Larte Di B La Bart K Nodrm
Larte Di B La Bart K Nodrm
Larte Di B La Bart K Nodrm
saggi
M A SSIM O M ILA
ISBN 978-88-58-66246-5
Piero Gelli
Prefazione
Francesco M. Colombo
1
Jeremaias Gotthelf, Il ragno nero, a cura di Massimo Mila, Minuzia-
no, Milano 1945.
segni dell’orrore adulto». Ma d’un orrore che si libera
interamente in intuizione artistica, lasciando all’uomo
il privilegio d’un saldo equilibrio spirituale.
Sui primi anni della vita di Bartók siamo informati
da un singolare documento che dà un’idea dell’armo-
niosa rete di affetti casalinghi in cui egli fu educato.
Quand’ebbe quarant’anni, ed era ormai un artista
celebre, e da molto tempo aveva famiglia propria e
per forza di cose viveva lontano dalla vecchia mam-
ma, questa, che confortava la propria solitudine rian-
dando col pensiero ai tempi in cui allevava quel figlio
prediletto, prese a mettere in carta questi ricordi sotto
forma di lettere domenicali al nipote: al figlio, cioè,
di Béla Bartók, per narrargli l’infanzia e la giovinezza di
suo padre. Sappiamo così che il bimbo crebbe soli-
tario e pensoso, più portato allo studio che ai giochi,
travagliato da frequenti infermità. Guarito a cinque
anni dall’orribile erpete che lo aveva fino allora segre-
gato dai giochi e dalle compagnie dei suoi coetanei,
si profilò la minaccia d’un incurvamento della spina
dorsale, che l’avrebbe obbligato a starsene a lungo
disteso. Fortunatamente si trattava di una diagnosi
sbagliata. A sei anni poté perciò entrare nella scuola
elementare di Nagyszentmiklós, dove si distinse fra
gli allievi migliori. Non faceva però più del dovuto, e
non mostrava velleità di emulazione. Era un bambino
giudizioso e assorto, dai lunghi silenzi, che bastava a
se stesso: non di rado pareva assente da tutto ciò che
aveva intorno.
Nel 1885 nacque la sorella Elisabetta. Il 25 marzo
1886, giorno del suo compleanno, la madre gli diede la
prima lezione di pianoforte, incoraggiata dalle prove
di sensibilità musicale che il bambino aveva manife-
stato. A questo studio si applicò con grande diligenza
e con smania di imparare sempre qualcosa di nuovo.
Un biografo afferma – ma non se ne trova conferma
nelle lettere della madre – che quando si credeva solo
o non ascoltato, si compiaceva a lungo nella ricerca di
strani ritmi ostinati e di accordi dissonanti; più volte
redarguito dalla madre, ricominciava alla prima occa-
sione. A sette anni gli provarono l’orecchio musicale e
si scoprì che aveva il senso assoluto dell’intonazione:
riconosceva, cioè, senza alcun punto di riferimento,
qualunque nota venisse toccata sul pianoforte.
La morte del padre (1888) tolse all’educazione del
fanciullo ogni influenza maschile, e allontanò anche
molte belle occasioni musicali: la prima orchestra che
ebbe modo di ascoltare il futuro autore del Concerto
per orchestra fu quella di dilettanti in cui suonava suo
padre. Si riuniva nella sala d’un albergo sotto la dire-
zione d’uno zingaro istruito: la prima volta che Bartók
li sentì, suonavano la Sinfonia della Semiramide.
