Copia Di
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CONSIGLIO SCIENTIFICO
Rosario AITALA - Geminello ALVI - Marco ANSALDO - Alessandro ARESU - Giorgio ARFARAS - Angelo
BOLAFFI - Aldo BONOMI - Edoardo BORIA - Mauro BUSSANI - Vincenzo CAMPORINI - Luciano CANFORA
Antonella CARUSO - Claudio CERRETI - Gabriele CIAMPI - Furio COLOMBO - Giuseppe CUCCHI - Marta
DASSÙ - Ilvo DIAMANTI - Augusto FANTOZZI - Tito FAVARETTO - Luigi Vittorio FERRARIS - Federico FUBINI
Ernesto GALLI della LOGGIA - Carlo JEAN - Enrico LETTA - Ricardo Franco LEVI - Mario G. LOSANO
Didier LUCAS - Francesco MARGIOTTA BROGLIO - Maurizio MARTELLINI - Fabio MINI - Luca MUSCARÀ
Massimo NICOLAZZI - Vincenzo PAGLIA - Maria Paola PAGNINI - Angelo PANEBIANCO
Margherita PAOLINI - Giandomenico PICCO - Romano PRODI - Federico RAMPINI - Andrea RICCARDI
Adriano ROCCUCCI - Sergio ROMANO - Brunello ROSA - Gian Enrico RUSCONI - Giuseppe SACCO
Franco SALVATORI - Stefano SILVESTRI - Francesco SISCI - Mattia TOALDO - Roberto TOSCANO
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Giulio TREMONTI - Marco VIGEVANI - Maurizio VIROLI - Antonio ZANARDI LANDI - Luigi ZANDA
CONSIGLIO REDAZIONALE
Flavio ALIVERNINI - Luciano ANTONETTI - Marco ANTONSICH - Federigo ARGENTIERI - Andrée BACHOUD
Guido BARENDSON - Pierluigi BATTISTA - Andrea BIANCHI - Stefano BIANCHINI - Nicolò CARNIMEO -
Roberto CARPANO - Giorgio CUSCITO - Andrea DAMASCELLI - Federico D’AGOSTINO - Emanuela C. DEL RE
Alfonso DESIDERIO - Germano DOTTORI - Federico EICHBERG - Dario FABBRI - Ezio FERRANTE - Wl´odek
GOLDKORN - Franz GUSTINCICH - Virgilio ILARI - Arjan KONOMI - Niccolò LOCATELLI - Marco MAGNANI
Francesco MAIELLO - Roberto MENOTTI - Paolo MORAWSKI - Roberto NOCELLA - Giovanni ORFEI
Federico PETRONI - David POLANSKY - Alessandro POLITI - Sandra PUCCINI - Benedetta RIZZO
Angelantonio ROSATO - Enzo TRAVERSO - Charles URJEWICZ - Pietro VERONESE - Livio ZACCAGNINI
REDAZIONE, CLUB, COORDINATORE RUSSIE
Mauro DE BONIS
DIRETTORE RESPONSABILE
Lucio CARACCIOLO
COORDINATORE LIMESONLINE
Niccolò LOCATELLI
COORDINATRICE SCIENTIFICA
Margherita PAOLINI
CARTOGRAFIA E COPERTINA
Laura CANALI
COORDINATRICE PER I PAESI ARABI E ISLAMICI
Antonella CARUSO
HEARTLAND, RESPONSABILE RELAZIONI INTERNAZIONALI
Fabrizio MARONTA
CORRISPONDENTI
Keith BOTSFORD (corrispondente speciale)
Afghanistan: Henri STERN - Albania: Ilir KULLA - Algeria: Abdennour BENANTAR - Argentina: Fernando
DEVOTO - Australia e Pacifico: David CAMROUX - Austria: Alfred MISSONG, Anton PELINKA, Anton
STAUDINGER - Belgio: Olivier ALSTEENS, Jan de VOLDER - Brasile: Giancarlo SUMMA - Bulgaria: Antony
TODOROV - Camerun: Georges R. TADONKI - Canada: Rodolphe de KONINCK - Cechia: Jan KR̆EN - Cina:
Francesco SISCI - Congo-Brazzaville: Martine Renée GALLOY - Corea: CHOI YEON-GOO - Estonia: Jan
KAPLINSKIJ - Francia: Maurice AYMARD, Michel CULLIN, Bernard FALGA, Thierry GARCIN - Guy HERMET,
Marc LAZAR, Philippe LEVILLAIN, Denis MARAVAL, Edgar MORIN, Yves MÉNY, Pierre MILZA - Gabon: Guy
ROSSATANGA-RIGNAULT - Georgia: Ghia ZHORZHOLIANI - Germania: Detlef BRANDES, Iring FETSCHER,
Rudolf HILF, Josef JOFFE, Claus LEGGEWIE, Ludwig WATZAL, Johannes WILLMS - Giappone: Kuzuhiro
JATABE - Gran Bretagna: Keith BOTSFORD - Grecia: Françoise ARVANITIS - Iran: Bijan ZARMANDILI - .Israele:
Arnold PLANSKI - Lituania: Alfredas BLUMBLAUSKAS - Panamá: José ARDILA - Polonia: Wojciech GIEŁZYŃSKI
Portogallo: José FREIRE NOGUEIRA - Romania: Emilia COSMA, Cristian IVANES - Ruanda: José KAGABO
Russia: Aleksej SALMIN, Andrej ZUBOV - Senegal: Momar COUMBA DIOP - Serbia e Montenegro: Tijana M.
DJERKOVIC´, Miodrag LEKIC´ - Siria e Libano: Lorenzo TROMBETTA - Slovacchia: Lubomir LIPTAK - Spagna:
Manuel ESPADAS BURGOS, Victor MORALES LECANO - Stati Uniti: Joseph FITCHETT, Igor LUKES, Gianni
RIOTTA, Ewa THOMPSON - Svizzera: Fausto CASTIGLIONE - Togo: Comi M. TOULABOR - Turchia: Yasemin
TAŞKIN - Città del Vaticano: Piero SCHIAVAZZI - Venezuela: Edgardo RICCIUTI
Ucraina: Leonid FINBERG, Mirosłav POPOVIC´- Ungheria: Gyula L. ORTUTAY
1Rivista mensile n. 12/2015 (dicembre)
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Amministratore delegato Monica Mondardini
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La Terza Guerra Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a
MONDIALE?
T E R Z O F E S T I VA L D I L I M E S
Genova, Palazzo Ducale, 4-6 marzo 2016
Come ogni anno, Limes e la Fondazione per la Cultura Palazzo Ducale organizzano a Genova,
nelle sale di Palazzo Ducale, il Festival di Limes. Quest’anno il tema prende spunto dalla
denuncia di papa Francesco:“Siamo entrati nella terza guerra mondiale, solo che si combatte a
pezzetti, a capitoli”. La domanda che ci porremo a Genova è se sia dunque in corso una terza
guerra mondiale, per quanto sui generis. La discussione prenderà spunto dal volume di Limes in
uscita per l’inaugurazione del Festival, dedicato interamente a questo tema, a partire dai
rapporti attuali fra le maggiori potenze.
Il Festival si articolerà come d’abitudine in tavole rotonde, destinate ad approfondire diversi
aspetti della domanda centrale, con la partecipazione di analisti e decisori italiani e stranieri. In
particolare, verranno afrontate questioni quali le conseguenze geopolitiche delle migrazioni,
il terrorismo jihadista e i modi per combatterlo, le strategie della Chiesa, le nuove tecniche
militari, le guerre economico-fnanziarie, gli aspetti ambientali, demografci e tecnologici delle
crisi in corso, la competizione fra Stati Uniti e Cina, lo scontro fra Russia e Occidente.
Tutti gli incontri sono aperti al pubblico, che potrà intervenire nei dibattiti con domande dirette
o online. Limesonline seguirà l’evento in diretta per tutta la sua durata.
Di qui all’apertura del Festival vi aggiorneremo sul programma, tanto via Limes che con
Limesonline, oltre che attraverso comunicati afdati ai principali media.
Ci vediamo a Genova!
tanti ragazzi’
29 Emanuela C. DEL RE - Kaduna, Nigeria: la convivenza possibile
37 Beatrice BOTTO, Benedetta PELUSIO, Vittoria STEFANINI, Michelangelo VALLICELLI - Lagos
la megalopoli del futuro
47 Marina BERTONCIN e Andrea PASE - I confini mobili del Lago Ciad
59 Esoh ELAMÉ - Il lago morente non si salva senza chi ci vive
67 Marina BERTONCIN e Andrea PASE - Perché non funzionano i piani
di agricoltura irrigua nel bacino del Lago Ciad
77 Marco FIORI - Il business delle specie rare che finanzia il terrorismo
83 Luca RAINERI - Il miracolo della pax mafiosa in Niger
LIMES IN PIÙ
AUTORI
221
224
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
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Parte I
nelle TERRE
di BOKO HARAM
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AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
E PLURIBUS, MULTI:
IL CALEIDOSCOPIO DEI
MUSULMANI DI NIGERIA di Gerardo FORTUNA
La travagliata genesi storica dell’islam nigeriano ha dato luogo a
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2. L’islam mise piede nel Nord del paese già ai tempi dell’impero Kanem-
Borno, che sin dal periodo medievale era considerato come il più importante
centro di cultura islamica del Sudan centrale 5. L’impero si estendeva su un terri-
torio limitato dell’attuale Nigeria, coincidente con la zona del Borno, abitata dal-
le popolazioni di lingua kanuri. La vera espansione islamica nell’area settentrio-
nale avvenne infatti con il jihåd lanciato agli inizi del XIX secolo da Usman Dan
Fodio contro gli Stati hausa 6. Sheu, come veniva chiamato, guidò le milizie di
etnia fulani alla conquista di tutta la regione abitata dagli hausa, giungendo al-
l’attuale Nord-Ovest del Camerun.
In seguito allo scontro politico e militare che vide vincitori i fulani, Dan Fo-
dio poté instaurare il califfato di Sokoto, che per influenza e prestigio sopra-
vanzò in Africa occidentale l’impero Kanem-Borno ormai in avanzata decaden-
za. Il jihåd di Dan Fodio e la potenza politica raggiunta dal califfato contribuiro-
no a islamizzare profondamente il Nord della Nigeria e l’eredità di tale esperien-
za politica permane viva nell’area. Al giorno d’oggi ci si riferisce collettivamente
agli hausa-fulani per indicare il gruppo etnico più numeroso dell’intera Nigeria:
fu proprio l’unità religiosa a costituire il collante sociale che permise ai due
gruppi etnici originari di parti diverse dell’Africa occidentale e precedentemente
in conflitto di mescolarsi, promuovendo i matrimoni misti e l’adozione di una
lingua comune.
Se con il califfato di Sokoto si è avuta per l’islam quella penetrazione territo-
riale che resiste ancora oggi, è stato il colonialismo a giocare un ruolo fondamen-
tale per l’affermazione del culto islamico nella regione. Secondo Mervyn Hiskett 7,
in meno di un secolo d’occupazione coloniale l’islam si sarebbe diffuso in Africa
occidentale più di quanto avesse fatto nei nove secoli precedenti 8. Nel califfato di
Sokoto i musulmani erano stimati in circa il 50% della popolazione all’inizio del
colonialismo 9; nel 1952, secondo il censimento ufficiale, erano arrivati al 73% 10.
fusione del Corano e, non da ultimo, un certo pregiudizio dei locali verso il cri-
stianesimo, visto come la religione dell’occupante bianco.
ne musulmana della Nigeria 13), stanziati soprattutto nella zona di Sokoto e di Ka-
no, ma anche nella città di Zaria. Lo sciismo era pressoché sconosciuto in Nigeria
prima degli anni Ottanta del Novecento e senza dubbio la sua diffusione è dovu-
ta all’opera di Ibrahim Zakzaki, il quale introdusse una forma sincretica che com-
bina elementi di sciismo e di sunnismo. Sebbene non si tratti di sciismo puro,
viene comunemente identificato come tale poiché enormi sono le somiglianze
con la tradizione khomeinista. Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a
solo recentemente 17. Quelli che oggi sono considerati yoruba, in tempi antichi
erano indicati con una pluralità di nomi che identificavano gruppi diversi (oyo,
ekiti, ondo, ijesha, ijebu, igbomina, egba, egbado, yaba, bunu), i quali adottava-
no un sistema politico per nulla unitario, simile invece a quello delle città Stato.
Ancora nel XIX secolo, questi gruppi erano in lotta per il controllo dei porti sul-
l’Atlantico, strategici per il commercio degli schiavi.
La peculiarità della costruzione successiva e volontaria dell’identità yoruba
ha permesso di improntare le relazioni interne alla tolleranza della diversità e alla
convivenza pacifica tra più culture. Il Nord, al contrario, trovò coercitivamente la
sua unificazione attraverso l’islam e il jihåd di Usman Dan Fodio. La centralizza-
zione del potere era necessaria alla sopravvivenza del califfato di Sokoto e fu
usata proprio la religione come strumento di solidarietà sociale. L’intransigenza e
l’integralismo dei musulmani del Nord è forse eredità di un’unità imposta, che
pure ha portato alla successiva accettazione di una convivenza pacifica tra hausa
e fulani. Al contrario, l’islamismo moderato degli yoruba è intrinsecamente colle-
gato alla natura tollerante affermatasi storicamente in una popolazione essenzial-
mente dominata da ceti mercantili.
Tutte queste circostanze consentono di contestualizzare l’estremismo di
Boko Haram e di fare giustizia di una vulgata che vuole l’islam nigeriano (e so-
vente, per esteso, l’islam tout court) un blocco monolitico ideologicamente «in
guerra» con le altre fedi, a cominciare da quella cristiana.
DIFFA, VIAGGIO
TRA GLI ULTIMI di Andrea DE GEORGIO
In questa città al confine tra Niger e Nigeria devastata da guerra
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1. N
ON È UN FIUME NÉ UN RUSCELLO. LO
chiamano rivière Komadugu Yobé. Un timido corso d’acqua che nasce dal Lago
Ciad, si dirama fra arbusti spelacchiati, tanta sabbia e qualche candida ninfea e
che aumenta sensibilmente la propria portata durante la stagione delle piogge,
da maggio-giugno a ottobre-novembre. «Da quando sono cominciate le piogge
ed è salito il Komadugu sono diminuiti gli attacchi dei “buoni uomini”». Già, per-
ché alla frontiera fra Niger e Nigeria i nemici non si possono nemmeno nomina-
re, tanto fanno paura.
Olivier è un congolese di una quarantina d’anni che lavora per l’Ufficio affari
umanitari (Ocha) dell’Onu a Diffa, «il capoluogo della regione più povera del
paese più povero al mondo», ed è responsabile per la sicurezza della pletora di
attori umanitari presenti e di cui deve rispettare anche le regole non scritte. Co-
me ad esempio non dire mai Boko Haram e sostituirlo con quel «buoni uomini»
che, pur avendo le medesime iniziali francesi, suona meno aggressivo. Tanto più
che da marzo la setta fanatica nigeriana ha cominciato a firmarsi «Stato Islamico
dell’Africa occidentale», confermando l’avvenuta affiliazione ai cugini ben più po-
tenti, ricchi e mediatizzati dell’Is. Un matrimonio che rende la setta jihadista
saheliana ancora più pericolosa.
Ali gioca nervosamente col kalashnikov senza staccare lo sguardo di ragazzi-
no cresciuto troppo in fretta dalla sponda opposta della rivière. La gomma che
mastica senza sosta non riesce a coprire l’alito alcolico. Gli occhi rossi tradiscono
tutto il «gin in sacchetto» tracannato stamattina per non sentire la paura della mis-
sione. L’esercito nigerino di stanza a Diffa è formato quasi esclusivamente da gio-
vanissimi soldati male equipaggiati, che vengono spediti al fronte senza addestra-
mento e con poca voglia di morire per servire in una guerra che non gli è mai
stata nemmeno spiegata. «Non so chi siano, se sono musulmani, cristiani, nigeria- 15
DIFFA, VIAGGIO TRA GLI ULTIMI
ni, nigerini o di quale altro paese. A noi hanno detto solo di stare attenti all’altra
riva. E se vediamo qualcuno spariamo».
Alcuni mesi fa, quando la stagione secca bruciava questa terra, il Komadu-
gu era quasi completamente asciutto e lo si poteva attraversare con un passo.
Dall’altra parte del rigagnolo d’acqua, a neanche tre chilometri in linea d’aria
dalla strada asfaltata che segna l’inizio del Niger meridionale, c’è la Nigeria.
Una striscia lunga oltre 350 chilometri sul confine dei due paesi completamente
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2. Anche Olivier, che ascolta da lontano, lancia uno sguardo allo scorrere
lento dell’acqua prima di alzarlo verso la sponda opposta. «Più in là, a qualche
chilometro, c’è un ponte che prima collegava il Niger alla Nigeria. Ma ora è sbar-
rato, militarizzato. Nessuno si può avvicinare. Qualche chilometro dopo si co-
mincia a intravedere il Lago Ciad».
Quel lago, condiviso da Nigeria, Niger, Ciad e Camerun e che da sempre ha
collegato genti e merci di questi paesi, è oggi un buco nero nella cartina della re-
gione. Ai primi attacchi di Boko Haram sulle isole del lago a inizio anno hanno
risposto le incursioni di Ciad, Niger e Camerun che hanno temporaneamente
soffocato la minaccia. Dai primi di novembre, però, il Ciad ha nuovamente di-
chiarato lo stato d’emergenza nella regione lacustre a causa dei continui attentati.
Come ricorda Olivier, dell’Ocha, «oggi pochi civili sono rimasti a vivere sulle iso-
le. Ci sono solo militari male organizzati e guerriglieri della setta. La regione di
Diffa, come quella di Bosso (l’altra località nigerina che si affaccia sul Lago Ciad,
n.d.r.) aspettano il dispiegamento della forza multinazionale contro Boko Haram.
Per adesso sul terreno sono rimasti solo degli avamposti degli eserciti locali, ma
non si sono ancora visti gli 8.700 uomini promessi dagli incontri internazionali».
Il problema principale riguardo al dispiegamento della Multinational Joint
Task Force (cui gli Stati Uniti hanno promesso 45 milioni di dollari, supporto lo-
gistico e formazione da aggiungere ai 300 uomini e ai droni di sorveglianza già
dispiegati in Camerun e ai due aerei regalati al Niger) pare essere legato, secon-
do fonti diplomatiche ben informate, ai crescenti dubbi circa la volontà del neo-
presidente nigeriano Muhammadu Buhari di farla finita con Boko Haram e alla
leadership della stessa Nigeria, osteggiata dal Ciad (per ora l’unico attore ad aver
16 sconfitto i fanatici di Abubakar Shekau sul campo).
Discariche Mercati e-waste
LAGOS, LA MEGALOPOLI DEL FUTURO
Sviluppo urbano di Lagos Conformazione
Nel 1850 del territorio
Mangrovie - Rifuti - Importazione di materiale elettrico
nel 1900 - Riciclaggio plastica alla fne del suo ciclo di vita.
Foresta - Metalli - Esportazione e vendita in Nigeria
dal 1963 al 1978 e all’estero delle stesse
Laguna apparecchiature ricondizionate
Lagos oggi
(area costruita) Confne tra Stati Principali strade
nigeriani Porti importanti Ikorodu Nomi dei quartieri
0 6 12 km
Zone di case galleggianti
Stato di Ogun
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MAURITANIA m
0k
00
1. NIGER SUDAN
SENEGAL
Sahel MALI ERITREA
CIAD YEMEN
GAMBIA Sahel Lago Ciad
BURKINA Dārfūr Sahel
GUINEA B.
GUINEA FASO BOKO GIBUTI
HARAM SOMALIA
NIGERIA
BENIN
COSTA
SIERRA LEONE Seleka SUD SUDAN ETIOPIA
TOGO
D’AVORIO
GHANA
CENTRAFRICA
LIBERIA
CAMERUN
anti-Balaka Lra al-
al-Š
Šabab
REP. DEM. KENYA
UGANDA
O
Bol
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é Baga Sola
Yob
gu
adu
Difa m
Ko Lago Ciad
me
Fiu
]
]
Koulfoua
Stato del Borno Baga Kawa
Damassak Tétéwa
Kouloudia Massakory
Kofya Kinasserom
Kukawa Guitté
NIGERIA Karal
Darak
Tourba
Monguno Mani
Strade
Blangoa Douguia
Strade in costruzione Fiu
me Il Fiume Chari porta
Strade in progetto/ Ch
sentieri Makari ari l’83% dell’acqua
Villaggi/cittadine presente nel Lago Ciad
Fotokol
CAMERUN
Moli permanenti Negli ultimi due decenni la superfcie
Goulfey del lago si è ristretta e la maggior parte
Moli esistenti solo in Marte
presenza di acque alte di essa risulta coperta da acquitrini,
Ngala mentre le acque libere sono vicine
Campi profughi ©Limes al delta del fume Chari.
Fonte: Atlas du Lac Tchad - Passages 2015 e autori di Limes
BOKO HARAM
NIGER
Regione di Difa Attacco ad un mercato
Bosso e a un campo profughi
ZINDER 57 attacchi tra febbraio e ottobre 2015
Almeno 41 morti
(Regione del Niger) Baga Sola
Lago Ciad
SOKOTO Geidam Baga
Maiduguri
YOBE 23/11/2015 N’Djamena
Attentato in una moschea BORNO
2/10/2015
5 ragazze kamikaze
Kano Hazare Potiskum si fanno esplodere 11/07/2015
Esplosione in un mercato
circa 14 morti
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Foresta Bama
Tundun-Wada Gujba di Sambisa
Yana
Raid di uomini armati
contro una scuola Gwoza
Zaria Ikara 29/9/2013 Mora CIAD
Chibok
15/4/2014 Maroua
Rapimento di quasi
Bauchi 300 ragazze minorenni
Gombe da una scuola superiore CAMERUN
N I G E R I A Jos ©Limes
6/7/2015
Madalla Due esplosioni e uccisione ADAMAWA Lo heartland
25/12/2011- Attentato in una chiesa di un leader religioso Yola di Boko Haram
schierato contro Boko Haram 18/11/2015
Fiu
Esplosione in un mercato. I 3 Stati federati
me in cui Boko Haram
N ige Oltre 30 persone uccise commette più attentati
r ABUJA e 80 ferite.
26/8/2011 - Attentato alle Nazioni Unite 23/11/2015 Altri Stati federati
14/4/2014 - Attacco suicida a una fermata dell’autobus 27 persone uccise da un’esplosione della Nigeria
in una moschea e 96 ferite 14/10/2015 Città controllate
Dispiegamento da Boko Haram
Califato di Sokoto di 300 soldati americani
e droni da sorveglianza Montagne
(1809-1903) in Camerun Mandara
Creazione della Multi-National Joint Task Force
con 10.500 soldati di Camerun, Nigeria, Niger, Attacchi terroristici
nel Nord del Camerun
Ciad, Benin. Quartier generale a N’Djamena.
Base operativa a Mora (Camerun) Incursioni e attentati
Lagos Confni Stati di Boko Haram
@Limes della Nigeria dal 2014 al 2015
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
mo anno dai governanti dei paesi del Lago Ciad), era in letargo. Probabilmente
viveva una fase di riorganizzazione e ridispiegamento di cellule periferiche nelle
città e nei villaggi fuori dai confini della Nigeria, soprattutto attorno al lago,
mentre il comando operativo si è ritirato prima nella foresta di Sambisa e poi sui
monti Mandara, al confine fra Nigeria e Camerun. I capi restano in costante co-
municazione con i comandanti di cellule dormienti di 5, 10, massimo 20 ele-
menti e ne dirigono da lontano le azioni destabilizzatrici. Per dare meno nell’oc-
chio, queste unità si muovono e attaccano prevalentemente a piedi o a cavallo.
Gli operativi sono giovani e giovanissimi spesso drogati e armati di coltello o
bastoni; solo il capo brigata ha il fucile, le granate (quando ne hanno) e il te-
lefono cellulare.
Attraverso repentini cambi di strategia, i seguaci di Shekau hanno sorpreso
ancora una volta le Forze di sicurezza nigerine con l’attacco a Diffa del 4 otto-
bre: quattro kamikaze in quattro zone diverse della città che agiscono contem-
poraneamente gettando la popolazione nel panico. Un quinto elemento del
gruppo di fuoco fermato appena prima di azionare la cintura esplosiva. Cinque
civili e un militare ucciso, oltre ai quattro kamikaze. Il risultato principale dell’a-
zione terroristica è aver riportato in un sol colpo diffidenza e paura a Diffa. «Gli
attentatori erano tutti giovani della città, li conoscevamo. Questo ci ha sconvol-
to. Pensavamo che il fiume ci proteggesse dall’esterno, dal Nord della Nigeria, e
invece il nemico era già all’interno della città». Olivier non può che ammettere,
rammaricato, gli errori delle proprie analisi prima dell’attacco a Diffa, il 57° at-
tentato da febbraio nella regione.
Ogni città e villaggio che si affaccia sul Lago Ciad è controllato da spie e
sentinelle di Boko Haram, che oltre alla qualità del proprio sistema d’intelligen-
ce denota presenza e capacità persuasiva sempre più capillare, fondata soprat-
tutto sulla violenza della repressione contro chi si ribella o tradisce la setta. Se
alcuni attacchi ai villaggi sono scorribande per terrorizzare i civili e procurarsi
da mangiare, altri appaiono piuttosto spedizioni punitive nei confronti di colla-
borazionisti e informatori delle Forze speciali francesi o americane presenti sul
terreno, a cui viene tagliata la gola e bruciata la casa.
nesi hanno abbandonato tutto, compresi i mezzi, dopo aver completato soltanto
metà dei 120 chilometri previsti.
Prima di arrivare al primo posto di blocco ed entrare in città la strada asfal-
tata divide la sponda del Komadugu da un mare di campi rinsecchiti, nonostan-
te le piogge abbondanti di quest’anno. Piantine basse coprono la terra brulla a
perdita d’occhio. Il pepe era l’oro rosso di Diffa: prima del passaggio dei “buoni
uomini” il principale volano dell’economia della regione di Diffa era rappresen-
tato dalla coltivazione ed esportazione del pepe. Ai primi di febbraio, però, so-
no cominciati a spuntare fucili e munizioni nascosti nei cassoni di camion cari-
chi di pepe, impossibili da controllare senza il metal detector di cui sono sprov-
viste le Forze di sicurezza nigerine.
Come succede anche nel commercio del pesce del Lago Ciad e nelle altre
principali attività economiche delle popolazioni locali, Boko Haram riesce a ri-
scuotere il pizzo sul passaggio nei territori che controlla. Per questo il governo
di Niamey ha deciso di imporre a Diffa lo stato d’emergenza, con il divieto di
alcune coltivazioni che giovano alla setta (il pepe, appunto) o che, impiegando
piante a stelo alto, potrebbero nascondere persone (il mais), oltre al commercio
di molti altri beni (come il pesce). Altra misura preventiva è il divieto assoluto
dell’utilizzo di motocicli, mezzo preferito da Boko Haram per gli attacchi veloci,
oltre che principale mezzo di trasporto in zone rurali come quella di Diffa.
L’assenza di moto e motorini, generalmente onnipresenti nei centri abitati
del Sahel, rende questa città ancora più desolata e spettrale. Per i giovani avere
il motorino è anche, dopo il cellulare e prima di una casa propria, una tappa
importante della costruzione identitaria. Il primo effetto di tali restrizioni è stato
l’aumento della disoccupazione, che unito alla crescita sfrenata dei prezzi al
consumo ha messo in ginocchio le popolazioni locali. Circa un migliaio di auti-
sti di moto-taxi, un mezzo molto utilizzato per collegare la città ai villaggi, ha
improvvisamente perso il lavoro senza capirne il motivo. Di questi solo trecento
erano legalmente registrati. Di questi trecento regolari, un progetto finanziato da
Usaid ne ha selezionati cinquanta per un programma di finanziamento di nuove
«attività generatrici di rendita». Ognuno di loro ha ricevuto quattro montoni da
allevare e rivendere prima della festa del tabaski (equivalente della festa islami-
ca del sacrificio, ‘ød al-aîõå). A fronte dei cinquanta aiutati però, vi sono 950
nuovi esclusi che, in assenza di alternative, prima o poi passeranno nelle file
dello Stato Islamico.
18
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
4. Diffa appare subito una città fantasma da cui scappare. Le strade del cen-
tro, i banchi del grand marché, i luoghi di culto come moschee e chiese cristiane
(ce ne sono due) sono vuoti, desolati. Sguardi tetri e vagamente ostili di giovani
nullatenenti sdraiati all’ombra degli alberi rincorrono le jeep militari e delle ong
che sfrecciano alzando la polvere. Per la grave crisi socioeconomica e l’aumento
progressivo dell’insicurezza, più di un terzo della popolazione della regione di
Diffa (secondo i dati Ocha) ha abbandonato le proprie case, prima spostandosi
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dai quartieri meridionali a quelli settentrionali della città, poi scappando a Mara-
di, Zinder e Niamey. Successivamente è toccato agli amministratori mandati da
Niamey e agli operatori umanitari «espatriati», africani non nigerini o europei neri
che hanno temporaneamente chiuso progetti per motivi di sicurezza, come ha
fatto Medici senza frontiere a febbraio dopo la prima ondata di attacchi.
C’è da considerare anche che più di 150 mila profughi nigeriani in fuga dal
terrore sono arrivati a Diffa negli ultimi due anni, investendo una popolazione
autoctona che non raggiunge le 600 mila anime. La maggior parte dei nigeriani
vengono da Maiduguri, Damasak e Baga e sono ospitati da famiglie di Diffa che
affittano le case abbandonate dai propri familiari scappati, ottenendo così il sup-
porto delle ong. I campi profughi come quello di Assaga, a una settantina di chi-
lometri da Diffa, sono abitati da profughi nigeriani e da sfollati nigerini in condi-
zioni igienico-sanitarie precarie, cui si aggiungono malnutrizione e crisi alimenta-
ri cicliche. Una lingua di cemento attraversa tutto il campo e divide le tende che
puntellano l’orizzonte di sabbia in Assaga-Niger (a sinistra) e Assaga-Nigeria (a
destra). Le donne, in netta maggioranza nel campo, raccontano che uomini di
Boko Haram tentano di rapirle la sera, quando si allontanano dalle tende per fa-
re i propri bisogni, e che i loro mariti sono stati arrestati dall’esercito nigerino so-
lo perché nigeriani. I bambini, invece, raccontano gli orrori di cui sono stati testi-
moni in Nigeria attraverso disegni intrisi di sangue, fuoco e donne mascherate
che indossano cinture esplosive. Nuovi confini di diffidenza e paura che si ag-
giungono a quelli reali, dislocati solo qualche chilometro più a sud. In questa
convivenza forzata nei campi profughi i nigerini sospettano dei nigeriani e vice-
versa, proprio come in città.
Per le strade di Diffa circolano pochi uomini, soprattutto adolescenti, tanti
anziani e donne. Gli uomini riempiono le carceri in attesa di processo oppure le
file di Boko Haram in attesa di vendetta. I padri non ci sono più, spariti fra le
pieghe di una guerra locale ma anche molto globale, perché le domande e le cri-
si identitarie dei giovani uomini rimasti a tenere in piedi famiglie sfilacciate dai
conflitti sono simili a quelle che si pongono i loro coetanei nelle periferie parigi-
ne. A Diffa le madri non hanno di che sfamare i piccoli, le ragazze si sposano
giovani per scappare lontano, i figli maggiori non hanno lavoro né futuro e ven-
gono continuamente sospettati di simpatizzare per Boko Haram.
Quelli che non riescono a intercettare qualche soldo dei progetti o a lavora-
re come autisti o vigilantes nelle ong, prima o poi effettivamente entrano nei
ranghi dell’Is, che promette uno stipendio attorno ai 500 euro, di cui una parte 19
DIFFA, VIAGGIO TRA GLI ULTIMI
versata subito alla famiglia. Ecco come le incursioni in città e villaggi portano a
gendarmeria e brigata speciale antiterrorismo dell’Esercito nigerino un bottino
giornaliero di 25-30 arrestati, tutti sospettati di essere “buoni uomini”, compresi
quelli accusati di reati comuni. Al calar del sole a Diffa si vedono sfrecciare
pick-up verdi o blu carichi di prigionieri. File di ragazzotti spalluti legati e ingi-
nocchiati, con il volto coperto da sciarpe o turbanti. Vengono portati nelle basi
militari o alla gendarmeria, picchiati, interrogati, schedati e spediti nelle carceri
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5. Sono più di 1.100 i presunti militanti di Boko Haram arrestati nella regio-
ne di Diffa da febbraio a novembre, secondo dati ufficiali del governo nigerino
che chissà quanti ne tralascia. Più di una cinquantina di loro sono reclusi nella
sezione minorile del carcere di Niamey. Ragazzini come Mamadou, che non ar-
riva a quattordici anni e non è mai andato a scuola. I suoi compagni di cella so-
no metà nigeriani e metà nigerini, tutti accusati di aver combattuto o collaborato
con lo Stato Islamico dell’Africa occidentale. Mamadou guarda a terra e si tira la
maglietta del Milan davanti alle domande dello psicologo dell’ong italiana Coo-
pi. Racconta la propria storia come ogni volta che gli viene chiesto, come fosse
un disco rotto. «Sono stato prigioniero di Boko Haram per quaranta giorni, poi
sono riuscito a scappare».
Tolto qualche particolare le storie di questi adolescenti dallo sguardo sperso
sono tutte simili. Parlano di reclutamenti forzati o vendite da parte della propria
famiglia affamata e di lavaggi del cervello in cui la componente religiosa, l’islam,
sembra un elemento ideologico secondario rispetto al tribalismo e al militarismo.
Mamadou, che al villaggio vendeva pesce alla bancarella del padre e cantava
canzoncine irriverenti contro Boko Haram, è stato rapito dal vicino di casa e rin-
chiuso in un campo d’addestramento in Nigeria. Qui gli è stato proposto per tre
volte di indossare una cintura esplosiva e farsi saltare in aria all’aeroporto di Dif-
fa. Al terzo rifiuto del ragazzino, cioè davanti a morte certa, una guardia s’impie-
tosisce e lo lascia scappare. Arrivato dopo un viaggio rocambolesco a Diffa il
racconto si chiude con il sospetto, l’arresto, l’invio in questo carcere di Niamey e
la reclusione da oltre sei mesi senza processo né assistenza legale.
Diffidenza, dinamiche di esclusione e autoesclusione, ghettizzazione, degra-
do sociale ed economico, disoccupazione. Elementi trascurati da governanti lon-
tani indaffarati a spartirsi torte planetarie, mentre una fascia crescente della po-
polazione, in maggioranza giovani ma non solo, crede di poter curare delusioni
e crisi identitarie ricercando nuove forme di comunità, a volte estreme e violente.
Nuovi modi (distorti) di far sentire la propria voce in un mare d’indifferenza e
autoreferenzialità. Succede ai foreign fighters nostrani, succede ai giovani di
Boko Haram e di al-3abåb in Somalia, succede in Francia come in Niger. Ovun-
que si continua a sottovalutare la portata deflagrante di tali sconvolgimenti.
A Diffa l’esercito nigerino è teso, nervoso. Quando interviene per qualche
20 segnalazione in un bar o in un’abitazione di un quartiere periferico, «la prima co-
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
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AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
tanti ragazzi’
Conversazione con ISSA, nigerino, funzionario dell’Organizzazione internazionale
per le migrazioni a Diffa; ADAMA, nigerino, medico di Medici Senza Frontiere nella
regione di Diffa; OLIVIER, congolese, responsabile della sicurezza dell’Organizza-
zione Onu per gli affari umanitari nella regione di Diffa; MAMADOU, quattordicen-
ne nigeriano recluso a Niamey con l’accusa di aver combattuto per Boko Haram*,
a cura di Andrea DE GEORGIO
LIMES Cos’è cambiato nella vostra vita quotidiana dall’arrivo di Boko Haram?
MAMADOU Ero bambino quando nel nostro villaggio, nel Nord della Nigeria, ab-
biamo cominciato a sentir parlare di questo gruppo. Da piccolo pensavo fosse-
ro leggende inventate dai grandi per spaventarci, ma poi crescendo ho capito
che era tutto vero. Queste storie le ascoltavamo da persone che arrivavano nel
nostro villaggio da posti lontani o alla radio. Nessuno pensava che un giorno
questa gente potesse arrivare da noi.
