo centrale alla possibilità di conoscere la norma penale: ne consegue che,
presupposto della responsabilità penale è la conoscibilità, da parte del soggetto agente,
dell’effettivo contenuto precettivo della norma.
I giudici costituzionali hanno individuato come limite alla personale responsabilità penale solo
l’oggettiva impossibilità di conoscenza del precetto, nella quale venga a trovarsi chiunque.
Art. 59.
Le circostanze che attenuano o escludono la pena sono valutate a favore dell'agente, anche se da lui non conosciute, o
Le circostanze che aggravano la pena sono valutate a carico dell'agente soltanto se da lui conosciute ovvero ignorate per
Se l'agente ritiene per errore che esistano circostanze aggravanti o attenuanti, queste non sono valutate contro o a favore
di lui.
Se l'agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena, queste sono sempre valutate a favore di
lui. Tuttavia, se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla
Questo è il discusso caso sulla collocazione sistematica delle c.d. cause di giustificazione putative.
La situazione è analoga a quella di chi versa in errore sulla legge penale.
100
Art. 51.
L'esercizio di un diritto o l'adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della
Se un fatto costituente reato è commesso per ordine dell'autorità, del reato risponde sempre il pubblico ufficiale che ha
dato l'ordine.
Risponde del reato altresì chi ha eseguito l'ordine, salvo che, per errore di fatto abbia ritenuto di obbedire a un ordine
legittimo.
Non è punibile chi esegue l'ordine illegittimo, quando la legge non gli consente alcun sindacato sulla legittimità
dell'ordine.
Quello che occorre notare ora è che, a parte il primo comma, i successivi fanno riferimento
all’ipotesi in cui l’ordine proveniente dall’Autorità si illegittimo: che fare in questi casi?
Se l’ordine è illegittimo, la responsabilità del reato ricade sempre sul pubblico ufficiale che ha
impartito l’ordine, come detto al comma 2.
L’esecutore dell’ordine ne risponde insieme col pubblico ufficiale, tranne che:
a. per errore sul fatto, abbia ritenuto di obbedire a un ordine legittimo. Nell’errore sul fatto
deve farsi rientrare anche l’errore sulla legge extrapenale. Se, ad esempio, un soldato,
credendo che sussista ancora lo stato di assedio in una città, obbedisce all’ordine di sparare
contro alcuni passanti, non risponderà del reato a causa proprio dell’errore sul fatto in cui
versa.
b. quando la legge non gli consente alcun sindacato sulla legittimità dell’ordine. È il caso
questo dei rapporti di subordinazione di natura militare o assimilati (agenti di polizia,
carabinieri, vigili del fuoco, ecc).
L’insindacabilità dell’ordine, però, è solo sostanziale mai formale, per cui sarà sempre possibile
per il subordinato verificare:
a. la forma dell’ordine, intesa come il modo in cui l’ordine è stato dato; normalmente per gli
ordini basta la forma orale, ma eccezionalmente la legge o un regolamento possono
pretendere la forma scritta, nel qual caso, appunto, la mancanza di scrittura costituisce un
valido motivo per il subordinato di rifiutarsi di obbedire.
b. l’attinenza dell’ordine al servizio, che si ha quando il fatto comandato rientra nei poteri
che la legge attribuisce al superiore nei confronti del subordinato, nonché alla sfera di
attribuzioni spettanti al subordinato stesso.
c. la competenza dell’Autorità ordinante, nel senso che si deve trattare di una Autorità
Pubblica investita del potere di emanare quei determinati ordini.
101
PARTE QUARTA
Premessa.
Con la locuzione penalistica di forme di manifestazione del reato, si indicano quelle ipotesi
normative in cui il reato è caratterizzato, nel suo concreto manifestarsi, da caratteristiche peculiari,
che lo differenziano dal prototipo dell’illecito penale fin qui studiato come fatto tipico, antigiuridico
e colpevole. A questa “classica” modalità di realizzazione dell’illecito penale, si contrappongono
altre modalità (appunto dette forme) alternative, con cui il reato può manifestarsi nella realtà
fattuale.
Vediamo i casi.
1) Può accadere che il reato sia incompiuto, perché non si realizza la lesione dei beni a cui la
condotta era diretta, come nel caso di Tizio che spara a Caio per ucciderlo ma lo manca;
oppure perché la condotta non è stata portata a compimento, pensiamo a Tizio che ruba ma
viene scoperto e scappa senza riuscire a portare via nulla.
2) Un reato può essere commesso in concorso tra più persone, responsabili dell’esecuzione
del fatto criminoso.
3) Si parla, invece, di reato circostanziato, quando non solo il fatto tipico è presente, ma è
addirittura “arricchito”, per così dire, da modalità particolari della sua esecuzione che la
legge considera rilevanti ai fini di una maggiore o minore gravità del reato, con
conseguente incidenza sulla misura della pena (aggravanti e attenuanti).
102
IL REATO CIRCOSTANZIATO
CIRCOSTANZE E STRUTTURA DEL REATO
Fatti tipico e circostanze. Significato e limiti della distinzione fra elementi essenziali ed
elementi accidentali del reato.
La nozione di circostanza del reato può essere compresa solo in rapporto ad una fattispecie non
circostanziata, il c.d. reato semplice, che costituisce il punto di riferimento per l’individuazione
della circostanza, la cui presenza comporta un aumento o una diminuzione della c.d. pena base. Ad
esempio, l’uccisione di un uomo basta a configurare il reato di omicidio semplice, mentre se è stato
compiuto contro un parente o usando del veleno, siamo di fronte ad un caso di omicidio aggravato;
se, infine l’omicidio scaturisce da una grave provocazione, potremo parlare di omicidio attenuato.
Ad ogni modo, è utile dire fin da subito che non sempre è facile distinguere le situazioni e capire se
si è dinanzi ad un reato circostanziato oppure se si tratta di una autonoma fattispecie di reato.
Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge.
Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto
commesso.
Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge.
103
I DIVERSI TIPI DI CIRCOSTANZE
E IL LORO REGIME GIURIDICO
Art. 59.
Le circostanze che attenuano o escludono la pena sono valutate a favore dell'agente, anche se da lui non conosciute, o
Le circostanze che aggravano la pena sono valutate a carico dell'agente soltanto se da lui conosciute ovvero ignorate per
Se l'agente ritiene per errore che esistano circostanze aggravanti o attenuanti, queste non sono valutate contro o a favore
di lui.
Se l'agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena, queste sono sempre valutate a favore di
lui. Tuttavia, se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla
104
A questa grave anomalia ha posto rimedio la legge 7 febbraio 1990, riformulando il 1°co art.59 cp
– circostanze non conosciute o erroneamente supposte e aggiungendo un 2°co, per differenziare
nettamente la disciplina dell’errore sulle circostanze attenuanti da quella delle circostanze
aggravanti; in questo modo, chi si impossessa di cose di ingente valore, risponderà di furto
aggravato solo se conosceva il reale valore della cosa rubata, mentre le attenuati saranno
riconosciute anche se non conosciute.
Art. 60.
Nel caso di errore sulla persona offesa da un reato, non sono poste a carico dell'agente le circostanze aggravanti, che
riguardano le condizioni o qualità della persona offesa, o i rapporti tra offeso e colpevole.
Sono invece valutate a suo favore le circostanze attenuanti, erroneamente supposte, che concernono le condizioni, le
Le disposizioni di questo articolo non si applicano, se si tratta di circostanze che riguardano l'età o altre condizioni o
Nel 2°co sono, invece, riconosciute le circostanze attenuanti anche se non conosciute o
erroneamente supposte; ad esempio, l’attenuante della provocazione compete anche a chi uccide o
ferisce taluno, nella erronea convinzione di avere a che fare con la persona che ha commesso, ai
suoi danni, un fatto ingiusto.
Al 3°co si stabilisce che le disposizioni di questo articolo non si applicano se si tratta di circostanze
che riguardano l’età o altre condizioni o qualità, fisiche o psichiche, della persona offesa.
Art. 69.
Quando concorrono insieme circostanze aggravanti e circostanze attenuanti, e le prime sono dal giudice ritenute
prevalenti, non si tien conto delle diminuzioni di pena stabilite per le circostanze attenuanti, e si fa luogo soltanto agli
Se le circostanze attenuanti sono ritenute prevalenti sulle circostanze aggravanti, non si tien conto degli aumenti di pena
stabiliti per queste ultime, e si fa luogo soltanto alle diminuzioni di pena stabilite per le circostanze attenuanti.
Se fra le circostanze aggravanti e quelle attenuanti il giudice ritiene che vi sia equivalenza, si applica la pena che
Le disposizioni del presente articolo si applicano anche alle circostanze inerenti alla persona del colpevole, esclusi i casi
previsti dall'articolo 99, quarto comma, nonché dagli articoli 111 e 112, primo comma, numero 4), per cui vi è divieto di
prevalenza delle circostanze attenuanti sulle ritenute circostanze aggravanti, ed a qualsiasi altra circostanza per la quale
la legge stabilisca una pena di specie diversa o determini la misura della pena in modo indipendente da quella ordinaria
del reato.
106
Art. 111.
Chi ha determinato a commettere un reato una persona non imputabile, ovvero non punibile a cagione di una condizione
o qualità personale, risponde del reato da questa commesso, e la pena è aumentata. Se si tratta di delitti per i quali è
Se chi ha determinato altri a commettere il reato ne è il genitore esercente la responsabilità genitoriale, la pena è
aumentata fino alla metà o, se si tratta di delitti per i quali è previsto l'arresto in flagranza, da un terzo a due terzi.
Art. 112.
Circostanze aggravanti.
1) se il numero delle persone, che sono concorse nel reato, è di cinque o più salvo che la legge disponga altrimenti ;
2) per chi, anche fuori dei casi preveduti dai due numeri seguenti, ha promosso od organizzato la cooperazione nel
reato, ovvero diretto l'attività delle persone che sono concorse nel reato medesimo;
3) per chi nell'esercizio della sua autorità, direzione o vigilanza ha determinato a commettere il reato persone ad esso
soggette;
4) per chi, fuori del caso preveduto dall'articolo 111, ha determinato a commettere il reato un minore di anni 18 o una
persona in stato di infermità o di deficienza psichica, ovvero si è comunque avvalso degli stessi o con gli stessi ha
partecipato (1) nella commissione di un delitto per il quale è previsto l'arresto in flagranza.
La pena è aumentata fino alla metà per chi si è avvalso di persona non imputabile o non punibile, a cagione di una
condizione o qualità personale, o con la stessa ha partecipato ( 2) nella commissione di un delitto per il quale è previsto
l'arresto in flagranza.
Se chi ha determinato altri a commettere il reato o si è avvalso di altri o con questi ha partecipato nella commissione del
delitto ne è il genitore esercente la responsabilità genitoriale, nel caso previsto dal numero 4 del primo comma la pena è
aumentata fino alla metà e in quello previsto dal secondo comma la pena è aumentata fino a due terzi.
Gli aggravamenti di pena stabiliti nei numeri 1, 2 e 3 di questo articolo si applicano anche se taluno dei partecipi al fatto
Ciò che appare irragionevole è la sua totale indifferenza alla diversità delle situazioni concrete,
negando con ciò la funzione propria del giudizio di bilanciamento: la nuova regola infatti attira nel
divieto di prevalenza tutte le circostanze attenuanti e non si limita semplicemente ad escludere la
soccombenza di determinate circostanze aggravanti (segnatamente la recidiva), con il risultato che
non si può andare oltre il giudizio di equivalenza qualunque sial il numero, la natura e il grado di
“significatività” delle attenuanti (tutte), cancellando del tutto ogni loro valore rispetto alle finalità
della pena.
Sembrano dunque davvero consistenti, in questo caso, le censure di costituzionalità che è possibile
muovere alla disposizione introdotta con riferimento agli artt. 3 e 27 Costituzione.
107
Art. 3 Costituzione
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di
razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la
libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva
partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Art. 27 Cosrituzione
Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla
rieducazione del condannato.
108
LE SINGOLE CIRCOSTANZE
Art. 61.
Aggravano il reato quando non ne sono elementi costitutivi o circostanze aggravanti speciali le circostanze seguenti:
2) l'aver commesso il reato per eseguirne od occultarne un altro, ovvero per conseguire o assicurare a sé o ad altri il
5) l’avere profittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona, anche in riferimento all’età, tali da ostacolare la
6) l'avere il colpevole commesso il reato durante il tempo, in cui si è sottratto volontariamente alla esecuzione di un
7) l'avere, nei delitti contro il patrimonio o che comunque offendono il patrimonio, ovvero nei delitti determinati da
motivi di lucro, cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di rilevante gravità;
9) l'avere commesso il fatto con abuso dei poteri, o con violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o a un
10) l'avere commesso il fatto contro un pubblico ufficiale o una persona incaricata di un pubblico servizio, o rivestita
della qualità di ministro del culto cattolico o di un culto ammesso nello Stato, ovvero contro un agente diplomatico o
consolare di uno Stato estero, nell'atto o a causa dell'adempimento delle funzioni o del servizio;
11) l'avere commesso il fatto con abuso di autorità o di relazioni domestiche, ovvero con abuso di relazioni di ufficio, di
11-bis) l’avere il colpevole commesso il fatto mentre si trova illegalmente sul territorio nazionale;
11-ter) l’aver commesso un delitto contro la persona ai danni di un soggetto minore all’interno o nelle adiacenze di
11-quater) l'avere il colpevole commesso un delitto non colposo durante il periodo in cui era ammesso ad una misura
11-quinquies) l'avere, nei delitti non colposi contro la vita e l'incolumità individuale, contro la libertà personale nonché
109
nel delitto di cui all'articolo 572, commesso il fatto in presenza o in danno di un minore di anni diciotto ovvero in danno
Ricordiamone alcune:
1) Futili motivi.
2) Aver commesso il reato per eseguirne od occultarne un altro.
3) Aver agito nonostante la previsione dell’evento.
4) Aver agito con crudeltà.
5) Aver commesso il reato durante la latitanza.