Nel 1889 la madre di Bartók si fece trasferire nel-
la scuola di Nagyszöllos, in Rutenia, sul limite della
pianura al piedi dei monti Maramaros. Nuovi canti,
così, saranno risuonati all’orecchio attento del bam-
bino. Venne a stare con loro la sorella della madre,
Irma: altra sottana intorno a quell’unico maschietto,
che cresceva tranquillo e assennato, alieno dai rumo-
rosi spassi dei suoi coetanei. In una delle sue lettere la
madre si rallegra d’essere riuscita a educare suo figlio
alla modestia, «anche se è possibile che questa qualità
sia dannosa nella vita; ma d’altra parte la mancanza
di modestia rende la gente antipatica, e io non volevo
avere un figlio che fosse antipatico». Questa modestia
che la signora si compiace d’avere inculcato al figlio,
magari a danno delle sue attitudini al successo, è il
rispetto dell’altrui persona e dei diritti del prossimo,
ossia quel senso dell’umana convivenza, quell’innata
misura di civiltà che non si scompagna mai dalla vita
di Bartók e – strano a dirsi – nemmeno dalla sua arte,
che pur conosce scatenamenti dionisiaci di sfrenata
violenza. Ma la tracotanza arrogante, la hybris ossia
la trasgressione, l’invasione dell’altrui diritto, sono
estranee allo stile di Bartók. Vita e arte sono governa-
te in lui da un interiore principio di socialità, per cui
la cellula individuale – alfa e omega del suo universo
artistico – si integra e si coordina nel riconoscimento
delle altre individualità.
Intorno al 1890 Bartók comincia a «comporre», o
più esattamente a improvvisare sul pianoforte Valzer
e altri ballabili. Un certo Altdörfer, organista di So-
pron, di passaggio per Nagyszöllos, è il primo a pre-
sagire per il fanciullo un grande avvenire musicale.
La vocazione si determina, ed è bene accolta nell’am-
biente famigliare. A dieci anni la madre conduce Béla
a Pest, per farlo esaminare da un professore del Con-
servatorio; questi se ne entusiasma e vorrebbe farlo
iscrivere subito, ma la madre preferisce ch’egli con-
tinui ancora le scuole regolari. Per la musica andrà a
lezione da un certo Koresch, o Kersch, a Nagyvarad.
Il 1° aprile 1892 si ha la sua prima esibizione pub-
blica come pianista, a Nagyszöllos. Nel programma
figuravano, tra l’altro, il primo tempo della Wald-
stein-Sonate op. 53 (l’Aurora) di Beethoven, e una
composizione dello stesso undicenne concertista, in-
titolata Il corso del Danubio. È andata perduta, ma
da quel che se ne sa, sembra prefigurare profetica-
mente il destino artistico di Bartók, così strettamente
legato agli spiriti della sua terra. Con una successione
di danze caratteristiche – Polke, Czardás, Valzer egli
aveva cercato di seguire il corso del Danubio dalla
Foresta Nera al Mar Nero. Il pensiero corre subito
alla Moldava di Smetana, l’esempio più illustre di quel
nazionalismo musicale che non scende ancor molto
a fondo nell’esplorazione del patrimonio etnofonico,
ma si sofferma piuttosto in una specie di fase geogra-
fica, idoleggiando con affetto gli aspetti stessi della
patria, i fiumi, le montagne, i boschi. È quasi escluso
che Bartók potesse averne conoscenza nell’originale
– non c’erano radio né dischi, allora, e le grandi or-
chestre non s’incontravano a ogni passo nella provin-
cia ungherese – ma potrebbe darsi ch’egli ne cono-
scesse una trascrizione pianistica.
Nel 1892 la famiglia Bartók si trasferì a Beszterce,
cittadina della Transilvania settentrionale, con po-
polazione di lingua prevalentemente tedesca. Ecco
apparire nella vita di Bartók i primi risentimenti na-
zionalistici: qui avrebbe dovuto iscriversi alla prima
classe ginnasiale, ma non lo fece per non dover fre-
quentare una scuola tedesca. Qui ebbe occasione di
praticare la musica da camera insieme all’ingegnere
forestale Schönherr, buon dilettante di violino: suo-
navano tra l’altro la Sonata a Kreutzer di Beethoven.
Nell’estate 1893 troviamo Bartók a Nagyvarad, in
casa dello zio materno Lajos Voit. Qui il bambino si
sottrasse per un poco al regime patriarcale della sua
famiglia: lo zio lo conduceva, insieme ai suoi quattro
figli maschi e alle due femmine, a far lunghe escur-
sioni a piedi nella campagna: il suo fisico si irrobustì,
nacque in lui l’amore per la natura e per la vita girova-
ga, e si sviluppò quell’interesse per le scienze naturali
che non doveva più abbandonarlo. Qui cominciò la
raccolta e la classificazione di piante e d’insetti. An-
no lieto e benefico, il 1893 a Nagyvarad, dove Bartók
visse una volta tanto in maniera conforme alla sua età.