ISSA È dalla fine del 2014 che sono cominciati gli attacchi di Boko Haram nella
parte settentrionale della Nigeria, quella che confina col Niger: a Damasak e a
Malam Fatori. Già dal novembre di quell’anno la minaccia ha cominciato a pe-
sare sulla regione di Diffa. Numerosi tentativi d’infiltrazione di combattenti del-
la setta terroristica sono stati registrati dal febbraio 2015 a oggi. Sono interessati
alla regione di Diffa perché qui molti simpatizzano già per loro e ci sono le
condizioni socioeconomiche adatte a reclutare nuovi militanti. Molti giovani e
meno giovani della regione si sono uniti a Boko Haram negli ultimi mesi, for-
nendo informazioni preziose al gruppo per poter organizzare attentati che mol-
to spesso sono indirizzati, oltre che a obiettivi militari sensibili, anche a liberare
i prigionieri dal carcere della città, per poi magari tentare di occuparla.
OLIVIER Oggi si parla di Diffa solo in relazione al movimento di persone classi-
ficate come profughi e sfollati nella guerra a Boko Haram, ma la situazione
umanitaria di questa regione – che, bisogna ricordarlo, è la più povera del pae-
se più povero al mondo secondo l’Indice di sviluppo umano – era già critica. I
primi volontari intervenuti nell’emergenza dei profughi nigeriani sono stati gli
* Per ragioni di sicurezza gli intervistati hanno chiesto di essere citati senza cognome. 23
‘PERCHÉ BOKO HARAM AFFASCINA TANTI RAGAZZI’
vani diventano dipendenti dalla droga che viene loro somministrata nei campi
di addestramento. I nuovi arrivati vengono inoltre minacciati di continuo: se la-
sciano il gruppo le loro famiglie verranno perseguitate e uccise. Sono in trap-
pola, sono obbligati a restare legati alla setta. Sono carne da macello, schiavi
della guerra.
ISSA È risaputo però che le famiglie incassano i salari dei giovani partiti con
Boko Haram. Esistono reti di trasferimento di denaro che mantengono interi
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hanno che armi bianche, coltelli soprattutto. Questo è dovuto alla carenza di
armi e munizioni dopo l’offensiva di Ciad e Niger, ma anche alla necessità di
confondersi con le popolazioni locali e sfuggire ai controlli di polizia ed eserci-
to del Niger. Prima facevano attacchi in moto, oggi invece usano i cavalli o
marciano a piedi. Questa è la prova che sanno cambiare a seconda delle circo-
stanze. Sono questi gruppuscoli che si spostano a piedi o a cavallo i più peri-
colosi; attaccano i piccoli villaggi per razziare quello che riescono, anche cibo,
e mandarlo nella foresta. I quadri militari preferiscono rimanere nascosti, per
dare meno nell’occhio. Con questa organizzazione capillare e dislocata, Boko
Haram riesce a trovare sempre nuove soluzioni per aggirare le misure messe in
campo dagli eserciti regolari. È la guerriglia asimmetrica, che sfrutta a proprio
favore la pesantezza dei dispositivi militari e le difficoltà organizzative e logisti-
che d’intervento in campo aperto.
LIMES Cosa rappresenta il Lago Ciad in tutto questo?
MAMADOU Mi ricordo che andavo con mio padre e gli altri bambini del villaggio
a pescare sul lago [Ciad]. Poi trasportavamo il pesce fino a casa e durante il
viaggio lo vendevamo nei mercati delle città che attraversavamo. Papà era con-
tento: il lavoro era duro, ma riuscivamo sempre a portare un po’ di soldi alla
mamma. Nel lago c’era pesce per tutti. Ma negli ultimi anni è stato diverso. È
sempre più difficile pescare, uomini armati ci infastidiscono e ci chiedono soldi
lungo il percorso. Il lago si è riempito di militari ed è pericoloso avvicinarsi.
Chiedono soldi anche loro.
OLIVIER Il controllo del Lago Ciad è senza dubbio uno degli obbiettivi di Boko
Haram: ecco perché continuano le operazioni di rastrellamento sulle rive e sul-
le isole. Destabilizzando l’intera regione del lago, che si estende per oltre venti-
mila chilometri quadrati – la dimensione del Belgio per intenderci – la setta è
riuscita a infiltrarsi in tutte le attività economiche delle popolazioni che viveva-
no dei commerci lacustri. Ma non bisogna sottovalutare l’aspetto ambientale.
Tra il 2013 e il 2014 una serie di esondazioni del Komadugu Yobe ha causato
diversi danni e sfollati nella regione di Diffa. L’anno scorso sulla zona si è ab-
battuta anche un’epidemia di colera. Quella che oggi è una barriera securitaria,
domani potrebbe tornare ad essere fonte di ulteriori problemi per la popolazio-
ne locale, se non si rispetta la natura.
ISSA Bisognerebbe pensare a una sorta di Piano Marshall per la regione di Diffa
26 e per l’intero Lago Ciad. Tutta l’economia che gravitava attorno al lago è stata
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
messa in crisi dal conflitto. Il lago è pieno di pesce che non viene pescato, è
una grande potenzialità sprecata, una risorsa mal gestita e trascurata dai gover-
ni degli Stati che ne condividono le sponde. Molte persone che vivono in que-
sta regione dipendevano dalla pesca e oggi sono sul lastrico, anche a causa
della militarizzazione dell’intera zona.
ADAMA In più, gli eserciti della regione – come ad esempio quello nigerino – so-
no malpagati, male equipaggiati e disorganizzati. Fanno fronte a un gruppo che
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operatori che accettino di esporsi in zone così rischiose e remote come Diffa e
Bosso. Ci arrangiamo con quello che abbiamo. Stiamo comunque cercando di re-
clutare infermieri e ostetriche locali per lanciare nuovi programmi nei campi pro-
fughi, come quello di Assalga, ma è difficile trovare persone qualificate e motiva-
te a lavorare qui. Lo stesso problema riguarda i funzionari di Stato. Anche noi di
Msf abbiamo sospeso i progetti nella regione e richiamato il personale non locale
a Niamey. Oggi siamo di nuovo sul terreno, ma le nostre famiglie – come quelle
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AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
KADUNA, NIGERIA:
LA CONVIVENZA POSSIBILE di Emanuela C. DEL RE
Lo Stato federato nigeriano e l’omonima città sono un
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che a danno di uomini in pieno giorno e in mezzo alla strada diventano fonte di
grande ilarità nei film. Si ripiomba nella realtà quando si visitano i villaggi rurali
nello Stato di Kaduna, dove piccole case di adobe ospitano centri per la riconci-
liazione tra parenti delle vittime degli scontri violenti e parenti dei perpetratori. Si
riuniscono confortati dai simboli della loro fede: piccoli poster di Madonne e Ge-
sù, copie dorate del Corano. Molti i corpi mutilati, orrende le cicatrici anche sui
corpi e i volti dei bambini. Si incontrano spesso nelle campagne inquietanti vil-
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laggi fantasma in cui tutte le case sono state date alle fiamme e i cui abitanti fug-
giti sono sfollati da anni. Nessuno si sente al sicuro, ed è per questo che è neces-
sario creare un clima di fiducia e riconciliazione.
tasso di disoccupazione in Nigeria è di circa il 20% e in alcune aree del Nord rag-
giunge il 50%. Abukabar 1 sostiene che sia questo il motivo alla base di terrori-
smo, rapimenti, rapine a mano armata, attacchi bomba, corruzione e altro. Il pro-
blema sta nel tasso di disoccupazione della popolazione in età lavorativa, perché
i giovani poveri e pieni di energia sono i primi a cadere nelle reti criminali come
manovalanza o a intraprendere percorsi criminali individuali o di gruppo.
Kaduna è tra le sei città con il più alto tasso di disoccupazione del paese.
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1. M. ABUBAKAR, «NDE’s Failure to Reduce Unemployment in Nigeria», Daily Independent, agosto 2012.
2. M. IBRAHIM, «Addressing Threat of Youth Unemployment in the North», People’s Daily, 25/2/2014.
3. K.U. OMOYIBO, «Marx and the Nigerian State», European Scientific Journal, vol. 8, n. 11, 2012,
pp. 20-33.
4. Intervista concessa all’autore dal pastore Wuye sui giovani in Nigeria, goo.gl/W0Rln1 31
KADUNA, NIGERIA: LA CONVIVENZA POSSIBILE
Tra le molte donne che ricoprono ruoli significativi vi è Lydia Umar 5 del
Gender Awareness Trust (Gat) di Kaduna, impegnata ora a far sì che lo Stato ni-
geriano metta in atto il National Action Plan previsto dalla risoluzione 1325 delle
Nazioni Unite per le donne. Lydia, educatrice per formazione, combatte per in-
nalzare il livello d’istruzione delle donne a Kaduna, per trovare loro impiego e
favorire l’imprenditoria femminile, la partecipazione politica e altro. Sostiene che
sono le iniziative della società civile le più promettenti per l’economia e lo stan-
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Equilibrismi di mentalità
Nel Duemila Kaduna si ritrovò sulle prime pagine dei giornali mondiali per-
ché il governo dello Stato aveva annunciato l’adozione della šarø‘a (la legge isla-
mica), causando violenti scontri tra cristiani e musulmani con circa duemila mor-
ti, oltre diecimila feriti e sessantamila sfollati. Furono distrutte migliaia di abitazio-
ni e 170 tra chiese e moschee. La città divenne un luogo diviso tra due comunità:
i cristiani a sud e i musulmani a nord.
Nel 2002 Kaduna ha vissuto ancora momenti di terrore per l’ondata di vio-
lenza causata da un controverso articolo di giornale che suggeriva che il profeta
Maometto avrebbe approvato il concorso di Miss Mondo che doveva aver luogo
proprio in città. Durante i tre giorni di violenza, noti come «scontri di Miss Mon-
do», vi furono duecentocinquanta morti e un esodo di trentamila persone.
Quegli eventi portarono il governatore dello Stato di Kaduna Ahmed Makarfi
ad approvare delle importanti riforme conosciute come «compromesso di Kadu-
na», diventate un modello di riferimento per altri Stati nigeriani. Secondo le nor-
me, il codice penale della šarø‘a viene applicato solo nella comunità musulmana;
è stato creato un sistema tripartito di tribunali in cui coesistono un tribunale se-
colare, uno tradizionale e uno islamico, offrendo un sistema giudiziario che co-
pre tutto lo spettro religioso. Inoltre, i leader religiosi e tradizionali hanno ancora
una forte influenza nelle comunità e spesso danno assistenza nei processi di me-
diazione. Il compromesso ha anche il merito di garantire che i cristiani abbiano
dei leader riconosciuti dallo Stato nelle loro zone amministrative, per facilitare la
risoluzione pacifica del conflitto in atto.
Dal 2009 la più grande minaccia alla pace a Kaduna proviene dal gruppo
islamico radicale di Boko Haram (Ãamå‘at Ahl al-sunn li’l-da‘wa wa ’l-ãihåd,
Gruppo per la propagazione degli insegnamenti del Profeta e del jihåd). Esso ha
finora colpito obiettivi come le stazioni di polizia e altri edifici governativi, ma
anche scuole e chiese, proprio allo scopo di scatenare scontri tra cristiani e mu-
sulmani. Nel 2011 il gruppo aveva attirato l’attenzione con l’attacco agli uffici del-
le Nazioni Unite ad Abuja. In seguito, ha bombardato molte città in tutto il paese
negli «attacchi di Natale» e nel giugno 2012 ha colpito una chiesa a Kaduna. Sono
seguiti sanguinosi scontri tra musulmani e cristiani in tutto lo Stato, in cui è stato
imposto il coprifuoco di 24 ore fino al successivo agosto.
Le azioni di Boko Haram, che hanno causato la morte di migliaia di persone
dal 2009, hanno lasciato la società civile sgomenta e incapace di reagire. Il gover-
no sta però attuando una politica di sicurezza basata sull’aumento delle campa-
gne militari, più che sul rafforzamento delle forze di polizia. Se il governo è stato
capace di colpire i leader del gruppo estremista, al contempo vi sono sempre at-
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6. M. WINDSOR, «Suspected Boko Haram Bombing In Kaduna State Kills at Least 25 People», Interna-
tional Business Times, 7/7/2015.
7. O. OJO, 40 Old Photos that Will Show You How Times Have Changed in Nigeria, 29/4/2015. 33
KADUNA, NIGERIA: LA CONVIVENZA POSSIBILE
La zona è rischiosa per via dei rapimenti e delle altre violenze, nonché per
la presenza del gruppo. Ed è ormai nota l’esperienza dell’imprenditore francese
che riuscì a evadere nel 2013 dalla prigionia in cui lo teneva il gruppo Ansaru 8
(Ãamå‘at al-anâår al-muslimøn fø bilådi al-sûdån, Avanguardia per la protezione
dei musulmani dell’Africa nera), ritenuto responsabile anche del rapimento e del-
la morte dell’imprenditore italiano Silvano Trevisan nel 2013. Ansaru è una fazio-
ne dissidente di Boko Haram emersa nel 2012 che rifiuta la leadership del grup-
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po; pare coordini le sue operazioni con Aqmi (al-Qå‘ida nel Maghred islamico, di
base nel Mali settentrionale) e con il Mujao (Movimento per l’unicità e il jihad
nell’Africa occidentale). Questa fazione costituisce la minaccia più grave e immi-
nente soprattutto per gli interessi occidentali, mentre Boko Haram potrebbe esse-
re considerata una minaccia strategica a lungo termine 9.
I gruppi terroristici costituiscono un pericolo per la sicurezza, ma il proble-
ma sta anche nella difficoltà di Kaduna di trovare un equilibrio tra strutture politi-
che e sociali, mentalità tradizionali e modi di vita e di pensiero che derivano dal-
l’elaborazione nigeriana dell’incontro (forzato in passato, oggi voluto) con altri
mondi, Occidente in primis.
Questa tensione tra tradizione e filosofia politica contemporanea è emersa
con violenza il 29 maggio 2015: l’emiro di Zaria Shehu Idris è stato preso a sas-
sate da giovani arrabbiati durante una cerimonia d’insediamento del nuovo go-
vernatore di Kaduna. Shehu era accusato di aver sostenuto il partito Pdp (Peo-
ple’s Democratic Party) alle elezioni vinte dall’Apc (All Progressives Congress).
Uno dei giovani assalitori, Haruna Gambo, ha affermato: «L’emiro di Zazzau è
un membro del Pdp e non è il nostro capo tradizionale, ha dimostrato di essere
di parte. Noi ci aspettiamo che egli sia il padre di tutti gli abitanti dello Stato di
Kaduna, ma ha scelto di sostenere il Pdp apertamente contro il nostro candida-
to. Allora perché è venuto alla cerimonia d’insediamento del candidato del par-
tito vincitore? Penso che oggi abbia imparato la lezione. Ringraziamo Allah che
l’emiro non sia restato ferito, ma l’umore dei giovani gli farà capire che egli non
è in armonia con i suoi sudditi» 10.
8. P. LEPIDI, «Nigeria, comment Francis Collomp a réussi son evasion», Le Monde, 13/3/2015.
9. J. ZENN, «Ansaru: A Profile of Nigeria’s Newest Jihadist Movement», Terrorism Monitor, vol. 11, n.
1, ottobre 2013.
10. G. AHMAD, «Irate Youths Attack Emir of Zaria during El-Rufai’s Inauguration as Kaduna Gover-
nor», News Express, 29/5/2015.
34 11. Intervista concessa all’autore dal pastore Wuye, cit.
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
LAGOS
LA MEGALOPOLI
DEL FUTURO di Giulio ALBANESE
Ventuno milioni di abitanti che raddoppieranno entro il 2050,
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1. L
AGOS RAPPRESENTA UNA FINESTRA SUL
futuro delle grandi metropoli, racchiudendo in sé tutte le criticità e le contraddizio-
ni delle grandi città africane. Nonostante la crescita esponenziale della popolazione
– ad oggi oltre 21 milioni di abitanti, destinati a raddoppiare entro il 2050 – gli
standard di vita rimangono bassissimi. Tolti pochi grandi milionari concentrati nei
quartieri centrali della città 1 – Lagos Island, Victoria Island e Ikoyi – la maggior
parte della popolazione vive in baracche fatiscenti prive di servizi primari (strade,
acqua potabile, elettricità e allaccio alle fognature), la microcriminalità dilaga, le in-
frastrutture non sono in grado di sostenere il denso traffico, la burocrazia e le forze
dell’ordine sono arbitrarie e corrotte 2.
A questo si aggiungono le continue e devastanti alluvioni che spazzano via
ogni iniziativa migliorativa e la difficoltà di gestione dei rifiuti da parte del gover-
no, che riesce a raccogliere nelle principali discariche urbane – Olososun, Solous,
Abule Egba e Isolo – solo il 40% della spazzatura della città 3.
Fondata nel XV secolo da mercanti portoghesi di avorio, spezie e schiavi, la
città-porto di Lagos era il centro del commercio di schiavi lungo la tratta atlantica
durante il XVIII e il XIX secolo. Nel 1850 era una comunità piccola e compatta di
25 mila abitanti, che occupava poco più di 5 kmq su Lagos Island 4.
crescita più spettacolare è stata registrata nella seconda metà del secolo: 400 mila
persone in più nella città e 390 mila nelle periferie.
Nel 1963 Lagos era costituita da un centro metropolitano e da numerose co-
munità satelliti, con una popolazione totale di oltre un milione di persone. L’e-
spansione è stata facilitata da sistemi di bonifica di paludi e lagune, che costituiva-
no una minaccia per la salute delle persone. Nonostante questi sforzi, lo sviluppo
urbano non regolamentato ha prevalso. La migrazione degli abitanti dell’isola ver-
so nuove aree della terraferma (Ajegunle, Mushin e Lawanson), gli spostamenti
della popolazione negli interstizi tra queste aree e il centro metropolitano (Oba-
nikoro, Maryland e Ilupeju), l’emergere di interi nuovi insediamenti come Amuwo-
Odofin e di nuove aree industriali e residenziali come Oregun, Ojota e Agidingbi,
unitamente a una scarsa applicazione delle leggi urbanistiche, hanno impedito
un’adeguata occupazione del suolo.
Le comunità ai margini urbani di Lagos – Ajeromi, Mushin, Shomolu, Ikeja,
Agege e Oshodi – sono state amministrate da consigli rurali privi delle capacità le-
gali e materiali per applicare un piano urbanistico, lasciando ampio margine a spe-
culatori privati nella costruzione non regolamentata di abitazioni.
Tra gli anni Ottanta e Novanta la città ha avuto una crescita spettacolare verso
nord-est nelle aree di Ikotun, Egbe, Isolo, Ojota, Ogudu, Ketu, Ikosi, Iyana-Ipaja,
Agege, Abule Egba, Okokomaiko e Badagary. Molti di questi terreni erano fattorie
o snodi commerciali attestati lungo la ferrovia Lagos-Abeokuta, che in seguito all’e-
sproprio dei terreni nell’area di Ikeja da parte del governo per la costruzione del-
l’aeroporto, della Scuola di polizia e della Gra (Ikeja Government Residential Area)
sono stati ricollocati in nuove aree suburbane emergenti.
Capitale nigeriana fino al 1992, Lagos è oggi una delle metropoli in più rapida
espansione al mondo: la popolazione, che nel 1971 era di 1,4 milioni di abitanti,
ha raggiunto oggi i 21 milioni, facendone la città più popolata dell’Africa e la sesta
città al mondo per dimensioni e rapidità di crescita demografica 5.
traghetti sulla laguna. Gli spostamenti rimanenti avvengono lungo le arterie stradali
della città, che si estendono per una lunghezza complessiva di 4.921 km con un
andamento prevalentemente Nord-Sud (Agege Motor Road, Lagos-Ikorodu Road,
Murtala Muhammed Way e il Third Mainland Bridge), intercettate da un asse est-
ovest (Lagos-Badagry Expressway) e dal raccordo anulare che da Apapa raggiunge
Oworonshoki.
Gli spostamenti cittadini si basano, quindi, sul trasporto su gomma: auto priva-
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te, mini-taxi su due ruote (okada) e bus urbani di diverse dimensioni (molue da
40-60 posti in piedi e danfo da 12-14 posti a sedere) che si addensano lungo le
strade generando traffico costante, incidenti continui e un inquinamento altissimo.
Il valore della densità veicolare media, che nel resto della Nigeria è di 11 auto/km,
a Lagos raggiunge le 222 auto/km 7, facendo sì che un lagosiano impieghi quasi tre
ore per percorrere un tragitto urbano di 10 chilometri in auto. Inoltre, statistiche
governative mostrano che il 40% dei nuovi veicoli della Nigeria vengono registrati
a Lagos, con un consumo dell’85% del petrolio importato e un’emissione di gas
serra pari al 50% di tutto il paese.
Diverse sono le motivazioni che hanno prodotto la difficile situazione infra-
strutturale odierna di Lagos. Da un lato questioni strettamente politico-amministra-
tive, quali l’assenza di un inquadramento normativo specifico per i trasporti, la de-
bole sinergia tra le differenti agenzie pubbliche dedicate alle infrastrutture e la
scarsa integrazione tra pianificazione urbana e dei trasporti. A queste si aggiungo-
no questioni fisiche, quali la notevole estensione stradale su terreni acquitrinosi e
privi di un efficiente sistema di drenaggio e la scarsa capienza delle strade, dovuta
all’affastellarsi lungo il loro corso dei più grandi mercati della città.
A Lagos, infatti, in mancanza di specifiche aree designate, l’industria e il mer-
cato locale si sono insediati lungo gli assi infrastrutturali 8. Il tracciato ferroviario,
l’area tra i piloni dei viadotti, le zone di terra delimitate dagli svincoli autostradali
sono stati colonizzati da una fitta rete di industria secondaria: produttori di blocchi
di cemento, gommisti, meccanici, parrucchieri, chiese, scuole, mercati locali e ba-
racchini di ogni genere. Il governo di Lagos ha accettato quest’occupazione infor-
male di spazi statali in cambio del pagamento di una tassa. È il caso di famosi mer-
cati «infrastrutturali» come Jankara (su Lagos Island) e Oshodi (lungo l’Agege Motor
Road), luoghi di attività incessante nell’arco dell’intera giornata.
Diverse le proposte mirate a risolvere le criticità infrastrutturali della città. Da
un lato iniziative dal basso legate all’utilizzo di nuove tecnologie, come il sito La-
gos traffic crowdmap 9, che consente agli utenti di localizzarsi e segnalare le diffi-
coltà incontrate lungo le strade. Dall’altro iniziative dall’alto, come il progetto ap-
provato dalla Banca mondiale nel 2002 con un investimento di 150 milioni di dol-
7. W. ALADE, Trip Length Characteristics In Lagos Metropolis, Department of Urban and Regional
Planning, University of Lagos, Nigeria.
8. R. KOOLHAS, S. BOERI, S. KWINTER, N. TAZI, H. OBRIST, Mutations, Barcellona 2001, Actar.
9. Lagos Traffic Crowdmap, consultato a ottobre 2015, www.lagostraffic.crowdmap.com 39
LAGOS, LA MEGALOPOLI DEL FUTURO
lari volto a migliorare la capacità del governo nigeriano di gestire i trasporti a La-
gos. La Banca ha finanziato uno studio per verificare la fattibilità di un sistema di
autobus veloci lungo un corridoio prioritario.
Parallelamente, il governo dello Stato di Lagos ha creato l’autorità metropolita-
na dei trasporti di Lagos (Lamata) e ha offerto un cofinanziamento di circa 35 mi-
lioni di dollari al progetto della Banca mondiale. Così è nato il programma Bus Ra-
pid Transit (Brt) 10, già sperimentato in Colombia e in Brasile, che ha portato nel
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a
2008 all’introduzione di una corsia esclusiva dedicata agli autobus che consente
spostamenti più rapidi e in sicurezza. Il programma si basa su uno schema innova-
tivo di partenariato pubblico-privato in cui i tracciati, le corsie preferenziali e le fer-
mate di autobus sono di proprietà del governo di Lagos, mentre i mezzi di traspor-
to, la loro manutenzione e le autorimesse sono di proprietà dei privati coinvolti.
Ad oggi sono stati realizzati 22 km del corridoio pilota in prossimità dell’aeroporto,
su cui viaggiano 18 mila persone al giorno. Altri due corridoi saranno completati
nel 2015 ed entro il 2020 il governo prevede di avere otto tracciati attivi, che copri-
ranno gran parte della città.
10. BRT System, Lagos Metropolitan Area Transport Authority website, consultato a ottobre 2015,
www.lamata-ng.com/brt
40 11. 2006 Digest of Statistics, Office of the Surveyor, General Lagos, 2012.
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
5,9%
Agege
7,3%
Surulere 8,2%
Ajeromi-Ifeldun
5,8%
Shomolu Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a
6,5%
Oshodi-Isolo
11,7%
Alimosho
5,4%
Ojo
POPOLAZIONE
17.552.942 ab. 3%
Amuwo-Odofn
7,5%
Mushin 3%
Apapa
3,6 % 2,2 %
Lagos terraferma Badagary
1,8 %
Epe
4,9 % 5,6 %
Lagos isola Eti-Osa
5,3 % 3,9 %
3,7 %
kosofe Ikeja 4,2 %
Iko rodu
Ifako-Ljaye 0,6 %
Ibeju-Lekki
ovest di Lagos e la sua offerta copre qualsiasi prodotto di elettronica per le tele-
comunicazioni (computer, televisori, telefoni), elettrodomestici (refrigeratori, vi-
deogiochi), fino ai generatori e ai sistemi satellitari. I principali acquirenti pro-
vengono da Ghana, Niger, Ciad, Togo, Benin e Africa orientale. Dal momento
che ad Alaba abbondano i clienti nei giorni festivi, la maggior parte delle impre-
se non osserva le feste nazionali.
Lagos si è sviluppata anche come principale sbocco commerciale nell’Africa
occidentale per le apparecchiature elettroniche alla fine del loro ciclo di vita. An-
che se gran parte di tali congegni è recuperata e venduta a famiglie e rivenditori
provenienti dalla Nigeria e da altri paesi dell’Africa occidentale e centrale, il set-
tore genera consistenti quantità di e-waste (spazzatura elettronica), problema
messo in luce nel 2005 dal film La discarica digitale prodotto dall’ong Basel Ac-
tion Network (Ban). 41
LAGOS, LA MEGALOPOLI DEL FUTURO
60.768,5
Agege
47.111,3
Surulere
Shomolu
103.258,6
Ajeromi-Ifelodun
27.025,9
Oshodi-Isolo
5.173,2
Ojo
DENSITÀ 14.855,1
4.906,8 ab./km2 Alimosho
2.931,2
Amuwo-Odofn
13.568,4
Apapa
94.058,1
Mushin
858,7
Bagdary
335,4
152,4 Epe
Ibeju-Lekky
12.995,2
Ikeja 3.288,2
Eti-Osa
1.997,2 17.309,8
Ikorodu Ifako-Ijaye
32.083
Lagos terraferma
11.073,6
92.856,3 Kosofe
Lagos isola
341.027
2002 261.893
2003
240.138
1.114.429 2004
2011 Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a
275.095
2005
365.499
2006
QUANTITÀ
1.041.751 DEI VEICOLI
2010
657.353
2007
885.612 795.143
2009 2008
ta in discariche assieme ad altri rifiuti urbani. La maggior parte delle attività che
producono rifiuti elettronici si svolgono quindi all’interno di zone abitate, dove
vengono realizzati i collettori e i riciclatori. Nonostante l’attività di gestione di que-
sto materiale abbia inciso negativamente sui residenti inquinando aria, acqua e
suolo, si riscontra un impatto economicamente positivo: creando posti di lavoro
vengono garantiti cibo ed acqua. Il numero di posti di lavoro forniti dal settore
dell’e-waste, formale e non, è notevole considerando il livello di disoccupazione:
le persone impiegate prevalentemente presso le discariche a Olusosun, Odo Iya
Alaro e Alabarago oscillano tra 600 e 4 mila 13.
13. O. OGUNGBUYI, I. CHIDI NNOROM, O. OSIBANJO, M. SCHLUEP, E-Waste Country Assessment Nigeria,
E-Waste Project of the Secretariat of the Basel Convention, 2012. 43
LAGOS, LA MEGALOPOLI DEL FUTURO
pali (Lagos Island, Victoria Island, Ikoyi) che costituiscono il centro storico, econo-
mico e politico, estendendosi sulla terraferma intorno alla laguna per circa 800
kmq. Tre ponti carrabili collegano le isole tra loro e con la parte continentale della
città, dove risiede e lavora la maggioranza della popolazione e dove si trova l’aero-
porto internazionale.
Proprio la laguna è fondamentale per la vita della metropoli, che si basa per
molti versi sul rapporto con l’acqua: da un lato il problema di prim’ordine è la ca-
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a
renza di acqua potabile sicura, dall’altro l’acqua come vettore commerciale ha fatto
la fortuna della città, e ancora oggi vi sono interi quartieri costruiti su palafitte co-
me lo slum di Makoko, la cui popolazione vive in funzione dell’acqua e in totale
simbiosi con essa. Si tratta di un’area che da qualche anno è assurta agli onori del-
la cronaca per essere stata oggetto di ripetuti tentativi di sgombero da parte delle
autorità cittadine, tentativi ai quali per il momento la popolazione sta resistendo.
L’amministrazione governativa non mira però allo sgombero di Makoko per
ragioni umanitarie. Essendo infatti Lagos una città in forte ascesa economica e
demografica, molti investitori hanno messo gli occhi su quest’area costiera, dove
potrebbero sorgere quartieri residenziali di lusso con vista laguna. Makoko, che
secondo le stime governative ospita tra i 30 e i 250 mila abitanti, è un agglome-
rato urbano unico al mondo, fatto di canali e palafitte percorribili interamente
dalle tipiche imbarcazioni in legno 14. Nel 2013 uno studio di architetti locale, Nlé
studio, con finanziamenti delle Nazioni Unite e di varie fondazioni private, ha
concepito un nuovo tipo di costruzione: una scuola galleggiante realizzata dagli
stessi abitanti con i materiali facilmente reperibili nella zona lagunare. Obiettivo
dell’iniziativa è quello di conferire know-how alla popolazione locale per trasfor-
mare una zona fatiscente, carente dal punto di vista igienico e pericolosamente
soggetta a inondazioni, in un nuovo tipo di comunità galleggiante ed ecososteni-
bile. Non solo a Lagos, ma in tutte le città costiere africane, ugualmente minac-
ciate dai cambiamenti climatici. Queste costruzioni sono infatti dotate di un im-
pianto fotovoltaico, di sistemi di riciclo delle acque piovane, di un’area verde e
di dispositivi ad aria compressa che stabilizzano le botti galleggianti in caso di
innalzamento del livello delle acque 15.
Lagos è dunque una città circondata dall’acqua, dove però l’accesso all’acqua
potabile è molto difficile per la maggior parte degli abitanti. Le tubature, quando ci
sono, sono vecchie e sporche, e in molte zone dai rubinetti esce una sostanza fan-
gosa inutilizzabile. Ciò porta la popolazione ad acquistare acqua potabile da privati
che sempre più lucrano su questo business. Inoltre l’acqua viene spesso venduta
in sacchetti di polietilene che inquinano gravemente la città, ostruendo i canali di
scolo e formando pozze d’acqua che diventano pericolosi ricettacoli di malattie,
anche a causa delle zanzare malariche che vi si annidano.
14. «Lagos, the Mega-City of Slums», Irin, consultato a ottobre 2015, www.irinnews.org/report/60811/-
nigeria-lagos-the-mega-city-of-slums
44 15. «Makoko Floating School», Nlé studio, 2012.
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
3,5% 2,0%
Finanza Immobiliare
Telecomunicazioni
29,6%
Industria manufatturiera
8,4%
Commercio
ECONOMIA
19,6% DI LAGOS
Costruzioni
26,47%
Trasporti
Fonte: Eia
Island e ospiterà circa 250 mila abitanti oltre a uffici, zone commerciali, aree verdi
serviti da un efficiente sistema energetico e di smaltimento rifiuti. In tal modo La-
gos cerca di reinventarsi, attenuando alcuni degli annosi problemi che l’affliggono
e candidandosi ambiziosamente a modello, non solo negativo, delle megalopoli
del XXI secolo.
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a
46
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
I CONFINI MOBILI
DEL LAGO CIAD di Marina BERTONCIN e Andrea PASE
Anatomia di un bacino conteso fra Nigeria, Camerun, Ciad
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a
regioni più interne e lontane dai mari, c’è un lago che cambia continuamente
N EL CUORE DELL’AFRICA, IN UNA DELLE
forma. Si tratta del Lago Ciad, diviso oggi tra Nigeria, Camerun, Ciad e Niger.
Lo Chari, l’affluente di gran lunga più importante del lago (conferisce
l’83% degli apporti totali), proviene dalle regioni montagnose del Sud, nella
Repubblica Centrafricana e in Camerun, dove più intense sono le precipitazio-
ni. La piena annuale che così si forma varia notevolmente a seconda di quanto
piove a monte. La differenza di portata delle piene dello Chari si ripercuote sul
livello del lago e sulle superfici allagate. Lo specchio lacustre è infatti poco
profondo (non più di 5 metri) e così la sua estensione può passare in pochi
anni da grande superficie di acque libere a insieme di stagni, e viceversa. An-
che la variabilità stagionale del livello del lago è considerevole: tra le acque al-
te e basse, la differenza può arrivare al metro, con effetti notevoli su area alla-
gata e profilo delle rive nelle diverse stagioni. Nella tormentata superficie lacu-
stre, caratterizzata dalle digitazioni sabbiose dell’erg (al-‘irq) del Kanem che
entra nel lago, da una miriade di isole, da isolotti di erbe flottanti, l’effetto di
questi cambiamenti di spessore della lente d’acqua sono rilevantissimi: difficile,
se non impossibile, segnare una linea di riva. La sua variabilità non solo è così
pronunciata ma può essere anche molto rapida: si sono registrati nella storia
repentini inaridimenti e improvvisi ritorni delle acque, che si sono tradotti in
pericolose inondazioni.
Già nel 1910 il comandante francese Tilho annotava sorpreso come nella
parte settentrionale del lago, dove la sua missione aveva navigato in battello
solo sei anni prima, in quel momento invece passassero carovane sul fondo
completamente secco. Il lago si trasformava nel passato e si trasforma oggi,
sottoponendo la rappresentazione cartografica a un compito che le è difficile 47
I CONFINI MOBILI DEL LAGO CIAD
mente diffusasi nell’ultimo periodo che il Lago Ciad si sia ridotto e che addirit-
tura rischi di «sparire», a seguito delle grandi siccità saheliane degli anni Settan-
ta e Ottanta e del sovrasfruttamento delle risorse idriche.
I molti allarmi lanciati in questa direzione sulla stampa internazionale riflet-
tono in realtà un’approssimazione conoscitiva che è speculare a quella dei vec-
chi atlanti. Il lago non è quello esteso e ben definito delle prime carte e non è
neppure quello residuale delle carte più recenti. Il lago è l’uno e l’altro e non
si lascia facilmente afferrare.
I colonizzatori erano stati tratti in inganno da questo lago. Prima ancora
della conquista militare della regione, che si realizzerà compiutamente nei pri-
mi anni del Novecento, le potenze europee avevano iniziato a contendersi il
bacino lacustre. Nel gioco diplomatico tra le cancellerie grande importanza era
attribuita alle vie d’acqua per la penetrazione coloniale nel continente: tale opi-
nione fece sovrastimare il valore strategico del lago e dei suoi affluenti. Inoltre,
nel vuoto conoscitivo del cuore del continente, lo specchio d’acqua forniva un
riferimento chiaro. Per questo, inglesi, tedeschi e francesi scelsero la direzione
del lago per sviluppare i loro possedimenti: una «corsa al lago» che influenza la
forma finale dei territori coloniali (evidente in particolare nel «dito» del Came-
run tedesco a toccare le acque lacustri). Paradossalmente, alla fine si scoprirà
che era totalmente privo di interesse strategico, tanto che i confini che lo attra-
versano non verranno demarcati, al di là delle difficoltà pratiche, perché il lago
si era rivelato essere, nella parole del comandante Tilho, autentico protagonista
dell’avventura coloniale francese nell’area, «senza valore, sia dal punto di vista
commerciale, sia come via di comunicazione» (1909).