6) Aver cagionato un danno patrimoniale di rilevante gravità.
7) Aver aggravato o tentato di aggravare le conseguenze del delitto commesso.
8) Aver commesso il fatto con abuso di poteri o violazioni di doveri.
9) Aver commesso il fatto contro un pubblico ufficiale.
10) Aver commesso il fatto con abuso di autorità.
11) Aver commesso il fatto mentre si trovava illegalmente sul territorio nazionale.
Art. 62.
Attenuano il reato, quando non ne sono elementi costitutivi o circostanze attenuanti speciali, le circostanze seguenti:
3) l'avere agito per suggestione di una folla in tumulto, quando non si tratta di riunioni o assembramenti vietati dalla
legge o dall'autorità, e il colpevole non è delinquente o contravventore abituale o professionale, o delinquente per
tendenza;
4) l'avere, nei delitti contro il patrimonio, o che comunque offendono il patrimonio, cagionato alla persona offesa dal
reato un danno patrimoniale di speciale tenuità ovvero, nei delitti determinati da motivi di lucro, l'avere agito per
conseguire o l'avere comunque conseguito un lucro di speciale tenuità, quando anche l'evento dannoso e pericoloso sia
di speciale tenuità;
5) l'essere concorso a determinare l'evento, insieme con l'azione o l'omissione del colpevole, il fatto doloso della
persona offesa;
6) l'avere, prima del giudizio, riparato interamente il danno, mediante il risarcimento di esso, e, quando sia possibile,
mediante le restituzioni; o l'essersi, prima del giudizio e fuori del caso preveduto nell'ultimo capoverso dell'articolo 56,
adoperato spontaneamente ed efficacemente per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato.
Vediamole.
1) Aver agito per motivi di valore morale e sociale.
110
2) Aver agito in stato di ira determinato da fatto altrui.
3) Aver agito per suggestione di folla in tumulto.
4) Aver cagionato un danno patrimoniale di speciale tenuità.
5) Essere concorso a determinare l’evento il fatto doloso della persona offesa.
6) Avere, prima del giudizio, riparato interamente il danno.
Le attenuanti generiche.
Sono regolate all’art.62 bis cp – circostanze attenuanti generiche e appartengono al novero delle
circostanze indefinite e discrezionali, essendo rimessa al giudice la ricerca e l’apprezzamento del
valore attenuante; sono però obbligatorie nell’applicazione nel senso che, una volta individuate, il
giudice deve per forza tenerne conto nella diminuzione della pena. Altra caratteristica è che vanno
considerate come una sola circostanza.
Art. 62-bis.
Il giudice, indipendentemente dalle circostanze previste nell'articolo 62, può prendere in considerazione altre
circostanze diverse, qualora le ritenga tali da giustificare una diminuzione della pena. Esse sono considerate in ogni
caso, ai fini dell'applicazione di questo capo, come una sola circostanza, la quale può anche concorrere con una o più
Ai fini dell'applicazione del primo comma non si tiene conto dei criteri di cui all'articolo 133, primo comma, numero 3),
e secondo comma, nei casi previsti dall'articolo 99, quarto comma, in relazione ai delitti previsti dall'articolo 407,
comma 2, lettera a), del codice di procedura penale, nel caso in cui siano puniti con la pena della reclusione non
In ogni caso, l'assenza di precedenti condanne per altri reati a carico del condannato non può essere, per ciò solo, posta
I riferimenti usuali della prassi giurisprudenziale sono quelli all’età, al grado di istruzione, alle
condizioni economiche, ai buoni precedenti del reo, ai moventi dell’azione, alle spinte ambientali,
al comportamento processuale, ecc.
Con questo articolo, in altre parole, l’ordinamento rimette all’ambito della discrezionalità
giudiziaria la ricerca di uno o più valori attenuanti che la legge non poteva rilevare ma che non per
questo ha lasciato fuori del suo ambito di applicazione.
La recidiva.
Secondo la definizione dell’art.99 cp – recidiva, si considera recidivo colui che dopo essere stato
condannato per un delitto non colposo, ne commette un altro. Quando si crea questa situazione, il
nostro ordinamento, prevede che possa essere applicato un aumento della pena in relazione alla
gravità del recidivismo. Il quadro di questo istituto è stato modificato, in senso più gravoso, dalla
l.251/2005.
Abbiamo tre diverse tipologie di recidiva.
1) Semplice – in relazione alla commissione di un nuovo fatto doloso, dopo aver subìto una
condanna per un altro fatto doloso. In questo caso, la pena è aumentata di un terzo e
l’applicazione è facoltativa.
111
2) Aggravata – comporta l’aumento di pena fino alla metà. Si distingue in specifica, quando si
commette il medesimo delitto o uno simile, mentre è infraquinquennale, quando il recidivo
cade nel delitto entro 5 anni dalla precedente condanna.
3) Reiterata – quando chi versa già nella condizione di recidivo commette un altro delitto
doloso: se era semplice la pena è aumentata fino alla metà, mentre se era aggravata fino a
due terzi.
112
IL DELITTO TENTATO
NOZIONI E LIMITI DI PUNIBILITA’ DEL TENTATIVO
Il concetto di consumazione del reato e la nozione generale del tentativo.
La caratteristica del delitto tentato sta nel fatto che, pur corrispondendo alla condotta tipica, manca
della produzione del risultato a cui la condotta era soggettivamente diretta. Quando ciò accade,
siamo di fronte ad una estensione della tipicità, nel senso che l’ordinamento dichiara punibili
condotte che, così considerate, non potrebbero integrare la fattispecie di un reato, perché manca di
uno o più elementi necessari a costituirla.
Per capire il concetto di tentativo, dobbiamo per forza ricorrere alla nozione di reato consumato,
nel quale sono presenti tutti gli elementi necessari a configurare l’ipotesi di reato. In questo modo si
capisce come la nozione di tentativo è legata al processo criminoso, che possiamo scomporre in 4
fasi:
1) Ideazione.
2) Preparazione.
3) Esecuzione.
4) Consumazione.
È logica la constatazione che, se il progresso criminoso si arresta all’inizio, ovvero nel momento
dell’ideazione del progetto, è sempre irrilevante; se, invece, avviene la consumazione del reato,
allora il tentativo non ha regione di esistere, perché si sarebbe di fronte ad un reato, per così dire,
completo.
Da questo ragionamento, si riesce ad individuare lo “spazio” entro cui collocare il tentativo di reato,
ovvero nei due momenti centrali, preparazione e esecuzione, con il conseguente obbligo di
rispondere a due domande:
1. A partire da quale momento una condotta è configurabile come tentativo?
2. Quali requisiti deve avere la condotta per costituire tentativo punibile?
La nozione giuridica di tentativo: gli elementi della fattispecie del “delitto tentato” ex art.56
cp.
Per prima cosa, occorre leggere il disposto codicistico dell’art.56 cp – delitto tentato.
Art. 56.
Delitto tentato.
Chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l'azione non
Il colpevole di delitto tentato è punito:; con la reclusione non inferiore a dodici anni, se la pena stabilita è l'ergastolo; e,
negli altri casi con la pena stabilita per il delitto, diminuita da un terzo a due terzi.
Se il colpevole volontariamente desiste dall'azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi
Se volontariamente impedisce l'evento, soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà.
L’enunciato del primo comma non poteva essere più chiaro. Si parla infatti della punibilità del fatto
per chi commette atti idonei e non equivoci alla commissione di un delitto.
113
La legge limita la punibilità solo all’ambito dei delitti; è configurabile solo in relazione ai delitti
dolosi, dal momento che nel colposo manca la volontà e nel preterintenzionale si arriva ad un
evento più grave per definizione e, quindi, si cadrebbe nel delitto consumato.
La fattispecie del delitto tentato, inoltre, scaturisce dalla combinazione con le singole ipotesi di
reato, contenute nella parte speciale del codice: ad esempio, in relazione all’omicidio è possibile
parlare di tentato omicidio; ad ogni modo, pur dovendo ragionare per relazione, la fattispecie del
delitto tentato è autonoma, in quanto dotata di sua specifica tipicità e contrassegnata da una
autonoma cornice edittale di pena, seppur determinata attraverso il riferimento alla pena prevista per
il corrispondente reato consumato, e anche se punito con pene sensibilmente inferiori.
Art. 115.
Salvo che la legge disponga altrimenti, qualora due o più persone si accordino allo scopo di commettere un reato, e
questo non sia commesso, nessuna di esse è punibile per il solo fatto dell'accordo.
Nondimeno nel caso di accordo per commettere un delitto, il giudice può applicare una misura di sicurezza.
Le stesse disposizioni si applicano nel caso di istigazione a commettere un reato, se l'istigazione è stata accolta, ma il
Qualora l'istigazione non sia stata accolta, e si sia trattato d'istigazione a un delitto, l'istigatore può essere sottoposto a
misura di sicurezza.
Art. 56.
Delitto tentato.
Chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l'azione non
Il colpevole di delitto tentato è punito:; con la reclusione non inferiore a dodici anni, se la pena stabilita è l'ergastolo; e,
negli altri casi con la pena stabilita per il delitto, diminuita da un terzo a due terzi.
Se il colpevole volontariamente desiste dall'azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi
114
costituiscano per sé un reato diverso.
Se volontariamente impedisce l'evento, soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà.
Da questa lettura possiamo dedurre che il solo accordo non basta alla punibilità.
Interpretando sistematicamente l’art.56 cp e l’art115 cp si può dedurre che, se non sono punibili
due persone che si accordano per commettere un delitto, non si vede perché debba essere punibile il
singolo soggetto.
Quindi, per determinare le attività rilevanti come tentativo, occorre guarda a quegli atti definiti
come atti iniziali che, essendo atti esecutivi, danno il via all’inizio della esecuzione del reato, con
la messa in opera dei mezzi necessari allo scopo. Il lavoro interpretativo sull’inizio della esecuzione
del reato si concentra sull’individuazione di quegli atti che il soggetto compie e che sono legati
causalmente al suo progetto criminoso, che culmineranno, nella mente dell’agente, con il passaggio
alla fase finale (sparare, afferrare la refurtiva).
Per questo motivo, scalare un muro, forzare una serratura, prendere la mira, introdurre una mano in
tasca, sono tutti esempi di atti iniziali che integrano la fattispecie del delitto tentato, perché idonei a
configurare il risultato che l’agente vuole ottenere.
115
LA FATTISPECIE DEL DELITTO TENTATO
Art. 56.
Delitto tentato.
Chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l'azione non
Il colpevole di delitto tentato è punito:; con la reclusione non inferiore a dodici anni, se la pena stabilita è l'ergastolo; e,
negli altri casi con la pena stabilita per il delitto, diminuita da un terzo a due terzi.
Se il colpevole volontariamente desiste dall'azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi
Se volontariamente impedisce l'evento, soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà.
Occorre subito sottolineare che il tentativo deve essere idoneo a causare un danno o un pericolo per
il bene stesso, così non avrà valore quel tentativo che dovesse risultare inidoneo, in quanto
rientrante nella forma del reato impossibile.
Parlando del primo requisito, idoneità dell’atto, ci si chiede alla stregua di quali parametri
valutativi, si può parlare di atto idoneo. Se si considerasse ogni atto singolo, la punibilità andrebbe
talmente indietro, potenzialmente senza limiti, fino alla prima manifestazione di intenzione
delittuosa, come nel caso di chi acquista semplicemente un’arma o semplicemente la carica dopo
averla magari pulita. Ma, siccome abbiamo detto che questi atti, seppure preparatori in un certo
senso, sono indifferenti, appare chiaro che ci si deve riferire solo all’idoneità degli atti in concreto,
ovvero quelli capaci di fondare un reale, e solo non ipotetico, pericolo in quanto costituenti attività
esecutive del delitto intrapreso.
Lo schema di questo giudizio è quello della c.d. prognosi postuma, in quanto giudizio formulato
dopo, che deduce dalle circostanze esistenti al tempo la verosimiglianza di una probabile
verificazione del fatto che l’agente si proponeva di realizzare. In altre parole, il giudice,
collocandosi idealmente nella posizione in cui l’agente si trovava al momento del fatto, dovrà
accertare, sulla base delle conoscenze dell’uomo medio o delle specifiche del reo, se gli atti
compiuti, tenuto conto delle circostanze concrete del fatto, rendevano probabile la consumazione
del reato, come effetto della condotta dell’agente. Infine, il giudizio probabilistico tiene conto anche
di quei fattori tali da neutralizzare, fin dal principio, ogni possibilità di successo.
L’altro requisito oggettivo è l’univocità degli atti diretti in tal modo alla commissione del delitto
prefigurato dall’agente. Si ritiene che la prova dell’intenzione dell’agente può provenire da qualsiasi
elemento della condotta. Anche questo requisito, come l’idoneità, è individuabile per la sua
connotazione di prossimità rispetto al manifestarsi della condotta tipica, esecutiva del reato; in fin
dei conti, proprio e solamente sotto questo profilo è possibile l’individuazione di un limite specifico
alla punibilità del tentativo.
Tentativo e circostanze.
Il rapporto tra tentativo e circostanze è abbastanza problematico. Il principio generale è che le
circostanze sono applicabili se integralmente realizzate, dal momento che queste rientravano nel
proposito criminoso dell’agente (pensiamo allo scassinatore che cerca di aprire una cassaforte con
l’intenzione di impossessarsi dei preziosi). Di contro, violerebbe in principio di legalità addebitare
al soggetto una circostanza che, nel tentativo, alla fine non si è realizzata compiutamente.
117
DESISTENZA E RECESSO
Art. 56.
Delitto tentato.
Chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l'azione non
Il colpevole di delitto tentato è punito:; con la reclusione non inferiore a dodici anni, se la pena stabilita è l'ergastolo; e,
negli altri casi con la pena stabilita per il delitto, diminuita da un terzo a due terzi.
Se il colpevole volontariamente desiste dall'azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi
Se volontariamente impedisce l'evento, soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà.