Capitolo secondo
La giovinezza (1894-1903)
1
Cfr. Béla, Balász, Il film, Einaudi, Torino 1952.
sa dal ritmo ben marcato delle danze popolari, che
Bartók e Kodály definirono come lo stile «rubato»
della canzone ungherese.
Ma il canto popolare qui è soltanto il punto di
partenza, per un impiego del tutto impopolare.
L’opera è ricercata, preziosa e pervasa di raffinata
stanchezza; non ha nulla dell’energia e della vivacità
popolaresca.
Come s’è detto, Il Castello di Barbablù ha per noi
un valore principalmente ermeneutico; è una chiave
preziosa per comprendere il senso di certi strumentali
che Bartók viene impiegando con sempre maggiore
frequenza e coerenza. Come le Arie del Fidelio ci spie-
gano in chiarezza d’esempi verbali il senso dell’idea-
lismo eroico cui s’ispira la musica di Beethoven, così
le scene del Castello di Barbablù ci forniscono infor-
mazioni preziose sulla concezione del mondo, sul sen-
timento della natura e sull’intuizione dell’uomo che
alimentano i Quartetti di Bartók, i suoi Concerti per
pianoforte, per orchestra e per violino, e le altre sue
maggiori composizioni strumentali.
La vicenda è di considerevole staticità. Consiste
praticamente nell’apertura successiva di sette porte,
dietro cui si racchiudono altrettanti segreti del castel-
lo di Barbablù, nel quale questi ha or ora condotto
la sua giovane sposa Giuditta. Fino a un certo punto
non è difficile interpretare il senso simbolico di tale
vicenda. Il castello è l’anima di Barbablù, che, come
già Lohengrin, non vuole ammettere la sposa alla to-
tale conoscenza di se stesso, del proprio passato, del
proprio mondo interiore. E la sposa invece vuole tut-
to conoscere, tutto rinnovare, e così corre alla propria
rovina. Forse si allude poeticamente alla incomunica-
bilità delle anime anche in seno all’amore.
Comunque sia, quello che a noi importa è che l’ope-
ra consiste dunque praticamente nell’apertura di sette
porte su altrettanti segreti. Musicalmente ciò si manife-
sta in sette episodi di struttura sostanzialmente binaria,
nelle cui parti si estrinseca musicalmente la «cosa» stes-
sa che c’è dietro la porta, e la reazione che essa desta
nell’anima di Giuditta. In ognuno degli episodi s’insi-
nua una dissonanza stridula (un intervallo di seconda),
che simboleggia il sangue, presente in ognuna delle vi-
sioni dischiuse dalle sette porte. La prima è la camera
di tortura: trillo dei violini sotto un grido stridulo degli
ottoni; la dissonanza è affidata alle trombe con sordina.
La seconda porta si apre sulla sala d’armi: fanfara di
corni, trombe, oboi e clarinetti; nei corni la dissonan-
za del sangue. Sala del tesoro: estatico accordo perfetto
di trombe e tremolo d’archi; la dissonanza del sangue
muove irrequieta nei flauti, oboi e clarinetti. Il giardino
magico: sortilegio strumentale in un fremere e vibrare
misterioso di tremoli d’archi, con richiami di corno e
clarinetto. Le terre di Barbablù: scoppio potentissimo
di solenni accordi perfetti, a piena orchestra con rinfor-
zo d’organo (ovvio riferimento ai grandi accordi della
Cathédrale engloutie di Debussy). Poi il dramma pre-
cipita verso la conclusione. Barbablù, che dapprima ha
cercato di dissuadere Giuditta e di fermarla sulla china
della curiosità ormai la incalza verso l’inevitabile fine.
La sesta porta si apre su misteriose cisterne. Che è tutta
quell’acqua? «Lacrime, Giuditta, lacrime.» Dalla setti-
ma porta escono le tre precedenti spose di Barbablù:
la sposa del mattino, la sposa del giorno, la sposa della
sera. Giuditta sarà la sposa della notte, e anche lei dovrà
seguirle, parata a festa, per sempre, nella settima cella.