In ogni caso, nel volgere di vent’anni, aree in precedenza a malapena cono-
sciute furono spartite tra Francia, Gran Bretagna e Germania e i confini dei pos-
sedimenti coloniali furono inscritti nei trattati e sulle carte 1. Con la sconfitta tede-
sca nella prima guerra mondiale, i territori del Camerun furono divisi tra un man-
1. Il 5 agosto 1890 inglesi e francesi definiscono la linea Say (sul Niger) e Barruwa (sul lago Ciad)
come limite delle sfere di influenza francese a nord e della Niger Company a sud. Il 14 giugno 1898
le due potenze coloniali ridisegnano con più precisione la medesima linea, che sarà ritoccata a fa-
vore della Francia (e della sua necessità di avere un corridoio percorribile dal fiume Niger al Ciad)
con la convenzione dell’8 aprile 1904. Negli stessi anni sono fissati i limiti dei possedimenti tedeschi
del Camerun tanto verso la Nigeria come verso il Congo francese, in cui all’epoca erano inseriti i
territori del Ciad, garantendo anche alla Germania l’accesso al lago (I. BROWNLIE, African Bounda-
ries. A Legal and Diplomatic Encyclopaedia, London 1979, Hurst & C.; M. BERTONCIN, A. PASE, Au-
48 tour du lac Tchad. Enjeux et conflits pour le contrôle de l’eau, Paris 2012, Harmattan).
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
dato inglese e uno francese 2. Un plebiscito nel 1961 decise che i territori del
mandato britannico fossero attribuiti, nella parte settentrionale, alla Nigeria: in tal
modo nell’area ciadiana si confermò il limite tra i mandati britannico e francese
come confine tra i due nuovi Stati indipendenti. Il confine attuale tra Niger e
Ciad deriva invece da un limite interno all’impero coloniale francese.
Pur conservando i confini ereditati dai colonizzatori, i governi locali tentaro-
no un coordinamento formale della loro azione rispetto al lago e al suo bacino.
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a
Tutto si muove
Situata nel Sahel, fascia di transizione fra il clima desertico e quello sudanese
umido, l’area presenta una grande variabilità interannuale delle piogge. Già que-
sto conferisce movimento allo spazio naturale e alle forme antropiche di uso del-
le risorse: si muovono le mandrie, si spostano le coltivazioni per seguire e sfrutta-
re l’umidità, cambiano le aree di pesca e le traiettorie dei circuiti commerciali. Ma
nella regione sono soprattutto le trasformazioni del lago a determinare la fluidità
degli spazi: è il movimento primo che porta con sé, che ritma tutti gli altri movi-
menti. Seguendo gli avanzamenti e i ritorni delle acque e delle rive mutano le at-
tività principali, si modificano le reti di trasporto, si spostano gli insediamenti.
Gli spazi anfibi del lago si prestano a molte attività: offrono opportunità per
la pesca, per l’agricoltura sulle terre inumidite dalla piena (décrue), per il pasco-
lo, per il taglio della legna, per il commercio. Il cambiamento continuo delle li-
nee di riva e delle forme del bacino comporta un ridisegno incessante dell’orga-
nizzazione produttiva e territoriale. Il ritirarsi delle rive offre nuove terre da colo-
nizzare, dà spazio alla crescita rapida della vegetazione arbustiva e arborea. Il ri-
torno del lago aumenta le risorse alieutiche, favorisce le reti di navigazione, ridà
vita ai porti sul lago e ai loro mercati.
La navigazione nel lago si effettua su piroghe in legno, la cui misura può
raggiungere i 15 metri. Le piroghe sono usate per la pesca e per il commercio: le
maggiori sono a motore. Le rotte vanno di isola in isola, per i percorsi di cabo-
taggio dei piccoli commerci. I grandi traffici sono quelli di attraversamento, in
particolare a partire dai porti di Baga Sola e Bol a nord, in Ciad, e Baga Kawa, in
Nigeria, e Blangoua, in Camerun, a sud. Vi è una forte stagionalità dei movimen-
ti: le barche attendono nei porti l’arrivo della piena per partire. A ostacolare la
2. La dichiarazione Milner Simon del 10 luglio 1919 fissava il limite dei due mandati, nella regione
del lago, sull’Ebeji (El Beïd) e sul Kalia, due corsi d’acqua minori. 49
I CONFINI MOBILI DEL LAGO CIAD
merci proviene dalle grandi e medie città dell’area, immediatamente alle spalle
del lago: Maiduguri in Nigeria, N’Djaména in Ciad (tutte e due oltre il milione di
abitanti), Kousséri e Maroua in Camerun, Diffa in Niger. Si tratta soprattutto di
prodotti alimentari: sono in particolare quelli animali – pesce (fumigato, essiccato
o anche fresco) e bestiame – ad animare i commerci transfrontalieri. Centrale è il
ruolo giocato dai grandi commercianti, organizzati in reti etniche, hausa e ka-
nembu su tutte.
Oltre alle vie acquatiche, ovviamente ci si muove nella regione anche attra-
verso percorsi terrestri. Attorno al lago, discoste dalle rive incerte, vi sono piste
permanenti, percorse da uomini e animali (cavalli, dromedari, vacche), oltre che
da automezzi (sempre più diffusi i motocicli cinesi). Durante le fasi di arretra-
mento delle acque, sul fondo del lago si aprono piste per drenare la produzione
alieutica verso i mercati: se non si passa con le piroghe, si passa con automezzi
carichi di cartoni in cui è stipato il banda, il pesce fumigato. Numerosi sono
però gli ostacoli al movimento terrestre: a sud, stagionalmente le pianure argillo-
se sono allagate dalla piena dei fiumi e il fango rende le piste quasi impraticabili;
a nord, una difficoltà permanente è costituita dalla sabbia dell’erg del Kanem. Le
poche strade «moderne», spesso create per raggiungere i grandi progetti di irriga-
zione, sono in pessimo stato. Per tutti questi motivi, appena possibile si preferi-
sce l’acqua. I cambiamenti del lago portano alla ridefinizione continua dei per-
corsi: la posizione dei porti varia nel tempo seguendo l’avanzata e il ritrarsi delle
acque. La centralità del commercio è testimoniata anche dalla capacità di innova-
zione e di integrazione delle reti: un esempio significativo sono i servizi di moto-
taxi integrati da canoe per passare di isola in isola nell’arcipelago di Bol, che si
attivano quando non è possibile far passare le grandi piroghe perché le acque
sono troppo basse.
Per le sue risorse, soprattutto per la pesca e quindi per l’agricoltura, la regio-
ne del lago, poco significativa agli occhi dei colonizzatori, dagli anni Sessanta è
diventata un polo attrattivo di grande valore per le popolazioni locali. Questa ca-
pacità di richiamo si è resa particolarmente evidente con l’aumento della pressio-
ne demografica e in tempo di siccità 3. Infatti, sulle terre liberate dal ritirarsi del
Lago Ciad durante le grandi siccità degli anni Settanta e Ottanta del Novecento si
3. G. MAGRIN, «De longs fleuves tranquilles? Les mutations des plaines refuges du bassin du lac
Tchad», in J.-P. RAISON, G. MAGRIN (a cura di), Des fleuves entre conflits et compromis. Essais d’hydro-
50 politique africaine, Paris 2009, Khartala, pp. 125-172.
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
riversano due successive ondate migratorie, in particolare a partire dal Borno (lo
Stato nigeriano che si affaccia sul lago). La prima è composta dagli abitanti delle
aree vicine, essenzialmente kanuri e arabi showa, che già coltivavano in décrue
le rive del lago. Lo spostamento delle coltivazioni sempre più lontano dai villaggi
di origine porta alla proliferazione di insediamenti prima temporanei, poi stabili.
La fertilità di queste terre diventa nota e nella regione giungono nuovi coloni,
una seconda ondata appunto. La provenienza etnica stavolta è molto differenzia-
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a
Di chi è il lago?
Questo spazio così fortemente caratterizzato dal movimento è stato appro-
priato a diversi livelli:
a) dagli Stati, per fissare e difendere la loro giurisdizione territoriale e per
trarne risorse (attraverso la tassazione, in primo luogo);
b) dai poteri consuetudinari (o meglio dagli utilizzatori delle terre e delle ac-
que, autorizzati dai poteri tradizionali).
Entrambe le forme di appropriazione hanno portato a dispute, che costitui-
scono una chiave di entrata importante per comprendere quanto avviene nella
regione.
L’espansionismo della Nigeria sulle terre del fondo lacustre ha aperto il gio-
co delle vertenze, in particolare nei confronti del Camerun 4. Già negli anni Ses-
santa le rive camerunesi del lago, precedentemente poco popolate, iniziano ad
essere occupate da nigeriani, prima pescatori, quindi commercianti e agricoltori.
Il valore assunto dalla zona, in un contesto di scarsità di risorse per la siccità, e
l’insediamento permanente di nuovi villaggi hanno alzato la posta in gioco. L’a-
vanzata del fronte pioniere ha giustificato l’occupazione militare nigeriana e la
presenza dell’amministrazione sulle terre nuove.
4. H. ABDOURAMAN, «Le conflit frontalier Cameroun-Nigeria dans le lac Tchad: les enjeux de l’île de
Darak, disputée et partagée», Cultures & Conflits [en ligne], 72, 2008. 51
I CONFINI MOBILI DEL LAGO CIAD
al Ciad. Già nel 1983 erano infatti avvenuti scontri tra soldati nigeriani e ciadia-
ni. La commissione del Bacino del Lago Ciad era stata quindi incaricata di de-
marcare i confini per prevenire conflitti. Dal 1988 al 1990 erano stati collocati
cippi confinari nel lago. L’accordo, raggiunto nel 1994, non fu però ratificato
dalla Nigeria. Il Camerun si rimette nello stesso anno alla Corte internazionale
di giustizia che nel 2002 gli attribuisce i territori contesi. In realtà l’oggetto del
contendere più rilevante tra i due paesi era la penisola di Bakassi, a sud, con le
sue riserve petrolifere. Nel dicembre 2003 inizia il ritiro dei soldati nigeriani.
Nel 2004 il Camerun stabilisce Darak come capoluogo di arrondissement, per
materializzare la presenza statale: vi assegna un plotone della gendarmeria e
posti di polizia. Vi è ancora chi in Nigeria sostiene che questo verdetto sia sba-
gliato. La situazione rimane comunque fluida (ben s’intende…): recentemente
sono state riportate notizie sull’occupazione di due isole camerunesi da parte
di pescatori e di soldati del Ciad, a indicare che la mobilità degli spazi (e i dif-
ferenziali di potere politico – anch’essi in trasformazione – tra i quattro paesi)
mettono comunque sotto pressione la griglia dei confini statali.
I poteri tradizionali, o meglio neotradizionali (perché la loro definizione e
stabilizzazione è spesso avvenuta in età coloniale), sono ben insediati attorno
al lago: in Ciad si trovano il sultanato kotoko di Mani, quello arabo di Karal,
quelli kanembu di Mao e di Bol (kanembu e kuri/buduma); in Camerun i sulta-
nati kotoko di Makari e Goulfey; in Nigeria il principato kanuri diretto dallo
shehu del Borno (duplicato nel 2010 dallo shehu di Dikwa); in Niger le cheffe-
rie di Bosso (mobber) e di Nguigmi (manga). Il ritirarsi delle acque del lago
nei decenni Settanta e Ottanta ha generato dispute anche tra queste strutture
politiche tradizionali: come quella in Ciad, tra i sultani di Mao e di Bol (sulla
sponda Nord) e Karal (sulla sponda Sud) a proposito dei diritti di riscossione
delle imposte tradizionali sulle nuove terre. Il potere consuetudinario lo si tro-
va in azione soprattutto nella gestione fondiaria (in senso esteso, terre e risor-
se: pascoli, pesce, foreste), ovvero nella dinamica dell’occupazione e dell’asse-
gnazione delle possibilità del lago. Sul fondo asciutto, la pressione sulla terra è
andata progressivamente crescendo all’aumentare della popolazione immigrata,
raggiungendo punti di crisi più intensi nel momento in cui il livello dell’acqua
è tornato a salire togliendo spazio alle coltivazioni. Nascono per questo tensio-
ni interetniche nell’attribuzione della terra, quantomeno della terra migliore.
52
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a
anche una zona densa di attività informali o illegali. Vi si trovavano ribelli fin dal-
l’epoca della lunga guerra civile ciadiana e, in seguito, è stata frequente la pre-
senza di reduci, di banditi transfrontalieri, di contrabbandieri (armi leggere, car-
burante, farmaci, pezzi di ricambio, refurtiva di vario genere). Molte sono le atti-
vità abusive, praticate senza permessi e senza regole: pesca, taglio del legname,
caccia. Gli spazi in movimento del Lago Ciad sembrano essere il luogo ideale per
l’illegalità: gli assetti territoriali in continua trasformazione rendono più fragile la
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presa del potere statale. Ma proprio il proliferare di pratiche illegali (politiche e/o
comuni; organizzate o diffuse) fa sì che, seppur in modo spazialmente e tempo-
ralmente disomogeneo, si sia intensificata l’attività di controllo, anche per ricava-
re risorse dalla tassazione (formale e informale): ciò ha comportato sovente una
notevole densità di corpi militari nell’area.
La spartizione del lago e l’intreccio di confini costituiscono un elemento di
attivazione dell’instabilità: alla volontà statale di controllo e di imposizione del-
le norme (peraltro non sempre efficace) corrisponde una formidabile attività di
trasgressione. I confini non sono di ostacolo, per certi versi anzi alimentano il
commercio e il movimento, creando ulteriori differenziali, nuovi stimoli allo
scambio. Sono confini porosi: è più ciò che lasciano passare di quello che fer-
mano e definiscono. Sono confini intermittenti: al variare delle situazioni am-
bientali (avanzamenti e arretramenti delle acque) e politiche (tensioni interne
o tra paesi), i confini si accendono o si spengono, sono attivi e presidiati op-
pure abbandonati e ignorati. La stessa cittadinanza non è unica ma sovente
molteplice: sono frequenti i casi di possessori di carte d’identità di più paesi
(nigeriani in Nigeria, ciadiani in Ciad, senza che questo sia però evidente alle
autorità), così com’è diffusa l’iscrizione, chiaramente illegale, alle liste elettorali
di paesi vicini.
Un altro motivo di insicurezza è dato dalla frammentazione tra le forze di
polizia e militari presenti nell’area: si sono registrati più volte scontri ed è la-
tente la conflittualità tra i soldati dei quattro eserciti. Gli Stati si sono posti il
problema di come prevenire tali scontri attraverso la collaborazione militare e
di polizia transfrontaliera e, più in generale, di come stabilire il controllo in
un’area divisa in quattro giurisdizioni 5. Nel 1983 fu decisa la costituzione di
una forza congiunta. Nel 1986 furono stabilite quattro sedi interforze: Blan-
goua, Baga Kawa, Gadira e Baga Sola. Il vantaggio in termini di sicurezza fu
soprattutto di evitare contrasti tra le diverse pattuglie nazionali. A partire dal
1990 è cresciuta ancora l’attività delle bande armate a sfondo politico o crimi-
nale. Si decise quindi di riformare questa forza congiunta. Ma gli sforzi in tale
direzione non portarono a molto: i diversi paesi si ritirarono, formalmente o di
fatto, dagli accordi.
5. S. ISSA, «Les cadres territoriaux du développement: frontières, gestion des conflits et sécurisation»,
in J. LEMOALLE, G. MAGRIN (a cura di), Le développement du lac Tchad: situation actuelle et futurs pos-
54 sibles, Marseille 2014, IRD Editions, coll. Expertise collégiale, pp. 581-598 (clé USB).
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
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Il lago Ciad, dettaglio da: West Africa II, published under the superintendence of the Society
for the Diffusion of Useful Knowledge, Great Britain, London 1839. Fondo Marina Bertoncin
Margini di incertezza
È in questa situazione di indeterminatezza che si affaccia un nuovo poten-
te fattore di destabilizzazione: la rivolta del gruppo islamista conosciuto come
Boko Haram 6. L’epicentro dell’insurrezione è la capitale del Borno, Maiduguri,
dove l’organizzazione è sorta nei primi anni Duemila. Gli scontri violenti del
luglio-agosto 2009 (che hanno visto la morte, dopo il suo arresto, del fondatore
Mohammed Yusuf), la ripresa delle lotte dal dicembre 2010 (che perdurano si-
no ad oggi) hanno causato la perdita di migliaia di persone tra civili uccisi in
attentati; omicidi mirati di responsabili della sicurezza, esponenti politici e reli-
giosi moderati; membri delle forze dell’ordine e militanti dell’organizzazione
caduti nei combattimenti, cui si aggiungono le vittime della drastica repressione
militare. Gli appartenenti a questa organizzazione e al gruppo Ansaru, nato da
una sua scissione, sono schierati su posizioni ideologiche estreme, che com-
portano tra l’altro il rifiuto della scienza, dell’educazione e delle istituzioni poli-
6. M.-A. PÉROUSE DE MONTCLOS, Nigeria’s Interminable Insurgency? Addressing the Boko Haram
Crisis, London 2014, Chatham House. 55
I CONFINI MOBILI DEL LAGO CIAD
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Le rive del lago Ciad, dettaglio da: H. BARTH, Travels and Discoveries in North and Central Africa,
Sheet n. 11, «Map of the Route from Kukawa to Masena», 1850. Fondo Marina Bertoncin
Le rive del lago sono state coinvolte direttamente dagli scontri 7: in partico-
lare nell’aprile 2013 circa duecento civili sono stati uccisi a Baga Kawa, cittadina
portuale sul lago, durante la repressione seguita alla morte di un militare a un
posto di blocco. Combattimenti e sequestri di armi sono avvenuti a più riprese
nei villaggi lacustri. A partire da agosto 2014, numerosi profughi hanno iniziato
a rifugiarsi su alcune isole appena oltre il confine tra Nigeria e Ciad, per sfuggi-
re ai violenti scontri tra esercito e ribelli. Campi profughi sono stati costruiti sul-
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7. R. POURTIER, «Le lac Tchad sous la menace de Boko Haram», in G. MAGRIN, J. LEMOALLE, R. POURTIER
(a cura di), Atlas du lac Tchad, Paris 2015, Passages-IRD, pp. 162-163. 57
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AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
IL LAGO MORENTE
NON SI SALVA
SENZA CHI CI VIVE di Esoh ELAMÉ
I progetti legati allo specchio d’acqua rischiano di diventare
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1. I
L LAGO CIAD, CONOSCIUTO NEL MONDO A
causa dell’importante variabilità delle sue acque, minaccia nel medio-lungo pe-
riodo di prosciugarsi 1, con gravi conseguenze sul piano ambientale, sociale,
economico e culturale. Pur senza adottare un approccio pessimista e men che
meno catastrofico 2, non si esagera dicendo che la presa di coscienza politica e
istituzionale dell’emergenza climatica è stata molto lenta. Nonostante i numero-
si campanelli d’allarme, è stato necessario l’intervento della Nasa per suscitare
la preoccupazione dei diretti interessati. Non sono stati sfruttati al meglio nem-
meno gli appositi momenti istituzionali. Ci riferiamo alla conferenza delle Na-
zioni Unite sull’ambiente e lo sviluppo, riunita a Rio de Janeiro dal 3 al 14 giu-
gno 1992. Un appuntamento che si presentava come la piattaforma ideale per
sollevare la questione, visto il dichiarato scopo di gettare le basi per un parte-
nariato mondiale equo, all’interno del quale creare nuovi livelli di cooperazio-
ne. Allo stesso modo, la conferenza di Rio +10 a Johannesburg avrebbe per-
messo di fare passi avanti nelle discussioni sulla sostenibilità dei sistemi socio-
ecologici e culturali del bacino.
Il risultato è che gli Stati rivieraschi hanno sì preso coscienza dei problemi
del Lago Ciad, ma non hanno affrontato con sufficiente vigore e determinazione
1. C. BATELLO, M. MARZOT, A.H. TOURÉ, The Future Is an Ancient Lake.Traditional Knowledge, Biodi-
versity and Genetic Resources for Food and Agriculture in Lake Chad Basin Ecosystems, Fao, Roma
2004; C. BOUQUET, Insulaires et riverains du lac Tchad. Etude géographique, Paris 1990, l’Harmattan;
A. BOUCHARDEAU, R. LEFÈVRE, Monographie du lac Tchad. Édition provisoire, Paris 1957, Orstom; J.
MALEY, «Mécanisme des changements climatiques aux basses latitudes. Palaeogeog., palaeoclim., pa-
laeoecol.», 14, 1973, pp. 193-227.
2. G. MAGRIN, «Le lac Tchad n’est pas la mer d’Aral», mouvements, 2007, www.mouvements.info-
/spip.php?article201; G. MAGRIN, «L’imbroglio territorial du lac Tchad à l’épreuve de l’incertitude hy-
drologique», Revue scientifique du Tchad, 11, 1, 2012, pp. 96-113. 59
IL LAGO MORENTE NON SI SALVA SENZA CHI CI VIVE
la questione con le rispettive popolazioni. Il fatto che il bacino sia il punto di in-
crocio fra cinque paesi africani – Camerun, Ciad, Niger, Mali e Nigeria – non è fi-
nora servito a dare impulso alla ricerca di soluzioni sostenibili nella lotta contro il
suo prosciugamento. Una carenza imputabile a due fattori: la debole mediatizza-
zione del problema e la totale assenza della prospettiva educativa dalle misure
intraprese finora dalla Commissione del bacino del Lago Ciad (Cblt). Creata il 22
maggio 1964 dai quattro paesi che si affacciano sullo specchio d’acqua, essa non
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2. La ricerca ha esaminato molto materiale, tra cui la Vision 2025 della Cblt e
il Programma di azione strategica (Pas) del bacino del Lago Ciad, adottato nel
2008 e realizzato nel quadro del progetto Undp-Banca Mondiale-Gef intitolato
3. Il concetto si pone in contrasto con quello di sottosviluppo, che fa riferimento a un deficit quan-
titativo di risorse e investimenti. Il malsviluppo misura invece l’inadeguatezza qualitativa delle politi-
che di sviluppo e di progetti che non tengono conto delle esigenze reali dei beneficiari malgrado
l’investimento e l’indebitamento prodotti e le cui azioni sul campo finiscono per accrescere le disu-
guaglianze economiche e socio-spaziali. In un contesto di malsviluppo, della crescita economica
60 profitta solo una minoranza, che continua ad arricchirsi a discapito dei più vulnerabili.
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
guito allo studio, con l’appoggio di organizzazioni Onu come la Fao e l’Unep,
sono stati realizzati un piano direttivo e uno d’azione. Il primo presenta lo stato
generale del bacino, proponendo in particolare una visione di insieme dei pro-
blemi, dei vincoli e delle opportunità identificate per il suo mantenimento e il
suo sviluppo. Il secondo comprende 36 progetti, tra cui il trasferimento dell’ac-
qua dall’Ubangi al lago.
La Cblt ha poi adottato nel 2003 il documento strategico Vision 2025 riguar-
dante il Lago Ciad. Il piano di azione che da essa origina si articola in due fasi
distinte. La prima, della durata di otto anni, è destinata «in primo luogo a supera-
re le barriere che impediscono una gestione concorde del bacino attraverso un
rafforzamento della cooperazione e delle capacità fra i paesi rivieraschi e i prota-
gonisti. In secondo luogo, si tratta di condurre un’analisi diagnostica transfronta-
liera e di elaborare un quadro per la gestione integrata dell’acqua. In terzo luo-
go, si tratta di preparare la realizzazione a lungo termine delle azioni prioritarie
che permettono di risolvere i problemi transfrontalieri». La seconda fase, della
durata di vent’anni, propone una suddivisione in sottobacini dotati dei rispettivi
programmi 5. Strutturandola in questo modo, i promotori del documento cercano
di facilitare la flessibilità dell’appoggio dei donatori bilaterali 6.
La Vision 2025 prevede le seguenti azioni prioritarie: «1) iniziare una gestio-
ne condivisa delle risorse idriche con meccanismi di cooperazione e integrazio-
4. Abbiamo anche analizzato i seguenti progetti faro della Cblt: 1) programma di sviluppo sostenibi-
le del bacino del Lago Ciad (Prodebalt); 2) gestione integrata delle risorse idriche del bacino del La-
go Ciad (Gire); 3) Gestione sostenibile delle risorse idriche del bacino del Lago Ciad; 4) elaborazio-
ne della Carta dell’acqua del bacino del Lago Ciad. I documenti sono stati analizzati nella loro inte-
gralità, dividendoli in segmenti tematicamente omogenei. Di fronte al bisogno di caratterizzare in
modo più scrupoloso il contenuto dei documenti digitali studiati, abbiamo proceduto a un’analisi
tematica per individuare le unità semantiche costitutive dell’universo discorsivo. Attraverso l’indivi-
duazione delle idee significative e loro categorizzazione, abbiamo ottenuto informazioni sul posi-
zionamento dei documenti analizzati rispetto ai nostri temi di analisi: l’educazione, la comunicazio-
ne e il capitale umano.
5. Il dettaglio dei singoli programmi: «1) programma di sviluppo sostenibile del lago Ciad e del suo
bacino (è un programma regionale e globale che mira a realizzare meccanismi di consultazione e a
facilitare le negoziazioni con gli altri donatori per cofinanziare i programmi 2, 3, 4, n.d.a.); 2) pro-
gramma del sottobacino della Komadougou-Yobé (che interessa la Nigeria e il Niger); 3) program-
ma del sottobacino di Chari-Logone-El Beid (che interessa la Rca, il Camerun, il Ciad e la Nigeria);
4) progetti a carattere nazionale ma di importanza regionale per il bacino».
6. Fra questi, ci sono banche importanti come il Gruppo della Banca africana dello sviluppo (Afdb),
la Banca mondiale, la Banca islamica dello sviluppo. Ci sono inoltre delle organizzazioni internazio-
nali come l’Unione Africana, l’Unione Europea, il Consiglio dei ministri africani sull’Acqua, il Nepad,
le organizzazioni sorelle quali l’Autorità del bacino del Niger e la Commissione internazionale Con-
go-Oubangui-Sangha, le Commissioni economiche subregionali, Cemac, Ecowas. 61
IL LAGO MORENTE NON SI SALVA SENZA CHI CI VIVE
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66
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
A
scarse e incerte. In tutto il Sahel, le medie annue delle precipitazioni diminuisco-
TTORNO AL LAGO CIAD LE PIOGGE SONO
1. Il lavoro di riferimento è M. BERTONCIN, A. PASE, Autour du lac Tchad. Enjeux et conflits pour le
contrôle de l’eau, Paris 2012, L’Harmattan. Si veda anche M. BERTONCIN, A. PASE, «Irrigation et déve-
loppement dans le bassin tchadien. Un modèle à inventer», in G. MAGRIN, J. LEMOALLE, R. POURTIER (a
cura di), Atlas du lac Tchad, Paris 2015, Passages-IRD, pp. 104-106. 67
PERCHÉ NON FUNZIONANO I PIANI DI AGRICOLTURA IRRIGUA NEL BACINO DEL LAGO CIAD
Modi di irrigare
Diverse sono le modalità individuate nel tempo per ottenere l’acqua indi-
spensabile a praticare l’agricoltura irrigua nella regione del Lago Ciad.
Un primo tipo di irrigazione si basa sul controllo della piena, ovvero sulla
costruzione di argini che contengano le acque di piena dei fiumi, che saranno
poi indirizzate ai canali irrigui attraverso chiuse di regolazione, nelle quantità e
nei tempi necessari. Le installazioni sono relativamente semplici, ma evidente-
mente la campagna agricola dipende dalla durata e dall’altezza delle piene, che
sono molto variabili negli anni.
Un secondo tipo prevede l’installazione di impianti di pompaggio sugli argi-
ni, così da essere in grado di avere acqua anche se il livello del fiume non è otti-
male. La produzione è più sicura ma aumentano molto i costi di costruzione, di
funzionamento e di manutenzione.
Un terzo tipo prevede la costruzione di dighe per ritenere l’acqua in laghi ar-
tificiali: l’irrigazione in questo caso si effettua per gravità. È certamente più eco-
nomica del pompaggio nella gestione, ma richiede elevati investimenti iniziali e
ha un pesante impatto di modificazione del territorio: spesso bisogna spostare
villaggi, si turbano le dinamiche idrologiche togliendo acqua alle zone umide a
valle, si interrompono i corridoi di passaggio del bestiame. E l’allevamento è
un’attività che per le popolazioni saheliane riveste un valore che va ben di là del
solo significato economico.
Vi sono poi modalità di irrigazione tipiche del contesto del lago. In età pre-
coloniale le popolazioni di Bol, sulla riva Nord del lago, avevano sviluppato
un’originale tecnica per ricavare terreni da coltivare, chiudendo con rudimentali
dighe le digitazioni del lago che si spingono all’interno dei cordoni dunari del-
l’erg del Kanem 2. Il ritirarsi progressivo delle acque imprigionate permetteva la
coltivazione in décrue dei terreni dei polders così costruiti. Lo scavo di pozzi e
l’uso dello 4aduf consentiva in un secondo tempo di continuare a irrigare anche
le terre più alte. La salinizzazione dei suoli e l’abbassamento progressivo della
falda mettevano però a rischio la funzionalità e l’efficacia del sistema. A questo
2. CH. BOUQUET, Insulaires et riverains du lac Tchad: une étude géographique, 2 voll., Paris 1990,
Harmattan; M. BERTONCIN, A. PASE, «Les polders. Histoire, actualité et diversité», in G. MAGRIN, J. LE-
MOALLE, R. POURTIER (a cura di), op. cit., pp. 98-100. 69
PERCHÉ NON FUNZIONANO I PIANI DI AGRICOLTURA IRRIGUA NEL BACINO DEL LAGO CIAD
punto gli argini venivano abbattuti per consentire nuovamente l’ingresso delle
acque del lago nel polder. Questa operazione permetteva la lisciviazione dei suo-
li e la ricarica della falda. Negli anni successivi si richiudeva la diga e il ciclo di
coltivazione poteva ricominciare. Questa ingegnosa tecnica sarà imitata e «miglio-
rata» dagli amministratori coloniali.
Sempre il lago è la risorsa d’acqua di grandi progetti moderni che hanno in-
teressato le rive nigeriane del Ciad a partire dagli anni Settanta del Novecento:
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lunghi canali adduttori portavano l’acqua dal lago fino a impianti di pompaggio
che la distribuivano negli schemi irrigui.
Geografie d’acqua
Il Logone è il fiume che più precocemente, a partire dagli anni Cinquanta del
Novecento, e con maggior intensità è interessato dalla diffusione dell’irrigazione
moderna. In Camerun ha svolto un ruolo essenziale la Société d’expansion et de
modernisation de la riziculture de Yagoua (Semry). Tre sono le aree interessate: la
Semry I a Yagoua, con quattro impianti di pompaggio dal Logone (5.500 ettari), la
Semry II di Maga (6 mila ettari), che ha comportato la costruzione di un bacino di
ritenuta alimentato dalla piena del fiume e dai mayo (corsi d’acqua stagionali) che
scendono dai monti Mandara, e infine la Semry III nel dipartimento Logone e Cha-
ri, con dieci medi perimetri alimentati per pompaggio (1.927 ettari in tutto). Sulla
riva ciadiana del Logone, a parte il rapido insuccesso del casier A di Bongor, le ini-
ziative maggiori sono il casier B sempre di Bongor (800 ettari, in parte con control-
lo della piena e in parte per pompaggio) e il perimetro di Satégui Déréssia (1.500
ettari, in controllo della piena). Più a monte, a Nya nei pressi di Doba, sorge il ca-
sier C (250 ettari circa). Sempre in Ciad, lungo lo Chari a nord di N’Djamena, sono
stati costruiti sette piccoli perimetri (30-40 ettari ciascuno) per pompaggio.
L’altro fiume lungo il quale si sviluppano schemi irrigui è la Komadugu
Yobé, con i suoi affluenti Hadejia e Jama’are. Nella sezione prossima al lago si
registrano numerose iniziative sia sulla riva nigerina sia su quella nigeriana. In
Niger molti piccoli perimetri prendono acqua dal fiume o dalla falda; sulla spon-
da nigeriana sono stati costruiti tre perimetri in controllo della piena o per pom-
paggio dal fiume per un totale di 1.700 ettari. Ma i progetti più importanti sono a
monte, lontano dalla zona del lago: si tratta del Kano River Irrigation Project
(13.300 ettari) che prende acqua dalla diga di Tiga e del Hadejia Valley Irrigation
Project (2.200 ettari), che attinge dal Hadejia Barrage. Altri minori schemi irrigui
sono collegati a sbarramenti secondari lungo gli affluenti del fiume.
Per quanto riguarda il lago, sulla sponda nord-orientale nella zona di Bol e
Baga Sola si utilizza, su ispirazione dei metodi tradizionali prima descritti, il siste-
ma dei polders moderni (ovvero con pompaggio dal lago; 2.500 ettari) o «miglio-
rati», che ricevono acqua per gravità attraverso paratie sulle dighe di separazione
70 in terra battuta (6 mila ettari).
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
3. R. BLENCH, «The History and Future of Water Management of the Lake Chad Basin in Nigeria», in
H. JUNGRAITHMAYR, D. BARRETEAU, U. SEIBERT (a cura di), L’homme et l’eau dans le bassin du lac
Tchad, Paris 1997, Orstom, pp. 143-166; M. ADAM, «The Chad Basin Development Project. Rise and
fall of a giant irrigation project in West Africa», in M. KRINGS, E. PLATTE (a cura di), Living with the
Lake. Perspectives on History, Culture and Economy of Lake Chad, Studien zur Kulturkunde vol. 121,
Köln 2004, Rüdiger Köppe, pp. 191-203; M. BERTONCIN, A. PASE, M. WAZIRI, «L’irrigation sur les rives
nigérianes. Grands projets contrariés et hybridation contemporaine», in G. MAGRIN, J. LEMOALLE, R.
72 POURTIER (a cura di), op. cit., pp. 107-109.
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
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anni Cinquanta e Sessanta aveva una superficie estesa. Si dimenticò che il Lago
Ciad può presentare una grande variabilità anche in tempi brevi. Le siccità degli
anni Settanta stavano infatti creando una situazione ben diversa: l’altezza del lago
era al di sotto della soglia minima per alimentare l’intake channel. Il ritiro del la-
go rese necessario prolungare il canale di altri dieci chilometri, nel tentativo di
alimentare lo schema. L’esecuzione dei lavori rallentò: si completò solo la prima 73
PERCHÉ NON FUNZIONANO I PIANI DI AGRICOLTURA IRRIGUA NEL BACINO DEL LAGO CIAD
fase (22 mila ettari predisposti) e parte della seconda fase (4 mila ettari). Dal
1979 al 1984 la produzione pian piano aumentò. Il picco di 10 mila ettari si rag-
giunse nella stagione 1983-84. La stagione seguente il ritirarsi drastico del lago
impedì l’approvvigionamento d’acqua al canale adduttore. Dei 14 mila ettari pre-
parati nessuno giunse a raccolto. Il progetto si fermò. Quando nel 1988 l’acqua
del lago tornò, le strutture inattive da lungo tempo non erano più efficienti.
Negli anni a seguire, di tanto in tanto le pompe sono state riavviate irrigando
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però superfici sempre più ridotte. Nel paesaggio desolato dell’argilla bruciata dal
sole, alcuni contadini sono tornati a coltivare ritagli di terra all’interno dei canali
del progetto, dove si accumula un po’ di umidità. La Cbda continua a chiedere al
governo la riabilitazione dello schema, ancora considerato strategico.
Ma intanto l’attività irrigua più significativa si è spostata lungo il canale ad-
duttore. Dopo il periodo delle piogge, la piena allaga le terre circostanti. Da
gennaio, i contadini iniziano a seguire l’acqua che si ritira seminando cereali e
prodotti orticoli, secondo una pratica ben consolidata. Nella stagione secca,
compaiono le piccole motopompe, di proprietà dei contadini che, attingendo
dal canale, consentono di prolungare le possibilità produttive delle terre vicine.
Così il canale adduttore è affiancato per molti chilometri da terreni agricoli: i
buoni raccolti sono convogliati sul mercato di Maiduguri. L’invenzione di questo
nuovo utilizzo delle strutture di progetto da parte dei contadini nigeriani è un
esempio particolarmente efficace dell’integrazione tra saperi agricoli tradizionali
e il know-how esterno.
qua sicure, sui bordi dei fiumi o degli stagni stagionali, si installano le motopom-
pe e si coltivano minuscoli spazi irrigui.