È logico che stiamo parlando del tentativo incompiuto ovvero il delitto tentato in senso stretto, e
non del delitto mancato, dal momento che in questa ultima ipotesi la fattispecie criminosa è stata
compiuta per intero.
Abbiamo detto che il requisito fondamentale per la non punibilità del tentativo, risiede nella
desistenza, quando questa sia volontaria. Ma a quali condizioni possiamo definirla volontaria?
Per rispondere a questa domanda, occorre compiere un giudizio di equivalenza: in pratica, la
volontarietà della desistenza deve essere la medesima presente per il fatto costitutivo del delitto
tentato. In questo modo si possono risolvere i casi controversi.
Se il ladro desiste dal rubare la cosa perché si accorge di essere stato scoperto, la sua desistenza non
è volontaria, in quanto indotta dalla situazione sopravvenuta. Va condiviso l’orientamento secondo
cui, per stabilire la volontarietà della desistenza, si deve far riferimento ai criteri di ragionevolezza e
non alla valutazione dell’astratta possibilità di realizzare il reato. In parole più semplici, a giocare il
ruolo fondamentale non è l’oggettiva realizzabilità, ma l’opinione dell’autore circa la sua
realizzabilità; in questo modo, la desistenza rimane involontaria quando, ad esempio, il ladro
abbandona la cassaforte convinto di non riuscire ad aprirla, o fugge magari perché convinto di
essere stato scoperto.
118
Facile l’intuizione, a questo punto, che quando c’è il volontario abbandono dell’azione, nel senso
chiarito, viene a mancare il dolo stesso del tentativo e non sussiste quindi neppure l’azione
costitutiva del delitto tentato.
Art. 56.
Delitto tentato.
Chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l'azione non
Il colpevole di delitto tentato è punito:; con la reclusione non inferiore a dodici anni, se la pena stabilita è l'ergastolo; e,
negli altri casi con la pena stabilita per il delitto, diminuita da un terzo a due terzi.
Se il colpevole volontariamente desiste dall'azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi
Se volontariamente impedisce l'evento, soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà.
La desistenza è inerente ad un’azione che non si compie, mentre il recesso attivo presuppone, per
definizione, un tentativo perfetto.
Il requisito della volontarietà è identico nelle due ipotesi, ciò che cambia è quello che avviene
prima: nella desistenza l’autore, conservando la padronanza della situazione, decide
volontariamente di fermare la condotta criminosa; mentre nel recesso attivo, come dice il nome
stesso, l’autore si adopera in qualche modo per far sì che l’evento che voleva non si produca,
cercando di riparare, per così dire, ad una situazione i cui decorsi causali gli sono sfuggiti di mano.
Risultano del tutto irrilevanti i motivi che hanno indotto l’autore al “controintervento” atto a
paralizzare le conseguenze dell’azione del tentativo già compiuto (come nel caso di Tizio che getta
in mare Caio per ucciderlo e poi, pentito, si getta e lo salva).
La netta distinzione di principio tra desistenza e recesso non basta, però, a stabilire nel caso
concreto se si sia di fronte alla prima o alla seconda ipotesi.
La difficoltà di tracciare un confine chiaro e netto, emerge in modo particolarmente significativo nel
settore dei reati omissivi impropri, o commissivi mediante omissione, ove la condotta doverosa
risponde in ogni caso a un’attività impeditiva dell’evento. Si è sostenuto a riguardo, allora, che
allorquando per paralizzare l’efficienza del processo causale in atto è sufficiente intraprendere
l’azione dovuta, si abbia desistenza, mentre si avrebbe recesso attivo quando sia necessario
intraprendere una condotta diversa, atta a scongiurare l’evento.
119
LA STRUTTURA DEL CONCORSO
La realizzazione di un fatto tipico doloso come centro di imputazione della responsabilità dei
“concorrenti” ex art.110 cp.
Per il configurarsi di una condotta di “concorso” penalmente rilevante, è necessario che taluno dei
concorrenti realizzi un “reato”, quanto meno nella forma del tentativo.
Art. 110.
Quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita, salve le
Alla locuzione “reato”, adoperata nell’art.110 cp – pena per coloro che concorrono nel reato,
non può tuttavia assegnarsi il significato che essa tradizionalmente assume nel linguaggio della
dottrina, vale a dire il significato di “fatto tipico, antigiuridico e colpevole”. Quindi, opinione
concorde della dottrina e della giurisprudenza, si afferma che la base di riferimento per il
configurarsi di condotte di concorso nel reato sia costituita dalla realizzazione di un fatto che sia
conforme ad una fattispecie legale dell’incriminazione, ovvero al fatto tipico, a prescindere dalla
sua antigiuridicità e dalla colpevolezza personale dell’autore, o degli autori, del fatto.
Salvo che la legge disponga altrimenti, qualora due o più persone si accordino allo scopo di commettere un reato, e
questo non sia commesso, nessuna di esse è punibile per il solo fatto dell'accordo.
Nondimeno nel caso di accordo per commettere un delitto, il giudice può applicare una misura di sicurezza.
Le stesse disposizioni si applicano nel caso di istigazione a commettere un reato, se l'istigazione è stata accolta, ma il
Qualora l'istigazione non sia stata accolta, e si sia trattato d'istigazione a un delitto, l'istigatore può essere sottoposto a
misura di sicurezza.
120
Appare chiaro che assumono rilevanza quando sono condotte esecutive, in virtù del loro
collegamento, in termini causali e psicologici, con una condotta altrui che riveste il carattere
dell’azione tipica. Infatti l’art.115 cp – accordo per commettere un reato. Istigazione, pur
stabilendo l’irrilevanza dell’accordo quando non segua la commissione del reato, non esclude
affatto l’autonoma rilevanza delle condotte di partecipazione che possono essere atti di esecuzione
del reato. Quello che si deve accertare, quindi, è la “qualità” dell’atto di partecipazione per stabilire
la sua rilevanza come atto esecutivo, alla stregua del modello legale dell’incriminazione.
La rilevanza delle condotte di istigazione, di accordo e di agevolazione deve essere stabilita
tendendo in considerazione l’attività degli altri concorrenti. In tal modo si comprende la differenza
tra la ipotesi di reità individuale, da quelle inquadrabili in una azione collettiva. Se taluno si accorda
con il complice per recapitare un pacco bomba che poi non viene consegnato, non sarà punibile per
il semplice accordo; ma se taluno lo consegna ad un ignaro fattorino, sarà punibile addirittura per un
tentativo perfetto di omicidio. Le cose stanno diversamente nell’ambito del fatto collettivo: la
condotta di chi fa da “palo” riveste la caratteristica di “atto iniziale” della realizzazione criminosa se
contestualmente il complice si introduce nel negozio allo scopo di svaligiarlo; ma la medesima
condotta non avrà rilevanza panale, qualora il suddetto “palo” sorvegli la strada allo scopo di
segnalare al complice eventuali passanti da derubare, fintanto che il concorrente non ponga in
essere una qualche attività di esecuzione del comune proposito criminoso (in questo caso è chiaro
come la condotta del “palo” non è ancora andata oltre il semplice “accordo”).
In conclusione, come l’art.115 cp – accordo per commettere un reato. Istigazione conferma nel
modo più chiaro, la condizione imprescindibile per il configurarsi di una condotta collettiva,
penalmente rilevante, è che almeno uno dei “concorrenti” realizzi un fatto che riveste quantomeno il
carattere di un “inizio” dell’attività esecutiva del reato, nel senso richiesto per la rilevanza del
tentativo; atti cioè, non meramente “preparatori” e che siano inoltre “idonei e diretti in modo non
equivoco” alla commissione di una reato.
Art. 41.
Concorso di cause.
Il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall'azione od omissione del
Le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l'evento. In
tal caso, se l'azione od omissione precedentemente commessa costituisce per sé un reato, si applica la pena per questo
stabilita.
Le disposizioni precedenti si applicano anche quando la causa preesistente o simultanea o sopravvenuta consiste nel
121
Ad ogni modo, tale orientamento, per quanto largamente diffuso ed accettato, che riduce il concorso
nel reato ad una mera convergenza di influssi causali verso la produzione dell’evento, rimandando
ad un momento successivo (quello del giudizio sulla colpevolezza individuale) l’apprezzamento
dell’elemento soggettivo, non può essere condivisa, perché le regole dell’interpretazione
suggeriscono una conclusione opposta: e cioè che la nozione tecnico-giuridica di “reato”, ai fini
della struttura del “concorrere”, deve essere ricostruita in riferimento al contenuto della volontà
dell’autore, considerato appunto nella sua funzione costitutiva del tipo.
Sono necessarie, allora, alcune considerazioni.
Iniziamo con un confronto tra due disposizioni, quella contenuta nell’art.48 cp – errore
determinato dall’altrui inganno e il dettato dell’art.115 cp – accordo per commettere un reato.
Istigazione.
Art. 48.
Le disposizioni dell'articolo precedente si applicano anche se l'errore sul fatto che costituisce il reato è determinato
dall'altrui inganno; ma, in tal caso, del fatto commesso dalla persona ingannata risponde chi l'ha determinata a
commetterlo.
Art. 115.
Salvo che la legge disponga altrimenti, qualora due o più persone si accordino allo scopo di commettere un reato, e
questo non sia commesso, nessuna di esse è punibile per il solo fatto dell'accordo.
Nondimeno nel caso di accordo per commettere un delitto, il giudice può applicare una misura di sicurezza.
Le stesse disposizioni si applicano nel caso di istigazione a commettere un reato, se l'istigazione è stata accolta, ma il
Qualora l'istigazione non sia stata accolta, e si sia trattato d'istigazione a un delitto, l'istigatore può essere sottoposto a
misura di sicurezza.
Mentre l’art.115 cp non punisce il solo fatto dell’istigazione, nell’art.48 cp invece l’invito ad agire
costituisce di per sé atto di esecuzione del reato, poiché corrisponde già alla messa in opera del
mezzo destinato, nel piano del determinatore, alla realizzazione del delitto. Questa “anticipazione”
del momento iniziale dell’esecuzione del reato segna la differenza tra i casi di reità mediata dalle
ipotesi “normali” di compartecipazione criminosa. Chi inganna conosce le conseguenze della azione
e ne ha quindi il dominio, a differenza di chi partecipa inconsapevolmente ad un disegno criminoso;
per capire basta fare l’esempio dell’ignaro fattorino che consegna un pacco bomba, nessuno in
questo caso dubiterebbe che a pagare debba essere l’autore consapevole e non l’ignaro fattorino. La
differenza sta proprio nel fatto che l’ingannato ignora le conseguenze del proprio agire, spinto dal
vero autore che agisce consapevolmente in quella determinata direzione. Sia chiaro che non siamo
di fronte ad una ipotesi di reato commesso da altri, in quanto colui che possiede il dominio
finalistico è, e resta, unico e vero autore del reato.
Lo stesso ragionamento vale anche nella ipotesi del costringimento fisico, ex art.46 cp –
costringimento fisico, dove colui che risponde del reato è l’autore della violenza.
122
Art. 46.
Costringimento fisico.
Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato da altri costretto, mediante violenza fisica alla quale non
In tal caso, del fatto commesso dalla persona costretta risponde l'autore della violenza.
Questi esempi ci fanno chiaramente capire la differenza tra la compartecipazione e la reità mediata
e che il concetto di reato contenuto nell’art.110 cp – pena per coloro che concorrono nel reato
equivale in tutto e per tutto a quello di fatto tipico nella nozione comprensiva dell’elemento
psicologico.
Del resto, quando si consideri che è possibile concorrere anche in un delitto solo tentato, appare
quanto mai evidente l’imprescindibilità del riferimento all’elemento psicologico del reato, dal
momento che, nella struttura della fattispecie di tentativo, il dolo opera come un fattore essenziale
della tipicità degli atti.
Una ulteriore conferma dell’importanza dell’elemento psicologico del reato nella struttura del
concorso, si ricava dalla distinzione legislativa fra i casi di concorso e quelli di cooperazione nel
delitto colposo. Se la legge prevede espressamente, come una sorta di ipotesi specializzante del
concorso di persone, la figura della cooperazione colposa, vuol dire che l’elemento psicologico
(dolo o colpa) ha fin dall’inizio un ruolo tipicizzante nella struttura del concetto di reato, assunto
come presupposto della compartecipazione.
Anche nelle ipotesi di esecuzione frazionata del reato l’elemento psicologico gioca un ruolo
fondamentale, a seconda del diverso atteggiamento interiore degli autori. Facciamo l’esempio di un
criminale che immobilizzi l’inquilino, mentre l’altro svaligia l’appartamento: se i due agiscono in
concerto fra loro avremo un caso di concorso in rapina, mentre se agissero l’uno indipendentemente
dall’altro risponderebbero di violenza privata e furto. Notiamo che la componente oggettiva dei due
comportamenti può essere assolutamente identica, mentre il tipo di fatto realizzato (eventualmente)
in concorso può essere stabilito solo avendo riguardo al contenuto della volontà dell’azione dei due
soggetti e al rapporto che fra essi si stabilisce.
Autori e partecipi.
Il concorso di persone è caratterizzato, come sappiamo, dalla pluralità di soggetti che partecipano ad
un’azione collettiva. Proprio la struttura collettiva, nella quale confluiscono le condotte di soggetti
diversi, pone l’esigenza di stabilire il ruolo di ciascuno nell’ambito del fatto comune.
A questo si riferisce la distinzione tradizionale fra autori e partecipi, che pur non essendo
espressamente prevista nel codice vigente, ha una certa rilevanza penalistica.
Autore del fatto è, in ogni caso, colui che realizza, con l’elemento psicologico richiesto, la
fattispecie esecutiva di un reato. Tale qualità di autore può essere condivisa anche da altri soggetti,
come nel caso di colui il quale ha il potere di decidere se il reato debba essere compiuto o meno.
Occorre precisare che tale valutazione va fatta in relazione a determinate condizioni: abbiamo detto
che, solitamente, l’istigatore non decide come e quando commettere un reato quindi resta non
punibile, ma la parola del capo di una organizzazione mafiosa, che magari ordina al gregario di
sopprimere un avversario, ha un peso sicuramente diverso dalla semplice istigazione.