A questo punto, chi ci capisce ancora qualcosa
nel significato simbolico della vicenda, è bravo. Ma
chiara è l’indicazione che viene da questo sogget-
to su certi caratteri salienti dell’arte di Bartók, che
si verranno via via sviluppando. Bartók appartiene
a quella categoria di artisti romantici che diciamo
visionari – come Hölderlin, Lenau, Tieck, Novalis
– o veggenti –, voyant, come fu definito Rimbaud.
Di quelle creature che Nietzsche definisce gli Hin-
terweltler, cioè che cercano e vedono l’al di là del-
le cose, l’altra faccia che esse presentano non già ai
nostri sensi, ma alla nostra intuizione. La realtà se-
conda che sta dietro l’apparenza fenomenica. La vita
segreta della Natura. La musica del Romanticismo
già si era spinta su questa strada, rivendicando a sé
l’espressione dell’ineffabile, dell’inconoscibile, e po-
nendosi come un linguaggio capace di stabilire con-
tatti immediati tra l’uomo e le cose: sentite, queste,
non già come inerti, ma al contrario come permeate
di una universale e panica animazione.
Il soggetto del Castello di Barbablù indica chiara-
mente questa concezione, mentre la musica si accinge
ancora timidamente a rendere col sortilegio del tim-
bro strumentale i brividi, i fremiti, il brusio e le voci
segrete della natura animata. Il canto è affidato a un
melodizzare infinito, di natura modale, nutrito cioè
degli antichi modi – dorico, lidio, frigio, eolio e miso-
lidio – presenti nel canto popolare ungherese.
1
Più propriamente, Il Mandarino incantato o prodigioso. Qui e più
avanti Mila si attiene alla traduzione-tradizione abitualmente in uso in
Italia. [N.d.C.]
di adescamento. Segnalato in orchestra da un tema
oscillante, d’accordi di quattro note, che suggerisce
vagamente, attraverso la deformazione modale pen-
tatonica, una reminiscenza di orientalismo oleografi-
co, si presenta il Mandarino, strano essere ripugnan-
te al quale la ragazza vorrebbe sottrarsi. Ma dai loro
nascondigli i tre furfanti le fanno cenni segreti per
incitarla a compiere il suo dovere. Inizia così, prima
tra brividi d’esitazione, poi sempre più audace, la
danza erotica di seduzione, seguita con spaventosa
fissità dallo strano cliente. Ma dopo essergli infine
caduta tra le braccia, la ragazza lotta per strapparsi a
lui, e vi riesce: il Mandarino la insegue come un for-
sennato, incespica, cade, si risolleva e infine la rag-
giunge. Questa caccia selvaggia, con le sue alterne
fasi nel disordine della stanza, è l’episodio conclusi-
vo della Suite che più tardi Bartók trasse dal balletto:
colossale fugato sopra un ostinato della percussione,
nella tensione d’un mostruoso crescendo, fa il paio
con il Sacre du Printemps come uno dei più impres-
sionanti effetti cataclismici della grande orchestra
moderna. Nessun dubbio che, insieme alla vertigine
recente dell’esasperazione espressionistica, sfiorata
in questi anni assai strettamente dall’ispirazione di
Bartók, affiora qui qualcosa del suo vecchio amore
giovanile per la rutilante magnificenza dell’orchestra
straussiana.
A strappare la ragazza dalle mani del Mandarino
balzano fuori i tre compari: lo derubano del denaro
e dei gioielli, poi decidono di ucciderlo, soffocandolo
sotto i guanciali. Ma non ci riescono. Lo trafiggono
tre volte con una vecchia spada arrugginita, e quel-
lo, pur vacillante ed esausto, non muore: continua a
fissare e cercare con bramosia la ragazza. Lo impic-
cano al lampadario, niente; il corpo del Mandarino
comincia a sfavillare d’una luce verde-azzurra, i suoi
occhi non si staccano dalla ragazza. E questa capisce
la ripugnante spiegazione del fenomeno: il Mandari-
no non può morire finché non avrà soddisfatto il desi-
derio che lo aveva spinto a lei. Solo allora le sue ferite
cominciano finalmente a sanguinare, ed egli muore
dopo una breve agonia.
IN ITALIANO
IN LINGUA STRANIERA
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