A questa vitalità interna si affiancano possibili interessi stranieri rivolti al
suolo agricolo, come sta avvenendo in altre aree del Sahel, lungo il Senegal, il
Niger e il Nilo, coinvolte nel fenomeno dell’accaparramento fondiario. Qualche
primo segnale dell’affacciarsi di attori stranieri, magari collegati in qualche mo-
do alla presenza di rilevanti riserve petrolifere nel sottosuolo, si inizia a scorge-
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re. Nella regione del lago vi sono però difficoltà di particolare rilievo: la lonta-
nanza dal mare e le reti di trasporto malridotte, la violenza politico-religiosa le-
gata a Boko Haram e alla repressione delle forze di polizia e militari, e poi le
incertezze legate al regime idrologico del Lago Ciad, al grido di allarme più vol-
te lanciato sulla sua «imminente sparizione». Come descritto nell’altro nostro arti-
colo in questo dossier, in realtà questa diagnosi è frutto di un’approssimazione
conoscitiva delle dinamiche idrologiche del bacino lacustre e della sua connatu-
rata variabilità nel tempo.
Fin dagli anni Ottanta è stata comunque proposta una soluzione ingegneri-
stica a questo problema: un trasferimento d’acqua dal bacino del Congo a quel-
lo ciadiano, per dare sicurezza al destino del lago e ridare vita ai grandi progetti
di sviluppo irriguo. Di là delle differenti opzioni tecniche in campo, alcune più
realistiche altre quasi visionarie, appare curioso che si punti ancora al grande
progetto, anzi enorme in questo caso, dopo gli esiti così difficili delle esperien-
ze passate. Con più umiltà bisogna partire dalla rilevanza economica e sociale
dell’agricoltura familiare e di villaggio, bisogna considerare la risorsa dei saperi
locali, della capacità di innovazione dimostrata dai contadini sui «resti» dei pro-
getti. Non è più il tempo di un unico percorso di sviluppo e un unico modello
produttivo per un territorio che è, per sua natura, mutevole e proprio per que-
sto, nonostante tutto, ricco di possibilità.
75
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AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
705 milioni per l’alimentazione (esclusa la pesca), 250 milioni per le piante vive,
11 milioni per i prodotti forestali secondari (per quelli primari, in primis il legna-
me, si stima un valore annuo di oltre 320 miliardi di dollari).
Un corno di rinoceronte può fruttare da 250 a 400 mila dollari (sino a 60 mi-
la dollari al chilo); una zanna di avorio grezzo di 20 chili può fruttare ai traffican-
ti 1.300 dollari, per arrivare a 3.500 dollari al chilo se ridotta in statue, collane,
timbri (i famosi hanko), bracciali o altro nel mercato di Hong Kong e in quello
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occidentale; una tartarughina di terra egiziana (in un solo sequestro operato dalla
Forestale al porto di Palermo se ne contarono 2.500 stipate nei doppifondi di
una jeep), viene venduta nel mercato del porto di Napoli a 100 euro. Ancora,
animali vivi, soprattutto scimmiette e rettili, uccelli, anfibi, coralli e conchiglie.
Tra i derivati, uno scialle di shatush (prodotto con lana di antilope tibetana)
può fruttare sino a 20 mila dollari, un chilo di caviale beluga (dallo storione Hu-
so huso del Mar Caspio) può essere pagato anche 8 mila dollari, una borsetta
griffata in caimano dagli occhiali o alligatore viene pagata migliaia di dollari nel-
le boutique di mezzo mondo, un cappotto in lana di vigogna può costare anche
8 mila dollari, un pappagallo ara giacinto può costare fino a 15 mila dollari, e
via elencando.
I temibili ãanãåwød del Sudan, famosi predoni del deserto assoldati dal go-
verno del Sudan e responsabili di violenze indicibili contro le popolazioni civili
in Dårfûr, ma anche nelle regioni del Sud Kurdufån e nel Blue Nile, si finanziano
con il commercio dell’avorio, del corno di rinoceronte e di animali braccati in
paesi limitrofi (come la Repubblica Democratica del Congo e la Repubblica Cen-
trafricana). In Nigeria, Boko Haram si finanzia con il commercio dell’avorio di
elefanti braccati in Camerun e in Ciad e con la gestione delle risorse forestali; i
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3. È quindi accertato che gruppi armati e gruppi terroristici fanno soldi, tra
l’altro, con il controllo delle concessioni di taglio nelle foreste e con il commer-
cio di specie protette, come rinoceronte ed elefante. In alcuni casi, come per
l’Lra in Congo, in mancanza di altre risorse l’utilizzo di quelle naturali diventa
una raison d’être dei conflitti stessi. Significa che economie di porzioni di terri-
torio africano, in mancanza di presidio delle autorità costituite e di alternative
fonti di finanziamento, si autoalimentano con queste risorse, creando un’eco-
nomia di guerra.
Tale meccanismo provoca l’impoverimento di masse di persone che assisto-
no impotenti alla distruzione di opportunità di sviluppo sostenibile legale alle ri-
sorse naturali; l’esacerbarsi di violenza interetnica e intercomunitaria; l’aumento
di criminalità, corruzione e instabilità; la proliferazione di armi e il loro utilizzo
per il bracconaggio, ma anche per la commissione di altre violenze e crimini. Le
comunità locali sono sottoposte a minacce, privazione di diritti, abusi, lavoro for-
zato, reclutamento di bambini soldato, traffico di esseri umani, schiavitù sessuale.
Drammatico e rappresentativo di questo fenomeno, rilevato soprattutto in
Africa, è il caso del parco nazionale di Garamba, emblematico della situazione
in tutta la Repubblica Democratica del Congo. La riserva accoglieva fino al
2000 una popolazione del rinoceronte bianco, fatto estinguere in pochi anni
dalle bande ãanãåwød sudanesi. Parallelamente, la popolazione di elefanti è
stata decimata (-90%). Operano in quest’area simultaneamente, contendendosi
il territorio, Lra, ãanãåwød, Forza di difesa del Ruanda, Mai Mai e altre bande
locali. In tutto il Congo questi gruppi gestiscono anche il legname, il carbone,
l’oro e le altre attività estrattive.
Nemmeno il famoso parco del Virunga, che ospita gli ultimi gorilla di mon-
tagna (non più di 880), è stato risparmiato: è rifugio per sfollati e ribelli armati
(tra cui i temibili M23). Dal 1996 sono stati uccisi duecento ranger e nel 2007,
in risposta alle azioni del parco contro i tagli abusivi, un intero gruppo di goril-
la fu sterminato a colpi di MK27. Quest’anno il direttore De Merode è scampa-
to a un’imboscata.
Per meglio comprendere la drammaticità del fenomeno vale la pena citare
80 un dettagliato reportage realizzato da Bryan Christy per National Geographic,
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
che riporta un resoconto di razzie di elefanti operate dai soldati del generale Jo-
seph Kony, responsabile di violenze e rappresaglie contro le truppe governative
e i civili. Kony opera tra Repubblica Democratica del Congo, Repubblica Centra-
fricana, Sudan e Ciad e avrebbe contatti con Boko Haram a ovest e con i guerri-
glieri dell’Is in Siria, Iraq, Libia ed Egitto. Il generale compare nella lista dei glo-
bal terrorists redatta dal Dipartimento di Stato americano. Le informazioni arriva-
no anche da due importanti ong africane, Invisible Children ed Enough Project
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and Resolve, che sulla falsariga del lavoro fatto da Greenpeace in Brasile con il
legname illegale (Amazon’s silent crisis) hanno tracciato il movimento di avorio
illegale apponendo un rilevatore Gps su una zanna.
L’avorio viene trasferito in mesi e mesi di viaggio, spesso a dorso di cam-
mello, verso nord attraverso il deserto e immagazzinato in depositi sotterranei
(usati anche per l’acqua), da dove poi viene trasferito a tappe verso la Somalia
o l’Etiopia, per essere poi imbarcato verso la Cina, Taiwan, Hong Kong e la
Thailandia. Altro avorio esce dai porti di Mombasa in Kenya, Dar es Salaam in
Tanzania o Gibuti nel Mar Rosso e viene occultato in container di legname o di
altri materiali.
L’ultima frontiera del traffico di risorse naturali interessa i residui lembi di fo-
resta primaria soprattutto nel Centro e nel Sud America, nel Sud-Est Asiatico e in
Africa centrale. Ramino, palissandro, mogano e afrormosia le essenze più ricerca-
te nei mercati occidentali (che almeno si giovano di un sistema di tutela legato
alla Cites, Convention on International Trade in Endangered Species), cui vanno
aggiunte l’ipè, l’imbuia, il moabi, il bubinga, l’ayous, il wengè e centinaia di altre:
tutte essenze pregiate per ottenere le quali si tagliano a raso le foreste, si aprono
piste forestali in aree demaniali e remote senza autorizzazione.
Il fenomeno dell’illegal logging frutta ogni anno dai 30 ai 100 miliardi di
dollari e produce violenze contro i nativi, abusi, omicidi, limitazioni di diritti
primari, contribuendo a distruggere uno degli ecosistemi più preziosi del pia-
neta. Dal 10 al 30% del volume totale del legname commercializzato nel mon-
do è stimato di origine illegale, con punte che arrivano al 90% nel triangolo Ca-
merun-Gabon-Congo.
controlli in dogana e all’interno. Esiste una Wildlife Web Crime Unit presso la Fo-
restale perché, come tutti i traffici illeciti, anche quelli in questione avvengono
sempre più sulla Rete. Sono 28 i nuclei Cites della Forestale che, con le dogane,
vigilano sulle importazioni illegali di animali e piante e da poco anche sulla cor-
retta applicazione della EU Timber Regulation e del Flegit per bloccare le partite
illegali di legname. Si possono usare scanner e cani per scoprire l’avorio nei con-
tainer soprattutto a Civitavecchia, uno dei principali varchi container doganali
d’Europa insieme a Rotterdam, Ravenna, Livorno e Gioia Tauro.
L’Italia, paese relativamente più scevro di altri da un opportunismo di stampo
postcolonialista, potrebbe fare molto di più in Africa. Molta parte del continente
subisce infatti una nuova e forse ancor più incontrollata e disastrosa fase di depre-
dazione, gestita da gruppi e organizzazioni che traggono vantaggio dalla debolez-
za delle autorità governative e da uno scenario geopolitico frammentato. Se dun-
que assistiamo a interessanti processi di emancipazione in molti paesi africani,
dobbiamo purtroppo rilevare che nella cruciale partita delle risorse naturali, l’Afri-
ca è nuovamente aggredita e, ancora una volta, lasciata sola.
82
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
IL MIRACOLO
DELLA PAX MAFIOSA
IN NIGER di Luca RAINERI
La resistenza del paese all’assalto del crimine organizzato non
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1. N
EL GIUGNO 2011, IN PIENO DESERTO DEL
Sahara, ottanta chilometri a nord della località nigerina di Arlit, una pattuglia
dell’esercito del Niger intercetta un convoglio di contrabbandieri. Tre fuoristra-
da trasportano armi leggere ed esplosivi dalla Libia in preda alla guerra civile
verso il Mali, dove la guerra scoppierà pochi mesi dopo. Ne segue uno scontro
a fuoco e uno dei tre veicoli dei contrabbandieri viene catturato. A bordo sono
rinvenuti 645 chili di Semtex, esplosivo dall’alto potenziale proveniente dagli
arsenali di Gheddafi.
Alla luce dei successivi sviluppi nell’area saheliana, che porteranno alla de-
stabilizzazione del Mali e a una guerra civile ancora in corso, questo episodio
sarà additato dai commentatori internazionali come la prova dell’efficacia dei
dispositivi di difesa – e più in generale della solidità politica – del Niger. Uno
dei paesi più poveri al mondo, che tuttavia si è mostrato in grado di difendere
pace e democrazia in un territorio accerchiato da focolai di conflitto: la Libia a
nord, il Mali a ovest, la Nigeria a sud, i regimi autoritari di Algeria, Burkina Fa-
so e Ciad nei restanti scampoli di frontiera. Il Niger pertanto diverrà, negli anni
successivi, l’alleato di riferimento delle potenze internazionali preoccupate di
ripristinare l’ordine nella regione: a Niamey verranno posizionati i droni ameri-
cani e francesi per il controllo del Sahara, mentre l’Unione Europea sceglierà
proprio il Niger come interlocutore privilegiato nella lotta al «traffico» di mi-
granti subsahariani in rotta verso l’Europa.
I retroscena di questa storia apparentemente edificante rivelano tuttavia l’in-
quietante prezzo della stabilizzazione del Niger. Oltre al carico di esplosivo, nel
veicolo recuperato dall’esercito nigerino sono rinvenuti documenti che permetto-
no di risalire all’identità dei conducenti degli altri fuoristrada: si tratta di Ibrahim
Alambo – fratello di Aghali Alambo, ex leader della rivolta tuareg che ha infiam- 83
IL MIRACOLO DELLA PAX MAFIOSA IN NIGER
mato il Nord del Niger fra il 2007 e il 2010, in seguito divenuto consigliere di
Gheddafi – e di Abta Hamidine, ex leader della componente araba della medesi-
ma rivolta. Sapendosi braccato, Abta si consegnerà pochi giorni dopo al generale
Maikido, già plenipotenziario di Niamey nella guerra con i tuareg, nel frattempo
diventato presidente del Consiglio regionale di Agadez, la capitale del Nord nige-
rino, cuore di tutti i traffici del Sahara.
Abta viene (illegalmente) trattenuto e interrogato per quaranta giorni dai ser-
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vizi nigerini, a cui finirà per rivelare il più ampio disegno geopolitico di cui il suo
convoglio era un tramite: Gheddafi, incalzato dall’attivismo di Sarkozy, aveva ne-
goziato un accordo con Aqmi (al-Qå‘ida nel Maghreb islamico) per farsi conse-
gnare (vivi) i cinque ostaggi francesi rapiti nel settembre 2010 dai mujåhidøn
presso la miniera di uranio di Arlit, gestita dalla multinazionale transalpina Areva.
Gli ostaggi sarebbero serviti al Colonnello per smorzare il fervore guerriero di
Sarkozy e, per estensione, della Nato. Il Semtex e una somma imprecisata in dol-
lari contanti erano il pagamento per la riuscita dell’operazione orchestrata – rive-
lerà Abta – proprio da Aghali Alambo. Il contenuto dei due veicoli sfuggiti, tutta-
via, non sarà mai rinvenuto. A seguito dell’interrogatorio, Abta riuscirà a ottenere
un colloquio privato con il presidente della Repubblica Mahamadou Issoufou.
Verrà infine processato e condannato, insieme ad Aghali Alambo, nel marzo
2012. Ma dopo neanche dieci giorni di carcere entrambi saranno liberati per in-
tercessione di Issoufou e inspiegabilmente insigniti di cariche prestigiose: Alam-
bo è nominato segretario alla presidenza del parlamento, Abta consigliere specia-
le di Issoufou stesso. La liberazione degli ostaggi francesi rimasti nelle mani di
Aqmi, avvenuta nell’ottobre 2013, avrebbe quindi consentito al movimento jiha-
dista di ottenere venti milioni di euro di riscatto (versati dai contribuenti francesi
nelle tasche dei terroristi 1) e di integrare un proprio esponente (Abta) nell’esecu-
tivo nigerino, il miglior alleato dell’Occidente nel Sahel.
Abta e Alambo non rappresentano casi isolati. Rhissa Ag Boula, altro nome
di spicco della rivolta tuareg, è stato identificato alla testa di un convoglio di
oltre duecento veicoli militari proveniente dalla Libia e destinato al Mali nel
settembre 2011; ciò non ha impedito a Issoufou di nominarlo suo consigliere
speciale pochi mesi dopo. Molti altri ex leader del Mnj (Movimento dei nigerini
per la giustizia, la più significativa fazione della recente rivolta tuareg) si trova-
no ora alla guida di Comuni e Regioni del Nord. La sorprendente resistenza del
Niger agli shock esterni sembrerebbe quindi dipendere non tanto dalla straor-
dinaria integrità delle sue istituzioni democratiche, quanto dalla capacità di as-
sestamento di un sistema di cooptazione ben oliato. Negli ambienti della sicu-
rezza a Niamey non pochi alludono al fatto che la resa dell’Mnj nel 2009 po-
trebbe essere stata ottenuta in cambio di una contropartita inconfessabile. Ver-
sione confermata da alcuni ex militanti del movimento, che accusano la diri-
genza dello stesso – in primis Aghali Alambo – di «aver venduto la propria base
2. In effetti, gli anni in cui l’Mnj prende il controllo del Nord del Niger (2007-
9) coincidono con il periodo di picco del traffico di droga, in particolare di co-
caina, nell’Africa occidentale e nel Sahel. Dati Onu parlano di 40-50 tonnellate di
cocaina sudamericana pura che transitano nel 2008 attraverso l’Africa occidentale
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verso i mercati europei, per un valore finale al consumo di quasi due miliardi di
dollari. Nel percorso che collega i porti sul Golfo di Guinea a quelli sul Mediter-
raneo, in Libia e in Egitto, e fino in Medio Oriente, la lunga frontiera scarsamente
presidiata che divide l’Algeria dal Niger rappresenta un corridoio privilegiato, che
ricalca le antiche piste carovaniere, nonché le collaudate rotte dell’hashish pro-
dotto in Marocco e in Ghana.
È plausibile che, con un meccanismo sperimentato in altri contesti, l’Mnj ab-
bia inteso sfruttare i proventi colossali dei traffici vendendo protezione ai traffi-
canti in transito nelle aree sotto il suo controllo; salvo poi finire per confondere il
mezzo con il fine e piegare la rivendicazione politica alle finalità più pragmatica-
mente economiche. In questo senso la resa delle armi, in realtà mai portata a ter-
mine, potrebbe essere stata negoziata in cambio di un sostanziale salvacondotto
alla perpetuazione dei traffici nella regione, concesso dalle autorità ai ribelli più
«malleabili». La deliberata negligenza nella repressione dei traffici avrebbe inoltre
consentito all’esercito di inserirsi progressivamente nel business più lucroso del
deserto. Negli ultimi anni, in effetti, il Niger si sta affermando come uno hub re-
gionale del traffico di droga. Sequestri senza precedenti interessano in maniera
crescente il territorio del paese: le intercettazioni di passeggeri carichi di pochi
chili di cocaina effettuate a più riprese all’aeroporto di Niamey nel dicembre
2014, che pure avevano inizialmente suscitato un certo scalpore mediatico, paio-
no risibili di fronte ai 500 chili segnalati alla frontiera con il Mali (marzo 2015),
alle centinaia di intercettazioni denunciate alla frontiera con l’Algeria (aprile
2015), ai quintali nascosti fra le grotte nel deserto del Nord-Est del paese rinve-
nuti dai soldati francesi (maggio 2015).
Tali episodi tuttavia potrebbero rappresentare solo la punta di un iceberg
che rimane sommerso da connivenze e complicità intrecciate fin nelle più alte
sfere del potere locale. Significativamente, nessuna intercettazione di rilievo è
stata finora effettuata con il concorso dell’esercito nigerino, che in molti accusa-
no di partecipare alla protezione dei convogli e alla spartizione dei proventi. «La
corruzione dell’esercito è risaputa», affermano gli esponenti locali di Transpa-
rency International, «eppure ad oggi nessun processo è stato intentato contro alti
esponenti della gerarchia militare. I generali rimangono intoccabili» 3. Fonti giudi-
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IL MIRACOLO DELLA PAX MAFIOSA IN NIGER
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Agadez
Tahoua ZINDER
TILLABÉRI
Ex area
Niamey del lago Ciad Corridoio K-K-M per il commercio
MARADI di beni per lo più leciti
ora paludosa (benzina, prodotti sovvenzionati)
DOSSO Maradi
Sokoto Lago Ciad Probabili trafci di medicinali
Ouagadougou contrafatti e sigarette
Katsina Corridoio principale dei trafci
di armi e cocaina
BURKINA FASO Kano
Frontiere strategiche porose
ziarie, ad esempio, indicano che nel febbraio 2010 un aereo cargo si è posato in
territorio nigerino al confine fra Libia e Algeria. Distribuito il carico di cocaina,
stimabile in decine di quintali, l’aereo ha potuto riprendere il volo indisturbato.
Nonostante la disponibilità di diverse testimonianze concordanti, nessuna proce-
dura né inchiesta è stata intrapresa. La prossimità sia geografica sia temporale
con il noto caso dell’Air Cocaine (il Boeing carico di cocaina rinvenuto nel Saha-
ra maliano nel novembre 2009) suggerisce la possibilità che anche il grado di pe-
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netrazione delle reti criminali all’interno delle strutture dello Stato sia comparabi-
le nei due paesi. Il che conferma l’avventatezza delle sperticate lodi alla supposta
«solidità» della democrazia nigerina.
Parallelamente all’ascesa delle gerarchie militari, nuovi attori si sono inseriti
con prepotenza nel business dei traffici di droga in Niger. Molti osservatori addi-
tano con sospetto l’improvviso successo delle grandi compagnie locali di traspor-
to privato, come Rimbo e 3Stv, sorte dal nulla a seguito delle cure di austerity
imposte al Niger dai grandi finanziatori internazionali negli anni Novanta. Le diri-
gono imprenditori appartenenti alla comunità araba, gli unici a disporre delle ri-
sorse, della logistica e dei legami familiari estesi su scala regionale indispensabili
a garantire la movimentazione sicura di beni (più o meno leciti) e persone su
percorsi lunghi, accidentati e pericolosi: rispettivamente Rhissa Mohamed e Ché-
rife Abidine (non a caso soprannominato Chérife Cocaïne, o il Boss di Agadez). I
loro mezzi sono ritenuti vettori di traffici che, per quanto illeciti, sono considerati
innocui dalle autorità, dal momento che il danno cagionato, sia in termini finan-
ziari che di salute pubblica, si ripercuote su paesi limitrofi o lontani, mentre i
guadagni sono redistribuiti localmente e alimentano un’economia altrimenti pro-
sciugata dalle conseguenze devastanti del cambiamento climatico.
Oltre al traffico di cocaina, la flotta di camion e autobus di Rhissa Mohamed
sarebbe specializzata nel mercato delle sigarette di contrabbando: prodotte in Ci-
na e a Dubai, sbarcate nei porti di Cotonou e Lagos, le bionde di frodo prose-
guono la loro rotta attraverso il Niger, via Agadez, per essere infine svendute in
Algeria o Libia, dove più della metà del tabacco consumato è importato illegal-
mente. La stessa direttrice (e presumibilmente la stessa infrastruttura logistica)
serve il crescente traffico di medicinali di contrabbando venduti nella regione. In
alcuni paesi dell’area, un quarto dei medicinali antimalarici risulta contraffatto e
inefficace; mentre in Egitto il Tramadol, un medicinale a base oppiacea opportu-
namente (e illegalmente) modificato, è divenuto una sostanza stupefacente di lar-
ghissimo consumo.
L’impunità dilagante nella quale fioriscono i traffici di ogni tipo è frutto an-
che degli equilibri politici del modello neopatrimoniale nigerino e del capillare
sistema di reti clientelari, consorterie, nepotismi e oscure obbligazioni recipro-
che. La presidenza di Issoufou e la preminenza del suo partito (il Pnds, Partito
nigerino per la democrazia e il socialismo) devono infatti molto ai due attori pro-
tagonisti dei traffici nel paese: i militari e l’élite mercantile araba. Issoufou è stato
eletto a seguito di un periodo di «transizione» militare e si è guardato bene dal- 87
IL MIRACOLO DELLA PAX MAFIOSA IN NIGER
A L G E R I A
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Benin 1 In uscita
Bloccati alle frontiere
Burkina Faso 39 e costretti a tornare
Camerun 41 Centri di transito
e di assistenza
Costa d’Avorio 26 dell’Organizzazione
Internazionale
Gambia 261 per le Migrazioni (Oim)
Confni regionali
Ghana 31
T A H O U A Nomi delle regioni
Guinea Bissau 57 14 3
Guinea Conakry 25 Numeri su fondo bianco:
verso la Libia
Liberia 9 Numeri su fondo nero:
verso l’Algeria
Mali 170
Dati basati sulla raccolta
Nigeria 68 di testimonianze di migranti
Rep. Centrafricana 3 (2.127) accolti e assistiti
dall’Oim nel periodo
Rep. Dem. del Congo 1 tra gennaio e settembre 2014.
Senegal 546
88 Togo 4
Fonte: Oim
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
manca ancora all’appello la maggior parte delle armi utilizzate nelle rivolte saha-
riane e trafugate dagli arsenali libici. Non sono in pochi a sospettare che, in osse-
quio a una consolidata tradizione delle tribù locali, kalashnikov, esplosivi, lancia-
razzi e armamenti antiaerei siano stati nascosti sotto la sabbia e nelle montagne
dell’Aïr e dell’Hoggar, dove si conserveranno in buone condizioni in attesa di es-
sere rimesse in circolazione al servizio di una nuova causa. Le ragioni di malcon-
tento non mancano: dall’impatto del cambiamento climatico all’indignazione per
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91
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AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
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Parte II
AFRICHE
PROFONDE
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AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
QUANTE AFRICHE
IN AFRICA? di Gianni BALLARINI e Raffaello ZORDAN
C
delle strutture militari, controllo sociale e spinta demografica sono fattori che,
RESCITA ECONOMICA E PESO
di Garda è di 370 kmq), per un volume di 63 miliardi di metri cubi d’acqua. I co-
sti dell’opera, i cui lavori sono affidati all’italiana Salini-Impregilo, sono saliti a 4,5
miliardi di dollari. Il governo, per farvi fronte, si è appellato al nazionalismo etio-
pico proponendo alla popolazione di sottoscrivere nuovi buoni del Tesoro e
chiedendo donazioni private.
Un’opera che – assieme alle altre due dighe in fase di costruzione (Gibe III
sul fiume Omo e quella sul fiume Ganale-Dawa) – dovrebbe non solo liberare
l’Etiopia dall’aleatorietà della meteorologia, ma ridefinire da una posizione di for-
za le relazioni diplomatiche e le geopolitiche regionali di Addis Abeba. Il disegno
strategico etiopico, infatti, è di sviluppare fonti energetiche diversificate al fine di
soppiantare il caffè come principale voce nel capitolo esportazione. Progetto che
si fonda sulla grande fame di elettricità disponibile e conveniente che c’è nel se-
condo paese più popolato del continente e nell’Africa intera. Una politica ambi-
ziosa. Vissuta come pericolosa da vicini ingombranti come il Sudan e l’Egitto del
generale-presidente al-Søsø, che impronta da sempre gran parte delle sue politi-
che estere sulla sicurezza idrica.
Il rinascimento di Addis Abeba, che si esplicita in un’accelerata modernizza-
zione, si basa su un fiume ininterrotto di investimenti pubblici, molti sostenuti
economicamente dalla Cina. Immensi quartieri popolari sui luoghi delle estese
baraccopoli rase al suolo; nuove arterie stradali; la già inaugurata metropolitana
di Addis Abeba, la prima nell’Africa subsahariana; la costruzione di una rete fer-
roviaria di cinquemila km che prevede i collegamenti tra la capitale e il porto di
Gibuti e tra le regioni del Sud-Est e il Nord del paese; la prevista costruzione di
un nuovo aeroporto, alla periferia della capitale, che possa accogliere 120 milioni
di passeggeri l’anno e dal costo di 4 miliardi di dollari.
L’obiettivo è trasformare l’Etiopia nella locomotiva continentale, riconoscen-
do ad Addis Abeba il titolo di capitale d’Africa. Gli organismi internazionali sono
entusiasti della sua crescita economica. Il Fondo monetario, che ha rivisto al ri-
basso i dati africani per il 2015, elogia il paese del Corno, classificandolo tra le
cinque economie che crescono più rapidamente nel mondo. Gli Usa, poi, la con-
siderano un baluardo continentale contro il terrorismo islamista.
Dati, tuttavia, da leggere criticamente: stiamo sempre parlando, infatti, di un
paese tra i più poveri al mondo (al 173° posto su 187 nell’Indice di sviluppo
umano 2014) e che è guidato, in questa fase di transizione, dalla mano pesante
del governo. Il quale esercita un controllo sociale molto stringente. Dalle prime
96 elezioni parlamentari libere post-Menghistu, nel 1995, l’Etiopia è retta, di fatto, da
La popolazione urbana in Africa
LA POPOLAZIONE AFRICANA 67 (2014 - Fonte: Banca mondiale - in percentuale)
60
Tunisia
Casablanca Alessandria 70
3.537.000 4.791.000 78 43
Marocco
Ovest
(Tripolitania) Il Cairo
Algeria 11.663.000 59 39
Libia 18
Est 34 22
Sahara Occ. Fezzan Egitto 65 43 22
(Cirenaica) 77
59 29
37 39
39 47 19
Mauritania 53 53 40 19
40
Dakar Niger 49 54
3.308.000 Mali 44
Eritrea 39
Senegal 65 16 25
Sudan 87 65
Gambia 40 28
B. Faso Gibuti 42 12
Ciad Etiopia
Guinea B. Guinea 00 31
Benin
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9 28
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Co Kinshasa 27
10.668.000 Tanzania Dar es Salaam 64
4.153.000 Seychelles
Luanda Paesi per percentuale
6.013.000 di popolazione urbana
Comore
Angola Îles Glorieuses (Francia) (2014 - Fonte: Banca mondiale)
Mala
Zambia Mayotte Meno del 20
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o (Francia)
Densità della bic tra il 20 e il 40
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popolazione Zimbabwe Mo tra il 40 e il 60
Le megacittà Namibia Maurizio
(numero di abitanti per km2)
più di 200 Da 10 a 22 milioni Botswana Madagascar ©Limes sopra il 60
Ekurhuleni Riunione (Francia)
da 100 a 200 3.380.000 I milioni di abitanti indicati accanto alle megacittà,
da 50 a 100 Swaziland sono una stima per il 2015 dell’African Development Bank.
da 5 a 9 milioni Johannesburg
da 25 a 50
3.867.000 Una stima precisa in Africa è molto difcile da ottenere.
da 10 a 25 Sudafrica Lesotho
da 4 milioni a 4.900.000 Secondo le informazioni di Limes, raccolte da ricerche specifche e dagli
da 1 a 10
Città del Capo autori sul campo, come quella che troverete nell’articolo dedicato a Lagos,
da 0 a 1 da 3 milioni a 3.900.000 3.579.000 ci risulta che le megacittà siano molto più popolose già ora di tutte le stime disponibili.
LE RETI DEI JIHADISTI AFRICANI Tunisi
Algeri
Rabat TUNISIA SIRIA
Tripoli Stato Islamico
MAROCCO
Tobruk Da e verso
il Medio IRAQ
Oriente
Tripolitania
Il Cairo
ALGERIA Cirenaica
Sahara Occ. LIBIA
EGITTO
Fezzan
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MAURITANIA
Nouakchott
NIGER SUDAN
MALI ERITREA YEMEN
SENEGAL
GAMBIA Niamey CIAD Khartum Asmara
Bamako
BURKINA GIBUTI
GUINEA B. N’Djamena
GUINEA FASO Gibuti
Conakry NIGERIA Da e verso
Freetown Addis Abeba lo Yemen
COSTA Abuja
BENIN
SIERRA LEONE SUD SUDAN
GHANA
D’AVORIO
TOGO
Monrovia CENTRAFRICA ETIOPIA
SOMALIA
LIBERIA Yamoussoukro CAMERUN Giuba
Bangui al-Šabab
Vie di comunicazione Yaoundé
e snodi jihadisti UGANDA
GUINEA EQ. Mogadiscio
Kampala KENYA
Presenza di afliati dell’Is
O
Muslim Defence
GABON International
Violenze di gruppi
NG
Nairobi
di matrice islamista
CO
Ma
r
Tamanrasset 1.934
Ro
MAURITANIA
sso
Ti best
i
20° NIGER
3.415
MALI Aïr
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SUDAN
Nouakchott Aoudaghost Timbuctu Gao
Kiffa Agadez ERITREA
Khartum
SENEGAL Niamey Mao CIAD
GAMBIA
Bamako BURKINA F.
Ouagadougou N’Djamena 3.088 1.786 GIBUTI
12°
GUINEA B. NIGERIA Kano
GUINEA
SOMALIA
Addis Abeba ETIOPIA
BENIN
Abuja
SIERRA L. SUD SUDAN
COSTA
TOGO
REP. CENTRAFRICANA
D’AVORIO
Bangui
CA
Giuba
M
LIBERIA
ER
GHANA
UN
REP. DEM. DEL CONGO KENYA
Le rotte dei migranti Golfo di Guinea UGANDA
GUINEA EQ.
Rotta occidentale 5.109 4.321 5.199 EQUATORE
EQUATORE GABON 4.507 RUANDA
Rotta centrale 5.895
CONGO BURUNDI OCEANO
Rotta orientale
INDIANO
(Cabinda) ANGOLA
Montagne rilevanti (altitudine in metri) TANZANIA
Fascia di crisi sahariano-saheliana ANGOLA
© Limes
LE NON SOVRANITÀ AFRICANE Principali aree d’infuenza
Tunisia
Marocco
Ovest
(Tripolitania)
Algeria
Libia
Sahara Occ. Est
Fezzan (Cirenaica) Egitto Ciad
Nigeria
Mauritania Etiopia
Capo Niger Uganda
Verde Mali Eritrea
Senegal Ciad Sudan
Gambia Gibuti
B. Faso Ruanda
Guinea B. Etiopia
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Guinea
Costa Somalia
Nigeria
Togo
Benin
L. d’Avorio Sud Sudan
Ghana
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ri a m
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Guinea Eq. Uganda
Kenya
Gabon
o Ruanda
ng Rep. Dem.
Co del Congo Burundi
Tanzania Sudafrica
Seychelles
Nigeria
Comore
Angola Îles Glorieuses (Francia) Benin, Burkina Faso, Capo Verde, Costa d’Avorio,
Mala
Mayotte Gambia, Ghana, Guinea, Guinea Bissau, Liberia,
Zambia
wi
o (Francia) Mali, Niger, Senegal, Sierra Leone, Togo
bic Ciad
am
ar
z
c
Namibia
da
Watch, dal 2010 ai primi mesi del 2015 almeno sessanta giornalisti non allineati
(trenta dei quali solo nel 2014) hanno lasciato il paese per evitare denunce e ar-
resti. Il 16 ottobre scorso sono stati assolti quattro blogger del collettivo Zone 9,
in carcere da 18 mesi con l’accusa di terrorismo.
Il paese ha una rete poliziesca diffusa e un esercito tra i primi in Africa (180
mila militari), utile per tenere a freno le minacce di vicini ostili. Le tensioni con
l’Eritrea sono costanti. Il primo ministro etiopico Hailemariam Desalegn è tornato
ancora il 1° novembre a invitare la comunità internazionale a fare pressioni per
un cambiamento al potere in Eritrea, con la scusa della crisi migratoria. Da parte
sua Asmara continua ad armarsi, violando l’embargo imposto dalla risoluzione
1907 del 2009 dell’Onu, sostenendo gruppi di opposizione armata nei paesi con-
finanti, come ribadito dalla risoluzione 2244 adottata il 23 ottobre scorso. Una
tensione che si riverbera nelle relazioni internazionali dei due paesi.
luglio 2012 dalla sudafricana Dlamini Zuma); la presenza solitaria di Pretoria tra i
G-20; la cooptazione del Sudafrica nel gruppo Brics e la corsa a ostacoli per l’e-
ventuale seggio permanente riservato a uno Stato africano nel Consiglio di Sicu-
rezza dell’Onu raccontano di un’affannosa rincorsa nigeriana.
La situazione attuale appare anche più fragile. Sia per ragioni interne sia in-
ternazionali. Il voto del marzo scorso ha eletto presidente il candidato dell’oppo-
sizione Muhammadu Buhari, rafforzando nel paese un esercizio ininterrotto di
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potere democratico che dura da 16 anni. Per la prima volta un capo di Stato è
stato scalzato per via elettorale e non da un putsch militare. Ma la Nigeria è un
paese a sistema federale (36 Stati) che deve far fronte a continue spinte centrifu-
ghe. È diviso quasi in egual modo fra musulmani (al Nord) e cristiani (al Sud),
che vivono una situazione economica radicalmente diversa: il 72% dei nigeriani
del Nord campa con meno di un dollaro al giorno, contro il 27% del Sud. Ci so-
no più di 250 gruppi etnici che incidono sull’architettura istituzionale, influenzan-
do la composizione del parlamento. Un paese che deve rivedere al ribasso i dati
di crescita economica, a causa del dimezzamento, da metà 2014, del prezzo del
petrolio (la redistribuzione dei suoi proventi resta uno dei punti oscuri nelle rela-
zioni tra i 36 Stati).