Proprio partendo da questo esempio possiamo dire che autore può essere anche chi possiede la
signoria del fatto, che si spiega nel potere di dare inizio all’iter criminoso, come in quello di
interromperlo o annullarlo. Allora, la qualità di autore, perciò, è sempre posseduta da chi esegue il
123
fatto tipico, ma può essere composseduta anche da soggetti che, in un diverso contesto, sarebbero da
considerarsi semplici partecipi, in virtù del carattere “accessorio” della loro condotta, rispetto alla
condotta dell’autore o degli autori.
Alla stregua di tale impostazione la qualità di autore coincide in ogni caso con il possesso del
dominio finalistico sul fatto collettivo, restando escluse le posizioni dell’istigatore o
dell’agevolatore che sostengono un fatto altrui senza condivisione della decisione finale.
Non è autore, ma mero partecipe colui che, in sostanza, vuole il fatto, ma pur sempre sotto
condizione della decisione dell’autore e che, pertanto, non ne compossiede il dominio finalistico.
Quello che preme ribadire è che chi realizza la fattispecie oggettiva del reato, senza l’elemento
psicologico richiesto, mai in nessun caso potrà assumere la qualità di concorrente, né come autore,
né come partecipe.
La cooperazione colposa.
Iniziamo con la lettura del dettato dell’art.113 cp – cooperazione nel delitto colposo.
Art. 113.
Nel delitto colposo, quando l'evento è stato cagionato dalla cooperazione di più persone, ciascuna di queste soggiace
La pena è aumentata per chi ha determinato altri a cooperare nel delitto, quando concorrono le condizioni stabilite
Per prima cosa, il fatto che il codice vigente dedichi una specifica disposizione al caso della
cooperazione colposa, indica quanto importante sia l’elemento psicologico nella struttura del
concorso criminoso.
Da un altro punto di vista, si è ritenuto che nella cooperazione colposa non sarebbe dato distinguere
tra autori e partecipi, essendo le varie condotte, confluenti nella causazione dell’evento, tutte sullo
stesso piano, perché tutte autonomamente incriminabili.
Di conseguenza si ritiene che l’art.113 cp sia mera norma di disciplina, nel senso che non avrebbe
altra funzione se non quella di determinare l’applicabilità delle disposizioni che disciplinano il
concorso di persone nel reato, alle condotte colpose che causalmente concorrono nella produzione
dell’evento.
Beninteso, si riconosce che per aversi “cooperazione” nel delitto colposo, sia necessario qualcosa in
più, ovvero la consapevolezza di contribuire ad una condotta colposa altrui.
In tal modo riaffiora la distinzione tra autori e partecipi. Certo, i soggetti che cooperano in un delitto
colposo possono agire tutti come (co)autori: come, ad esempio, nel caso degli automobilisti che
danno vita ad una corsa spericolata nel centro cittadino, provocando un sinistro mortale. Ma è
altrettanto innegabile che, in altre ipotesi, la condotta di taluno dei concorrenti risulta incriminabile
solo in quanto accede a una condotta tipica altrui: come nel caso di chi noleggia un auto a persona
124
inesperta che, in seguito, provoca un incidente mortale. La condotta del noleggiatore non sarà
incriminabile, rispetto all’ipotesi di omicidio colposo, se questo non sarà dipeso da imperizia nella
guida.
All’art.113 cp – cooperazione nel delitto colposo, dunque, si dovrà riconoscere anche una
funzione incriminatrice, rispetto a condotte che non sarebbero di per sé rilevanti nel quadro della
fattispecie colposa monosoggettiva.
La differenza che passa fra il concorso di cause illecite e la cooperazione colposa sta nel fatto che,
nella prima ipotesi, vi è una mera coincidenza causale di più condotte colpose non collegate da
alcun vincolo di ordine psicologico fra loro; mentre nell’art.113 cp risultano decisive la scienza e la
volontà di partecipare ciascuno al fatto dell’altro, nella reciproca consapevolezza del carattere
colposo dell’azione di ciascuno.
Si rivela così, anche nella ipotesi della cooperazione colposa, la funzione costitutiva dell’elemento
psicologico, che risulta decisivo per stabilire la pertinenza della condotta all’ambito giuridico della
cooperazione nel delitto colposo, e quale fattore insostituibile della qualificazione indiretta della
condotta di mera partecipazione al reato commesso da altri.
I requisiti oggettivi del concorso: 1) la pluralità di soggetti attivi; 2) il valore causale dell’atto
di partecipazione.
Da un punto di vista oggettivo, per la configurazione di una fattispecie plurisoggettiva eventuale, è
ovviamente necessario che più persone (cioè più soggetti attivi) prendano parte alla comune
realizzazione del reato, in una delle forme rilevanti per il concorso di persone. Ma a quali
condizioni è rilevante il “concorso” nel reato?
È pacifico che “concorre” in un reato chi fornisce, in qualche modo, un contributo alla realizzazione
del fatto illecito, come stabilito nell’art.110 cp – pena per coloro che concorrono nel reato,
formulazione che, tuttavia, nella sua genericità fa risultare problematico definire quali esattamente
siano i limiti di rilevanza dell’apporto alla condotta comune; e ciò tanto più, in quanto il concorso
può essere causale (materiale), sia di ordine psichico (morale).
Art. 110.
Quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita, salve le
Il punto di vista tradizionale, che applica il principio condizionalistico (conditio sine qua non) ha
suscitato qualche perplessità: si osserva che, se la rilevanza di una condotta concorsuale viene fatta
dipendere dalla sua efficienza causale (nel senso cioè che, senza quel contribuito, il fatto non si
sarebbe realizzato) si dovrebbe pervenire alla discutibile conclusione di non considerare
concorrente nel reato, ad esempio, chi abbia fornito un sofisticato strumento di scasso, poi non
adoperato perché rivelatosi non necessario, o il “palo” che non abbia poi dovuto svolgere attività
alcuna. A queste considerazioni vanno aggiunte quelle relative alla difficoltà di accertare
l’efficienza causale di tutte quelle forme rientranti nella partecipazione “morale”, consistenti cioè in
condotte dirette ad influire sulla volontà altrui.
Beninteso, quando il reato sia commesso, l’esistenza di un nesso di tipo condizionalistico fra la
condotta del partecipe e la realizzazione del fatto tipico è di per sé certamente sufficiente a
determinare la rilevanza del contributo portato dalla condotta del partecipe.
Non vi è dubbio, però, che accanto all’ovvia rilevanza dei contributi strettamente causali, gli
artt.110 ss cp evochino quella dei contributi che ricadono nel quadro della cd causalità
agevolatrice, comprensiva, cioè, oltre che degli elementi della conditio sine qua non, anche dei
contributi di cui si possa almeno dire che abbiano facilitato la realizzazione del reato, dal punto di
vista materiale o dal punto di vista psichico.
125
In ogni caso, una risposta ai casi dubbi va ricercata in una equilibrata utilizzazione della normativa
sul concorso, partendo da alcuni punti fermi nell’orientamento della giurisprudenza e della dottrina:
1. L’ovvia rilevanza delle condotte omissive, quando abbiano assunto un valore causale, ai
fini del non impedimento del reato, in presenza del relativo obbligo giuridico di agire:
concorre, ad esempio, nel furto, il custode che ometta l’attivazione dell’allarme, allo scopo
di consentire o facilitare l’opera dei ladri.
2. La distinzione fra “connivenza” e concorso nel reato: contrassegnata, la prima, dalla mera
scienza che altri sta per commettere o sta commettendo il reato, il secondo da un
comportamento che comunque arreca un contributo al realizzarsi del fatto collettivo.
126
FORME E LIMITI DEL CONCORSO PUNIBILE
NELLA DISCIPLINA NORMATIVA
Art. 115.
Salvo che la legge disponga altrimenti, qualora due o più persone si accordino allo scopo di commettere un reato, e
questo non sia commesso, nessuna di esse è punibile per il solo fatto dell'accordo.
Nondimeno nel caso di accordo per commettere un delitto, il giudice può applicare una misura di sicurezza.
Le stesse disposizioni si applicano nel caso di istigazione a commettere un reato, se l'istigazione è stata accolta, ma il
Qualora l'istigazione non sia stata accolta, e si sia trattato d'istigazione a un delitto, l'istigatore può essere sottoposto a
misura di sicurezza.
Nella nozione di accordo rientrano tutte quelle attività di preparazione del reato, che ne precedono
la realizzazione.
Dall’art.111 cp – determinazione al reato di persona non imputabile o non punibile si desume
non solo la differente gravità, ma anche la differenza concettuale che passa fra “determinazione” e
“istigazione”, che implica l’assunzione della qualità di “autore” del reato in capo al determinatore.
Art. 111.
Chi ha determinato a commettere un reato una persona non imputabile, ovvero non punibile a cagione di una condizione
o qualità personale, risponde del reato da questa commesso, e la pena è aumentata. Se si tratta di delitti per i quali è
Se chi ha determinato altri a commettere il reato ne è il genitore esercente la responsabilità genitoriale, la pena è
aumentata fino alla metà o, se si tratta di delitti per i quali è previsto l'arresto in flagranza, da un terzo a due terzi.
Nel complesso, la normativa sul concorso di persone convalida la dicotomia tradizionale che la
divide in concorso morale e concorso materiale.
Ipotesi di concorso morale sono date dalla condotta del determinatore e dell’istigatore.
Determinatore è colui che fa sorgere in altri il proposito criminoso prima non esistente. Istigatore è
colui che eccita o rafforza un proposito criminoso già esistente.
Quanto al concorso materiale nel reato, esso si esprime, evidentemente, innanzitutto nella forma
della correità, che corrisponde alla materiale condivisione dell’attività esecutiva del reato; inoltre
nella forme della complicità e dell’agevolazione, che si concretano nell’apporto di un qualsiasi aiuto
127
(di carattere, appunto, materiale) alla preparazione o alla esecuzione del reato (fornire il veleno o le
armi per un omicidio).
Naturalmente, come già precisato, la rilevanza delle condotte di agevolazione o complicità dipende
soprattutto dalla sussistenza dei coefficienti, oggettivi e soggettivi, che la qualificano come
“concorso” nel fatto doloso o colposo altrui.
Art. 111.
Chi ha determinato a commettere un reato una persona non imputabile, ovvero non punibile a cagione di una condizione
o qualità personale, risponde del reato da questa commesso, e la pena è aumentata. Se si tratta di delitti per i quali è
Se chi ha determinato altri a commettere il reato ne è il genitore esercente la responsabilità genitoriale, la pena è
aumentata fino alla metà o, se si tratta di delitti per i quali è previsto l'arresto in flagranza, da un terzo a due terzi.
Questa disposizione punisce chi determina una persona non imputabile a commettere un reato;
appare chiaro come il riferimento sia ad un determinatore, il quale, facendo leva sulla condizione di
imputabilità di un altro soggetto, lo spinge a commettere un reato, conservando quindi il dominio
finalistico della azione che, come sappiamo, appartiene all’autore. Questo giustifica la convinzione
secondo la quale non gli si possa mai attribuire una condotta di “semplice” agevolazione.
Andiamo avanti:
Art. 112.
Circostanze aggravanti.
1) se il numero delle persone, che sono concorse nel reato, è di cinque o più salvo che la legge disponga altrimenti ;
2) per chi, anche fuori dei casi preveduti dai due numeri seguenti, ha promosso od organizzato la cooperazione nel
reato, ovvero diretto l'attività delle persone che sono concorse nel reato medesimo;
3) per chi nell'esercizio della sua autorità, direzione o vigilanza ha determinato a commettere il reato persone ad esso
soggette;
4) per chi, fuori del caso preveduto dall'articolo 111, ha determinato a commettere il reato un minore di anni 18 o una
persona in stato di infermità o di deficienza psichica, ovvero si è comunque avvalso degli stessi o con gli stessi ha
La pena è aumentata fino alla metà per chi si è avvalso di persona non imputabile o non punibile, a cagione di una
condizione o qualità personale, o con la stessa ha partecipato nella commissione di un delitto per il quale è previsto
l'arresto in flagranza.
128
Se chi ha determinato altri a commettere il reato o si è avvalso di altri o con questi ha partecipato nella commissione del
delitto ne è il genitore esercente la responsabilità genitoriale, nel caso previsto dal numero 4 del primo comma la pena è
aumentata fino alla metà e in quello previsto dal secondo comma la pena è aumentata fino a due terzi.
Gli aggravamenti di pena stabiliti nei numeri 1, 2 e 3 di questo articolo si applicano anche se taluno dei partecipi al fatto
Art. 114.
Circostanze attenuanti.
Il giudice, qualora ritenga che l'opera prestata da talune delle persone che sono concorse nel reato a norma degli articoli
110 e 113 abbia avuto minima importanza nella preparazione o nell'esecuzione del reato, può diminuire la pena.
La pena può altresì essere diminuita per chi è stato determinato a commettere il reato o a cooperare nel reato, quando
concorrono, le condizioni stabilite nei numeri 3 e 4 del primo comma e nel terzo comma dell'articolo 112.
Il dettato di questa disposizione appare caratteristicamente riferito all’opera, invece, dei semplici
“partecipi”. Infatti parlandosi di “minima importanza” nella preparazione o esecuzione del reato, si
vuole sottolineare la posizione più “leggera” nella quale possono venire a trovarsi soggetti che
abbiamo “partecipato” al fatto criminoso, per i quali sarà prevista una pena ridotta.
Art. 116.
Qualora il reato commesso sia diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, anche questi ne risponde, se l'evento è
Se il reato commesso è più grave di quello voluto, la pena è diminuita riguardo a chi volle il reato meno grave.
129
Siamo senza dubbio di fronte ad un caso di estensione della responsabilità oggettiva ma occorre
fissare con maggiore precisione quale sia l’ambito di applicabilità dell’art.116 cp.
Ovviamente dobbiamo sottolineare che il requisito imprescindibile è che la realizzazione del reato
“diverso” sia dolosa, dal momento che, se risultasse da comportamento colposo o
preterintenzionale, saremmo di fronte a tutt’altra situazione. Un esempio può chiarire la questione:
se Tizio, incaricato da Caio di danneggiare una vetrina con un sasso, per errore manchi la vetrina e
ferisca il commesso, entrambi i concorrenti risponderanno di lesioni colpose; si applicherà l’art.116
cp, invece, se l’esecutore, anticipando la reazione difensiva del commesso, lo colpisca
volontariamente con il sasso destinato alla vetrina.
Allo stesso modo non troverà applicazione l’art.116 cp nel caso di chi, avuto mandato a ferire un
soggetto, invece lo uccida, in questo caso entrambi risponderanno di omicidio preterintenzionale.
Una volta chiarito il punto, è facile rendersi conto che questa norma configura una ipotesi di
concorso anomalo, poiché nella condotta del partecipe manca, per definizione, il dolo del reato
“diverso”, e spesso non è neppure riscontrabile un atteggiamento riconducibile alla colpa. Questo è
il motivo per cui la giurisprudenza richiede costantemente, per l’applicabilità dell’art.116 cp,
qualcosa in più del mero nesso causale: in particolare, un “rapporto di causalità psichica” fra le
azioni dei partecipi (questo è ciò che, in sostanza, ha chiesto anche la Corte Costituzionale per la
compatibilità con il dettato dell’art.27 Cost sulla personalità della responsabilità personale).
Art. 117.
Se, per le condizioni o le qualità personali del colpevole, o per i rapporti fra il colpevole e l'offeso, muta il titolo del
reato per taluno di coloro che vi sono concorsi anche gli altri rispondono dello stesso reato. Nondimeno, se questo è più
grave il giudice può, rispetto a coloro per i quali non sussistano le condizioni, le qualità o i rapporti predetti, diminuire
la pena.
Questa norma disciplina il concorso nei reati propri, assimilando la responsabilità del concorrente
estraneo a quella del cd intraneo, vale a dire quel soggetto a cui competono le qualifiche o i
rapporti, in virtù dei quali la fattispecie monosoggettiva di riferimento si configura come una ipotesi
di reato proprio.
Due sono le questioni che l’art.117 ci pone, una di ordine psicologico, nel senso che ci si chiede se
il concorrente estraneo debba conoscere la particolare qualità rivestita dall’intraneo; nella seconda
questione, invece, si tratta di stabilire se il mutamento del titolo per i concorrenti estranei abbia
luogo indipendentemente dal ruolo svolto dall’intraneo nella realizzazione del fatto collettivo, o se
presupponga nell’intraneo il ruolo di autore, nel senso più volte precisato.
Se si rispondesse del reato anche senza conoscere la particolare posizione o qualità dell’intraneo,
significa non riconoscere l’elemento psicologico nella struttura della fattispecie collettiva; rispetto
al reato proprio, così, si configurerebbe una sorta di responsabilità oggettiva del concorrente
estraneo.
La soluzione può essere cercata ricorrendo ad alcuni esempi idonei a chiarire la particolarità della
situazione che si verrebbe a creare, conciliando il tutto con i principi della responsabilità
generalmente riconosciuti. Se taluno concorre un una condotta criminosa di appropriazione
indebita, sarà convinto di rientrare in tale titolo di reato ma, al contrario, sarà un caso di peculato
130
nel momento in cui l’autore materiale dovesse rivestire la qualifica di pubblico ufficiale, ignorata
dal concorrente estraneo.
In tale modo la conclusione non può che essere una e cioè che i concorrenti non qualificati debbano
necessariamente conoscere la qualità o la condizione dell’intraneo per rispondere del diverso titolo
di reato che vi si connette.
L’altro punto controverso dell’interpretazione dell’art.117 cp riguarda la questione se, in sostanza,
sia sufficiente che il soggetto qualificato concorra in qualsiasi modo all’illecito, o se sia, invece,
necessario che egli rivesta un ruolo particolare nell’ambito del fatto collettivo.
Non ci sono dubbi sul mutamento del titolo di reato quando sia l’intraneo ad eseguire materialmente
il reato, ma al di fuori di questa ipotesi sorgono i dubbi; facciamo l’ipotesi del pubblico ufficiale che
promuova e renda possibile la sottrazione di una somma di danaro di cui abbia il possesso per
ragioni d’ufficio, senza tuttavia partecipare al fatto, che viene interamente eseguito da uno o più
soggetti estranei. Quali condizioni sono necessarie perché si configuri un concorso degli estranei
nel delitto di peculato? E quando, invece, si dovrà parlare di concorso in furto da parte del pubblico
ufficiale?
Si applicherà l’art.117 cp, quindi si avrà mutamento del titolo di reato, solo se l’intraneo agisca
quale autore, perciò con lo stesso elemento psicologico richiesto per il configurarsi della fattispecie
monosoggettiva del reato proprio; ed è appunto nella misura in cui il suo atteggiamento psicologico
non è di semplice adesione o supporto all’altrui decisione, ma si configura come volontà di
realizzare, insieme con l’estraneo, il reato proprio che l’intraneo (com)possiede il dominio
finalistico del fatto e ne è, per questo motivo, immancabilmente (co)autore, anche se non realizza
materialmente la fattispecie tipica.
L’attenuante, prevista nel caso in cui il reato mutato sia più grave di quello che sarebbe stato
realizzato, andrebbe applicata a seconda della conoscenza o meno, da parte dell’estraneo, della
qualità del concorrente intraneo; nel senso che l’attenuante potrebbe essere applicata solo al
concorrente ignaro di tale qualità. Non pare condivisibile questo orientamento per le ragioni esposte
in precedenza, poiché presuppone come non essenziale la conoscenza della qualità o condizione
personale dell’intraneo, che si è visto, viceversa, essere condizione imprescindibile della
responsabilità concorsuale del reato proprio.
Come suggerito in dottrina, il potere discrezionale del giudice, nell’applicazione dell’attenuante,
dovrà essere piuttosto orientato dalla qualità dell’opera prestata dal concorrente non qualificato, che
a seconda dei casi potrà agire da mero partecipe o da coautore e che proprio in relazione al ruolo
rivestito potrà giovarsi o meno dell’attenuante di cui all’ultima parte dell’art.117 cp.
Art. 56.
Delitto tentato.
Chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l'azione non
Il colpevole di delitto tentato è punito:; con la reclusione non inferiore a dodici anni, se la pena stabilita è l'ergastolo; e,
negli altri casi con la pena stabilita per il delitto, diminuita da un terzo a due terzi.
131
Se il colpevole volontariamente desiste dall'azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi
Se volontariamente impedisce l'evento, soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà.
In secondo luogo, ci si chiede se, e a quali condizioni, la desistenza di un concorrente possa giovare
agli altri concorrenti.
È chiaro che il problema non si pone se a desistere è l’unico esecutore del reato, dal momento che in
questo caso gli altri si comporteranno allo stesso modo.
Più articolata è la questione quando a desistere sia un compartecipe diverso dall’esecutore o dagli
esecutori, poiché è qui che dottrina e giurisprudenza richiedono, per la non punibilità di chi ha
desistito, che la sua desistenza abbia avuto anche l’efficacia di arrestare lo sviluppo dell’azione
collettiva.
La prima ipotesi si verificherebbe nel caso di chi, avendo fornito degli strumenti sofisticati utili ad
una difficile effrazione, se li riprenda prima che l’azione sia compiuta, rendendo in tal modo
impossibile il proposito criminale. Nel caso in cui i complici portino lo stesso a termine l’azione
criminosa servendosi di altri strumenti, la dottrina lascia la non punibilità a chi ha desistito, poiché
si riconoscerebbe l’estraneità alla condotta collettiva.
Questa impostazione non può essere condivisa poiché, dopo più attenta analisi, il partecipe che
desiste lo fa rispetto all’azione tipica concorsuale, non desiste però dal tentativo; si deve tener
conto, allora, non dell’interruzione dell’altrui azione, né dell’impedimento dell’evento finale, ma
unicamente dell’abbandono dell’originario proposito di cooperazione criminosa, prima quindi di
spiegare il suo apporto all’azione collettiva.
È fuori dalla ipotesi di desistenza il caso del concorrente che revochi la sua adesione al fatto
collettivo dopo aver portato a termine la propria attività di partecipazione. Se il concorrente desiste
prima che l’esecuzione del fatto tipico abbia inizio (il caso dell’istigatore che cambia idea e
convince l’istigato a star fermo), allora troverà applicazione l’art.115 cp – accordo per
commettere un reato. Istigazione.
Art. 115.
Salvo che la legge disponga altrimenti, qualora due o più persone si accordino allo scopo di commettere un reato, e
questo non sia commesso, nessuna di esse è punibile per il solo fatto dell'accordo.
Nondimeno nel caso di accordo per commettere un delitto, il giudice può applicare una misura di sicurezza.
Le stesse disposizioni si applicano nel caso di istigazione a commettere un reato, se l'istigazione è stata accolta, ma il
Qualora l'istigazione non sia stata accolta, e si sia trattato d'istigazione a un delitto, l'istigatore può essere sottoposto a
misura di sicurezza.
Se la desistenza del partecipe si verifica quando l’azione esecutiva del reato è già iniziata, la sua
portata giuridica dipenderà dalla sua effettiva influenza sulla condotta degli altri concorrenti: se
riuscirà a indurre gli altri a desistere, con la conseguenza della loro impunità, è del tutto ovvio che
anche egli si giovi della (comune) scelta di desistere; mentre, se l’intervento del concorrente
“pentito” si configura come un fattore “esterno” che impedisce comunque il verificarsi dell’evento,
a suo favore si applicherà l’attenuante di cui all’art.56 4°co cp.
132
Quanto agli effetti della desistenza di un singolo concorrente sulla punibilità degli altri occorre
distinguere fra la desistenza dell’autore e quella del partecipe. In questo secondo caso, è evidente
che la non punibilità opera esclusivamente a suo favore, se è egli soltanto che desiste dalla
partecipazione al fatto altrui. Ma, se a desistere è l’autore unico, poiché in tal caso non si configura
neanche un tentativo di delitto, la condotta degli agevolatori e degli istigatori potrà essere valutata
solo nei limiti dell’art.115 cp, non essendo seguita la commissione del reato. La non punibilità, si
badi, resta ferma anche nel caso in cui i correi portino a termine il fatto, prescindendo dal suo
contributo.
Quanto al pentimento operoso ex art.56 4°co cp esso, avendo natura di circostanza attenuante
soggettiva, si applica, ovviamente, solo alle persone a cui si riferisce. Per la sua configurazione si
richiede che uno o più dei concorrenti si adoperi efficacemente per impedire il verificarsi
dell’evento lesivo.
I limiti dell’applicabilità della disciplina del concorso eventuale alle ipotesi di concorso
necessario.
Prima di tutto, occorre fare alcune precisazioni terminologiche: si parla di reati a concorso
necessario o necessariamente plurisoggettivi quando la struttura della condotta incriminata
richiede necessariamente la partecipazione di più soggetti; vi sono, però, reati plurisoggettivi
propri caratterizzati dalla assoggettabilità a pena di tutti i concorrenti, e reati plurisoggettivi
impropri, rispetto ai quali la legge dichiara punibili solo alcuni fra i necessari partecipanti al fatto
(come nel caso di atti sessuali con minorenne). Ci si chiede se il partecipe non espressamente
dichiarato punibile possa tuttavia rispondere del reato a titolo di concorso eventuale. La dottrina è
giustamente orientata per la soluzione negativa.
Altro problema è quello dell’applicabilità alle ipotesi di concorso necessario della disciplina del
concorso eventuale, per quanto attiene alle circostanze aggravanti ed attenuanti, e al relativo regime.
L’orientamento prevalente è nel senso dell’applicabilità.
133
PARTE QUINTA
IL CONCORSO DI REATI
La disciplina del cumulo materiale è contenuta negli artt.71-79 cp e quello che più interessa sono
due particolarità: la prima, qualora concorrano più reati puniti con la pena dell’ergastolo, si applica
solo l’ultima con l’aggiunta dell’isolamento diurno da sei mesi a tre anni; la seconda, appare come
un temperamento, laddove dispone che, nel cumulo, non può essere ecceduto il limite di 30 anni,
per la reclusione, e di 6 anni, per l’arresto.
Il regime sanzionatorio stabilito peri casi di concorso materiale di reati si applica sia quando “con
una sola sentenza o con un solo decreto si deve pronunciare condanna per più reati contro una stessa
persona”, sia quando, “dopo una sentenza o un decreto di condanna, si deve giudicare la stessa
persona per un altro reato commesso anteriormente alla condanna medesima, ovvero quando contro
la stessa persona si debbono eseguire più sentenze o più decreti di condanna”.
Nel testo originario del codice Rocco al concorso formale era riservato lo sesso trattamento
sanzionatorio previsto per il concorso materiale, ovvero la somma aritmetica delle pene da
infliggere per i singoli reati, sia pure con limiti e correttivi. Nel 1974 è intervenuta una modifica che
ha optato, in luogo del cumulo materiale, per un cumulo giuridico.
Infatti, l’art.81 cp – concorso formale. Reato continuato stabilisce quanto segue:
134
Art. 81.
È punito con la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave aumentata sino al triplo chi con una sola
azione od omissione viola diverse disposizioni di legge ovvero commette più violazioni della medesima disposizione di
legge.
Alla stessa pena soggiace chi con più azioni od omissioni, esecutive di un medesimo disegno criminoso, commette
anche in tempi diversi più violazioni della stessa o di diverse disposizioni di legge.
Nei casi preveduti da quest'articolo, la pena non può essere superiore a quella che sarebbe applicabile a norma degli
articoli precedenti.
Fermi restando i limiti indicati al terzo comma, se i reati in concorso formale o in continuazione con quello più grave
sono commessi da soggetti ai quali sia stata applicata la recidiva prevista dall'articolo 99, quarto comma, l'aumento
della quantità di pena non può essere comunque inferiore ad un terzo della pena stabilita per il reato più grave.