Inoltre, l’esplosione della violenza jihadista di Boko Haram nel Nord-Est ne
mina la stabilità e la sicurezza. E deteriora anche i rapporti internazionali del
paese, che ha dovuto subire l’umiliazione di eserciti stranieri sul suo territorio
per combattere il terrorismo. Ora Abuja guida la Multinational Joint Task Force
che ha la sua sede a N’Djamena (Ciad) e che comprende novemila militari pro-
venienti, oltre che dalla Nigeria, da Benin, Ciad, Camerun e Niger. Un’iniziativa
militare chiamata a far fronte alle milizie islamiste guidate da Abubakar Shekau.
Ma è guardata con sospetto da alcuni ambienti nigeriani, soprattutto per il ruolo
di primo piano giocato dal Ciad, ritenuto l’avamposto della Francia nel continen-
te. Anche perché Parigi ha cercato di frenare, in questi anni, l’attivismo e le am-
bizioni nigeriane in Africa.
L’ombrello sudafricano
Il Sudafrica targato African National Congress ha un doppio fardello sulle
spalle. È chiamato a consolidarsi quale democrazia compiuta e inclusiva, che
riesce a far convivere economia liberale, diritti del lavoro (brucia ancora la re-
pressione dei lavoratori in sciopero a Marikana nel 2012) e welfare. Ed è obbli-
gato a esercitare un’egemonia geopolitico-economica in particolare sugli Stati
che fanno parte della Comunità Economica di Sviluppo dell’Africa Meridionale
(Sadc). L’obbligo gli deriva dall’essere la seconda economia dell’Africa (suo il
25% del pil continentale, 350 miliardi di dollari) e titolare di quel progetto politi-
co denominato «rinascimento africano» che ha nella Nepad (Nuova Partnership
per lo Sviluppo dell’Africa, fondata nel 2001 con Algeria, Egitto, Nigeria e Sene-
98 gal) uno dei suoi bracci operativi.
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
Africana, esibiscono dati economici positivi (non altrettanto quelli sullo sviluppo
umano) e godono della simpatia degli Stati Uniti. Sembrerebbero due presidenti
come altri, ma restano dei capi militari e, appena possono, mostrano i muscoli e
recitano il ruolo di primi attori sulla scena politica della regione dei Grandi Laghi.
Yoweri Museveni (Uganda) e Paul Kagame (Ruanda) hanno conquistato il potere
– il primo in sella dal 1986 ha aiutato il secondo a imporsi nel 1994 – guidando
formazioni guerrigliere che si sono via via consolidate in eserciti ben strutturati.
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Anche se, secondo i dati del Sipri, la spesa militare in rapporto al pil nel periodo
2011-14 si è mantenuta stabile per il Ruanda (1,1%) e in calo per l’Uganda (dal
3,3% del 2011 all’1,2% del 2014).
Abituati a guardarsi alle spalle, entrambi hanno risolto con durezza, pur con
tonalità diverse, il problema dell’opposizione interna e di una possibile alternan-
za al potere, chiudendo ogni spazio. Sono abituati anche a guardarsi attorno, al
di là degli stretti confini nazionali, e a interpretare a loro modo la politica dell’in-
tegrazione regionale. A farne le spese sono ampi territori dell’Est della Repubbli-
ca Democratica del Congo, che sulla carta è un gigante e nei fatti fa molta fatica
a tenersi insieme. Così i «cugini» Museveni e Kagame (quest’ultimo e il suo Fronte
patriottico ruandese hanno preparato in Uganda, fin dal 1990, la presa di Kigali
nel 1994) hanno dapprima sostenuto (1996-97) la cacciata di Mobutu e l’avvento
di Laurent-Désiré Kabila – padre dell’attuale presidente congolese Joseph che sta
concludendo in maniera anonima il suo secondo mandato presidenziale – e poi
hanno occupato ampie aree della Rdc (1998-2003).
E i «cugini», anche in concorrenza tra loro, non hanno perso questa attitudi-
ne in anni più recenti. Si danno da fare a mantenere destabilizzato il Nord-Est
della Rdc, già di per sé lontano da Kinshasa, storicamente con frontiere porose e
attraversato da guerriglie autoctone. Con il pretesto di rispondere alla minaccia di
gruppi guerriglieri – le Forze democratiche per la liberazione del Ruanda e l’E-
sercito di liberazione del Signore (Lra) di Joseph Kony – e con l’intento di mette-
re le mani su minerali strategici come il coltan, eccoli sostenere ribelli filoruande-
si (Cndp prima e M23 poi). Un rapporto Onu del 2012 dice di armi, di assistenza
tecnica e di consigli militari che arrivano direttamente dall’Uganda e dal Ruanda.
Gli interessati hanno smentito, come sempre.
Ad oggi la situazione sul terreno è ancora fuori controllo, come rileva un
rapporto di Human Rights Watch del 2015 sul reclutamento di bambini soldato. E
appare quasi decorativo l’accordo-quadro, voluto dalla comunità internazionale e
firmato nel 2013 ad Addis Abeba, che impegna i paesi della regione a rispettare
la sovranità e l’integrità territoriale di ciascuno.
Non va dimenticato che Kampala presta attenzione, non da oggi, anche a
quello che accade in Sud Sudan, fornendo sostegno militare al presidente Salva
Kiir, intrappolato in una guerra civile che dura da due anni. E tiene settemila mi-
litari in Somalia nel contesto della missione dell’Unione Africana. Mentre Kigali
ha fornito uomini e mezzi alle missione Onu in Mali e in Darfûr (Sudan) e alla
100 missione internazionale nella Repubblica Centrafricana.
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
Ciad, il gendarme
La Banca mondiale classifica il Ciad tra le nazioni piuttosto vulnerabili sul
piano economico. Ma è un dettaglio irrilevante per le ambizioni del presidente
Idriss Déby. Il quale punta ad acquisire credito politico, non tanto per come ge-
stisce il proprio paese, ma per come si rapporta con i paesi confinanti e con gli
interessi internazionali che agiscono nell’area, in primis quelli della Francia che è
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101
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AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
LE INDIPENDENZE AFRICANE
1956
Angola
1975
Zambia
1964
Zimbabwe
1980 Madagascar
Mozambico 1960
Botswana 1975
Namibia 1966
1990
Gambia 1965
Guinea Bissau 1974 Swaziland 1968
Guinea 1958
Sudafrica Lesotho 1966
Sierra Leone 1961
1961
Liberia Tra il 1949 e il 1959
Costa d’Avorio 1960
Burkina Faso 1960 Tra il 1960 e il 1961
Certo, stiamo passando per una fase di disordine – inevitabile, dato che la demo-
crazia all’inizio è sempre disordine. Ma questo disordine è comunque positivo,
perché mostra che le Afriche sanno quello che vogliono. Se si agisce in un qua-
dro di regole che garantiscono un dibattito non violento, si può essere ottimisti.
In Africa occidentale la democrazia, per quanto imperfetta, è ormai una realtà. In
Africa orientale e australe deve progredire. Alcuni casi specifici: in Burkina Faso
si può essere ottimisti. Compaoré è stato costretto a cedere il potere e si sono te-
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vuole aprire la porta santa anche dove sembra esserci la fine del mondo. France-
sco ha sempre parlato di una Chiesa in uscita, missionaria in un modo nuovo,
una Chiesa che non teme di sporcarsi le mani con le sofferenze. Lui farà appello
al popolo cristiano affinché sia portatore di misericordia e non si faccia manipo-
lare da estremismi etnici, religiosi o politici.
LIMES Il panafricanismo è morto con Gheddafi?
GIRO Gheddafi aveva sfruttato il panafricanismo per i suoi scopi, anche se in ef-
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fetti – in una sorta di eterogenesi dei fini – aveva contribuito alla nascita dell’U-
nione Africana. Oggi il panafricanismo è in sofferenza ma non è morto; il sogno
resiste, pur attraversando una fase di difficoltà comune a tutti i progetti di inte-
grazione, quelli che La Pira definì «unitivi». Va difeso.
L’africanismo del XXI secolo non può però coagularsi attorno ai temi degli anni
Sessanta del Novecento: la negritudine e la razza. I padri nobili – Senghor, Nkru-
mah – non avevano idee etnicistiche, anzi prevedevano il superamento dell’etni-
cismo. Anche la Chiesa deve aiutare questo processo, essendo forse l’unica gran-
de rete africana. Servono altri elementi culturali e politici: l’umanesimo africano,
a differenza del nostro, è poco scritto, ma esiste. Ci vuole tempo.
L’unità africana sarà il portato della democrazia. L’integrazione europea fu una
scelta dei leader, se questi avessero fatto votare i loro popoli non sarebbe mai
partita. Oggi questo non più è possibile: i popoli vogliono far sentire la loro vo-
ce. Anche in Africa l’integrazione è partita sospinta dai leader (Senghor, Nkru-
mah, Nyerere, fino a Mandela), oggi tocca alla società farla propria.
LIMES C’è in questo momento un paese o una figura leader in Africa?
GIRO Difficile dirlo. Ci sono diversi leader: ciò spiega l’integrazione economica,
ma non basta. Non c’è in questo momento un nuovo Mandela o, se c’è, non l’ab-
biamo ancora scoperto.
107
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AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
CORSA
AL NILO di Giorgio MUSSO
Le acque del grande fiume africano restano contese fra molti attori
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1. I
L NILO E I SUOI AFFLUENTI COSTITUISCONO
il più lungo bacino fluviale al mondo, scorrendo attraverso foreste equatoriali, sa-
vane e deserti per oltre 5.500 chilometri 1. Il Nilo può essere diviso in due tronco-
ni: da Khartûm al delta, esso scorre nitido e sinuoso tra le sabbie del Sahara, ri-
cevendo il tributo d’acqua di un solo grande affluente, l’‘A¿bara, e riempiendo lo
smisurato invaso dell’Alta diga di Assuan (Aswån); a meridione della capitale su-
danese non esiste invece un solo Nilo, bensì due bacini idrografici distinti che
come una cerniera confluiscono nella caratteristica Y rovesciata che segna la to-
pografia di Khartûm. Il primo è il Nilo Bianco, che si abbevera alle fonti dei
grandi laghi africani e si disperde nei mille rivoli del Sudd, una delle paludi più
vaste al mondo, collocata nel cuore del Sud Sudan. Stagnando in questi stermina-
ti acquitrini il Nilo Bianco perde per evaporazione circa il 50% della sua portata.
Per questa ragione, circa l’85% dell’acqua che raggiunge l’Egitto proviene dall’al-
tro bacino nilotico, quello del Nilo Azzurro, che dopo essere sgorgato dal lago
Tana discende bruscamente dall’altopiano etiopico sino a raggiungere, 1.300 me-
tri più in basso, la diga di al-Rûâayriâ, in territorio sudanese. Proprio nel breve e
ripido pendio tra la sorgente del Nilo Azzurro e il confine tra Etiopia e Sudan si
concentrano i progetti di sviluppo idroelettrico di Addis Abeba che hanno susci-
tato le ire del Cairo.
Il bacino del Nilo copre il 10% dell’intera superficie africana, interessando
ben undici paesi: Egitto, Sudan, Sud Sudan, Etiopia, Eritrea, Uganda, Kenya,
Ruanda, Burundi, Repubblica Democratica del Congo e Tanzania. La portata me-
dia annua del fiume è di 84 milioni di metri cubi d’acqua, meno della metà di
1. Tale stima considera il lago Vittoria come sorgente del Nilo. Altri calcoli si rifanno invece al suo
affluente più remoto, il fiume Ruvyironza in Burundi, determinando una lunghezza complessiva del
Nilo di 6.671 chilometri. 109
CORSA AL NILO
quella del Niger (180) e addirittura un quindicesimo di quella del grande fiume
Congo (1250). Infine, data la sua estensione latitudinale, il bacino del Nilo è
estremamente eterogeneo in termini climatici e geomorfologici, e i confini politi-
ci creati dalla storia recente hanno dato vita a entità statali profondamente dissi-
mili sotto il profilo demografico, politico ed economico. È evidente come, in pre-
senza di condizioni così fortemente disomogenee, la condivisione delle risorse
idriche non si possa basare su un semplice principio aritmetico di ripartizione,
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fosse anche proporzionale. Ed è qui che l’acqua cessa di essere un fluido, e di-
venta una questione prettamente politica.
2. Non v’è dubbio che l’acqua sia, in molte aree del pianeta, un bene scarso il cui accesso sicuro è
precluso a centinaia di milioni di esseri umani. Proprio per questo, le risorse idriche sono al centro
di numerosi conflitti locali intra- o intercomunitari, anche molto violenti. Non si è tuttavia mai verifi-
cato un conflitto militare interstatale causato dalle risorse idriche, ad eccezione forse dei ripetuti
scontri tra Israele e Siria per il controllo del Giordano alla metà degli anni Sessanta, che vanno tut-
110 tavia collocati nel più ampio contesto del conflitto arabo-israeliano.
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
no, tutti ancora sotto dominio inglese e belga, vennero egualmente esclusi. Fu co-
sì firmato nel 1959 un trattato bilaterale la cui intestazione non si prestava ad am-
biguità: «Accordo tra la Repubblica del Sudan e la Repubblica Araba Unita sul
completo utilizzo delle acque del Nilo» 3. Il trattato conferiva all’Egitto e al Sudan il
diritto di utilizzare ogni anno rispettivamente 55,5 e 18,5 miliardi di metri cubi
d’acqua, che al netto dell’evaporazione esaurivano l’intera portata del fiume. Al
capitolo 5 del trattato, inoltre, i contraenti affermavano il proprio diritto di veto
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nei confronti di futuri progetti di sfruttamento delle acque del Nilo da realizzarsi al
di fuori dei loro confini. Addis Abeba non riconobbe la legittimità dell’accordo,
così come lo rigettarono gli altri Stati del bacino una volta divenuti indipendenti.
Hailé Selassié, facendo leva sui meccanismi della guerra fredda, commissionò al
Bureau of Land Reclamation, Land and Water Resources 4 degli Stati Uniti uno stu-
dio di fattibilità delle infrastrutture idroelettriche realizzabili sul corso del Nilo Az-
zurro. Dopo avere accumulato polvere negli archivi per alcuni decenni, il rappor-
to stilato dall’ente statunitense avrebbe costituito il punto di partenza dell’ambizio-
so piano di sviluppo idroelettrico varato dal governo etiopico tra il 2009 e il 2010.
4. Fino agli anni Novanta, l’Egitto riuscì a fare in modo che l’accordo del
1959 non venisse messo seriamente in discussione. L’avvento di una nuova e
ambiziosa classe dirigente in Etiopia e nei paesi dei Grandi Laghi ha però rotto
questo equilibrio, riportando in auge i grandi piani infrastrutturali e lo sfrutta-
mento delle risorse naturali. L’Etiopia, che tra il 1990 e il 2010 ha quasi raddop-
piato la propria popolazione passando da 48 a 83 milioni di abitanti, ha fatto del
proprio potenziale idroelettrico – stimato in 45 mila MW, di cui solo 2 mila sono
attualmente sfruttati 5 – il perno di una strategia di sviluppo il cui obiettivo è l’in-
gresso nel novero delle middle income countries 6 entro il 2025. «L’Etiopia è come
un’enorme colonna d’acqua collocata in un deserto», mi ha spiegato pochi mesi
fa un ingegnere egiziano, «e vuole diventare una sorta di Arabia Saudita dell’ac-
qua». Il parallelo è suggestivo, anche se va sottolineato come Addis Abeba guardi
all’acqua soprattutto come fonte di energia da esportare in tutta la regione, piut-
tosto che come input agricolo o bene di consumo.
Le rivendicazioni dell’Etiopia – cui si sono presto aggregati l’Uganda e gli al-
tri paesi nilotici subsahariani – hanno condotto alla creazione, sostenuta dalla
Banca mondiale nel 1999, di un’organizzazione intergovernativa nota come Nile
Basin Initiative (Nbi). L’Egitto e il Sudan vedevano l’Nbi come un utile forum per
consolidare i propri diritti acquisiti ed evitare una degenerazione della situazione
in senso conflittuale, mentre il «fronte meridionale» guidato dall’Etiopia voleva
3. Tale accordo in realtà ampliava e aggiornava un precedente trattato bilaterale firmato da Egitto e
Gran Bretagna nel 1929, quando entrambi controllavano il Sudan attraverso un’amministrazione co-
loniale congiunta.
4. L’ente statunitense responsabile per la progettazione delle dighe sul suolo americano.
5. In Etiopia, solo il 20% della popolazione ha accesso all’energia elettrica.
6. I «paesi a medio reddito», che la Banca mondiale definisce quando il pil lordo pro capite è com-
112 preso tra i 1.026 e i 12.475 dollari.
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
N
ilo
EGITTO
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SAUDITA
Fiumi stagionali
Luxor
LIBIA Fiumi perenni
1ª cateratta
DIGA DI ASSUAN Lago Canali
Nasser
Nilo Bianco
2ª cateratta Wādī Halfa Nilo Azzurro
Mar Fiume Ruvyironza
Rosso
3ª cateratta Fiume ‘Atbara
.
4ª cateratta Canale del Jonglei
(incompleto)
CIAD
(Atbara
5ª cateratta
6ª cateratta ERITREA
Massaua
Khartum
Asmara YEMEN
SUDAN
Lago
DIGA DI ROSEIRES Tana Gibuti
Berbera
Malakāl SOMALIA
Addis Abeba
Nil
od
Wāw GERD
elle
Ğūbā
Lago
Rodolfo
UGANDA Mogadiscio
Lago
Alberto Lago Kyoga
KENYA
REP. DEM. Kampala
Kisumu
DEL CONGO Nakuru
Lago Chisimaio
Vittoria
Mogadiscio
RUANDA Oceano Indiano
BURUNDI Arusha
TANZANIA ©Limes Mombasa
Burundi e Kenya hanno presto aggiunto la propria firma al Cfa, la cui ratifica da
parte dei parlamenti nazionali è stata però sospesa come segno di distensione
nei confronti dell’Egitto.
5. La rivolta di piazza Taõrør ha tuttavia aperto per l’Etiopia una finestra d’op-
portunità irrinunciabile. Consapevole del fatto che l’instabilità interna avrebbe as-
sorbito le energie della classe politica egiziana per un lungo periodo, a soli due
mesi dalla destituzione di Hosni Mubarak l’ex primo ministro etiopico Meles Ze-
nawi – poi scomparso nell’agosto 2012 – ha inaugurato i lavori di costruzione di
una diga progettata per divenire la più grande di tutto il continente africano.
La Grand Ethiopian Renaissance Dam (Gerd) 9 dovrà sorgere nella regione di
Benishangul/Gumuz, in un’area scarsamente popolata ad appena 15 chilometri
dal confine con il Sudan. Se Nasser disse che l’Alta Diga di Assuan avrebbe sim-
boleggiato la «rinascita dell’Egitto», la Gerd dovrà segnare il battesimo di una
nuova Etiopia, affrancata dalla povertà. Il governo, che nel 2012 ha impiegato il
60% della spesa pubblica per questo singolo progetto, ha emesso un bond appo-
sito per consentire il finanziamento «popolare» della diga, caldamente sollecitato
anche presso le comunità della diaspora.
L’appalto da quasi 5 miliardi di dollari è stato attribuito all’italiana Salini-Im-
pregilo, incaricata di realizzare un colosso alto 170 metri e largo quasi 2 chilome-
tri, capace di contenere, a seconda delle stime, tra i 63 e i 74 miliardi di metri cu-
bi d’acqua. Una volta operativa, la Gerd dovrebbe generare 5.250 MW di elettri-
cità, pari a due volte e mezzo l’energia prodotta dall’Alta Diga di Assuan e più
dell’intero fabbisogno nazionale etiopico.
Il sito su cui l’impresa italiana sta costruendo lo sbarramento era già stato
identificato come idoneo dai consulenti americani incaricati da Hailé Selassié ne-
gli anni Sessanta, i quali tuttavia avevano raccomandato la costruzione di una di-
ga alta la metà e il riempimento di un bacino di poco più di 11 miliardi di metri
cubi d’acqua. Questa sarebbe ancora, secondo gli ingegneri egiziani, la dimen-
sione ottimale della diga. A detta di molti – ma è difficile verificare quelle che so-
no supposizioni ingegneristiche dibattute – la Gerd sarebbe infatti in grado di
7. La convenzione è entrata in vigore solamente nell’agosto 2014, e nessuno degli Stati del bacino
del Nilo ne fa parte.
8. Egitto e Sudan avrebbero voluto che l’articolo in questione (14.b) imponesse di «non influenzare
negativamente la sicurezza idrica e l’attuale utilizzo e i diritti» degli altri Stati del bacino.
114 9. In precedenza nota anche come Millennium Dam.
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
sfruttare appieno il proprio potenziale idroelettrico solo nei mesi di piena del Ni-
lo. «Tale sproporzione tra la misura ottimale e il progetto effettivo», mi chiarisce
uno dei negoziatori egiziani, «si spiega solo in un modo: questa non è una diga
per produrre energia elettrica, è una diga per immagazzinare acqua». Non biso-
gna inoltre dimenticare che la Gerd è l’opera più consistente della strategia di
sviluppo idroelettrico del Nilo A, ma non l’unica. Sono infatti in fase di progetta-
zione altre quattro dighe nel tratto compreso tra il lago Tana e la Gerd, nei siti di
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10. Come è facile capire, più è breve il tempo di riempimento della diga, più consistente sarà la sot-
trazione d’acqua. Parte dei negoziati tra Egitto, Etiopia e Sudan è incentrata su questo aspetto. 115
CORSA AL NILO
116
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
LA TRISTE PARABOLA
DELL’ERITREA di Vittorio ROBECCHI
Da uno dei paesi più poveri e militarizzati del mondo proviene
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I
ai più in seno all’opinione pubblica internazionale, l’Eritrea ha evocato per
GNORATA DAI MEDIA GLOBALI, SCONOSCIUTA
vent’anni solo vaghe memorie coloniali agli italiani, senza mai conquistare un
posto nelle cronache dal Corno d’Africa. Questa posizione defilata e silenziosa
ha tuttavia nascosto la deriva di un autoritarismo politico che dal 1991 (anno in
cui si liberò dal giogo dell’Etiopia) ha trasformato un movimento di liberazione
popolare partecipativo in uno dei più rigidi sistemi dittatoriali del pianeta.
Dopo un lunghissimo periodo di silenzio, l’Eritrea ha tuttavia riconquistato
da qualche tempo gli onori della cronaca internazionale. Dell’enorme massa di
profughi che dall’Africa subsahariana cerca di raggiungere le coste dell’Europa,
infatti, un numero sempre maggiore è eritreo, portando con sé storie di violenza,
povertà e soprattutto negazione dei diritti umani.
Il sogno infranto
Quando nel 1991 le forze del Fronte di liberazione del popolo eritreo (Flpe)
riuscirono a cacciare le truppe etiopi da Asmara, Massaua e dalle altre città del-
l’Eritrea, riconquistando il territorio arbitrariamente annesso dal negus nel 1962,
gli eritrei credettero di aver finalmente riconquistato non solo l’indipendenza ma
anche e soprattutto la libertà e la democrazia.
Isaias Afewerki, leggendario comandante dell’Flpe, venne acclamato a furor
di popolo primo presidente dopo il referendum del 1993, che sancì con il 99%
delle preferenze l’indipendenza dell’Eritrea, trasformando poco dopo il vecchio
movimento guerrigliero nel primo partito della nuova unità nazionale, il Fronte
popolare per la democrazia e la giustizia (Pfdj).
117
LA TRISTE PARABOLA DELL’ERITREA
1. I ministeri eritrei sono quelli dell’Agricoltura, della Difesa, dell’Educazione, dell’Energia e delle Mi-
niere, della Pesca, delle Finanze, degli Esteri, della Salute, dell’Informazione, della Giustizia, della Ter-
ra, Acqua e Ambiente, del Lavoro e del Benessere, del Governo locale, dello Sviluppo nazionale, dei
Lavori pubblici, del Turismo, del Commercio e dell’industria, dei Trasporti e delle telecomunicazioni.
2. Centrale (o Maekel/Al Wasat), Meridionale (o Debub/Al Janobi), Gash-Barka, Anseba, Mar Rosso
Settentrionale (o Semienawi-Qeyh-Bahr/Shamal Al-Abahar Al-Ahmar) e Mar Rosso Meridionale (o
Debubawi-Qeyh-Bahri/Janob Al-Bahar Al-Ahmar). 121
LA TRISTE PARABOLA DELL’ERITREA
permettendo anzi nel recente passato un poderoso incremento delle intrusioni gra-
zie al ruolo e alla solerzia di figure come quella di Yemane Ghebreab, che esercita
di fatto per conto del regime il ruolo di raccordo con le comunità all’estero.
Tra le attività connesse all’esazione informale spicca quella di repressione
del dissenso in seno alla diaspora, per mezzo della minaccia a congiunti ancora
residenti in Eritrea ma anche attraverso una rete di attivisti in loco il cui principa-
le compito è quello di monitorare il dibattito pubblico sul paese – soprattutto
sulla Rete – partecipandovi con centinaia di profili fasulli che esaltano il ruolo
del regime e l’amore del popolo eritreo per il suo presidente. Una strategia bana-
le e ai limiti del ridicolo, che è tuttavia riuscita – complice la tradizionale ignavia
delle autorità politiche europee – a conseguire il primo e non trascurabile suc-
cesso di impedire la coesione tra i gruppi della diaspora e la diffusione di infor-
mazioni precise sulla natura del regime e sulle sue brutalità.
Al tempo stesso sono oggetto di uno stretto controllo governativo i fondi
connessi agli aiuti internazionali, soprattutto grazie all’assenza oggi in Eritrea del-
le ong straniere, dopo la cacciata in massa della gran parte delle organizzazioni
lo scorso decennio, con l’accusa di essere al servizio delle strutture di intelligen-
ce americane ed europee.
Gli aiuti vengono ripartiti dal regime sulla base delle logiche di spartizione
interne all’apparato del partito, raggiungendo solo in minima parte il tessuto ru-
rale – cui sono primariamente indirizzati – senza quindi fornire reale beneficio
alla società e alle dinamiche di gestione di un’economia ormai evidentemente al
collasso.
Da oltre dieci anni, infine, l’Eritrea annuncia pomposamente di essere alla vi-
gilia di un poderoso sviluppo economico nel settore dell’estrazione mineraria,
con l’approntamento di infrastrutture in grado di sfruttare i ricchi giacimenti mi-
nerari. La dissennata politica di sviluppo economico del regime e la contestuale
assenza di reali strumenti di garanzia per gli investimenti degli stranieri, hanno
alla fine scoraggiato la gran parte dei – pochi – attori internazionali potenzial-
mente interessati a operare nel paese, limitando drasticamente le opzioni perse-
guibili e favorendo lo sperpero e la sottrazione dei proventi delle poche materie
prime effettivamente prodotte.
L’attività della pesca e del turismo, potenzialmente molto promettente lun-
go le coste del Mar Rosso, non è mai stata oggetto di reale interesse da parte
delle autorità, relegando le attività dei pochi natanti da pesca alla mera soddi-
122 sfazione del mercato locale e bloccando sul nascere ogni iniziativa turistica so-
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
è stimato intorno ai due milioni, di cui un milione circa emigrato all’epoca della
dominazione etiope, e la restante parte dopo la conquista dell’indipendenza.
La forte identità nazionale della prima generazione di migranti eritrei ha de-
terminato lo sviluppo di una comunità coesa ma non particolarmente attiva sotto
il profilo politico, anche in conseguenza del sostegno storicamente accordato al-
l’Etiopia dalla gran parte dei paesi occidentali. Le più recenti generazioni di mi-
granti sono invece figlie di quel contesto culturale oppressivo e invasivo creato
dal regime dopo l’indipendenza, quindi segnate dal timore della reazione violen-
ta da parte del potere, ma anche fortemente condizionate dal retaggio della nar-
rativa resistenziale, particolarmente radicato all’interno della società eritrea. Ogni
attacco al regime, quindi, viene di fatto confuso e considerato come un attacco
alla memoria stessa dei padri e dei fratelli morti per l’indipendenza della patria,
creando un clima di profonda diffidenza in seno alle stesse comunità della dia-
spora e finendo quindi per agevolare la cultura dell’omertà e del silenzio.
Un vantaggio enorme per il regime, che può quindi contare sull’involontaria
capacità della diaspora di controllare il flusso delle accuse e delle informazioni
circa il ruolo del governo e dei suoi emissari, anche all’estero.
Attraverso questa rete informale di sostegno, costruita più sull’identità nazio-
nale e sull’esigenza di aiuto alle famiglie ancora residenti in Eritrea che sul reale
appoggio al dittatoriale regime di Isaias Afewerki, si è quindi costruita la barriera
del silenzio dietro cui il paese ha potuto continuare indisturbato nella sua politica.
L’evidenza di un enorme numero di migranti eritrei che ogni giorno raggiun-
ge le coste dell’Europa – e del contestuale enorme numero di perdite umane nel
lungo e pericoloso tragitto attraverso il Sahara e il Mar Mediterraneo – ha solo
parzialmente sollevato il problema politico e sociale del regime eritreo. La gran
parte dei governi occidentali ha manifestato il proprio sentimento di condanna
verso Afewerki, senza tuttavia adottare alcuna concreta misura verso il regime
eritreo per arginare il devastante fenomeno dei flussi migratori e, più a valle, il
problema che tali flussi alimenta.
All’Eritrea viene in tal modo concesso di reiterare la propria condotta politica
e sociale senza alcuna misura di controbilanciamento che ne possa alterare il per-
corso, di fatto garantendo continuità politica al regime e impunità ai suoi vertici.
123
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AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
REPUBBLICA
CENTRAFRICANA
ANNO ZERO di Mauro GAROFALO
Le elezioni presidenziali sono l’ultima chance di porre fine a una
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1. Luogo della messa di lunedì 30 novembre con oltre 50 mila fedeli. 125
REPUBBLICA CENTRAFRICANA, ANNO ZERO
possibile mettere in sicurezza tutti i luoghi della visita del pontefice, che invece
ha voluto confermare l’intero programma. Inoltre, come annunciato durante
l’Angelus del 1° novembre, il papa ha aperto la Porta Santa a Bangui. Il fatto è
stato straordinario sotto molti aspetti. Al di là dell’anticipazione di una settima-
na, rispetto alla data prevista, dell’inizio del Giubileo della misericordia, colpi-
sce il fatto che la piccola cattedrale di Nôtre Dame de l’Immaculée Conception
di Bangui abbia anticipato la basilica di San Pietro in questo privilegio. La prio-
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rità data dal papa alle periferie del mondo (Lampedusa, Albania, Cuba), è stata
ribadita con forza attraverso tali scelte.
ore parte della città è rimasta inaccessibile, mentre il coprifuoco notturno era già
entrato in vigore all’indomani dei primi scontri.
Nel corso di questi disordini è avvenuto un episodio di particolare gravità:
l’attacco alla prison centrale, con la conseguente fuga di numerosi capi dei movi-
menti di guerriglia. È stato un duro colpo al processo di ricostruzione della credi-
bilità dello Stato e alla lotta contro l’impunità dei crimini. La prigione, tra l’altro,
si trova a poche decine di metri dalla residenza del presidente pro tempore
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Catherine Samba Panza, rientrata precipitosamente nel paese da New York, dove
si trovava per l’Assemblea Generale dell’Onu. La situazione è ancora tesa, come
testimoniato da numerosi episodi di violenza. L’escalation ha avuto un salto di
qualità nell’attacco a posti di blocco di Minusca con l’uccisione di un casco blu
camerunese, nell’assalto a un convoglio della Croce Rossa e nel rapimento di al-
cune importanti figure istituzionali, come la vicepresidente del parlamento di
transizione il 19 ottobre scorso.
Allo stato attuale non è possibile distinguere con certezza quanti degli inci-
denti siano dovuti a una regia occulta: di Bozizé da un lato, o di Michel Djotodia
e Noureddine Addam dall’altro, con lo scopo di sabotare la transizione e rientra-
re in gioco. Oppure al fatto che le bande di guerriglieri siano ormai sfuggite al
controllo di chi le aveva favorite e armate per perseguire i propri scopi.
3. La visita del papa non è il solo avvenimento decisivo di questo scorcio del
2015. C’è la fine del periodo di transizione, che va avanti a colpi di proroghe dal
2013. Sono passati infatti più di due anni e mezzo da quando Djotodia, leader
dei Seleka, ha sospeso la costituzione e dichiarato di voler rimettere i poteri en-
tro un anno, attraverso nuove elezioni. Dopo meno di un anno lo sdegno inter-
nazionale per il comportamento delle milizie Seleka e le continue esazioni ai
danni della popolazione avevano costretto Djotodia a precipitose dimissioni du-
rante il meeting di N’djamena, sotto l’egida del presidente del Ciad. I 135 membri
del parlamento di transizione, trasferiti in Ciad, si erano accordati per l’elezione
di Catherine Samba Panza, allora sindaco di Bangui, alla guida del paese.
Al nuovo corso della transizione, malgrado gli appelli alla concordia nazio-
nale e il pieno sostegno della comunità internazionale, non ha purtroppo fatto
seguito una maggiore efficacia dell’azione di governo. Molti rimproverano a Sam-
ba Panza un atteggiamento di ostilità verso i paesi della Ceeac (Comunità econo-
mica degli Stati centrafricani) e in particolare verso Denis Sassou Nguesso, presi-
dente della Repubblica del Congo e mediatore internazionale nella crisi centrafri-
cana. Nemmeno il tentativo di inglobare alcuni gruppi armati, ponendone alcuni
leader a capo di importanti dicasteri, ha ottenuto l’effetto sperato.
La fine della transizione è legata a due scadenze elettorali: l’approvazione
della nuova costituzione (meno problematica) e le elezioni del nuovo presidente,
il quale avrà sulle sue spalle il peso di ricostruire un paese allo stremo. L’autorità
nazionale per le elezioni, organo indipendente previsto dalla carta costituzionale
di transizione, ha dovuto in questi mesi far fronte a difficoltà di ogni genere, co- 127
REPUBBLICA CENTRAFRICANA, ANNO ZERO
può delineare il ritratto non di un paese fallito, quanto piuttosto di uno Stato che
in più di cinquant’anni di storia repubblicana (e per un breve tratto imperiale)
non ha trovato un’efficace soluzione per la gestione del potere politico e per
l’amministrazione territoriale. Il padre della patria Barthélemy Boganda, ex prete,
deputato alla Assemblea nazionale francese, aveva immaginato un Centrafrica
moderato, legato in maniera costruttiva alla Francia e in stretta connessione con i
paesi vicini 5, come simboleggiato dalla sua stessa bandiera, che mescola il trico-
lore francese con le bandiere dei paesi vicini. La sua morte, alla vigilia dell’indi-
pendenza, in un incidente aereo, alimenta oscuri sospetti e il paese perde l’unico
vero leader carismatico riconosciuto, che lascia incompiuta l’opera di fondazione
nella sua fase più delicata. Lo sostituisce David Dacko, rovesciato nel 1965 da
Jean-Bedel Bokassa.
Bokassa, prototipo del tiranno africano, rimane celebre per la cerimonia di
incoronazione imperiale nel 1976, ma la sua gestione del potere non può essere
riassunta nelle stravaganze della sua retorica napoleonica. Il suo regime concen-
tra progressivamente le energie e le risorse nazionali nella costruzione di un siste-
ma di potere più simile a una corte tradizionale africana che a un moderno Stato
di diritto 6. Il tutto in stretta collaborazione con il sistema di gestione postcoloniale
dell’Eliseo, la cosiddetta Françafrique di Jacques Foccart 7. Paradossalmente è
proprio il desiderio di Bokassa di mostrare la sua vicinanza politica e culturale al-
la Francia che determina la sua caduta. La cerimonia di incoronazione (così come
lo scandalo relativo ai diamanti elargitigli durante la presidenza Giscard d’Estaing)
spinge la presidenza francese a liberarsi di un alleato rivelatosi non solo pittore-
sco, ma anche dannoso. Con disinvoltura, Bokassa viene deposto da un’operazio-
ne militare gestita da Parigi, con il ritorno al potere di David Dacko.