La motivazione è da ricercarsi nella riflessione secondo la quale, nei casi di concorso formale, la
condotta, proprio perché realizza una pluralità di reati sotto un profilo, appunto, formale, da un
punto di vista sostanziale si presenta, almeno in linea di massima, oggettivamente meno grave del
concorso consistente in una effettiva pluralità di condotte delittuose.
135
LE DEROGHE LEGISLATIVE AL REGIME SANZIONATORIO
DEL CONCORSO DI REATI
Art. 81.
È punito con la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave aumentata sino al triplo chi con una sola
azione od omissione viola diverse disposizioni di legge ovvero commette più violazioni della medesima disposizione di
legge.
Alla stessa pena soggiace chi con più azioni od omissioni, esecutive di un medesimo disegno criminoso, commette
anche in tempi diversi più violazioni della stessa o di diverse disposizioni di legge.
Nei casi preveduti da quest'articolo, la pena non può essere superiore a quella che sarebbe applicabile a norma degli
articoli precedenti.
Fermi restando i limiti indicati al terzo comma, se i reati in concorso formale o in continuazione con quello più grave
sono commessi da soggetti ai quali sia stata applicata la recidiva prevista dall'articolo 99, quarto comma, l'aumento
della quantità di pena non può essere comunque inferiore ad un terzo della pena stabilita per il reato più grave.
Nella originaria formulazione, oltre alla identità del disegno criminoso, elemento fondamentale era
l’omogeneità dei reati legati dal vincolo della continuazione (pensiamo a chi ruba pezzo per pezzo
una apparecchiatura, fino a disporla nella sua interezza). Successivamente è stata introdotta la
possibilità che si potesse concorrere con eterogeneità dei reati. Ad ogni modo, quello che interessa
ai fini interpretativi ed applicativi dell’istituto, è stabilire le caratteristiche della identità del
disegno criminoso.
Se leggiamo il disposto dell’art.81 cp ci rendiamo conto che gli elementi del reato continuato sono:
1. Pluralità di azioni od omissioni.
2. Pluralità di corrispondenti violazioni di legge.
3. Identità del disegno criminoso.
Mentre le prime due sono di facile comprensione, dal momento che si riferiscono alla violazioni di
più fattispecie oggettive autonome omogenee o eterogenee, risulta evidente il carattere decisivo
dell’ultimo requisito. Ma cosa deve intendersi per medesimo disegno criminoso? È pacifico che
non possiamo riferirci solo ad un generico programma a delinquere. Secondo alcuni sarebbe
sufficiente una rappresentazione anticipata dei singoli fatti delittuosi poi commessi dall’autore,
secondo altri autori occorrerebbe, invece, la riconoscibilità di una prospettiva finalistica.
Un aiuto può arrivare secondo un ragionamento ad esclusione: l’applicazione dell’art.81 cp, in
pratica, andrebbe esclusa solo in presenza di una serie esecutiva, che sia del tutto incompatibile con
una programmazione iniziale, nel senso che i diversi fatti siano legati da un vincolo di mera
occasionalità: come nel caso di un killer professionale che, dopo aver commesso un omicidio per
mandato, decida di impossessarsi di un prezioso orologio, che ha scorto al polso della vittima.
136
Riguardo al regime sanzionatorio del reato continuato, come già sappiamo, i diversi fatti che lo
compongono vengono trattati come un solo reato, assoggettato alla pena che si dovrebbe infliggere
per la più grave fra le violazioni commesse, aumentata fino al triplo.
L’adozione del meccanismo del cumulo giuridico delle pene, pone l’esigenza di stabilire in base a
quali criteri si debba individuare la violazione più grave. Dottrina e giurisprudenza prevalenti
opinano per la determinazione in concreto della gravità della violazione; si dovrebbe, cioè, fare
riferimento non solo al titolo e al grado del reato, e alle circostanze, ma anche agli indici di
commisurazione della pena, previsti dall’art.133 cp – gravità del reato: valutazioni agli effetti
della pena, e suscettibili di incidere sulla gravità dei singoli episodi in continuazione.
Art. 133.
Nell'esercizio del potere discrezionale indicato nell'articolo precedente, il giudice deve tener conto della gravità del
reato, desunta:
1) dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall'oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell'azione;
2) dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato;
Il giudice deve tener conto, altresì, della capacità a delinquere del colpevole, desunta:
2) dai precedenti penali e giudiziari e, in genere, dalla condotta e dalla vita del reo, antecedenti al reato;
Per quanto attiene alla valutazione delle circostanze, è orientamento costante della giurisprudenza
che esse vadano riferite ai singoli episodi.
137
Aberratio ictus ex art.82 cp.
Aberratio ictus monolesiva ex art.82 1°co cp, concerne l’ipotesi di chi realizza il reato che aveva
in animo, ma in danno di una persona diversa dalla vittima designata.
Art. 82.
Quando, per errore nell'uso dei mezzi di esecuzione del reato, o per un'altra causa, è cagionata offesa a persona diversa
da quella alla quale l'offesa era diretta, il colpevole risponde come se avesse commesso il reato in danno della persona
che voleva offendere, salve, per quanto riguarda le circostanze aggravanti e attenuanti, le disposizioni dell'articolo 60.
Qualora, oltre alla persona diversa, sia offesa anche quella alla quale l'offesa era diretta, il colpevole soggiace alla pena
Dal punto di vista della fattispecie oggettiva l’ipotesi dell’art.82 1°co cp richiede, innanzitutto, che
si sia verificato un evento lesivo e che tale offesa si possa dire “cagionata” dalla condotta diretta ad
offendere la vittima designata. È dunque necessario che si tratti di una condotta unitaria, perché
diversamente saremmo di fronte ad una ipotesi di concorso materiale o reato continuato. L’evento ai
danni di persona diversa, naturalmente, deve essere oggettivamente imputabile alla condotta
dell’autore. L’evento voluto e quello realmente cagionato, inoltre, devono essere omogenei, se
fossero eterogenei saremmo nell’ipotesi dell’aberratio delicti. Infine, si applica la disciplina dettata
per le circostanze dall’art.60 cp – errore sulla persona dell’offeso.
Art. 60.
Nel caso di errore sulla persona offesa da un reato, non sono poste a carico dell'agente le circostanze aggravanti, che
riguardano le condizioni o qualità della persona offesa, o i rapporti tra offeso e colpevole.
Sono invece valutate a suo favore le circostanze attenuanti, erroneamente supposte, che concernono le condizioni, le
Le disposizioni di questo articolo non si applicano, se si tratta di circostanze che riguardano l'età o altre condizioni o
Il problema più delicato e controverso è quello del criterio di imputazione dell’evento non voluto.
Secondo una parte della dottrina, l’identità della persona offesa sarebbe irrilevante: ai fini del dolo
di omicidio, ad esempio, è sufficiente la volontà di cagionare la morte di un uomo mentre non ha
alcuna rilevanza che, in concreto, sia rimasto ucciso Tizio o Sempronio.
Secondo altri, poiché si versa, per definizione, fuori dell’ipotesi del dolo eventuale e, quindi, si deve
partire dalla premessa che l’agente non si è in alcun modo rappresentata l’offesa ad una vittima
diversa, ne consegue che la responsabilità dell’agente per l’offesa cagionata in concreto maschera,
in realtà, una ipotesi di responsabilità oggettiva. Si osserva, la responsabilità dolosa implica la
rappresentazione e volizione di un fatto storico che integra la fattispecie di un reato. Orbene,
nell’aberratio ictus il fatto storico realizzato è diverso da quello voluto, poiché manca la congruenza
fra l’atteggiamento psicologico e l’evento che si è verificato, l’evento stesso non può essere
considerato come una concretizzazione della volontà dell’agente, rilevante per la responsabilità
dolosa.
138
Questi rilievi sono da condividere; ed è palese il rischio di dare ingresso alla responsabilità
oggettiva. Basti considerare che l’art.82 cp non richiede affatto che l’offesa a persona diversa sia
cagionata “per colpa”; dimodochè potrebbe accadere che si risponda secondo regole della
responsabilità per dolo, addirittura al di fuori di ogni riferibilità psicologica dell’evento all’autore.
Sta di fatto, che non sembrano sussistere alternative reali fra l’interpretazione dell’aberratio ictus
come vero e proprio fatto doloso e la sua connotazione come ipotesi di responsabilità oggettiva e
dunque, come tale, costituzionalmente illegittima.
Aberratio ictus plurilesiva ex art.82 2°co cp. Può accadere che l’offesa sia cagionata tanto al
soggetto designato quanto ad un terzo. Questo è il caso dell’aberratio ictus plurilesiva, disciplinato
dall’art.82 2°co cp – offesa di persona diversa da quella alla quale l’offesa era diretta.
Art. 82.
Quando, per errore nell'uso dei mezzi di esecuzione del reato, o per un'altra causa, è cagionata offesa a persona diversa
da quella alla quale l'offesa era diretta, il colpevole risponde come se avesse commesso il reato in danno della persona
che voleva offendere, salve, per quanto riguarda le circostanze aggravanti e attenuanti, le disposizioni dell'articolo 60.
Qualora, oltre alla persona diversa, sia offesa anche quella alla quale l'offesa era diretta, il colpevole soggiace alla pena
Per “offesa” qui deve intendersi “lesione”. Si pongono, tuttavia, problemi interpretativi,
irriducibilmente connessi con la determinazione del titolo di responsabilità per l’evento ulteriore.
Orbene, il 2°co non può essere letto prescindendo dal 1°co, poiché da quello sistematicamente
dipende. Appare allora evidente che la comparazione imposta, al fine di individuare il “reato più
grave”, avviene, in realtà, tra due reati, entrambi puniti a titolo di dolo: l’uno, quello in danno alla
vittima designata, perché effettivamente volontario; l’altro, quello in danno della persona diversa,
perché addebitatogli al medesimo tiolo. Solo che la legge ha disposto che le pena per il reato più
grave non possa essere aumentata oltre la metà.
Sembra equilibrata la tesi secondo cui si dovrebbe applicare la regola contenuta nel 2°co della
disposizione, per quanto attiene ad una delle offese ulteriori, facendo ricorso solo per le ulteriori
offese alla disciplina del concorso formale ex art. 81 1°co cp, con il limite stabilito dall’ultimo
comma della medesima disposizione.
Art. 83.
Fuori dei casi preveduti dall'articolo precedente, se per errore nell'uso dei mezzi di esecuzione del reato, o per un'altra
causa, si cagiona un evento diverso da quello voluto, il colpevole risponde, a titolo di colpa, dell'evento non voluto,
Se il colpevole ha cagionato altresì l'evento voluto si applicano le regole sul concorso dei reati.
139
Poiché l’aberratio delicti è configurata esplicitamente dalla legge come sussidiaria rispetto
all’aberratio ictus, i suoi confini sono segnati appunto dalla non riconducibilità a quest’ultima
fattispecie. Deve, dunque, trattarsi di una offesa di natura diversa da quella che si aveva in mente,
più precisamente, dell’offesa a un bene giuridico diverso da quello che si voleva offendere.
Si ha così aberratio delicti nel caso di chi, lanciando una pietra verso una vetrina allo scopo di
infrangerla, finisca col ferire un commesso.
Anche con riguardo all’aberratio delicti, si controverte in dottrina circa il fondamento della
responsabilità per l’evento non voluto.
A differenza dell’art.82 cp, l’art.83 cp offre sicuramente maggiori appigli all’interprete per una
soluzione più rispettosa del principio di colpevolezza. È lecito opinare che il legislatore abbia
semplicemente voluto stabilire che, anche quando l’evento non voluto non sia imputabile a colpa,
l’autore ne risponda nei limiti e secondo le regole proprie della responsabilità colposa.
Nessun problema suscita la disciplina dell’aberratio delicti plurioffensiva; in tal caso, l’ipotesi
rifluisce nella disciplina generale del concorso di reati.
Una particolare ipotesi di aberratio delicti è prevista all’art.586 cp – morte o lesioni come
conseguenza di altro delitto, con la precisazione che il delitto doloso da cui deriva eventualmente la
morte di taluno, non può essere costituito da un fatto di percosse o lesioni, perché in tal caso ricorre,
invece, la figura dell’omicidio preterintenzionale, previsto dall’art.584 cp – omicidio
preterintenzionale.
140
IL CONCORSO APPARENTE DI NORME
Art. 15.
Materia regolata da più leggi penali o da più disposizioni della medesima legge penale.
Quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la
disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito.
È però controverso se l’art.15 cp sia disciplina valida per tutti i casi di concorso di norme, dal
momento che sembra disciplinare solo il caso in cui a “concorrere” siano due o più leggi penali,
ovvero due o più disposizioni della medesima legge penale, una delle quali si configuri come
speciale, rispetto ad un'altra, che si presenta come generale.
Per capire meglio il concetto, possiamo ricorrere all’esempio delle disposizioni che incriminano la
violenza sessuale o la violenza diretta a far commettere un reato, sono norme speciali, rispetto a
quella che punisce la violenza privata. Qui si capisce chiaramente quale sia la norma speciale e
quale quella generale. Le cose stanno diversamente, però, quando tra le norme la specialità si
configura come reciproca, cioè quando ciascuna norma presenta, rispetto all’altra, uno o più
elementi specializzanti, innestati su un nucleo di elementi comuni; un esempio è costituito dal
rapporto fra aggiotaggio comune e aggiotaggio societario, dove elemento comune è l’aspetto
oggettivo della condotta di aggiotaggio, ma sono contrassegnate, rispettivamente, dal dolo specifico
di “turbare il mercato interno” e dalla particolare qualifica del soggetto attivo (amministratore,
direttore generale, ecc.).
A questo punto, si suggerisce di considerare come speciale la fattispecie contrassegnata dal maggior
numero di elementi specializzanti (tutti presenti nel caso concreto).
Per stabilire la portata reale dell’art.15 cp è dunque opportuno determinare con maggior precisione
l’ambito del fenomeno che va sotto la denominazione di “concorso di norme”.