Dacko, Bokassa, di nuovo Dacko e poi Kolingba: dopo tre colpi di Stato 8 e
quattro mandati presidenziali in poco più di trent’anni di indipendenza, nel 1993
il Centrafrica apre alla democrazia, eleggendo per la prima volta liberamente il
suo presidente, Ange-Félix Patassé. I tentativi di costruzione di un sistema demo-
cratico, avvenuti come accennato sotto la sua presidenza, vengono completa-
mente vanificati dalla presa di potere di Bozizé nel 2003. Bozizé però non ha vi-
5. A. ROMANO, «Centrafrica, la convivenza lacerata», in J.M. DI FALCO, A. RICCARDI, Il libro nero della
condizione dei cristiani nel mondo, Milano 2014, Mondadori, pp. 352-360.
6. E. GERMAIN, La Centrafrique et Bokassa 1965-1979, Paris 2001, L’Harmattan.
7. J. FOCCART, Foccart parle, con P. GAILLARD, Fayard-Jeune Afrique, 2 voll. 1995-1997.
128 8. Il numero dei colpi di Stato in Rca, tra quelli riusciti e non, è di circa 15.
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
FRANÇAFRIQUE
Tunisia
Marocco
Algeria
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a Libia
Egitto
Capo
Verde Mauritania Niger
Mali
Nigeria
Togo
Angola
Zambia
Zimbabwe Madagascar
Ex possedimenti francesi Namibia Mozambico
Paesi che hanno avuto un ruolo Botswana
di “intermediario regionale”
della metropoli Swaziland
Ex colonie belghe Lesotho
Sudafrica
Ex colonie portoghesi
ta facile: nel 2004 inizia l’ennesima ribellione interna, che negli anni successivi si
concentra nel Nord del Centrafrica (prefettura di Birao), zona a maggioranza mu-
sulmana. Bozizé, cercando di compattare il paese contro i suoi oppositori armati,
usa la carta religiosa e inizia a parlare dei suoi nemici come di musulmani stra-
nieri non originari del paese; in generale, accusa le comunità islamiche di com-
plicità con i ribelli venuti dall’esterno. I vertici delle Chiese cristiane rifiutano tale 129
REPUBBLICA CENTRAFRICANA, ANNO ZERO
linguaggio, ma è una lenta semina di odio i cui frutti avvelenati scuotono tuttora
la convivenza tra le comunità religiose del paese.
Non va tralasciato il complesso scenario regionale e il problematico vicina-
to. A diretto contatto con la striscia sahelo-sahariana e con le perduranti crisi
del Dårfûr, del Sud Sudan e della Repubblica Democratica del Congo, il Cen-
trafrica soffre periodicamente le conseguenze degli sconfinamenti dei più di-
sparati gruppi armati che, in assenza dello Stato e di un controllo delle frontie-
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re, trovano nel paese un vero e proprio santuario. Ãånãawød (milizie filo-
Khartûm accusate di crimini contro l’umanità in Dårfûr), ex ribelli ciadiani op-
positori del presidente Déby, perfino la famigerata Lord’s Resistance Army di
Joseph Kony. Ognuno di questi movimenti, insieme ad altre presenze meno
decifrabili, sono stati o sono presenti in Centrafrica. Che gruppi fondamentalisti
islamici possano guardare a questo paese come a una possibile area di rifugio
e consolidamento è una possibilità che rende inquieti gli ambienti politici e di-
plomatici francesi e di molti paesi della regione.
10. Il patto repubblicano, citato nella risoluzione del Consiglio di Sicurezza 2127, è stato adottato
formalmente dal presidente Djotodia il novembre successivo. L. LARCHER, «Sant’Egidio obtient un
“Pacte Républicain” en Centrafrique», La Vie, 7/11/2013. Sia il Patto repubblicano, che l’Appello per
la pace in Centrafrica sono disponibili su www.santegidio.org
11. Il testo dell’appello firmato è disponibile su www.santegidio.org
12 Il testo e la lista completa delle adesioni su www.santegidio.org 131
REPUBBLICA CENTRAFRICANA, ANNO ZERO
abusi sui minori, tanto che il segretario generale Ban Ki-moon è stato costretto a
sostituire il suo rappresentante speciale. I problemi più urgenti rimangono quelli
del disarmo dei guerriglieri e del controllo del territorio. Se ciò non avverrà, il
nuovo regime si ritroverà nell’impossibilità di esercitare pienamente il suo man-
dato. Infine, la comunità internazionale avrà l’oneroso compito di sostenere la ri-
costruzione del paese e di accompagnare i nuovi dirigenti in tale sforzo. Ma ne
vale la pena. L’opportunità di un nuovo inizio non va sprecata.
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132
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
LE GUERRE
INVISIBILI
DEL CONGO di Jean-Léonard TOUADI
Cinque milioni di morti, due milioni di sfollati: l’infinito
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N
sanguinosi in Africa sono cessati (Angola, Mozambico, Sierra Leone, Liberia…) e
EGLI ULTIMI DECENNI, MOLTI CONFLITTI
i paesi coinvolti sono ora dentro un faticoso processo postbellico. In alcuni casi
– l’Angola e il Mozambico per esempio – alla fase bellica e postbellica è suben-
trato un grande dinamismo economico, fino a diventare le principali aree di at-
trazione africane degli investimenti esteri diretti; ciò all’interno di un contesto che
vede l’insieme del continente diventare una delle aree di maggiore crescita eco-
nomica del mondo, soprattutto guardando alle proiezioni dei prossimi decenni.
Altre aree di conflitto persistono e altre sono esplose negli ultimi anni. I conflitti
in Sud Sudan e in Somalia, i grandi sconvolgimenti violenti che interessano l’area
sahelo-sahariana in seguito alla guerra in Libia, continuano a minare la stabilità
del continente africano e rappresentano un macigno pesante nella strada verso il
consolidamento delle incoraggianti performance economiche dell’ultimo decen-
nio. La stabilità politica è un prerequisito per rendere lo scacchiere africano ido-
neo a sostenere la crescita globale, come indicato dai più accreditati outlook glo-
bali. Difficile pensare che queste proiezioni possano realizzarsi con vaste aree
del continente in preda all’instabilità cronica.
La perdurante guerra nella Repubblica Democratica del Congo (Rdc, ex Zai-
re) assume le dimensioni preoccupanti di un pericoloso vulcano che, per dimen-
sioni e intensità lavica, è in grado di minare dall’interno e in modo duraturo gli
equilibri geopolitici, economici, ecologici e sociali dell’intero continente. Le ra-
gioni di quest’alto rischio di contagio della guerra congolese sullo scacchiere pa-
nafricano sono molteplici.
Anzitutto, il Congo è un territorio nevralgico grande come tutta l’Europa occi-
dentale in un’area geografica attraversata da interessi geostrategici e geoeconomi-
ci considerevoli. Inoltre, il paese è da sempre indicato come uno «scandalo geolo- 133
LE GUERRE INVISIBILI DEL CONGO
gico», con il 33% dei giacimenti mondiali di cobalto, il 10% delle riserve mondiali
di rame, un terzo delle riserve di diamanti, estesi giacimenti di uranio, zinco,
manganese e tre quarti delle risorse mondiali di coltan (colombo-tantalite) indi-
spensabile per la fabbricazione dei computer, dei telefoni mobili e di altri stru-
menti elettronici. Infine, nuovi giacimenti di petrolio sono stati scoperti nell’area
protetta del parco nazionale del Virunga. Inoltre, l’area di confine a cavallo tra
Uganda e Ruanda, che si estende dagli altipiani fino alla Valle del Rift, è conside-
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rata dai geologi come uno dei principali serbatoi di minerali dell’intero pianeta.
Il Congo confina con ben nove paesi africani (Congo-Brazzaville, Repub-
blica Centrafricana, Sudan, Uganda, Ruanda, Burundi, Tanzania, Zambia, Ango-
la). «Se l’Africa fosse raffigurata come una pistola, il grilletto si troverebbe in
Congo», scriveva Frantz Fanon, l’intellettuale francese di origini caraibiche auto-
re del saggio cult degli anni Sessanta, I dannati della terra. Questo grilletto
congolese è, purtroppo, ininterrottamente premuto dalla Conferenza di Berlino
fino all’odierno leader Kabila, passando per il regime coloniale più abietto, che
ha portato a un genocidio d’indigeni calcolato in 11 milioni di congolesi fino al
regime di Mobutu, ossia la più lunga e repressiva cleptocrazia che l’Africa ab-
bia mai conosciuto. La pressione del grilletto prosegue con il genocidio in
Ruanda del 1994, con le sue tragiche conseguenze che si riversano sul vicino
territorio congolese del Kivu con la «prima guerra mondiale africana», iniziata
nel 1996 e che dura ancora oggi nella parte orientale e nordorientale del paese.
La Rdc appare, quindi, come una gigantesca culla d’instabilità e un terreno fer-
tile per crimini di ogni tipo resi possibili dal crollo verticale dell’autorità dello
Stato. Il collasso delle istituzioni ha conseguenze gravissime, ad esempio incen-
tivando il commercio illecito di materie prime. Sicché la Rdc è oggi un crocevia
d’interessi economici ed energetici di paesi africani e potenze mondiali, secon-
do la logica della cosiddetta geopolitica del cinismo dove non sono più in gio-
co motivazioni ideologiche o/e strategiche, ma solo corposi interessi di lucro:
traffico di droga e di esseri umani; commercio delle armi per alimentari i con-
flitti locali congolesi e/o verso altri teatri di guerra regionali; uso di bambini
per fare la guerre; stupri collettivi come arma. Il conflitto congolese allunga e
arricchisce mese dopo mese i gironi del suo inferno con costi umani pesanti:
più di cinque milioni di morti, due milioni di sfollati; un pil pro capite (meno
di 500 dollari) tra i più bassi del pianeta nonostante le immense ricchezze; de-
vastazione irreversibile della foresta equatoriale che costituisce, insieme all’A-
mazzonia, la più grande ricchezza per l’ecosistema del pianeta.
Una guerra lunga, con estensione e intensità altissime, ma dimenticata. L’in-
differenza dell’opinione pubblica mondiale e l’impotenza della comunità inter-
nazionale rappresentano un colossale enigma nella storia dei conflitti in Africa.
Non solo: nello stesso continente il conflitto congolese non è seguito con l’at-
tenzione che meriterebbe. L’Unione Africana gli dedica solo sporadicamente in-
teresse e operatività. Nel corso dei decenni le definizioni si sono sprecate a pro-
134 posito della «prima guerra mondiale africana» – «guerra etnica», «guerra a bassa
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
tanga, l’assassinio del primo capo di governo del Congo indipendente e l’ascesa
al potere di Mobutu possono essere lette anche – non solo ovviamente – come
altrettanti episodi delle dispute interetniche per la conquista del potere nel futuro
Congo indipendente. L’unico cemento unitario era la lotta contro il colonizzatore
belga. Unità che si sgretola appena conquistata l’indipendenza.
L’apparente unità degli anni del mobutismo non era il frutto virtuoso di un
contrat social, era solo il frutto avvelenato di un’unità formale sotto il totalitari-
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smo repressivo di Mobutu, con crepe vistose visibili negli anni Settanta e Ottanta
in seguito alle guerre scoppiate nelle regioni orientali del paese: Shaba I e Shaba
II. Già allora si parlava dello Zaire di Mobutu come di un «État néant», uno Stato
fallito, le cui istituzioni non erano più in grado di assicurare la protezione del ter-
ritorio, dei cittadini e dei loro beni. Senza giustizia indipendente, senza esercito e
polizia strutturate, l’autorità dello Stato non riusciva a garantire le prerogative di
ordine, pace e sicurezza pubblica nonché i servizi di base alla sua popolazione.
La mancanza d’infrastrutture di comunicazione, il peggioramento del funziona-
mento della macchina amministrativa e la corruzione dilagante avevano già certi-
ficato la morte dello Stato in Congo. Negli ultimi anni del suo lungo «regno» Mo-
butu controllava solo la capitale Kinshasa e la sua roccaforte tribale dell’Étquateur
al Nord. Il resto del territorio sperimentava già una secessione di fatto.
Questa situazione si è aggravata e fortemente compromessa in seguito alla
«guerra mondiale africana». La situazione attuale è quella di un passaggio dallo
Stato fallito allo Stato inesistente. Uno Stato devastato militarmente ed economi-
camente è piombato nel caos totale al punto da non avere più la capacità di ri-
costruirsi oppure di rispondere alle attese legittime dei suoi cittadini. Certo, esiste
ancora formalmente lo Stato congolese con le sue istituzioni, le sue cariche poli-
tiche, la capitale e tutti gli attributi formali normalmente previsti. Nella realtà però
il perimetro della sua azione non supera i confini della capitale Kinshasa.
Questo non-Stato esprime un caos caratterizzato da quattro fattori principali.
A) Fragilità del sistema politico, accentuata dalle elezioni presidenziali del
2011, fortemente contestate, e dalle legislative truccate nello stesso anno. L’attuale
presidente Kabila sta manovrando per modificare la costituzione attuale che gli
impedisce di presentarsi per un terzo mandato. Tutta la comunità internazionale e
le forze di opposizione stanno chiedendo il rispetto scrupoloso del dettame costi-
tuzionale e quindi l’uscita di scena di Kabila. Nel gennaio scorso vi sono stati mo-
vimenti di protesta repressi nel sangue a Kinshasa e in altre città del paese.
B) Fragilità o/e deliquescenza delle istituzioni dello Stato (esercito, magistra-
tura, polizia, amministrazione pubblica), non più in grado di rispondere alle esi-
genze dei cittadini e minate da una corruzione cronica su larga scala.
C) Povertà endemica in cui fiorisce la criminalità transfrontaliera promossa
da un numero incalcolabile di gruppi armati, di potentati economici che sfrutta-
no le ricche regioni minerarie.
D) Porosità delle frontiere e continui attraversamenti dei paesi vicini a scopi
136 predatori, come registrato dal rapporto degli esperti delle Nazioni Unite pubbli-
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
cato nell’autunno del 2010: «Ogni giorno, nell’Est del Congo circa sette o dieci
aerei carichi di tonnellate di cassiterite vanno da Mubi a Goma per spedire il loro
contenuto verso il Ruanda. Il traffico di oro, diamanti, rame, cobalto non conosce
sosta. Lo Stato congolese non ricava nulla da questo intenso traffico organizzato
dai contrabbandieri. Anzi, poco è stato fatto negli ultimi anni per impedirlo. Le
uniche vittime di questo turpe commercio sono i minatori congolesi».
La legittimità dello Stato congolese è minata dall’interno, oltre che dall’ester-
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no. Alcune regioni del paese stanno attuando una secessione di fatto. È il caso
della ricca regione mineraria del Katanga che vive oramai sganciata dal controllo
di Kinshasa. Il suo aeroporto internazionale accoglie ospiti stranieri senza i visti
rilasciati dalle autorità nazionali e il suo potente governatore firma contratti con
aziende straniere senza renderne conto al governo di Kabila, approfittando della
fine del monopolio statale nel settore delle miniere. Sul piano politico, il gover-
natore del Katanga appare sempre più come il rivale di Kabila alle prossime ele-
zioni. Sicché quel territorio di 496.877 chilometri quadrati, nella parte più ricca
del paese, sta ottenendo per la via economica ciò che tentò di conquistarsi con
le armi negli anni Sessanta.
Al di là del Katanga, il caos che regna nel Congo pone la questione dell’inte-
grità territoriale del paese. Fino a ieri, un argomento tabù nei discorsi pubblici in
Congo e in Africa in generale. Rammentiamo che le indipendenze africane sono
nate sotto il rigido principio del «rispetto delle frontiere ereditate dalla colonizza-
zione», temendo una balcanizzazione dagli esiti imprevedibili. Molti Stati non sono
stati però in grado di tenere insieme la triade popolazione, territorio e autorità po-
litica che caratterizza lo Stato sovrano. E molti osservatori e attori politici comincia-
no a infrangere il tabù dell’intangibilità delle frontiere, facendo notare che il Con-
go nella sua attuale estensione territoriale non ha agibilità né operatività, quindi
tanto vale accettare la spartizione. È la tesi avanzata da forze politiche domestiche,
sostenute dai vicini del Congo interessati allo sfruttamento delle materie prime, ma
soprattutto in cerca di spazi vitali per via di un rapporto popolazione-ecosistema
che in alcuni paesi, come Ruanda e Burundi, sta diventando insostenibile. La clas-
se dirigente congolese è tuttavia generalmente contraria alla spartizione.
A nostro parere l’unità formale della Rdc potrà essere mantenuta a una sola
condizione: una riforma in senso federalista, con ampie autonomie concesse alle
regioni seguendo il modello ora sperimentato di fatto dal Katanga. Questa rifor-
ma in senso federalista dovrà essere accompagnata da una seria politica di coe-
sione territoriale, in grado di conferire un minimo di omogeneità di condizioni
sociali ed economiche di base a tutta la popolazione dell’immenso territorio. Infi-
ne, in un orizzonte più ampio, occorre mirare alla collocazione del Congo dentro
una dinamica regionale animata dalla libera circolazione dei beni e delle persone
e da cessioni di sovranità. Tale nuovo quadro regionale risolverebbe anche la
questione del sovrappopolamento di Ruanda e Burundi e aiuterebbe a stempera-
re la contrapposizione mortale tra popolazioni rivali, che così entrerebbero a far
parte di un contesto più largo di cooperazione e solidarietà. 137
LE GUERRE INVISIBILI DEL CONGO
Allo stato nessuna di queste riforme interne ed esterne può essere attuata.
Per la fragilità prima descritta delle istituzioni congolesi e per il quadro regionale
deteriorato da conflitti e condizioni di marginalità economica. Ma occorre dare
una risposta al fallimento pressoché generalizzato del progetto di formare Stati
nazionali all’interno delle frontiere ereditate dalla colonizzazione. Il dogma del-
l’integrità territoriale deve essere interpretato in modo dinamico, inserendo il ter-
ritorio congolese in un movimento di accordi tra soggetti interni ed esterni, un
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REP. CENTRAFRICANA
IL TESORO DEL CONGO SUD SUDAN
Bangui N
CAMERUN
Watsa
Buta Isiro O
e Congo
Fium
Lago
Bunia Alberto
Basoko
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Basankusu O
GABON Kisangani
Equatore D S UGANDA
Lago
N Edoardo
CONGO N
S
S
Inongo R E P . D E M . Lago Kigali
D E L C O N G O Kivu RUANDA
S
S
Bukavu BURUNDI
Lodja O
S
Brazzaville D Bujumbura
Kinshasa Kasongo
TANZANIA
Kananga C
Boma
D Kalemie
Tshikapa D Lago
D Tanganica
S
Manono
O c e a inc o
o
PZ
Atlant
Pweto
Lago
ANGOLA S S Mweru
S C
M RC
Risorse minerarie Kolwezi RC RC
D Diamanti S Stagno U RC RC
La storia si ripete in Congo. Oggi come due secoli fa, il paese si trova al cen-
tro di una dura battaglia che ha come posta in gioco le sue immense ricchezze.
Nell’èra della rivoluzione industriale lo «scandalo geologico» congolese doveva
foraggiare le accresciute capacità produttive della macchina a vapore. Oggi sono
i settori di punta della globalizzazione (telefonia mobile, informatica, robotica e
aeronautica) che trasformano il Congo nell’eldorado da conquistare a tutti i costi.
Di qui l’occultamento globale delle vicende tragiche del Congo. Il conflitto
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in corso si presta a letture complesse. E si ricollega alla vicenda politica del falli-
mento sostanziale del processo delle indipendenze africane intese come capacità
di riappropriarsi del proprio destino storico e di orientare i progetti politici ed
economici verso la soddisfazione di aspirazioni endogene. Tocca inoltre le logi-
che di una globalizzazione che opera sui flussi (di merci, di capitali e d’informa-
zioni) ignorando i luoghi, ossia quegli spazi materiali e simbolici dove le donne
e gli uomini inventano il loro futuro. La guerra del Congo parla di noi attraverso
le sofferenze multisecolari di un popolo sfortunato.
141
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AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
1. P
ER CAPIRE L’ISLAMIZZAZIONE DELL’AFRICA
a sud del Sahara bisogna partire dal deserto stesso. Dall’Egitto, per la precisione,
dove si è sviluppato un pensiero rivoluzionario che ha contaminato l’intero mon-
do arabo: quello di Sayyid Qu¿b. Nato all’inizio del Novecento nell’Alto Egitto,
Qu¿b fu fatto arrestare da Ãamål ‘Abd al-Nåâir (Nasser) per le sue idee eversive.
Ma gli anni trascorsi da Qu¿b in carcere resero le sue tesi ancora più radicali. E
soprattutto fruibili. L’impiccagione di Qu¿b, il 29 agosto del 1966, sembrò liberare
l’Egitto. Ma non fu così: il jihadismo divenne un incubo per il regime nasseriano.
C’è una parola d’ordine per comprendere l’insegnamento di Qu¿b, padre
riconosciuto del fondamentalismo: ãåhiliyya, l’epoca dell’ignoranza, quella pre-
cedente alla rivelazione coranica. Per Qu¿b, ãåhiliyya diventa ignoranza del-
l’autorità di Dio sull’uomo e coinvolge i sistemi democratici, il comunismo so-
vietico, i regimi arabi, opponendoli al vero islam, quello che il jihåd deve im-
porre. Qu¿b descrive i regimi filoccidentali e filosovietici come usurpatori, per-
ché seguono la legge umana e non quella divina e pertanto devono essere ro-
vesciati con le armi. Il vero Stato islamico, in questa prospettiva, è il solo che
può salvare il mondo dalla ãåhiliyya perché riaffida a Dio il potere, tramite la
4arø‘a. Il pensiero del sunnita Qu¿b ha posto le basi per un’ideologia sovversiva
che ha prima contaminato il Medio Oriente e successivamente ha interessato il
continente africano, proponendosi come paradigma di una visione teocratica
totalitaria e violenta.
ricano Cleo Noel, l’incaricato d’affari George Curtis Moore e altre persone. Il
giorno successivo, Noel, Moore e il diplomatico belga Guy Eid vennero assassi-
nati dai sequestratori, in seguito al rifiuto del presidente statunitense Richard
Nixon di negoziare la loro liberazione in cambio del rilascio di Sirõan Sirõan –
il palestinese che aveva ucciso Robert Kennedy – e di altri terroristi detenuti
nelle carceri israeliane ed europee. Tuttavia, la presenza di cellule terroristiche
islamiche nell’Africa subsahariana divenne una questione centrale solo dalla fi-
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mento delle tecniche di combattimento, ma anche nello studio delle scienze poli-
tiche, che al Wrc si richiamavano agli ideali della rivoluzione libica. Da questa
controversa accademia militare sono passati anche l’ex presidente burkinabé
Blaise Compaoré e l’attuale capo di Stato ciadiano Idriss Déby 1. Sono ampiamen-
te documentate le azioni di destabilizzazione degli anni Ottanta e Novanta (ma
non solo) agevolate dall’appoggio libico in Algeria, Burkina Faso, Ciad, Egitto,
Sierra Leone, Sudan, Zaire, Tunisia e Niger.
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1. I corsi potevano durare da poche settimane a oltre un anno ed erano aperti anche a reclute pro-
venienti dall’America Latina. Per esempio, alcuni dei quadri del movimento sandinista di Manuel
Ortega e delle Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc) sono passati dal Wrc. 145
IL SERPENTE DEL JIHĀD HA DEPOSTO LE UOVA OLTRE IL SAHARA
rende conto della complessità del fenomeno. L’obiettivo di questi movimenti non
è solo provocare uno scontro tra la civiltà occidentale e quella islamica, ma an-
che innescare l’implosione degli Stati ereditati dal periodo coloniale. I miliziani
colpiscono chiunque si opponga al loro folle progetto egemonico. La somala al-
3abåb semina morte e distruzione fra i suoi stessi correligionari e la nigeriana
Boko Haram ha ucciso in questi anni più musulmani che cristiani. Quando que-
ste formazioni attaccano chiese e istituzioni cristiane – in Nigeria, Camerun e
Kenya – lo scopo è farsi rilanciare dalle testate giornalistiche mainstream e dare
risonanza internazionale alle proprie azioni. Anche il ricorso di questi gruppi ar-
mati al concetto di network va preso con le pinze. L’affiliazione a una struttura
jihadista più ampia, ramificata fra Medio Oriente e Africa, serve infatti ad attribui-
re identità e peso geopolitico alla lotta contro le forze governative.
Per spiegare la proliferazione delle milizie jihadiste bisogna inserire nell’e-
quazione le questioni locali. La diffusione delle bande armate estremiste è
spesso la conseguenza, non la causa, dei conflitti tra le oligarchie per il con-
trollo del potere nei rispettivi territori. Prendiamo il caso di Boko Haram in Ni-
geria, movimento pieno di pericolosi fanatici che vogliono fondare un nuovo
califfato e imporre la 4arø‘a a tutta la federazione nigeriana, ora in vigore solo
nei 12 Stati del Nord. Nonostante le prove dei suoi legami con organizzazioni
come Aqim (fornite dall’intelligence nigeriana all’Ecowas) e degli aiuti finanzia-
ri del salafismo intransigente di matrice saudita, l’esistenza di questo movimen-
to insurrezionalista va letta alla luce dei fragili equilibri politici e sociali della
Nigeria. Le ragioni dell’aumento della sua attività terroristica vanno infatti rin-
tracciate, almeno in parte, nei rapporti stretti negli ultimi due anni con politici
locali e membri delle forze di sicurezza originari del Nord, interessati a radica-
lizzare il conflitto per rendere ingovernabile il paese. In Nigeria, peraltro, nes-
sun governo democraticamente eletto ha ancora affrontato la questione della
ridistribuzione dei proventi petroliferi e la quasi totalità della ricchezza resta
concentrata nelle mani dell’1% della popolazione.
Finora l’attenzione degli analisti si è concentrata sulle crudeltà perpetrate da
Boko Haram. Ma sarebbe un errore considerare il terrorismo islamico nigeriano
come una questione a sé stante. Nonostante abbia causato la morte di 14-15 mila
persone e generato un milione e mezzo di profughi, Boko Haram rappresenta
vittime – tra le quali anche alcuni bambini – sono state uccise da misteriosi uo-
mini a cavallo in due distinte località: Kolori e Ba’ana Imam. Cavalcando destrieri
velocissimi e ben addestrati, secondo la tipica tradizione araba, i miliziani hanno
seminato morte e distruzione lanciando ordigni esplosivi e con raffiche di kalash-
nikov. Nonostante brandissero le insegne di Boko Haram, è evidente che gli ag-
gressori non erano nigeriani, i quali solitamente utilizzano mezzi meccanici per i
loro spostamenti. Come mai questa volta si è verificato un attacco equestre? Fonti
locali ritengono che i responsabili siano miliziani ciadiani e sudanesi, i feroci
ãanãawød, i «diavoli a cavallo» appartenenti alla famiglia estesa dei Baqqåra, inse-
diata nel Sudan Occidentale e nel Ciad Orientale. Il nome Baqqåra comprende
vari gruppi etnici seminomadi come i Õumr/Masøriyya, i Rizayqåt, i 3uwiyya, i
Õawåzma, i Ta‘åy4a e i Õabbåniyya. Sono gli stessi predoni che hanno commes-
so nefandezze di ogni genere nel Dårfûr e in Ciad.
Il dato davvero inquietante è che questi diavoli equestri hanno avviato una
collaborazione militare con gli insorti nigeriani, a riprova della disinvoltura nella
mobilità delle formazioni jihadiste nel cuore dell’Africa subsahariana. D’altronde,
negli ultimi due anni, nella Repubblica Democratica del Congo sono segnalati
mercenari libici, sudanesi e ciadiani al fianco delle Forze democratiche alleate,
un gruppo eversivo ugandese, in passato finanziato dal governo di Khartûm, che
proprio nell’ex Zaire ha allestito da tempo le proprie basi operative. Secondo al-
cune testimonianze di rifugiati congolesi, ospitati nel distretto di Bundibugyo in
Uganda, in Congo combattono miliziani arabofoni e tra essi vi sarebbero i già ci-
tati Õumr/Masøriyya. Operano sulle Montagne del Ruwenzori, le mitiche Monta-
gne della Luna, una catena montuosa al confine tra l’ex Zaire e l’Uganda.
4. Sul versante somalo le cose non vanno affatto meglio. Dalla caduta del re-
gime di Siad Barre, nel 1991, la Somalia è precipitata nell’anarchia, nonostante i
ripetuti ma controversi interventi della comunità internazionale e di alcune can-
cellerie occidentali. Il 10 settembre 2012 a Mogadiscio si è inaugurato un nuovo
corso, con l’elezione del presidente Hassan Sheikh Mohamud (Õasan 3ayœ
Maõmûd), sostenuto dai governi occidentali. Ma non cambia il dato di fondo: la
Somalia è parte di un complesso scacchiere geopolitico in cui si confrontano e si
sovrappongono i più svariati interessi. Ci sono gli antagonismi tra clan locali. Ci
sono i signori della guerra, la nemesi di qualunque organo statuale, dal momento
che polverizzano il monopolio della legittima coercizione e controllano scampoli
di territorio cui non intendono rinunciare. Ci sono inoltre potenze straniere che 147
IL SERPENTE DEL JIHĀD HA DEPOSTO LE UOVA OLTRE IL SAHARA
anelano alle risorse energetiche del sottosuolo, dal petrolio al gas, per non parla-
re dell’uranio. Sull’altra sponda del Golfo di Aden, poi, l’irrequietezza yemenita
porta a salpare pattuglie di estremisti lautamente foraggiati dai movimenti salafiti.
Finché la Somalia sarà parcellizzata, pur avendo un governo internazional-
mente riconosciuto, sarà ostaggio degli estremisti. Gli 4abåb continueranno a col-
pire il vicino Kenya, come ricorda l’eccidio di Garissa del 2 aprile scorso all’uni-
versità locale, in cui hanno perso la vita 150 persone. E minacceranno di conta-
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minare l’intero Corno d’Africa. Per quanto riguarda la loro espansione, pesa l’er-
rore macroscopico della diplomazia statunitense del dicembre del 2006, quando
non riconobbe, all’interno delle Corti islamiche, l’allora prevalente ala moderata
che avrebbe potuto segnare la svolta. Il gran rifiuto americano ha dato modo alla
frangia radicale delle Corti, gli 4abåb, di monopolizzare il conflitto contro le fra-
gili istituzioni transitorie di Mogadiscio e dintorni. Sostenere le autorità politiche
insediate a Mogadiscio è doveroso, ma non si può prescindere da un’azio-
ne persuasiva che induca tutti gli attori somali a dialogare.
LE RELIGIONI IN AFRICA
TUNISIA
MAROCCO
SAHARA ALGERIA
OCC. LIBIA
EGITTO
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MAURITANIA
MALI
SENEGAL NIGER
CIAD SUDAN
GUINEA
SOMALIA
NIGERIA
SUD SUDAN ETIOPIA
REP. CENTRAFRICANA
GUINEA BISSAU
GAMBIA UGANDA
KENYA
GABON
CAPO VERDE REP. DEM.
DEL CONGO
RUANDA
BURUNDI
TANZANIA
SEYCHELLES
COMORE
ANGOLA
ZAMBIA
pace di affermare l’universalità dei diritti. Una cosa è certa. Le infiltrazioni jihadi-
ste nell’Africa subsahariana sono un dato di fatto incontrovertibile, reso possibile
soprattutto dalla fragilità dei governi locali e dall’acuirsi dell’esclusione sociale.
Sebbene gli islamisti siano contrari ai princìpi democratici, in molti casi essi ap-
149
IL SERPENTE DEL JIHĀD HA DEPOSTO LE UOVA OLTRE IL SAHARA
profittano della libertà concessa dai governi, inviando predicatori sia nei centri
urbani sia nei villaggi, per promuovere la religione e la cultura islamica. Sono
inoltre tutelati da normative che regolano la libertà d’associazione, la creazione
di partiti politici e l’iniziativa imprenditoriale; pertanto creano organizzazioni non
governative e partiti spesso finanziati da fondi privati o pubblici provenienti pre-
valentemente dalle petromonarchie del Golfo.
A questo proposito è sufficiente riflettere su quanto sta avvenendo in
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150
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
L’AFRICA È
LA SUA STORIA di Roberto ROVEDA
A lungo gli europei hanno preferito raccontare il ‘continente nero’
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1. U
NA DELLE GRANDI BATTAGLIE CHE GLI
africani si sono trovati ad affrontare nel momento in cui hanno voluto attestare
la loro emancipazione dal dominio europeo è stata quella di affermare l’esi-
stenza di una storia dell’Africa totalmente africana, estranea a ogni rapporto
con l’Europa. Una storia che parte da un presupposto irrinunciabile: la vicenda
dell’Africa non comincia con i viaggi di esplorazione europei del tardo medioe-
vo e non si risolve in quelle maledizioni che sono state la tratta negriera e il
colonialismo imperialista.
Si è quindi dovuto fare apertamente i conti con l’idea di matrice euro-otto-
centesca che l’Africa fosse un continente senza storia, senza civiltà, ai margini
delle vicende mondiali con l’eccezione dell’Egitto e della altre terre affacciate
sul Mar Mediterraneo divenute prima romane, poi bizantine e infine islamiche.
Più a sud di queste zone cominciava quell’hic sunt leones che faceva dire anco-
ra nel 1963 allo storico inglese H.R. Trevor-Roper: «Forse nel futuro ci sarà una
storia africana (…) ma al presente non ce n’è nessuna, c’è solo la storia degli
europei in Africa».
Questa immagine dell’Africa come continente sine historia se privato del
contributo dell’Europa deriva chiaramente dall’immaginario razzista del colo-
nialismo ottocentesco e dalle dinamiche dell’imperialismo che concepiva il do-
minio europeo su tutto il resto del mondo come frutto di una presunta superio-
rità della civiltà «bianca». Nacque così l’idea di una missione civilizzatrice del-
l’Europa – il famigerato fardello dell’uomo bianco evocato nella celebre poesia
di Rudyard Kipling del 1899 – che giustificava l’occupazione di territori, la di-
scriminazione, lo sfruttamento di persone e risorse. In quest’ottica Hegel pote-
va scrivere nel suo saggio sopra la Filosofia della storia del 1831: «L’Africa è
una parte del mondo che non ha storia, essa non presenta alcun movimento o 151
L’AFRICA È LA SUA STORIA
sviluppo, alcun svolgimento proprio. Vale a dire che la parte settentrionale ap-
partiene al mondo asiatico ed europeo. Ciò che noi intendiamo propriamente
come Africa è lo spirito senza storia, lo spirito non sviluppato, ancora avvolto
nelle condizioni naturali…».
Una prospettiva totalmente distorta ed eurocentrica della vicenda storica
africana che ha innervato gli studi sul continente fino ad anni molto recenti.
Così, ancora a metà del Novecento, provocò sconcerto la semplice constatazio-
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2. Storia e civiltà non riguardano solo le aree affacciate sul Mar Mediterraneo
ma concernono anche l’Africa subsahariana, quella che gli europei hanno chia-
mato per troppo tempo «continente nero» per sottolinearne gli aspetti oscuri, mi-
steriosi e «selvaggi». Una vasta area a sud del grande deserto del Sahara che, co-
me mostrano tanti studi recenti 1, apparve ai primi esploratori europei del XV e
XVI secolo abitata da popoli con usanze e credenze differenti da quelle presenti
in Europa. Differenti, non inferiori. Le fonti della prima età moderna, precedenti
alla tratta degli schiavi e all’imperialismo colonialista, parlano infatti di stupore
per il lusso e la ricchezza di alcuni sovrani africani, per le loro tante mogli e i nu-
merosi schiavi. Questi primi europei in Africa non si confrontarono con nulla che
ai loro occhi poteva apparire incomprensibile, frutto di una civiltà inferiore o di
un’assenza di civiltà. Vennero in contatto, soprattutto nell’area subsahariana occi-
dentale, con Stati di grandi dimensioni, dediti ai commerci su vasta scala e lun-
ghe distanze come avveniva in Europa. Stati caratterizzati da norme e gerarchie
sociali con sovrani dall’autorità semidivina. Insomma, un quadro sociale e politi-
co non lontanissimo da quello dell’Europa al passaggio tra medioevo ed età mo-
derna. E quanto ci è pervenuto delle testimonianze di parte africana mostra che
gli abitanti del cosiddetto «continente nero» non furono impressionati più di tanto
da una presunta superiorità degli europei. Li accolsero anch’essi come diversi e
dotati di armi e soluzioni per la navigazione che erano sconosciute agli africani.