141
l’uno dal possesso della cosa altrui da parte del soggetto attivo; l’altro dall’impossessamento della
cosa, originariamente detenuta da altri, appare chiaro che in questo caso o si applica una disciplina o
l’altra.
Fuori dal concorso di norme restano, infine, anche le ipotesi in cui due o più disposizioni si trovano
in relazione di interferenza: essa ricorre quando le fattispecie legali hanno sì in comune un nucleo
comportamentale su cui si innestano, però, elementi fra loro eterogenei; pensiamo alla congiunzione
carnale, elemento costitutivo del fatto, sia nell’incesto che nella violenza sessuale; orbene, ove
rincorrano gli estremi di entrambe le fattispecie, ci si troverà di fronte ad un concorso formale di
reati, come è pacificamente ritenuto nel caso in cui l’ingesto sia commesso mediante congiunzione
carnale violenta.
La reciproca delimitazione fra concorso di norme e concorso di reati appare a questo punto più
chiara: l’area del concorso di reati è contrassegnata dai rapporti di eterogeneità e interferenza tra
norme, mentre ogni altra ipotesi di convergenza di più disposizioni nella disciplina del medesimo
fatto dà luogo a un concorso apparente di norme.
Il reato complesso.
Il reato complesso costituisce un’ipotesi di concorso apparente di norme: il fatto che integra il reato
complesso, integra anche il reato semplice, ma in virtù dell’art.84 cp – reato complesso si applica
ad esso solo la norma che prevede il reato complesso.
Art. 84.
Reato complesso.
Le disposizioni degli articoli precedenti non si applicano quando la legge considera come elementi costitutivi, o come
circostanze aggravanti di un solo reato, fatti che costituirebbero, per se stessi, reato.
142
Qualora la legge nella determinazione della pena per il reato complesso, si riferisca alle pene stabilite per i singoli reati
che lo costituiscono, non possono essere superati i limiti massimi indicati negli articoli 78 e 79.
Questo articolo stabilisce che le disposizioni relative al concorso di reati non si applicano quando la
legge considera come elementi costitutivi o come circostanze aggravanti d un solo reato fatti che
costituirebbero per se stessi reati.
La dottrina distingue tra:
Reato complesso in senso stretto, in cui sono compresi almeno due reati, i quali possono
assumere tutti la posizione di elementi costitutivi (ad esempio, il furto e la violenza privata
nella rapina), o alcuni di elemento costitutivo e altri di circostanza aggravante (ad esempio,
il furto semplice e la violazione di domicilio nel furto aggravato dalla violazione di
domicilio).
Reato complesso in senso lato, in cui è compreso un solo reato con l’aggiunta di elementi
ulteriori non costituenti reato (ad esempio, la vecchia violenza carnale comprendeva il reato
di violenza e la congiunzione carnale, che di per sé non costituisce reato).
In ordine alla disciplina, il reato complesso viene regolato come un unico reato, in particolare
dobbiamo leggere le disposizioni in materia.
Art. 84.
Reato complesso.
Le disposizioni degli articoli precedenti non si applicano quando la legge considera come elementi costitutivi, o come
circostanze aggravanti di un solo reato, fatti che costituirebbero, per se stessi, reato.
Qualora la legge nella determinazione della pena per il reato complesso, si riferisca alle pene stabilite per i singoli reati
che lo costituiscono, non possono essere superati i limiti massimi indicati negli articoli 78 e 79.
Art. 131.
Nei casi preveduti dall'articolo 84, per il reato complesso si procede sempre di ufficio, se per taluno dei reati, che ne
Art. 170.
Estinzione di un reato che sia presupposto, elemento costitutivo o circostanza aggravante di un altro reato.
Quando un reato è il presupposto di un altro reato, la causa che lo estingue non si estende all'altro reato.
La causa estintiva di un reato, che è elemento costitutivo o circostanza aggravante di un reato complesso, non si estende
al reato complesso .
L'estinzione di taluno fra più reati connessi non esclude, per gli altri, l'aggravamento di pena derivante dalla
connessione.
143
PARTE QUINTA
LE SANZIONI
Premessa.
Il vigente ordinamento penale organizza la risposta ai fenomeni di devianza criminale secondo tre
linee di intervento, articolate in pene, misure di sicurezza e misure di prevenzione, generalmente
consistenti in una aggressione alla sfera della libertà individuale e della integrità patrimoniale del
soggetto colpito.
LE PENE
Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla
rieducazione del condannato.
La portata di questa disposizione è globale, nel senso che spiega i suoi effetti in tutte le fasi del
sistema sanzionatorio, quindi dalla fase comminatoria a quella esecutiva della pena.
Quello che occorre chiedersi è cosa debba intendersi per rieducazione e quali siano gli strumenti
per la sua realizzazione. La dottrina ha risposto che questo concetto va ricompreso nel significato di
recupero sociale, o come anche si dice, di ri-socializzazione, escludendo ogni connotato di
emenda morale che assuma, quindi, dimensioni eticizzanti.
Attraverso la sanzione penale, lo Stato deve offrire al “delinquente” gli strumenti per la sua
reintegrazione nel tessuto sociale, attraverso i valori della convivenza. Questo richiede forme di
“trattamento” basate sulla emancipazione individuale, perseguita mediante la realizzazione di
144
adeguati sostegni socioculturali, di opportunità di reinserimento nel tessuto produttivo e sociale, di
possibilità di riqualificazione culturale e professionale, ecc. Al di là delle difficoltà di
concretizzazione, i risultati sono stati spesso deludenti. I fattori, nello specifico, problematici
dipendono da varie situazioni, proprio perché non è possibile usare lo stesso metodo per situazioni
che tra loro sono molto diverse. Esistono diversi tipi di “delinquenti” che necessitano di strategie
recuperative sicuramente diverse, se non addirittura personali.
Un punto di orientamento è sicuramente costituito da quello che si può considerate una sorta di
requisito minimo della sanzione penale rieducativa: impedire effetti di ulteriore
desocializzazione.
L’odierna fisionomia della pena: dalla riforma del 1974 ai giorni nostri.
Nella legislazione penale si nota l’influenza delle direttive costituzionali in materia di pena. Le
modifiche sul sistema sanzionatorio sembrano orientate all’idea della sanzione detentiva come
extrema ratio della risposta penale, tuttavia, la scarsa efficienza del sistema penale nel suo
complesso si manifesta soprattutto nella diffuse ineffettività del sistema di esecuzione penale.
Questo stato di cose, oltre a generare sfiducia nella collettività, abbassa drasticamente i livelli di
efficacia della pena in termini di prevenzione generale e, di conseguenza, condiziona la possibilità
di attuare prospettive di tipo specialpreventivo. La crescente sensazione di “insicurezza”
conseguente a questo stato di cose si è tradotta in una richiesta di incremento delle politiche
repressive di stampo punitivo, nelle quali la finalità “simbolica” finisce col prevalere sulle
prospettive di efficienza.
Riassumendo, le principali innovazioni legislative nella materia penale sono:
1. L’ammissione dei condannati all’ergastolo ai benefici della semilibertà e della liberazione
anticipata.
2. Gli interventi modificativi della sospensione condizionale della pena.
145
3. L’introduzione di misure alternative alla detenzione.
4. L’introduzione delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi.
5. L’ampliamento del ventaglio delle pene accessorie.
6. L’introduzione di un sistema sanzionatorio autonomo per i reati assegnati alla competenza
del giudice di pace.
146
LE TIPOLOGIE DELLA PENA EDITTALE
E I CRITERI DELLA SUA DETERMINAZIONE GIUDIZIALE
Art. 17.
2) l'ergastolo;
3) la reclusione;
4) la multa.
1) l'arresto;
2) l'ammenda.
Le pene pecuniarie.
a) Multa – è la pena pecuniaria prevista per i delitti; consiste nel pagamento allo Stato di una
somma non inferiore a 5 euro, né superiore ai 5164 euro. Il giudice deve tener conto delle
condizioni economiche del reo, dimodochè la multa non risulti ingiustificatamente gravosa o
assolutamente inefficace. È soggetta a conversione in caso di insolvibilità, verso libertà
controllata e lavoro sostitutivo.
b) Ammenda – consiste nel pagamento allo Stato di una somma non inferiore a 2 euro e non
superiore a 1032 euro; è la pena prevista per le contravvenzioni e la sua disciplina è del tutto
analoga a quella prevista per la multa.
Le pene accessorie.
Sono elencate dall’art.19 cp – pene accessorie: specie:
Art. 19.
3) l'interdizione legale;
Pena accessoria comune ai delitti e alle contravvenzioni è la pubblicazione della sentenza penale di condanna.
La legge penale determina gli altri casi in cui pene accessorie stabilite per i delitti sono comuni alle contravvenzioni.
La funzione delle pene accessorie è oggi quella che le contrassegna come strumenti di prevenzione
speciale, almeno nella limitata prospettiva della neutralizzazione del reo, in particolare quando i
fatti per i quali la condanna è intervenuta siano connessi all’esercizio degli uffici, diritti e potestà
che vengono interdetti.
La sola caratteristica comune a tutte le pene accessorie è la loro complementarietà rispetto alla pena
principale. Possono essere perpetue o temporanee.
148
Le pene sostitutive.
Le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi rappresentano senza dubbio una delle
innovazioni più significative introdotte dalla riforma del 1981 sulla Modifica al sistema penale;
questa legge prevede la possibilità che sia il giudice stesso, nell’atto in cui emette una sentenza di
condanna, ad irrogare una “sanzione sostitutiva”, in luogo della pena detentiva (reclusione, arresto)
comminata per il reato. Queste sono la semidetenzione, la libertà controllata e la pena
pecuniaria. Vediamole una per volta.
Semidetenzione – è la sanzione con cui il giudice può sostituire le pene detentive superiori ad un
anno e non superiori a due anni, comporta l’obbligo di trascorrere almeno dieci ore al giorno negli
istituti di pena e una serie di limitazioni.
Libertà controllata – utilizzabile, in alternativa alla semidetenzione, per sostituire le pene
detentive superiori a sei mesi ma non superiori ad un anno; comporta il divieto di allontanarsi dal
comune di residenza, l’obbligo di presentarsi almeno una volta al giorno negli uffici di Pubblica
Sicurezza o presso un comando dell’Arma dei Carabinieri.
Pena pecuniaria – può sostituire le pene detentive non superiori a sei mesi; nell’operare la
sostituzione, il giudice, tenendo conto della condizione economica complessiva dell’imputato,
determina l’entità della quota giornaliera compresa tra un minimo di 38 ad un massimo di 380 euro,
che viene poi moltiplicata per il numero dei giorni di pena detentiva da sostituire.
L’inosservanza delle prescrizioni imposte al condannato ha come conseguenza la conversione della
restante parte di pena sostitutiva nella pena detentiva sostituita.
Art. 133.
Nell'esercizio del potere discrezionale indicato nell'articolo precedente, il giudice deve tener conto della gravità del
reato, desunta:
1) dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall'oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell'azione;
2) dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato;
Il giudice deve tener conto, altresì, della capacità a delinquere del colpevole, desunta:
2) dai precedenti penali e giudiziari e, in genere, dalla condotta e dalla vita del reo, antecedenti al reato;
L’art.133 cp – gravità del reato: valutazione agli effetti della pena, nei due commi di cui si
compone, accorpa gli indici di determinazione della pena, riferendoli al dato della gravità del reato
e a quello della capacità a delinquere del colpevole. Anche se il disposto è molto dettagliato e
preciso, tuttavia la dottrina è sostanzialmente concorde nel prendere atto della sua scarsa
149
praticabilità, dal momento che non fa riscontro alcuna indicazione in ordine ai criteri di ordine
finalistico, a cui dovrebbe poi essere orientata la commisurazione della pena. Ciò che è decisivo è
stabilire la gerarchia dei fini ai quali indirizzare il momento della commisurazione, gerarchia che
non si riesce a ricavare dall’art.133 cp.
Recente dottrina cerca di sviluppare una sistematica dei criteri di commisurazione della pena
ancorandola alle relative indicazioni costituzionali; in questo modo, in via preliminare occorre
determinare le finalità che si intendono perseguire mediante l’irrogazione della pena; solo
successivamente, e subordinatamente a quelle, il giudice potrà coerentemente determinare il peso
che assumono i diversi indici fattuali a cui commisurare l’entità della pena.
Questo vuol dire che il dato da cui partire è costituito dall’art.27 Costituzione che, da un lato, esige
di attribuire alla misura della colpevolezza del soggetto il ruolo di un criterio-guida ai fini della
commisurazione della pena; dall’altro, si afferma del modo del tutto univoco la finalità
“rieducativa” (risocializzante) della pena.
Da ciò si ricava che non sono ammesse “pene esemplari” per scopi di politica criminale
generalpreventiva, che eccederebbero la colpevolezza del soggetto, per scoraggiare la commissione
di fatti analoghi da parte di terzi.
Il principio costituzionale, per cui le pene devono tendere alla rieducazione del condannato si
riverbera essenzialmente nel 2°co art.133 cp, imponendo una rilettura degli indici collegati al
parametro della “capacità a delinquere” che privilegi gli scopi di prevenzione speciale in chiave,
appunto, di recupero e risocializzazione. Ciò significa che quel giudizio dovrà essere utilizzato,
nella scelta e nel dosaggio della pena, essenzialmente in funzione del reinserimento sociale del
condannato.
Abbiamo fatto cenno prima agli indici indicati nell’art.133 cp, quali:
gravità del reato – ancorata agli elementi oggettivi, come la natura, i mezzi, l’oggetto, il
tempo, il luogo, che esprimono il disvalore di azione del fatto; sul piano soggettivo, vengono
in rilievo l’intensità del dolo e il grado della colpa;
personalità del colpevole – l’apprezzamento giudiziale passa qui dal fatto alla personalità
del colpevole, legandolo al parametro della capacità a delinquere. Questa nozione è assai
variegata, dal momento che ricomprende la pericolosità sociale e la si intende come
possibilità (maggiore o minore) di future condotte criminose. Gli elementi di cui il giudice
dovrà tenere conto, nella valutazione della “capacità a delinquere” sono: i motivi a
delinquere, il carattere del reo, i precedenti penali e la condotta di vita del reo antecedente
al reato, la condotta antecedente, contemporanea e susseguente al reato e infine le
condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo.