Non ci fu all’origine del rapporto tra i due continenti alcun impatto immedia-
to tra una civiltà superiore europea e una civiltà inferiore africana. Ci fu un con-
tatto basato sulla similitudine, sulla compatibilità e sulla volontà di instaurare
proficue e pacifiche relazioni commerciali.
1. Pensiamo solo ai lavori dello storico britannico Basil Davidson (1914-2010) e al suo contributo
152 sull’evoluzione della storiografia africana moderna in senso anticolonialista.
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
ché insormontabile. Le cose cambiarono con la diffusione, a partire dal III secolo
d.C., nelle zone sahariane del dromedario, animale che consentì ai nomadi ber-
beri del Nord di instaurare relazioni commerciali durevoli con i regni dell’Africa
subsahariana. Queste relazioni diventarono ancora più fitte quando gli arabi si
insediarono nella fascia mediterranea dell’Africa a partire dal VII secolo.
Gli arabi e i loro intermediari berberi, negli otto secoli che intercorsero prima
dell’arrivo degli europei, si confrontarono con Stati organizzati, vasti, straordinaria-
mente ricchi e potenti, soprattutto perché in grado di controllare l’estrazione e il
commercio dell’oro. Tra questi vi era l’impero del Ghana (cioè la «terra del signore
dell’oro»), esteso fin dal V secolo nell’attuale Sud-Est della Mauritania e in parte
del Mali. Si trattava di un regno molto ricco: oltre all’oro, lo sfruttamento dell’avo-
rio dalle zanne degli elefanti, le pietre preziose e le pellicce di animali esotici per-
mettevano ai sovrani del Ghana intensi scambi commerciali con gli arabi, che pa-
gavano le merci con un prodotto che scarseggiava nella regione equatoriale, il sa-
le. Nell’XI secolo il Ghana divenne un regno vassallo della dinastia araba degli Al-
moravidi 2 per poi venire assorbito attorno al 1240 dall’impero del Mali, un altro
regno africano islamizzato che sorgeva lungo l’alto corso dei fiumi Senegal e Ni-
ger. Al culmine del suo splendore, l’impero del Mali veniva abitualmente indicato
anche nella antiche carte geografiche arabe. Nel corso del Trecento il Mali decad-
de per l’emergere di un altro Stato-guida dell’Africa subsahariana occidentale: l’im-
pero Songhai di Gao, che si estendeva su un territorio vastissimo lungo il corso
del fiume Niger e che controllò i traffici commerciali nell’area a sud del Sahara fi-
no alla fine del Cinquecento. A questi Stati maggiori potremmo aggiungere molte
entità grandi o piccole come, per esempio, l’impero Yoruba o le città-Stato degli
Hausa nell’attuale Nigeria, a completare un quadro molto variegato e complesso.
Quello che però ci interessa sottolineare è come si trattasse di organismi sta-
tuali ben strutturati, dominati solitamente da una élite militare di cui il sovrano
era la massima espressione. Organismi capaci di riunire sotto un unico controllo
regioni anche molto estese così da poter garantire la presenza di mercati, merci,
circolazione di denaro e prosperità di commerci che si irradiavano per tutta l’A-
frica occidentale e oltre. Erano Stati rappresentati da grandi città come la mitica
Timbuktu o Djenné, con quest’ultima che tra il XV e il XVI secolo contava circa
20 mila abitanti ed era circondata da possenti mura.
2. Dinastia berbera proveniente dal Sahara che regnò sul Maghreb (Marocco) e sulla Spagna islami-
ca tra la fine dell’XI e gli inizi del XII secolo. 153
L’AFRICA È LA SUA STORIA
il XVI secolo grazie alle sue biblioteche che comprendevano manoscritti di tutta
la letteratura araba. La città, inoltre, fu uno dei grandi centri scientifici del mon-
do islamico dell’epoca.
Altro contributo importante dovuto agli arabi fu la religione islamica, che
però si diffuse molto lentamente rispetto a quanto era avvenuto con la conquista
araba dei territori affacciati sul Mediterraneo. L’islam si diffuse principalmente tra
le classi dominanti. Le conversioni procedettero con molta lentezza e solo dopo
secoli di contatti e relazioni, segno di quanto i riti tradizionali e le usanze ance-
strali fossero radicate, soprattutto tra la popolazione comune. L’islamizzazione
dei ceti dominanti era anche legata al fatto che l’islam offriva un quadro di gran-
de stabilità sociale, permetteva di sentirsi parte di una grande comunità estesa a
nord e a sud del Sahara e rendeva più semplici relazioni e traffici, anche da un
punto di vista meramente pratico, grazie a standard di misura e monetizzazione
uniformi in tutti i vastissimi territori arabi.
Alla fine del XIV secolo imperi come il Mali o Songhai erano considerati a
tutti gli effetti Stati islamici. Si moltiplicarono i viaggi di africani subsahariani ver-
so nord, spesso per compiere il doveroso pellegrinaggio alla Mecca. Così è pas-
sato alla storia il viaggio del sovrano del Mali Mansa Musa nel 1324, raccontato
dal cronista arabo Ibn Œaldûn. Il sovrano giunse al Cairo accompagnato da circa
dodicimila schiavi vestiti di tuniche di broccato e seta e con tali quantità d’oro (i
cammelli, secondo il cronista, portavano 80 carichi di polvere d’oro ciascuno del
peso di tre quintali!) da provocare una vera e propria inflazione del metallo pre-
zioso nell’area egiziana.
Questo aneddoto ci consente, soprattutto, di comprendere meglio quanto le
riserve d’oro di quello che gli arabi chiamavano Sahel (dall’arabo såõil, bordo
del deserto, per indicare le terre dove si giungeva dopo aver traversato il «mare
di sabbia» del Sahara) fossero in grado di incidere anche sul mondo mediterra-
neo. Studi sempre più approfonditi sulla storia economica dell’Africa subsaharia-
na fanno ritenere che la circolazione aurea nel bacino del Mar Mediterraneo, Eu-
ropa compresa, dipendesse strettamente dall’oro africano, almeno fino alla sco-
perta delle miniere aurifere del Nuovo Mondo.
nel momento in cui l’Arabia venne unificata dalla fede islamica. A favorire gli
scambi tra queste zone dell’Africa e la Penisola Arabica, ma anche con il subcon-
tinente indiano e la Persia, fu la presenza di una serie di grandi città portuali pre-
senti lungo la costa orientale, dall’attuale Somalia fino al Mozambico. Si trattava
di centri prosperi come Zanzibar, Malindi, Mogadiscio oppure Mombasa, che im-
pressionò i primi navigatori portoghesi per le sue case in muratura, le vie allinea-
te e il porto in grado di permettere l’attracco anche a grandi imbarcazioni.
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3. Monofisismo, (da monos, in greco uno, e physis, natura), dottrina elaborata nel IV secolo che so-
stiene la tesi di un’unica natura (quella divina) in Cristo, mentre viene negata la sua natura umana.
La dottrina venne condannata dalla Chiesa cattolica nel concilio di Calcedonia del 451. 155
L’AFRICA È LA SUA STORIA
regni cristiani della Nubia, il regno di Axum e l’impero di Etiopia. La Nubia, re-
gione compresa tra l’Egitto meridionale e il Sudan centrosettentrionale, era
sempre stata un’area di grande produzione aurifera e per questo soggetta alle
mire dell’Egitto.
Con la conquista araba del territorio egiziano la situazione tra nubiani e ara-
bi fu di conflitto fino a che nell’VIII secolo non venne firmato un trattato. Esso
prevedeva la costruzione di una moschea a Dongola, città principale della Nu-
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bia, e la libertà di culto per gli islamici. In cambio i nubiani videro preservata la
loro indipendenza politica e religiosa. Il trattato resse per sette secoli e la Nubia
rimase per tutto questo tempo una sorta di muro all’avanzata dell’islam, fino al
crollo, dovuto soprattutto a conflitti interni tra regni cristiani. Un crollo che fa-
vorì, a partire dal Cinquecento, la penetrazione islamica nella regione dando ini-
zio a quel contrasto tra cristiani e musulmani presente ancora oggi in molte zo-
ne del Sudan e dell’Alto Egitto.
Ancora più importante fu la funzione di barriera nei confronti dell’islam
esercitata dalle entità statali della regione etiopica, dove per lungo tempo eser-
citò la sua egemonia il regno di Axum. Questo estendeva la sua influenza attra-
verso le zone dell’odierna Eritrea, Etiopia, Yemen, Arabia Saudita meridionale,
Somalia occidentale, Gibuti e Sudan settentrionale e la sua capitale era la splen-
dida Axum, oggi situata nella zona settentrionale dell’Etiopia. Il regno axumita,
grazie alla sua favorevolissima posizione, fu profondamente coinvolto nei com-
merci tra l’India e il Mediterraneo orientale e decadde quando, tra il IX e il X se-
colo, gli arabi imposero il loro controllo sui porti affacciati sul Mar Rosso, iso-
lando Axum dal resto del mondo.
Dopo queste vicende il baricentro della cultura copto-etiopica si spostò ver-
so sud, in Etiopia. Lo Stato etiope, isolato dal resto del mondo cristiano dalla po-
tenza araba, visse un lungo periodo di decadenza fino alla rinascita del XIII seco-
lo quando Lalibela (1190-1225) riaffermò l’identità cristiana assumendo il nome
di negusa nagast (re dei re) e il titolo di imperatore cristiano dell’Etiopia. Secon-
do la tradizione Lalibela avrebbe visitato Gerusalemme e, a imitazione dello
splendore della città santa, avrebbe deciso di costruire le famose dodici chiese
scavate nella roccia nella sua capitale.
L’impero d’Etiopia si rafforzò ulteriormente con la presa del potere di Yeku-
no Amlak (1270-1285), che rese ancora più stretto il rapporto tra monarchia e
Chiesa etiope. Così, nei secoli successivi l’Etiopia poté rivendicare il ruolo di uni-
ca potenza africana in grado di fronteggiare l’avanzata islamica, oltre che di
realtà statuale impegnata nella conversione delle genti pagane e capace di intes-
sere rapporti con l’Occidente. Scambi testimoniati dalla presenza di una delega-
zione etiope al concilio di Ferrara del 1439-41 dove venne sancita una breve ed
effimera riunione tra le Chiese d’Occidente e d’Oriente.
ria. Una storia che continuò ancora per secoli nonostante la presenza europea,
dato che la colonizzazione dell’Africa è stata soprattutto un fenomeno tardo-ot-
tocentesco.
Il diffuso disprezzo degli europei per i neri d’Africa fu un prodotto della trat-
ta atlantica degli schiavi e poi della cultura dell’imperialismo europeo. Man mano
che crebbe il valore degli africani come «merce» venne meno la loro immagine di
esseri umani e sulla base di questa svalutazione e disumanizzazione gli europei
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4. G. CALCHI NOVATI, P. VALSECCHI, Africa: la storia ritrovata, Roma 2005, Carocci editore, p. 38. 157
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AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
IN MEMORIA
DI LUMUMBA di Paolo SANNELLA
Nel gennaio 1961 muore il campione dell’indipendenza congolese,
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quinquennio forse la sua vita politica, pochi mesi quella di uomo di governo. Ca-
po del primo esecutivo del Congo indipendente il 30 giugno 1960, giorno della
festa e del trionfo, a settembre viene allontanato dal potere, accusato di ogni in-
famia in un crescendo di umiliazioni, tradimenti e atroci torture, prima della sua
barbara uccisione il 17 gennaio dell’anno successivo. Muore lasciando un’imma-
gine di coerenza e determinazione che incarna valori profondi e inalienabili.
Umiliazione è parola poco impiegata in politica, che appare di rado anche
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2. Del periodo coloniale, dei suoi fatti e misfatti, si è molto scritto e discusso.
Condannato senza riserve dai più, viene difeso da chi vi vede uno strumento per
rendere effettiva la trasmissione dei modelli di sapere e di organizzazione socia-
le. Nessuno però nega che il sistema politico coloniale fosse basato sulla domi-
nazione e sull’esercizio della violenza. Nei regimi politici imposti dall’Europa a
quasi tutta l’Africa e a gran parte dell’Asia e del Medio Oriente, il colonizzatore
aveva il diritto d’imporre il proprio modello culturale sostituendo o emarginando
quelli locali, di cui si denigravano o negavano valori e qualità.
La storia è certo un lungo elenco di vittorie e di sconfitte, di popoli che si
affermano a danno di altri, di regimi sostituiti da altri, di modelli di vita che si
intrecciano per superarsi continuamente. Queste vicende sono state sempre ac-
compagnate dal dolore dei vinti, dall’angosciosa attesa delle guerre e dal terro-
re della violenza.
Raramente però era accaduto in passato quanto divenne invece regola nel
sistema di governo proprio del colonialismo europeo ottocentesco e in parte dei
160 primi del Novecento. In modo particolare di quello europeo in Africa e in modo
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
ancora più evidente nel sistema coloniale belga imposto alle popolazioni del
Congo. Siamo lontanissimi dalle guerre fra popoli che si richiamano agli stessi si-
stemi di valori: da una Roma che sconfigge la Grecia per farsi poi vincere da
quella cultura e aprirsi senza riserve alla «grecizzazione». Alle culture e tradizioni
dell’Africa, ai popoli vinti dell’Africa si nega ogni riconoscimento, ogni virtù, ogni
rispetto, consentendo solo ad alcuni la possibilità di farsi assimilare dalla cultura
dei vincitori dimenticando e annientando se stessi. Sembrava addirittura lecito e
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* Questo articolo è tratto dal volume Discorsi di Patrice Lumumba, a cura di G. NZONGOLA-NTALAJA,
prefazione di P. SANNELLA, Monterotondo 2016, edizioni Fuorilinea. 161
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AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
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Parte III
RICCHEZZE
CONTESE
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AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
IL ‘LAND GRABBING’
FRA MITO
E REALTÀ di Giuliano MARTINIELLO
Sia i movimenti contro le acquisizioni di terra sia chi le vede come
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1. L’
8 APRILE 2012, NEL DISTRETTO RURALE
di Amuru nell’estremo Nord dell’Uganda, al confine con il Sud Sudan, è scoppia-
ta una veemente protesta, guidata da un nutrito gruppo di donne. A scatenarla, il
tentativo del governo di Kampala e della compagnia Sugar Works di avviare i la-
vori per una piantagione di canna da zucchero di circa 40 mila ettari. Storie ana-
loghe si sono moltiplicate negli ultimi anni, non solo in Africa, spingendo ong in-
ternazionali, gruppi di monitoraggio per i diritti umani, organizzazioni di comu-
nità e movimenti sociali a denunciare l’ondata di acquisizioni di terra su larga
scala, definendole in termini negativi come «land grabbing» 1. Dall’altro lato della
barricata, Stati e istituzioni finanziarie internazionali classificano invece questo
processo come un’opportunità di sviluppo, tracciando linee guida non vincolanti
per favorire forme di «investimento responsabile» 2.
I media internazionali hanno avuto il merito di aver attirato l’attenzione su
temi scottanti come le espropriazioni della terra, le devastazioni ambientali, la so-
vranità alimentare e la gestione delle risorse idriche. Tuttavia, essa ha contribuito
a costruire una narrazione ipersemplificata che impedisce di cogliere la storicità e
le specificità del fenomeno delle acquisizioni territoriali.
Nel calderone del land grabbing sono finiti numerosi processi diversi fra lo-
ro. Alcuni studiosi hanno rilevato la mancanza di rigore metodologico nello stu-
1. Sull’utilizzo del termine si vedano Seized: The 2008 Land Grab for Food and Financial Security.
Barcellona: «Corporate Investors Lead the Rush for Control over Overseas Farmland», Grain, ottobre
2009; J.S. BORRAS, J. FRANCO, «Global Land Grabbing and Trajectories of Agrarian Change: A Prelimi-
nary Analysis», Journal of Agrarian Change, 12, 1, 2012, pp. 34-59.
2. La cornice entro cui questi attori elaborano la propria agenda politica è fornita dalla convergenza
degli organismi sovranazionali competenti in materia. Si veda Principles for Responsible Agricultural
Investments that Respect Rights, Livelihoods and Resources, Washington, DC 2010, World Bank. 165
IL ‘LAND GRABBING’ FRA MITO E REALTÀ
dio del fenomeno e una generalizzata inflazione della sua portata 3: esiste infatti
una discrepanza notevole tra il numero di acquisizioni di terra ufficialmente regi-
strate e la loro effettiva mise en valeur 4. All’origine di questo iato ci sarebbero
problemi burocratici e legislativi, le difficoltà e i rischi intrinseci negli investimen-
ti nel settore agricolo e i conflitti sociali generati dalle trasformazioni indotte da-
gli investimenti stessi. È esemplare il caso di Procana, un irrealistico investimento
multimilionario del Brasile in Mozambico in piantagioni di canna da zucchero su
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circa sei milioni di ettari, osteggiato dalle comunità locali che ne hanno impedito
l’implementazione 5. In controtendenza con l’idea del land grabbing come mani-
festazione di un neocolonialismo rampante, i recenti investimenti commerciali
nell’agroalimentare si sono mostrati vulnerabili alle difficili condizioni agroecolo-
giche dei territori interessati, in cui intervengono fattori come le mutevoli tenden-
ze del mercato e le specificità della politica locale. Resta, tuttavia, una costante:
la perdita di pascoli, terra arabile, foreste e risorse idriche pesa sulle popolazioni
locali. Anche se questi investimenti creano benefici di cui si avvantaggiano speci-
fici gruppi locali, spesso i progetti terrieri sono indifferenti alle questioni della le-
galità e della relativa (in)formalità dei contratti 6.
Sarebbe però fuorviante citare le difficoltà dei progetti per negare la portata
e le implicazioni del processo delle acquisizioni di terra. La Banca mondiale ha
stimato che nel 2009, soltanto in Africa, circa 45 milioni di ettari di terra – gestita
in precedenza attraverso ordinamenti fondiari consuetudinari – sono stati acquisi-
ti e sottratti al controllo delle comunità locali 7. Gli investitori globali riservano
una grande attenzione alle opportunità d’investimento ad alti tassi di redditività
che offre la terra in Africa: si pensa infatti che il continente ospiti il 75% delle ri-
sorse fondiarie inutilizzate di tutto il mondo, circa 200 milioni di ettari.
Il prisma del capitale globale riproduce un’immagine distorta del continente
africano come tabula rasa. La terra viene classificata come asset inutilizzato, scar-
samente utilizzato o non abitato. In questo modo, le istituzioni internazionali fini-
scono per reificare le costruzioni coloniali imperniate sul principio della terra nul-
lius, utilizzato nel diritto internazionale per descrivere un territorio che, non ap-
partenendo a nessuno, poteva essere reclamato dalla nazione europea che lo oc-
cupasse per prima. Spogliata delle sue dimensioni sociali, territoriali, storiche e
culturali, la terra diviene oggetto dell’appetito delle corporation transnazionali che
operano nel settore dell’agribusiness, di speculatori, broker, trader, holding d’inve-
3. M. EDELMAN, «Messy Hectares: Questions about the Epistemology of Land Grabbing Data», Journal
of Peasant Studies, 40, 3, 2013, pp. 485-501.
4. T. BRUCKNER, «The Myth of the African Land Grab». Foreign Policy, 2015, accessibile su goo.gl/5T-
657H
5. J. BORRAS ET AL., «The Politics of Agro-Fuels and Mega-Land Deals: Insights from the Procana Case,
Mozambique», Review of African Political Economy, 38, 128, 2011, pp. 215-234.
6. Si veda L. COTULA, The Great African Land Grab: Agricultural Investments and the Global Food
System, London-New York 2013, Zedbooks.
7. Rising Global Interest in Farmland: Can it Yield Sustainable and Equitable Benefits?, Washington,
166 DC 2011, World Bank.
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
stimento e grandi compagnie estrattive. Per non parlare della dimensione locale,
con élite nazionali e apparati militari che la gestiscono in modo patrimonialistico.
2. Sia la narrazione che legittima il land grabbing sia quella che vi si oppone
soffrono dunque di grossi limiti. La prima è vittima di una visione armonica dei
programmi di investimento, concepiti come portatori di occupazione, infrastruttu-
re e tecnologie. E pertanto tende a negare le nefaste conseguenze sociali e am-
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8. L. COTULA ET AL., Land Grab or Development Opportunity? Agricultural Investment and Internatio-
nal Land Deals in Africa, London-Roma 2009, Iied/Fao/Ifad; Rising Global Interest in Farmland, cit.
9. G. MARTINIELLO, «Social Struggles in Uganda’s Acholiland: Understanding Resistance and Respon-
ses to Sugar Works», Journal of Peasant Studies, 42, 3-4, 2015, pp. 653-669.
10. Letture più sofisticate sono state prodotte nell’ambito dei Critical Agrarian Studies, si veda per
esempio J.S. BORRAS, J. FRANCO, op. cit.
11. P. MCMICHAEL, «The World Food Crises in World Historical Perspectives», Monthly Review , 61,
2009; P. MCMICHAEL, «Food Sovereignty, Social Reproduction and the Agrarian Question», in A. AK-
RAM-LODHI, C. KAY, (a cura di), Peasants and Globalization: Political Economy, Rural Transforma-
tion and the Agrarian Question, London-New York 2009, Routledge, pp. 288-312.
12. T. WEIS, «The Meat of the Global Food Crisis». Journal of Peasant Studies, 40, 1, 2013, pp. 65-85.
13. S. MOYO, P. YEROS, P. JHA, «Imperialism and Primitive Accumulation: Notes on the New Scramble
for Africa», Agrarian South: Journal of Political Economy, 1, 2, 2012, pp. 181-203. 167
IL ‘LAND GRABBING’ FRA MITO E REALTÀ
mie nazionali governata dal debito degli anni Ottanta; dalle privatizzazioni di
imprese statali e proprietà comunitarie alla silenziosa concentrazione di terra
nelle mani di capitale nazionale e straniero degli anni Novanta; dalle guerre per
procura nella regione dei Grandi Laghi agli interventi «umanitari» di ex potenze
coloniali in territori cruciali nello scacchiere geopolitico continentale (Costa d’A-
vorio e Libia) 14.
Dopo il decennio della monopotenza statunitense (1990-2001), il (dis)ordine
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14. R. BUSH, G. MARTINIELLO, C. MERCER, «Humanitarian Imperialism», Review of African Political Eco-
nomy, 38, 129, 2010, pp. 357-365.
15. G. ARRIGHI, B. SILVER, Chaos e Governo del Mondo. Come cambiano le egemonie e gli squilibri
planetari, Milano 2003, Mondadori.
168 16. Land Matrix, accessibile su goo.gl/DV6NxC
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
17. Y. MUSEVENI, State of the Nation, Kampala 2012, Apertura della seconda sessione del nono parla-
mento.
18. M. MAMDANI, Politics and class formation in Uganda, New York-London 1976, Monthly Review
Press. 169
170
LAND GRABBING ERITREA
I primi 5 investitori SUDAN
in Africa orientale
Paese N’Djamena GIBUTI
investitore N° contratti ETIOPIA
India 24 CIAD
Regno Unito 15
n° contratti Finalità SOMALIA
Stati Uniti 14 n° contratti Finalità
10 5 Alimentare Addis Abeba
Arabia S. 11 57 41 Alimentare
Ettari 5 Legname
Canada 7 Ettari 12 Energia
4.091.453 1 Turismo
Fonte: Land Matrix 15 Legname
R E P. 884.710
SUD SUDAN 1 Conservazione
IL ‘LAND GRABBING’ FRA MITO E REALTÀ
NIG. C E N T R A F R I C A N A 2 Allevamento
CAMERUN n° contratti Finalità Giuba
Bangui 13 9 Alimentare
1 Energia
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Yaoundé Ettari
48.233 1 Industria
3 Non alimentare
UGANDA n° contratti Finalità Mogadiscio
G. E Q. 1 Allevamento 4 2 Alimentare
3 Legname Ettari 1 Allevamento
Libreville Kampala 28.387 2 Energia
C O N G O 1 Non alimentare
G A B O N R E P. D E M .
D E L C O N G O Kigali Nairobi O c e a n o
n° contratti Finalità RUANDA K E N Y A I n d i a n o
11 8 Alimentare BURUNDI
Ettari 4 Legname n° contratti Finalità
Brazzaville Bujumbura
2.760.356 2 Energia 3 1 Alimentare
T A N Z A N I A
Kinshasa 1 Non alimentare Ettari 1 Legname
Dodoma 21.130 1 Energia
n° contratti Finalità
26 17 Alimentare
O c e a n o
Ettari 3 Allevamento
A t l a n t i c o
234.533 10 Energia
3 Legname
A N G O L A Z A M B I A
M O Z A M B .
©Limes
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
Espulsi dall’Uganda nel 1972 dal dittatore Idi Amin Dada, che ne aveva
confiscato beni e proprietà, i Madhvani sono stati reintegrati a cavallo degli an-
ni Ottanta e Novanta con l’ascesa del National Resistance Movement di Muse-
veni. Assieme ad altre facoltose famiglie di affaristi, come i Mehta, hanno stret-
to forti rapporti con il nuovo presidente, finanziando generosamente le sue
campagne elettorali. Il patto fra regime e affaristi di origine indiana assicura il
sostegno politico dei secondi e, per certi versi, della comunità di lavoratori di
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21. H. DE SOTO, The Mystery of Capital: Why Capitalism Triumphs in the West and Fails Everywhere
Else, London 2000, Black Swan.
22. T. MITCHELL, «The Properties of Markets», in D. MACKENZIE ET AL., Do Economists Make Markets?
On the performativity of Economics, Princeton 2007, Princeton University Press, pp. 244-275.
23. M. MAMDANI, «The Contemporary Ugandan Discourse on Customary Tenure: Some Historical And
Theoretical Considerations», paper presentato al Workshop «The Land Question: Socialism, Capitali-
172 sm and the Market», organizzato dal Makerere Institute of Social Research, Kampala 9-10/8/2012.
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
lunga strategia dello Stato coloniale prima e di quello nazionale poi di coloniz-
zare la società ed estendere la logica del Buganda Agreement a tutto il paese 24.
Il discorso dello Stato ugandese sulla terra reitera gli argomenti usati per
giustificare il land grabbing a livello internazionale. Kampala caratterizza la
terra come vuota, non utilizzata o scarsamente utilizzata e si attribuisce il po-
tere di espropriarla. I dispositivi e le tecnologie del potere combinano vecchie
e nuove strategie (post)coloniali di divide et impera e di «define and rule» (de-
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finisci e governa). Nel caso di Amuru, nonostante l’area fosse stata da sempre
abitata da popolazioni acholi, lo Stato centrale l’ha definita di sua proprietà,
venendo persino suffragato dal dibattimento processuale. Nell’ultimo grado di
giudizio, infatti, si è sostenuto che la terra in oggetto, in quanto vuota e non
messa a valore, può essere espropriata dallo Stato a fini di sviluppo, se que-
st’ultimo lo ritiene necessario.
Per stemperare l’avversione al progetto, il regime di Museveni ha spesso
elargito doni ai giovani sotto forma di alcool e tabacco, nel tentativo di coopta-
re i segmenti sociali che si erano dichiarati contrari all’instaurazione della pian-
tagione in luogo delle loro piccole unità di agricoltura familiare. Quanto alle
comunità rurali di Kololo e Lakang, hanno combinato differenti strategie di lot-
ta: legali, simboliche, pacifiche, ma anche proteste e altre forme di organizza-
zione militante volte a mobilitare il consenso della società civile. Riuscendo, in-
fine, a impedire l’attuazione del progetto.
Alla luce dei successi delle mobilitazioni rurali, il prisma delle lotte di resi-
stenza consente di refutare le letture unilineari delle trasformazioni agrarie in-
nescate dal land grabbing e di costruire analisi delle traiettorie e delle politiche
di sviluppo rurale partendo dal basso. Tale affrancamento porta al centro della
questione la geopolitica della terra. Se, come suggeriamo, essa rappresenta il
terreno di lotta sulle norme e sulle regole che gestiscono il controllo, l’alloca-
zione, la produzione e l’uso delle risorse naturali, e sui valori e le idee che la
governano, allora la politica delle comunità rurali incorpora le tensioni che de-
rivano dall’accettazione o contestazione di queste idee e norme25. Per arrivare
a una più approfondita interpretazione del processo – oltre a realizzare come
l’appropriazione della terra sia spesso impiegata dalle élite nazionali a scopi
politici – è dunque necessario estendere lo studio del land grabbing oltre il pe-
rimetro della politica o dell’economia convenzionale. E sondare il terreno opa-
co e spesso sotterraneo delle lotte ordinarie e quotidiane delle comunità rurali,
dall’aggregato domestico al villaggio.
24. Nel 1900, tramite il Buganda Agreement il potere coloniale inglese, in ottemperanza al principio
dell’Indirect Rule, concesse ai capi tribali in proprietà privata tremila miglia quadrate di terra, crean-
do per la prima volta nella storia della regione una classe di notabili locali.
25. B.J.T. KERKVLIET, «Everyday Politics In Peasant Societies (and Ours)», Journal of Peasant Studies,
36, 1, 2009, pp. 227-243. 173
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AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
PERCHÉ LA CINA
PUNTA ANCORA
SULL’AFRICA di Giorgio CUSCITO
Malgrado il rallentamento economico, la Repubblica Popolare vuole
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1. L’
AFRICA CONTINUERÀ A RIVESTIRE UN
ruolo fondamentale nei piani della Repubblica Popolare Cinese. Questo è emer-
so dal Forum per la cooperazione Cina-Africa (noto con l’acronimo inglese Fo-
cac) svoltosi a Johannesburg, in Sudafrica, tra il 4 e il 5 dicembre.
Il presidente cinese Xi Jinping ha messo in chiaro quali saranno i cinque
pilastri delle relazioni sino-africane 1 nei prossimi anni: insistere sull’uguaglian-
za politica e la fiducia reciproca; consolidare la cooperazione economica win-
win; proseguire con gli scambi culturali; aiutarsi reciprocamente nel settore
della sicurezza; consolidare l’unità e la coordinazione negli affari internazionali;
difendere gli interessi comuni.
In sostanza, Xi ha voluto rinforzare i princìpi cardine 2 formalizzati per la pri-
ma volta durante il forum del 2006 e su cui si basa la crescita del commercio e
degli investimenti cinesi nel continente nero. Questi, descritti all’epoca in un do-
cumento intitolato «La politica della Cina in Africa» 3, includono anche l’imprescin-
dibile rispetto della politica «una sola Cina» 4 e del principio di non ingerenza ne-
gli affari interni degli altri Stati. Quest’ultimo consente all’Impero del Centro di fa-
re affari senza affrontare con i partner questioni legate al rispetto dei diritti uma-
ni, in patria come in Africa.
1. «Xi Jinping chuxi Zhong Fei hezuo luntan Yuehanneisibao fenghui kaimu shi bing fabiao zhici»
(«Xi Jinping partecipa alla cerimonia di apertura del summit di Johannesburg del Forum per la coo-
perazione Cina-Africa e pronuncia un discorso»), goo.gl/eHXMF3
2. «Declaration of the Beijing Summit of the Forum on China-Africa Cooperation», 5/11/2006,
goo.gl/1jBA98
3. «China’s African Policy», Focac, 12/1/2006, goo.gl/Pc8HL2
4. «White Paper – The One-China Principle and the Taiwan Issue», Ambasciata della Repubblica Po-
polare Cinese negli Stati Uniti d’America. 175
PERCHÉ LA CINA PUNTA ANCORA SULL’AFRICA
economie dell’Africa subsahariana, il cui tasso di crescita del pil nel 2016 pas-
serebbe dal 5 al 4,3%.
Ciò è un problema soprattutto per gli Stati del continente che puntano sul-
l’export di idrocarburi. Si aggiunga che in paesi come Zambia, Uganda e Ango-
la, gli accordi che prevedono la vendita del petrolio africano in cambio di in-
frastrutture cinesi sta creando crisi di liquidità 7.
Eppure, durante il forum, Xi ha annunciato 8 che la Cina fornirà 60 miliardi
di dollari per l’attuazione di dieci grandi progetti di cooperazione con l’Africa
da attuare nei prossimi tre anni. Questi dovrebbero riguardare diversi settori:
industrializzazione, modernizzazione dell’agricoltura, infrastrutture, servizi fi-
nanziari, energia sostenibile, commercio, agevolazione degli investimenti, ridu-
zione della povertà, welfare pubblico, sanità, scambi culturali, pace e sicurezza.
La cifra messa a disposizione da Pechino comprenderà 5 miliardi in sovvenzio-
ni e prestiti senza interessi, 35 miliardi di prestiti preferenziali e crediti all’e-
sportazione, 5 miliardi di credito aggiuntivo per il Fondo per lo sviluppo Cina-
Africa, 5 miliardi per il Prestito speciale per lo sviluppo delle piccole e medie
imprese africane, 10 miliardi come capitale iniziale di un Fondo di cooperazio-
ne Cina-Africa per la capacità produttiva. Nel documento pubblicato durante il
forum, l’industrializzazione figura come primo argomento nella sezione sul mi-
glioramento della cooperazione sino-africana. Il termine non era presente nel
rapporto del 2006.
La Cina è il maggior partner commerciale 9 dell’Africa e con essa ha scam-
biato beni per un valore di 220 miliardi di dollari nel 2014. Pechino importa dal
continente africano grandi quantità di petrolio e gas, vi costruisce infrastrutture
a basso costo (strade, ferrovie, edifici) e vi esporta prodotti manifatturieri di
scarsa qualità.
Negli ultimi vent’anni, oltre un milione di cinesi 10 – per lo più operai e com-
mercianti – si sono trasferiti in Africa. La manodopera locale è largamente impie-
gata dalle aziende della Repubblica Popolare, anche se le cariche dirigenziali so-
3. In Africa, la Cina vuole anche consolidare il suo soft power. Per questo
lancerà duecento progetti per la riduzione della povertà incentrati su donne e
bambini e cancellerà i debiti in forma di prestiti governativi a tasso zero contratti
dai paesi africani meno sviluppati, che matureranno a fine 2015. Pechino offrirà a
duemila studenti africani l’opportunità di conseguire diplomi e lauree e trentami-
la borse di studio governative. Inoltre, ogni anno inviterà dal continente duecen-
to ricercatori e cinquecento studenti e formerà mille professionisti nel settore del-
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la comunicazione.
Secondo sondaggi effettuati (rispettivamente) dal Pew Research Center 20 e
dalla Bbc 21, l’Africa è il continente in cui la Cina riscuote più consenso al mon-
do. Questo dato dipende probabilmente dall’aumento del commercio e degli in-
vestimenti dell’Impero del Centro nel continente. Tuttavia, secondo un’analisi di
AidData 22 (un progetto di ricerca americano che monitora l’assistenza allo svilup-
po), la China Development Bank, la China Export-Import Bank e le ambasciate
della Repubblica Popolare non godono di grande credibilità nei paesi a basso e
medio reddito. In una classifica di 86 istituzioni finanziarie di sviluppo bilaterali e
multilaterali, la prima si è classificata 75a, la seconda 59a e le ambasciate al 70°
posto in termini di «utilità della consulenza politica».
Invero, questo dato non è molto significativo. In virtù del principio di non
ingerenza, Pechino non ha tra i suoi obiettivi principali offrire «consulenza politi-
ca». Dal medesimo documento si evince peraltro che il numero di quanti hanno
espresso un’opinione sugli enti cinesi rispetto al totale degli intervistati è molto
basso e che nella classifica dei soggetti più utili nel campo della consulenza
commerciale le ambasciate cinesi sono seconde solo alla Banca mondiale.
In termini di assistenza estera 23 (aiuti, prestiti senza interessi, prestiti agevo-
lati), tra il 2010 e il 2012 la Cina ha speso globalmente 14 miliardi di dollari, di
cui il 50% è stato destinato all’Africa.
29. M. MARTINA, D, BRUNNSTROM, «China’s Xi Says to Commit 8,000 Troops for U.N. Peacekeeping
Force», Reuters, 29/9/2015.
30. J. PAGE, «China to Create $1 Billion Fund to Support U.N.», The Wall Street Journal, 28/9/2015.
31. «China Military in Talks for Logistics “Facilities” in Djibouti», Reuters, 26/11/2015.
32. R.C. O’BRIEN, «China’s Next Move: A Naval Base in the South Atlantic?», 25/3/2015.
33. J.C. HERNÁNDEZ, «Chinese Citizen Held by ISIS Poses Test for Beijing», The New York Times,
10/9/2015.
180 34. «China to Build Railway Linking East Africa», Aljazeera, 12/5/2014.
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
35. «China Welcomes Djibouti’s Participation in Developing Maritime Silk Road», GlobalPost,
3/12/2015.
36. E. OLANDER, K. BOSIELO, H. HONGXIANG, Y.-S. WU, «Will China’s Slowing Economy Derail Its Africa
Strategy?», Foreign Policy, 2/12/2015. 181
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AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
IL DEBITO TORNA
A MINACCIARE
LO SVILUPPO AFRICANO di Paolo RAIMONDI
L’Africa si finanzia sempre più emettendo obbligazioni pubbliche e
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a
1. L
E STATISTICHE DICONO CHE L’AFRICA
è il continente che cresce di più nel pianeta. Tuttavia, il suo debito aggregato –
quello di governi, imprese e famiglie – cresce a un ritmo ancora maggiore. Quel-
lo dell’indebitamento è un capitolo delicato, nonché storicamente doloroso, per
l’Africa: dagli anni Ottanta fino alle cancellazioni d’inizio millennio, il continente
ha già vissuto una devastante e lunghissima crisi del debito, un fattore determi-
nante del sottosviluppo e delle carestie. Nella gestione di questo particolare
aspetto finanziario si sono verificati negli ultimi anni almeno tre cambiamenti che
meritano un’attenta disamina, anche perché le nuove tendenze possono provo-
care effetti dirompenti, se non addirittura una nuova crisi.
In primo luogo, i creditori ufficiali (governi, Fondo monetario internazionale,
Banca mondiale e Banca africana per lo sviluppo) sono stati sostituiti da fonti
private (banche, fondi di investimenti, fondi di private equity). In secondo luogo,
i prestiti tradizionali e altre forme consolidate di assistenza finanziaria sono stati
soppiantati da obbligazioni pubbliche e private che competono sul libero merca-
to. In terzo luogo, il debitore africano non è più soltanto il governo, ma anche
l’impresa, che dà origine al cosiddetto corporate debt: sono infatti in aumento le
grandi compagnie africane – per esempio in Etiopia, Mozambico, Nigeria e Suda-
frica – che emettono obbligazioni per raccogliere nuovi capitali. Vi sarebbe poi
una quarta tendenza, in verità non nuova, ossia la denominazione delle obbliga-
zioni e del debito in generale in valute internazionali: dollari, principalmente, ma
anche euro. Osserviamo nel dettaglio questi sviluppi.
cresciuto dai 30 miliardi del 2010 ai circa 160 miliardi del 2015: più di cinque vol-
te in cinque anni (grafico). L’accelerazione è avvenuta a partire dal 2009, quando
l’Africa subsahariana ha emesso nuove obbligazioni pubbliche e private per 5 mi-
liardi. Nel 2013 le nuove obbligazioni ammontavano a 14 miliardi, nel 2014 a 20.
Di conseguenza, il rapporto debito totale/pil è aumentato notevolmente: nel
2008 era inferiore al 30%, ma alla fine del 2014 i prestiti di medio e lungo termi-
ne sui mercati internazionali hanno superato il 50% del pil e in alcuni Stati si ag-
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girano intorno al 70%. Dalla metà del 2009 alla metà del 2015, il debito pubblico
africano è mediamente aumentato di 2,6 volte, mentre nello stesso periodo nei
paesi in via di sviluppo in generale è cresciuto di 2,3 volte.
Le analisi del 2012 della Banca mondiale su Ghana, Uganda, Senegal, Niger,
Malawi, Benin, Mozambico e São Tomé e Príncipe sottolineano che questi paesi
– che dopo la cancellazione dei debiti hanno sempre più attinto alle nuove for-
me di prestito – potrebbero ricadere in meno di un decennio nella stessa, inso-
stenibile situazione precedente alla moratoria d’inizio millennio. Una delle ragio-
ni è proprio il fatto che i rispettivi governi sono costretti a pagare tassi di interes-
se sempre più alti per le obbligazioni denominate in valuta estera.
Un rapporto debito/pil intorno al 50% può apparire accettabile, se paragona-
to con quello statunitense (105%), quello medio dell’Unione Europea (90%) o
quello italiano (135%). Tuttavia, il suo tasso di crescita desta grande preoccupa-
zione – tant’è vero che nel maggio 2014 l’Fmi ha ammonito i governi africani.
Negli ultimi anni, il debito era stato controbilanciato e contenuto da una crescita
del pil mediamente sostenuta e durante lo scorso decennio i bilanci subsahariani
erano nel complesso in surplus. Ma ora all’orizzonte si affaccia lo spettro del de-
ficit, dovuto al fatto che i governi hanno mantenuto elevata la spesa per salari,
sussidi e infrastrutture, nonostante la diminuzione degli introiti dovuta al calo dei
prezzi delle materie prime. In sé, il debito non sarebbe nemmeno un problema,
se fosse usato per promuovere lo sviluppo reale delle infrastrutture e dei settori
agroindustriali e sociali. Diventa un fardello insostenibile se, crescendo a ritmi
troppo veloci, viene utilizzato per finanziare le spese correnti, le spese militari, le
guerre e la corruzione. In tali circostanze, il pagamento di una quota crescente di
interessi «cannibalizza» tutte le entrate e l’intero budget.
200
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150
100
50
0
2000 01 02 03 04 05 06 07 08 09 10 11 12 13 14* 15*
*Previsione
I LIVELLI DEL DEBITO ESTERNO (% sul pil) corrotti. L’Africa era finita nella «trap-
pola del debito»: secondo la United
PAESE DEBITO ESTERNO Nations Conference on Trade and
Angola 20,6 Development, dal 1970 al 2002 l’A-
Benin 19,2 frica aveva ricevuto 540 miliardi di
Botswana 19,3
Burkina Faso
dollari in prestito e ripagato ai credi-
14,5
Burundi 26,3
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190
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
L’AFRICA
IN RETE di Luca MAINOLDI
Google, Facebook e gli altri giganti del Web si contendono
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2. Sono però soprattutto i giganti del Web a stelle e strisce che hanno inte-
resse a far avanzare la Rete in Africa: un mercato di 1,2 miliardi di persone, desti-
nate a raddoppiare entro il 2050. A guidare le danze sono Facebook, Google e
Microsoft. Quest’ultima ha annunciato nel febbraio 2013 la Microsoft 4Afrika Ini-
tiative, che prevede entro il 2016 di portare nelle mani degli africani decine di
milioni di smartphone e tablet, mettere online un milione di piccole e medie
aziende africane, migliorare le capacità di 100 mila lavoratori africani nel campo
dell’It (information technology) e formarne altri 100 mila, il 75% dei quali verrà
aiutato da Microsoft a trovare lavoro. Al momento la formazione è concentrata in
Sudafrica ed Egitto (dove sono attive app factories per concepire applicazioni mi-
rate al mercato africano), in Kenya e Nigeria (formazione dei venditori su come
insegnare ai potenziali clienti l’uso degli smartphone Lumia) e in Nordafrica (for-
mazione dell’imprenditoria femminile nel campo dell’It).
L’azienda di Redmond ha inoltre allacciato un’alleanza con la cinese Huawei
192 (a sua volta molto attiva in Africa, dove ha creato un centro di formazione a Kin-
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
shasa) per lanciare sul mercato africano Huawei4Afrika, uno smartphone basato
sul Windows Phone 8 e dotato di alcune applicazioni precaricate pensate specifi-
camente per l’Africa. Il nuovo telefono è stato reso disponibile inizialmente in An-
gola, Costa d’Avorio, Egitto, Kenya, Marocco, Nigeria e Sudafrica. Microsoft (come
anche Google) ha inoltre avviato progetti in Kenya e Sudafrica volti a sfruttare gli
«spazi bianchi» dei segnali televisivi per portare Internet nelle aree non servite da
linee terrestri. Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a
Facebook già nel settembre 2014 annunciava di avere 100 milioni di utenti e
di voler aumentare il loro numero attraverso il programma Internet.org, per per-
mettere alle persone che vivono nelle aree più povere del mondo (specie in Afri-
ca e Asia) di accedere gratuitamente ad alcuni servizi Internet di base, grazie ad
accordi con alcune telecom locali. L’iniziativa è stata però criticata, soprattutto in
India dove è stata definita «l’Internet povero per persone povere» 2. La connessio-
ne offerta su cellulari, o comunque sistemi wireless, permette infatti di connetter-
si solo ad alcuni siti e servizi web, tra cui Facebook. I critici affermano che Inter-
net.org violerebbe il principio della neutralità della Rete, costringendo gli utenti
in una sorta di imbuto digitale dove l’offerta è limitata e soprattutto regolata dal
gigante americano, che in questo modo soffocherebbe sul nascere qualsiasi start
up digitale africana indipendente.
Il principale concorrente di Facebook sui mercati emergenti appare comun-
que Google. «Mentre Facebook e Google hanno un numero di utenti simile, circa
1,3 miliardi in tutto il mondo, il primo ne ricava 12 miliardi di dollari e il secondo
66 miliardi – ben 5 volte di più. Non essendo in grado di colmare il divario, [Fa-
cebook] deve fare di tutto per aumentare il numero di utenti, impedendo loro di
andare su Google per effettuare ricerche» 3.
Quanti appoggiano il progetto sostengono che fornire un accesso sia pure li-
mitato a Internet è sempre meglio di niente e che l’offerta di Facebook si adatta
perfettamente alle necessità delle utenze dell’Africa rurale: navigazione con
smartphone con il più basso consumo di dati possibile. La società americana ha
comunque ribadito il suo impegno a fornire un accesso senza limiti alla Rete e
ha annunciato di recente un accordo con Eutelsat per sfruttare un payload a ban-
da larga del futuro satellite Amos6 gestito dalla società israeliana Spacecom al fi-
ne di coprire gran parte dell’Africa subsahariana, specie le zone rurali. «Non ve-
diamo l’ora di collaborare con Eutelsat a questo progetto e di cercare nuovi modi
di utilizzare i satelliti per connettere le persone nelle zone più remote del mon-
do, in modo più efficiente», ha detto annunciando l’accordo Chris Daniels, vice-
presidente di Internet.org.
Facebook sta valutando di impiegare droni ad alta quota dotati di pannelli
solari che, sorvolando le aree più remote del mondo, porteranno la connessione
ad alta velocità nelle zone sottostanti. A questo scopo l’azienda era intenzionata
2. M. MURTHY, «Poor Internet for Poor People: Why Facebook’s Internet.org Amounts to Economic
Racism», Quartz, 17/4/2015.
3. Ibidem. 193
L’AFRICA IN RETE
sono 500 milioni di utilizzatori di telefoni cellulari che potrebbero presto acce-
dere alla Rete grazie agli smartphone. L’azienda di Mountain View ha avviato la
sua strategia africana di lungo termine fin dal 2006, quando ha aperto i suoi tre
centri regionali nel continente: al Cairo, a Nairobi e a Johannesburg. Google ha
impostato una strategia di prossimità – avvicinarsi il più possibile ai propri
utenti – che mira a valorizzare le risorse africane, come annunciato da un ap-
posito blog bilingue inglese-francese 4. Tra l’altro, ha lanciato Google Maps nel-
l’intera Africa subsahariana, Gmail e Chrome in alcune lingue africane (amari-
co, swahili e wolof, la lingua più parlata del Senegal) e YouTube in Sudafrica.
Attraverso il Project Link ha finanziato la costruzione di una rete di 170 chilo-
metri a fibra ottica ad alta velocità a Kampala, la capitale dell’Uganda, mentre
un’altra è in costruzione nel Ghana. La rete ghaniana sarà lunga mille chilome-
tri e collegherà l’area metropolitana della capitale Accra con Tema e Kumasi.
Libia
M M
Mauritania
Mali Niger
M Ciad
Eritrea
Senegal Sudan
Burkina
Gibuti
Gambia Guinea
Faso M
M
Benin
M
Togo
5. P. Omidyar ha fondato di recente First Look Media insieme a Glenn Greenwald, Laura Poitras e
Jeremy Scahill, i primi due «custodi» delle rivelazioni di Edward Snowden. 195
L’AFRICA IN RETE
nazione in Airtel.
Unire attivisti dei diritti umani, ong, fondazioni private, multinazionali del
settore ed enti governativi è tipico del sistema americano di partnership pubbli-
co-privato. Ne è un esempio NetHope (con sede a Fairfax, in Virginia, area a for-
te presenza di uffici della Cia e di agenzie «riservate» del Pentagono), una rete di
43 ong (la maggior parte americane e inglesi) che si propone di permettere alle
organizzazioni aderenti di «cambiare il mondo attraverso il potere della tecnolo-
gia». Tra i partner di supporto vi sono Usaid, la fondazione Gates, la G. Allen Fa-
mily Foundation, Google, Microsoft, Hewlett Packard, Intel, Facebook, Emc, Ci-
sco, Accenture, Dell, Visa, Palantir (una società fortemente legata alla comunità
dell’intelligence statunitense).
6. A. MACCHI, ««Metodo Belgrado», i segreti delle rivolte colorate», Limes, «A che servono i servizi», n.
7/2014, pp. 83-96.
7. L. MAINOLDI, «I padroni di Internet», Quaderni speciali di Limes, «Media come armi», n. 1/2012, pp.
196 9-16.
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
197
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AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
IL GRANDE BALZO
VERSO LE RINNOVABILI di Giorgio CUSCITO
La mancanza di elettricità, la crescita demografica ed economica
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destinato ad aumentare. Del resto, nei prossimi 35 anni dovrebbero nascere nel
continente – che conta già oltre 1 miliardo di abitanti – 1,8 miliardi di
bambini 4. Per la fine del secolo la popolazione africana potrebbe raggiungere i
4 miliardi, pari a quasi il 40% degli abitanti della Terra. A questi ritmi bisognerà
aspettare il 2080 prima che tutto il continente acceda all’elettricità, la cui do-
manda è aumentata dell’80% rispetto al 2005.
Come se non bastasse, in Africa 730 milioni di abitanti si affidano al tradi-
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zionale utilizzo della biomassa per cucinare 5 e circa 600 mila muoiono ogni
anno a causa dell’aria inquinata che questa produce nelle abitazioni. La metà
sono bambini di età inferiore ai cinque anni 6. Nel 2012, il carbone ha rappre-
sentato il 18% della domanda energetica dell’Africa subsahariana, seguito da
petrolio (15%), gas naturale (4%) ed energie rinnovabili (meno del 2%) 7.
Queste ultime offrono diversi vantaggi: possibilità di fornire elettricità a zo-
ne che ne sono prive in tempi più rapidi e a costi inferiori rispetto al tradizio-
nale ampliamento della rete elettrica locale; creazione di nuovi posti di lavoro
per la costruzione e la gestione di nuove infrastrutture; riduzione dell’inquina-
mento. L’Africa è ricca di risorse rinnovabili: quella solare abbonda in tutto il
continente; le zone umide della fascia centrale e del Sud procurano soprattutto
quella idroelettrica e la biomassa; l’eolica è particolarmente presente al Nord e
all’Est; quella geotermica lungo la Rift Valley, sempre nella zona orientale. Per
farsi un’idea delle potenzialità africane, si pensi che dove il fiume Congo si tuf-
fa nelle cascate Inga, tra Kinshasa (capitale della Repubblica Democratica del
Congo) e l’Oceano Atlantico, è stato avviato un progetto per costruire la più
grande centrale idroelettrica al mondo (la diga Grand Inga), capace di generare
40 mila megawatt (MW) di energia: il doppio rispetto alla diga delle Tre Gole
in Cina e un terzo della quantità totale prodotta in Africa. Qualora il progetto
fosse realizzato, si ridurrebbero di 63 megatoni le emissioni annuali di carbone
in tutto il continente.
Secondo un rapporto di McKinsey, nel 2040 l’energia idroelettrica potrebbe
fornire il 16% di quella totale africana. Il fatto che l’89% degli abitanti della Re-
pubblica Democratica del Congo non abbia accesso all’elettricità è a dir poco
paradossale 8.
Per ridurre il numero di abitanti e aziende africani privi di energia sarebbero
necessari investimenti per 55 miliardi di dollari all’anno, contro gli 8 attuali 9. An-
che se la maggior parte di essi è diretta verso i combustibili fossili, come carbone
e gas, le rinnovabili stanno guadagnando rapidamente terreno. Queste potrebbe-
«si posiziona stabilmente come il più grande attore privato del settore delle rin-
novabili di tutto il continente africano». Ad oggi, nell’ambito del Reipppp, Enel
Green Power ha ottenuto nelle gare pubbliche in Sudafrica più di 1.200 MW di
capacità eolica e solare dalla fine del 2012.
In Sudafrica, la compagnia italiana intende anche vendere direttamente alla
popolazione residenziale e alle piccole e medie aziende impianti fotovoltaici
solari e batterie di accumulo per produrre e immagazzinare energia. Progetti di
questo tipo possono portare grandi benefici ai sudafricani, che devono soppor-
tare periodiche interruzioni di elettricità. I costi di queste apparecchiature stan-
no progressivamente calando e ciò consentirà l’acquisto a una fetta sempre più
ampia della popolazione.
Attività simili sono sviluppate anche da altre aziende. Per esempio in Kenya
M-Kopa ha combinato la tecnologia solare e quella mobile per fornire elettricità
nelle campagne. I clienti pagano un piccolo deposito per un impianto domestico
(solitamente venduto al dettaglio per 200 dollari) composto da un pannello foto-
voltaico, tre luci per il soffitto, una radio e prese di ricarica per i telefoni cellulari.
In base alla quantità di energia consumata, il conto viene saldato a rate attraverso
M-Pesa, una piattaforma di pagamento mobile usata da un terzo della popolazio-
ne. Anche altre aziende stanno seguendo questo modello. In totale circa 60 mila
mini impianti sarebbero stati venduti nell’Africa subsahariana nel 2013 15.
L’AFRICA AL BUIO
<1
Tunisia
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<1
Marocco
<1
Algeria <1 <1
Libia Egitto
Capo 3
Verde
Mauritania 11
<1 Mali 15 12
Ciad 24 4
6 Niger Eritrea
Senegal Sudan
14
Burkina
Gambia 10 Faso
Gibuti <1
1 Guinea 93 9
Benin
Guinea- 15 4 70
Ghana
Nigeria
11
Togo
Liberia
7 ua
t 1 Kenya
10
go -
4 Ruanda
Eq Gabon
60
<1 <1
Con
15 14 Comore
<1
Malawi
Angola
10 15
Zambia Mozambico
8
2 Zimbabwe Madagascar 19
Namibia
Popolazione senza accesso
1 <1
all’elettricità (2012) Botswana
4 in milioni Swaziland
Maurizio
> del 75%
Lesotho
1
dal 50 al 75% 8
dal 25 al 49%
Sudafrica 1
< del 25%
MOZAMBICO
IN SUDAFRICA Enel Green Power RSA
Quartier generale
80 impiegati
BOTSWANA
Tom Burke Solar Park
LIMPOPO
Pulida Solar Park MW: 66
NAMIBIA
MW: 82.5
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MPUMALANGA
Pretoria
AuroraSolar PV2
Sublunary-Upington MW: 82.5 NORTH-WEST Johannesburg
GAUTENG SWAZ.
MW: 10
FREE STATE
Garob Wind Farm KWAZULU/NATAL
MW: 138
Bloemfontein LESOTHO Durban
Paleisheuwel S U D A F R I C A
Solar Park NORTHERN CAPE
In
MW: 82.5
EASTERN CAPE Nojoli Wind Farm
MW: 88
Nxuba Wind Farm
MW: 141
WESTERN CAPE
Oyster Bay Wind Farm
Karusa Wind Farm MW: 142
MW: 142 Gibson Bay Wind Farm
Città del Capo
Soetwater Wind Farm MW: 111
MW: 142
Impianti fotovoltaici Impianti eolici
16. «Expansion of Morocco’s Largest Solar Complex to Provide 1.1 Million Moroccans with Clean
Energy», World Bank, 30/9/2014, goo.gl/5ZM6WQ
17. «Lake Turkana Wind Power Project: The Largest Wind Farm project in Africa», African Develop-
204 ment Bank, goo.gl/4wZ3C2
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
getti di integrazione energetica regionale realizzati dai paesi africani nel corso
degli ultimi dieci anni non hanno ancora prodotto i risultati sperati a causa de-
gli interessi economici dei singoli Stati e della gestione spesso inadeguata. La
maggior parte dei governi cerca di non dipendere dalle risorse dei vicini e
preferisce affidarsi a fonti energetiche meno costose, senza preoccuparsi di
quanto inquinino.
L’Africa può potenziare sin da ora il settore delle rinnovabili per continuare
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205
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AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
LA NUOVA PRIMAVERA
DELL’ARTE AFRICANA di Flavio ALIVERNINI
Non più fenomeni antropologici relegati a musei didattici, pittura
Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a
il critico nigeriano Okwui Enwezor direttore del Settore arti visive, con lo specifi-
co incarico di curare la 56a Esposizione internazionale d’arte.
stare una buona opera a 100 dollari; oggi alcune di queste ne valgono milioni.
Ho studiato il movimento dei prezzi delle opere d’arte vendute alle aste in Nige-
ria dal 1999 e posso dirvi che l’arte contemporanea africana è diventata una so-
lida forma di investimento» 5.
Pare se ne stiano accorgendo anche in Cina, paese dove si fattura il 21% del-
le vendite nel settore: Dabing Chen, imprenditore già attivo nel Vecchio Conti-
nente quale fondatore dell’Africa-China Friendship Association, appassionato col-
lezionista di arte tribale, ha voluto guardare all’arte africana come investimento,
unendosi ad alcuni manager sudafricani. Il fondo che hanno creato – stimato in-
torno ai 40 milioni di dollari – verrà impiegato in un vasto programma di prestiti
per accrescere il valore della collezione, tra cui mostre temporanee e internazio-
nali, prestigiosi musei, fondazioni, eventi speciali, fiere d’arte. Già stanziata anche
una donazione a favore del futuro Zeitz Museum of Contemporary African Art di
Cape Town, che aprirà i battenti nel 2017 con la collezione dell’ex presidente
dell’azienda di abbigliamento sportivo Puma, Jochen Zeitz 6.
5. J. PRISCO, «Africa’s Contemporary Art Is Booming… So Buy It While You Can», Cnn, 16/7/2014.
210 6. M. GAMBILLARA, «Mercato. La Cina investe in Africa», Artribune, 31/8/2015.
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
Fatturato delle vendite all’asta di arte contemporanea per categoria, luglio 2014 - giugno 2015
Stampa
1,2%
Pittura Copia di 41d9d30a54f11908139ce42add690e9a
Scultura
15,3%
61,2%
4,6%
Fotografa
17,4%
Disegno
Altri
0,3%
Fonte: arteprice.com
«L’Occidente», ricorda Bonito Oliva, «si è abbeverato a lungo alle fonti delle
arti primitive. Iniziamo a scoprirle all’inizio del secolo scorso, quando le avan-
guardie riprendono vigore dopo l’anemia accademica; poi il colonialismo, l’i-
dea del viaggio, la tecnologia che ha ridotto le distanze. Tutti questi fattori han-
no concorso a creare un’idea di contaminazione, di meticciato culturale. Sul
piano antropologico si è prodotto un dialogo fra culture e il critico d’arte ha
usato le parole per creare un contatto fra queste immagini, che altrimenti sa-
rebbero rimaste mute» 7.
Ma adesso questi popoli hanno intrapreso un percorso di avvicinamento allo
stile e al linguaggio dell’arte occidentale, annacquando le loro fonti d’ispirazione
legate alle tradizioni e alla terra d’origine. Anche perché se a inizio secolo il cen-
tro dell’arte e della cultura europea era Parigi e poi, per un periodo, è diventato
New York, «oggi nella nostra società c’è un policentrismo per cui il nucleo del si-
stema è il soggetto che attraversa le culture più disparate».
L’ingresso nel gotha dell’arte contemporanea ha consentito agli artisti africani
di promuovere la propria arte fuori dai confini continentali. L’ascesa dei prezzi
sul mercato sta creando un fermento tra gli addetti ai lavori (e non solo) di tutto
il mondo, che vedono l’Africa come un’opportunità di investimento. Sarebbe in-
7. Intervista ad Achille Bonito Oliva concessa all’autore. 211
LA NUOVA PRIMAVERA DELL’ARTE AFRICANA
luzione testimonia l’evoluzione di una civiltà, com’è successo in ogni parte del
mondo. È sempre esistita una corrispondenza tra forma e funzione, mentre ades-
so gli artisti africani lavorano per esportare i loro lavori, non li fanno più ad uso
e consumo della popolazione. La globalizzazione li ha spinti a produrre oggetti
per immetterli sul mercato. Anche se la committenza e il collezionismo sono
sempre esistiti: i Medici a Firenze nel 1550 possedevano dei bellissimi avori che
provenivano in larga parte dalla Sierra Leone, dalla Liberia e dalla Nigeria» 8.
VOTA BREXIT
E PERDI IL POSTO
A TAVOLA di Daniel SCHADE e James BARTHOLOMEUSZ
del federalismo come uno dei momenti fondativi dell’odierna Unione Europea.
La grande ironia è che Churchill dopo la parentesi unionista in tempo di guerra
ritornò nell’alveo dell’eccezionalismo britannico. Eppure, due decenni dopo,
un’umile Gran Bretagna avrebbe bussato alle porte dell’Europa, invocando l’in-
gresso nel club.
Mentre sul continente i paesi iniziavano lentamente a unirsi nella Comunità
europea del carbone e dell’acciaio (Ceca) e in seguito nella Comunità europea
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gio sia dei celti sia dei latini. La rabbia contro l’establishment europeo è parte di
una sensazione più ampia che l’ormai disfunzionale unione britannica potrebbe
non durare ancora a lungo.
In secondo luogo, e legato a questo, è la risurrezione dell’essenziale diver-
sità storica della Gran Bretagna rispetto al resto d’Europa. Anche la maggioranza
dei cittadini che non dispongono di un’approfondita conoscenza legale hanno la
vaga idea che il Regno Unito alberghi al di fuori della tradizione continentale
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della civil law. Senza una costituzione scritta, il sistema politico britannico è fon-
dato sul principio della sovranità parlamentare: tutto il diritto deriva dalla legisla-
zione – con l’approvazione formale della monarchia – e i precedenti sono di vol-
ta in volta fissati e aggiornati dalle corti giudiziarie.
Tuttavia, il Regno Unito è pure vincolato da una moltitudine di accordi inter-
nazionali, compresa la Convenzione europea per i diritti umani con la sua corte
a Strasburgo, cui i governi britannici del passato hanno liberamente dato il loro
assenso. Non tanto tempo fa, questi princìpi basilari sono stati persino incapsula-
ti nel diritto interno britannico, dando al paese per la prima volta nella storia una
Corte suprema. Oggi, questi traguardi nella protezione dei diritti umani sono sfi-
dati dal governo, che li vuole sostituire con un bill of rights autoctono, nel tenta-
tivo di riprendere il controllo su questo particolare aspetto della legislazione in-
ternazionale. Una mossa che permetterebbe all’esecutivo di alterare la protezione
dei diritti umani in modo da essere contestato meno spesso di quanto non acca-
da ora. L’idea è che la Gran Bretagna sia in fin dei conti un caso a parte.
Lo stesso principio del controllo legislativo è stato preso come cause céle-
bre dallo United Kingdom Independence Party (Ukip), prima forza euroscettica
del paese – un’ironia, visto che detiene solo uno dei 650 seggi della Camera
dei comuni e nessuno in quella dei Lord. Il suo leader, Nigel Farage, diffonde
impunemente le menzogne più plateali sulla natura e sull’entità del diritto co-
munitario, aizzato dalla stampa. Il successo dello Ukip può essere attribuito
principalmente alla sua capacità di alimentare la paura del cambiamento della
società, sia esso il risultato dell’immigrazione, della globalizzazione o di en-
trambe. Ma ecco un’altra lampante ironia: essendosi autoesclusa sia dalla mo-
neta unica sia da Schengen, la Gran Bretagna è stata meno lambita dalle crisi
dell’Eurozona e dei rifugiati.
A prescindere dalle sfortune parlamentari, l’impatto dell’Ukip sul dibattito po-
litico è stato così rilevante da rendere elettoralmente poco saggio per qualunque
politico britannico dimostrarsi filoeuropeo e persino sfidare i luoghi comuni sul-
l’Ue. I conservatori hanno reagito alla percepita ascesa dell’Ukip solo con azioni
difensive, a partire dal ritiro dei Tories dal gruppo parlamentare europeo di cen-
tro-destra, il Partito popolare europeo. Il primo passo verso l’abbandono di una
posizione mainstream di centro-destra, in cui il partito era collocato sin dall’ade-
sione del 1973, ottenuta proprio sotto la guida di un conservatore, Edward Heath.
L’egemonia dell’Ukip nel dibattito sull’Ue – unita al galoppante euroscettici-
218 smo tra i parlamentari conservatori senza incarichi di governo – ha poi forzato
AFRICA, IL NOSTRO FUTURO
ha dovuto far approvare una legge che impegna il paese a tenere un referen-
dum entro la fine del 2017. Nel frattempo, sarebbe in corso una rinegoziazione
dei termini della membership britannica nell’Ue, senza particolare successo.
Comprensibilmente, nessun altro Stato membro è propenso a riaprire il dibattito
sui trattati fondativi dell’Unione.
ropa la Gran Bretagna non godrebbe della stessa special relationship del passato.
Invece di restare l’ideale «cavallo di Troia» degli americani come temuto da de
Gaulle, Londra finirebbe per isolarsi pure dagli Stati Uniti.
Contrariamente alle fantasie euroscettiche di Fortress Britannia, qualora la-
sci l’Ue il Regno Unito non smetterà miracolosamente di essere parte dell’Euro-
pa. Sarà ancora influenzato dalle stesse questioni geopolitiche ed economiche
del resto del continente, ancora affacciato su un Mare del Nord le cui acque si
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stanno inesorabilmente alzando e ancora nel mezzo di una crisi dei rifugiati.
L’unica cosa che perderà senza alcun dubbio è la più importante: il suo posto al
tavolo dei negoziati. Non ci saranno deputati britannici al parlamento europeo,
nessun rappresentante del governo di Londra al Consiglio dei ministri, nessun
diplomatico a gestire la protopolitica estera ora guidata da Federica Mogherini.
E i residuali britannici nel servizio civile dell’Ue potrebbero scoprire che le pro-
prie fedeltà personali sono improvvisamente cambiate. Questo scenario riporte-
rebbe in auge pure la questione scozzese. Vista l’attuale situazione politica a
nord del confine inglese, non sembra plausibile che Edimburgo vorrà restare in
un Regno Unito senza Ue.
Se le conseguenze dei due scenari per la Gran Bretagna sembrano relativa-
mente chiare, lo stesso non può dirsi per l’Europa. Si potrebbe sperare che l’esi-
lio di Londra funga da catalizzatore per un’integrazione più profonda. Dopotut-
to, con uno dei paesi più euroscettici fuori dal ring, alterare l’equilibrio di po-
tenza in favore di questa opzione potrebbe apparire più semplice. Tuttavia, vista
l’ascesa dei sentimenti antibrussellesi sul continente e l’infinita sequenza di crisi,
bisogna tenere in considerazione anche l’eventualità opposta. Con uno dei suoi
tre maggiori attori fuori dall’equazione, potrebbe prodursi un colpo di coda na-
zionalista in tutto il continente. Dell’uscita di Londra beneficerebbe nell’imme-
diato Marine Le Pen, che capitalizzerebbe le paure di un’Ue diventata di fatto
strumento del dominio imperiale tedesco. Nel peggiore dei casi, tutto ciò si po-
trebbe tradurre nel collasso delle politiche comuni europee, in una corsa a ri-
vendicare la sovranità nazionale formale. Un processo di disintegrazione del tut-
to comparabile a quello jugoslavo. Una volta recisi i vincoli che rendono la
guerra «materialmente impossibile», il ricorso alle armi, benché improbabile,
rientra nel campo delle possibilità.
Nessuno di questi scenari è ideale, ma il meno indesiderabile è che la
Gran Bretagna decida di restare nell’Unione Europea. Gli esercizi di democra-
zia diretta devono essere incoraggiati e la loro pratica applaudita. Tuttavia, allo
stato attuale delle cose il referendum non sarebbe una consultazione realmente
democratica, dal momento che nessuno è in grado di capire a favore di cosa si
stia effettivamente votando. Il rischio dell’uscita è il caos. Restare nell’Ue con-
sentirebbe almeno a Londra di restare parte del dibattito europeo.
ROBERTO ROVEDA - Si occupa di storia del Medioevo e di storia del Cristianesimo. Scrive
per la rivista svizzera Ticino 7, per Focus storia e per il quotidiano L’Unione Sarda.
PAOLO SANNELLA - Diplomatico italiano.
DANIEL SCHADE - Vicepresidente del Project for Democratic Union.
VITTORIA STEFANINI - Architetto e dottorando in Paesaggi della città contemporanea, dipar-
timento di Architettura, Università degli Studi Roma Tre.
JEAN-LÉONARD TOUADI - Giornalista, esperto di geopolitica africana. Docente di Geografia
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La storia in carte
a cura di Edoardo BORIA
1. Per diversi secoli la più diffusa forma di rappresentazione cartografica non ha
riguardato la terraferma ma gli spazi marittimi. Portolani e carte nautiche, con le loro
rose e linee dei venti, i loro toponimi ordinatamente allineati in senso perpendicolare
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alle coste, erano infatti i veri oggetti immancabili nelle borse dei viaggiatori, che si spo-
stavano preferibilmente tramite il cabotaggio sotto costa. I portoghesi sono stati mae-
stri nel genere, come evidenzia questa carta dell’Africa nord-occidentale, tanto detta-
gliata sulla costa quanto fantasiosa per l’interno.
Fonte: L. LAZARO, Portolano della Costa Occidentale dell’Africa con le isole Cana-
rie, da Portugaliae Monumenta Cartographica, 1563.
2. «Il tempo delle scoperte è quello delle invenzioni dei toponimi. Ciascuno vuole
imporre la propria nomenclatura, che magari vive appena per il tempo di una carta»
(CH. JACOB, Introduction, in Atlas. L’Histoire de l’humanité, 1989). È durata un po’ di più
– ma non troppo – la nomenclatura imposta dai belgi al Congo, con i vari centri di
Stanleyville, Léopoldville, Elisabethville eccetera e gli omonimi dipartimenti ammini-
strativi ben visibili con caratteri rossi su questa carta. Quando un misto di rivalsa anti-
colonialista e delirio di onnipotenza del maresciallo presidente Mobutu imposero una
nuova riforma dei nomi, Léopoldville divenne Kinshasa, Stanleyville fu ribattezzata
Kisangani ed Elisabethville diventò Lubumbashi, solo per dire di questi tre. Lo stesso
Mobutu rinnegò il proprio nome di battesimo, Joseph-Désiré, smaccata prova della
sudditanza alla cultura del colonizzatore e forse anche troppo delicato per le sue orec-
chie, a favore di un più autoctono e bellicoso Mobutu Sese Seko Koko Ngbendu Wa
Zabanga che in lingala, lingua evidentemente succinta, significa «Mobutu, il potente
guerriero che non conosce sconfitte grazie alla sua resistenza e inflessibile volontà di
vittoria, che lo portano di conquista in conquista lasciando una scia di fuoco».
Fonte: Carte du Congo Belge, J. Lebegue & C., Bruxelles 1896.
4. Antenati delle immagini satellitari erano i panorami cartografici, cioè quelle ve-
dute prospettiche che offrono la visione di un territorio dallo spazio. Sublimando l’ica-
rio desiderio di volteggiare liberamente nell’aria, la loro evoluzione è rivelatrice di
quanto la cartografia sia specchio dei tempi: i panorami apparvero infatti in epoca ri-
nascimentale mentre Leonardo conduceva i suoi esperimenti sul volo e conobbero la
gloria nell’Ottocento dopo che i fratelli Montgolfier avevano sbalordito tutti con i loro
palloni aerostatici.
224 Fonte: Africa vista dall’alto, Antica ditta F. & C. Vallardi, Milano 1845 ca.
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I corsi, della durata di 15 ore, si svolgono da novembre 2015 a maggio 2016, il venerdì e il sabato
dalle 9.30 alle 18.30 a Milano (Palazzo Clerici, in via Clerici 5).
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