150
L’ESECUZIONE DELLE PENE
151
2. Detenzione domiciliare – se non vi è affidamento in prova, la pena della reclusione non
superiore a 4 anni e quella dell’arresto possono essere espiate nella propria abitazione o in
altro luogo di privata dimora. L’allontanamento da detti luoghi equivale all’evasione e
comporta la revoca del beneficio.
3. Semilibertà – consiste nella possibilità di trascorrere parte del giorno fuori dall’istituto di
pena “per partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento
sociale”. È ammesso a tale beneficio il condannato all’arresto o alla reclusione non superiore
a 6 mesi; negli altri casi è ammessa dopo aver scontato almeno la metà della pena e, in altri
casi particolari, dopo 2/3 della stessa.
4. Liberazione anticipata – non è, come le altre misure alternative, una modalità di
esecuzione della pena detentiva, ma una ipotesi anticipata di cessazione dell’esecuzione
stessa. Subordinata all’espiazione di parte della pena e ad un comportamento, da parte del
condannato, meritevole di tale fiducia.
152
LE IPOTESI DI NON APPLICAZIONE, SOSPENSIONE,
MODIFICAZIONE ED ESTINZIONE DELLA PENA
Il nostro ordinamento contiene due particolari ipotesi di estinzione del reato, esclusive del diritto
penale minorile, riservate cioè ai minori degli anni 18.
La prima è il perdono giudiziale, con il quale il giudice minorile ha la facoltà di non rinviare
l’imputato a giudizio o, nel giudizio, di non pronunciare condanna, estinguendo così il reato.
Ovviamente è subordinato alla convinzione che il minore si asterrà dal compiere ulteriori delitti e
non è concesso per reati particolarmente gravi. La ratio è molto simile, se non speculare, con quella
sottesa alla sospensione condizionale della pena.
Altra ipotesi è quella della sospensione del processo con messa alla prova che dà facoltà al
giudice minorile di sospendere il processo, per un periodo non superiore ai 3 anni, nei reati più
gravi, a 1 anno, per quelli meno gravi, affidando nel contempo l’imputato ai servizi minorili della
giustizia. La sua portata è ampia, tanto da poter essere applicabile, nella prassi, a qualsiasi tipo di
reato.
Il patteggiamento consiste nell’applicazione di una pena su richiesta delle parti; estingue il reato e
ogni altro effetto penale della condanna se nei 5 anni da essa, nel caso di delitti, o nei 2 anni, se di
contravvenzioni, il condannato non commette altri delitti o altre contravvenzioni della stessa indole.
Altra rilevante novità introdotta nel 2000 riguarda due forme di definizione alternativa del
procedimento penale, ovvero l’esclusione della procedibilità nei casi di particolare tenuità del
fatto e l’estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie.
La prima si configura come causa di improcedibilità fondata sulla irrilevanza del fatto, sia da un
punto di vista oggettivo (esiguità del danno rispetto all’interesse tutelato), che soggettivo
(occasionalità e grado di colpevolezza).
154
La seconda ipotesi, invece, introduce una nuova causa di estinzione del reato, che il giudice di pace
dichiara con sentenza, quando l’imputato dimostra di aver proceduto alla riparazione del danno
cagionato dal reato.
155
LE ALTRE CONSEGUENZE GIUDICHE DEL REATO
IL TRATTAMENTO DELL’ILLECITO DEPENALIZZATO
Art. 185.
Ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le
persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui.
Il soggetto a cui spetta al restituzione o il risarcimento può essere lo stesso soggetto passivo del
reato oppure, ad esempio in caso di omicidio, un soggetto diverso.
Le obbligazioni civili nascenti da reato non si estinguono per effetto dell’estinzione della pena o del
reato, come dispone l’art.198 cp – effetti dell’estinzione della pena o del reato sulle obbligazioni
civili.
Art. 198.
L'estinzione del reato o della pena non importa l'estinzione delle obbligazioni civili derivanti dal reato, salvo che si tratti
Il danno risarcibile è sia quello patrimoniale sia quello non patrimoniale, come il caso del danno
morale o del danno biologico.
La pretesa risarcitoria, per essere delibata in sede penale, deve essere avanzata mediante la c.d.
costituzione di parte civile, nel processo penale.
Il condannato è tenuto a rimborsare allo Stato le spese per il suo mantenimento negli istituti di pena,
rispondendone con tutto i suoi beni, mobili e immobili, presenti o futuri, a norma delle leggi civili.
L’obbligazione però non si trasmette agli eredi del condannato, né alla persona civilmente
responsabile per il fatto di lui.
Nei reati commessi da chi è soggetto all’altrui autorità, direzione o vigilanza, quando il condannato
risulti insolvibile, la persona rivestita dell’autorità o incaricata della vigilanza, è obbligata al
156
pagamento di una somma pari all’ammontare di una multa o dell’ammenda inflitte al colpevole, se
si tratta di violazioni di disposizioni che essa era tenuta a far osservare e delle quali non debba
rispondere penalmente.
L’adempimento delle obbligazioni civili nascenti da reato è assistita da una serie di garanzie; è
facoltà del PM, in ogni stato e grado del processo, chiedere il sequestro conservativo dei beni
mobili e immobili dell’imputato o delle somme o cose a lui dovute, quando si ritiene fondato il
rischio di una possibile insolvenza futura. Stessa facoltà è rimessa alla parte civile, per gli identici
motivi.
157
LE MISURE DI SICUREZZA
La crisi del “doppio binario”, fra teoria e prassi delle misure di sicurezza.
L’affiancamento delle misure di sicurezza alle pene non faceva altro, in pratica, che raddoppiare le
potenzialità repressive del sistema, specie con riguardo a casi in cui all’esecuzione della pena, si
aggiungeva l’inflizione della misura di sicurezza detentiva, per di più a tempo indeterminato.
La crisi di questo doppio binario entra in crisi quando sono state eliminate le presunzioni legali di
pericolosità, su cui il meccanismo applicativo delle misure di sicurezza era largamente fondato.
La misura di sicurezza si traduceva, di fatto, in un marcata accentuazione del momento repressivo, a
cui restava quasi totalmente estraneo ogni intervento rieducativo o di recupero del delinquente
“pericoloso”, fosse egli “responsabile” o “irresponsabile”.
I destinatari delle misure di sicurezza possono distinguersi in tre categorie:
Art. 199.
Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non siano espressamente stabilite dalla legge e fuori dei casi
Art. 25 Costituzione
Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge.
Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto
commesso.
Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge.
Secondo il principio di legalità, l’applicazione delle misure di sicurezza include l’esigenza della
tassatività della relativa previsione normativa.
Più controversa è l’applicabilità alle misure di sicurezza della regola della retroattività; nel silenzio
della Costituzione sul punto, sembra doversi trarre la disciplina da quanto disposto nell’art.200 cp –
158
applicabilità delle misure di sicurezza rispetto al tempo, al territorio e alle persone, ove si
stabilisce che sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione.
Art. 200.
Le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione.
Se la legge del tempo in cui deve eseguirsi la misura di sicurezza è diversa, si applica la legge in vigore al tempo
dell'esecuzione.
Le misure di sicurezza si applicano anche agli stranieri, che si trovano nel territorio dello Stato.
Tuttavia l'applicazione di misure di sicurezza allo straniero non impedisce l'espulsione di lui dal territorio dello Stato, a
Da ciò sembra potersi accettare la irretroattività delle misure di sicurezza, dal momento che
l’applicazione di una misura di sicurezza implica sempre e comunque la commissione di un fatto
preveduto dalla legge come reato. In questo soccorre l’art.25 Cost. che inibisce l’applicazione
retroattiva, non potendo certo applicarsi per un fatto che, al tempo in cui fu commesso, non
costituiva reato e, di conseguenza, la stessa regola deve applicarsi per il quasi-reato deducibile
dall’art.202 2°co cp – applicabilità delle misure di sicurezza.
Art. 202.
Le misure di sicurezza possono essere applicate soltanto alle persone socialmente pericolose che abbiano commesso un
La legge penale determina i casi nei quali a persone socialmente pericolose possono essere applicate misure di sicurezza
Art. 203.
Pericolosità sociale.
Agli effetti della legge penale, è socialmente pericolosa la persona, anche se non imputabile o non punibile, la quale ha
commesso taluno dei fatti indicati nell'articolo precedente quando è probabile che commetta nuovi fatti preveduti dalla
La qualità di persona socialmente pericolosa si desume dalle circostanze indicate nell'articolo 133.
È in qualche modo controverso se possa essere applicata retroattivamente una misura di sicurezza
introdotta dalla legge posteriormente alla commissione di un reato, o di un quasi-reato, già previsti
come tale al momento della commissione del fatto. Nella inesistenza di un formale divieto
legislativo, dovremmo sempre e comunque fare riferimento alla ratio dell’art.25 Cost., secondo la
quale induce ad escludere non solo l’applicabilità di una misura di sicurezza per un fatto che, al
momento della commissione non costituisce reato o quasi-reato, ma anche l’applicabilità di una
misura di sicurezza non prevista al tempo del fatto, o diversa da quella originariamente prevista.
All’art.200 cp – applicabilità delle misure di sicurezza rispetto al tempo, al territorio e alle
persone resterebbe, quindi, la limitata efficacia di disciplinare la sola eventualità che una legge
159
successiva regoli in maniera diversa le modalità esecutive di una misura di sicurezza, già
applicabile al tempo della commissione del fatto.
Art. 202.
Le misure di sicurezza possono essere applicate soltanto alle persone socialmente pericolose che abbiano
La legge penale determina i casi nei quali a persone socialmente pericolose possono essere applicate misure di
Art. 203.
Pericolosità sociale.
Agli effetti della legge penale, è socialmente pericolosa la persona, anche se non imputabile o non punibile, la quale ha
commesso taluno dei fatti indicati nell'articolo precedente quando è probabile che commetta nuovi fatti preveduti dalla
La qualità di persona socialmente pericolosa si desume dalle circostanze indicate nell'articolo 133.
Art. 133.
Nell'esercizio del potere discrezionale indicato nell'articolo precedente, il giudice deve tener conto della gravità del
reato, desunta:
1) dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall'oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell'azione;
160
2) dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato;
Il giudice deve tener conto, altresì, della capacità a delinquere del colpevole, desunta:
2) dai precedenti penali e giudiziari e, in genere, dalla condotta e dalla vita del reo, antecedenti al reato;
Con novella l.1986/663 si è stabilito che tutte le misure di sicurezza personali “sono ordinate
previo accertamento che colui che ha commesso il fatto è persona socialmente pericolosa”,
richiede dunque un accertamento da operarsi “in concreto”.
Le categorie normative della pericolosità sociale.
Il codice penale individua tre categorie di delinquenti socialmente pericolosi:
1. Delinquente abituale
2. Delinquente professionale
3. Delinquente per tendenza
I presupposti minimi per la dichiarazione di abitualità nel reato ricorrono nella condizione di chi,
dopo essere stato condannato per delitti non colposi, riporti un’altra condanna per delitti non
colposi; la professionalità nel reato corrisponde alla situazione di chi, avuto riguardo alla natura dei
reati, alla condotta e al genere di vita, viva abitualmente, anche solo in parte, dei proventi dei reati
commessi; quanto alla figura della tendenza criminale, questa prescinde del tutto dalla condizione
di recidivo, dal momento che può essere dichiarato delinquente per tendenza chi commette un
delitto non colposo contro la vita o l’incolumità, quando tale fatto riveli una speciale indole
malvagia del colpevole (tale figura è ritenuta, ormai, scarsamente plausibile dalla scienza criminale
e, quindi, è pressoché sparita dalla prassi).
162
LE MISURE DI PREVENZIONE
Art. 13 Costituzione
Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra
restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell'Autorità giudiziaria e nei soli casi e modi
previsti dalla legge.
In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l'autorità di Pubblica
sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore
all'Autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati
e restano privi di ogni effetto.
È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà.
In tal modo, si è giunti, soprattutto su impulso della Corte Costituzionale, a numerose modifiche del
testo originario, fino alla legge 3 Agosto 1988 n°327, che ha innovato significativamente la
tipologia normativa che concreta le singole fattispecie di pericolosità.
Nella attuale formulazione legislativa, le misure di prevenzione possono applicarsi:
1. A coloro che “debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che sono abitualmente dediti a
traffici illeciti”;
2. A coloro che “per la condotta e il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di
fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi delle attività delittuose”;
3. A coloro che “per il loro comportamento, debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che
sono dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o
morale dei minorenni, la serenità, la sicurezza o la tranquillità pubblica”.
Le persone così individuate ricevono dal questore avviso orale dei sospetti a loro carico e l’invito a
tenere una condotta conforme alla legge. Trascorsi non meno di 60 giorni e non più di 3 anni, se la
persona avvisata non ha cambiato condotta e risulta pericolosa per la sicurezza pubblica, il questore
può avanzare al Tribunale motivata proposta per l’applicazione nei suoi confronti della sorveglianza
speciale della pubblica sicurezza. Questa viene disposta dal Tribunale e, in caso di inottemperanza
degli obblighi imposti, subentra l’arresto o la reclusione.
163
Con legge 31 Maggio 1965 n°575 disposizioni contro la mafia fu stabilita la sorveglianza
speciale, l’obbligo e il divieto del soggiorno, nei confronti di persone indiziate di appartenere ad
associazioni mafiose, anche prescindendo dalla diffida del questore.
Ma la parte maggiormente innovativa della legge del 1982 è costituita dall’introduzione di misure
di carattere patrimoniale, che si affiancano a quelle personali, già previste, con l’obiettivo di
combattere l’accumulazione e lo sfruttamento degli ingenti capitali connessi con lo svolgimento
delle attività illecite proprie delle società mafiose e camorristiche (sequestro e confisca).
164