Lo Spazio Condiviso
Lo Spazio Condiviso
Lo Spazio Condiviso
La dimensione teorica
Stranieri o immigrati: una mera questione linguistica?
La consapevolezza dell’importanza del linguaggio nel definire gli individui coinvolti nei fenomeni migratori
ha portato all’elaborazione di definizioni da condividere al fine di non generare confusione e non rafforzare
stereotipi. Provvedimenti:
- Carta di Roma (2008): protocollo deontologico per i giornalisti adottato dal Consiglio nazionale
dell’Ordine e dalla Federazione della stampa italiana; finalità: promuovere una maggiore
consapevolezza sull’informazione inerente tematiche e soggetti legati all’immigrazione in Italia.
Viene proposto un glossario concernente i termini adeguati da utilizzare
- Edizione italiana del Glossario Migrazioni e Asilo, pubblicata dall’European Migration Network
Anche le statistiche ISTAT hanno subito trasformazioni metodologiche e terminologiche nel registrare i
cambiamenti sociali; Censimento 2001: rilevati anche stranieri e immigrati nel territorio e vengono fornite
definizioni per le varie figure. L’ISTAT utilizza il termine straniera/o per indicare le persone senza
cittadinanza italiana. Cittadini stranieri: persone che non hanno cittadinanza italiane e apolidi, cioè individui
che non sono cittadini di alcuno Stato.
In Italia l’aggregato di popolazione immigrata (= nati all’estero arrivati in Italia) rappresenta l’insieme più
consistente, ma diventano sempre più rilevanti anche i cd immigrati di seconda generazione = nati in Italia da
immigrati oppure arrivati in Italia da minori, nel senso ampio.
Censimento 2001: gli stranieri residenti erano 1.335.000 (2,5% della popolazione totale), 2011: 4.570.317
(7,5%), oggi superano i 5 milioni (8,7%).
Le teorie
Per lungo tempo si è creduto che il motore principale delle migrazioni fosse la spinta economica, e dunque
ruolo fondamentale era attribuito a cause strutturali operanti a livello mondiale. Visione del mondo bipolare:
da una parte aree di partenza povere, dall’altra aree ricche in cui il mercato del lavoro poteva assorbire nuova
manodopera -> nota teoria del “push and pull”, migrazioni guidate da fattori di spinta e fattori di attrazione.
Si ritiene che tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX i fattori d’attrazione dei sistemi economici trainanti
fossero predominanti, mentre ora sono considerati preponderanti i fattori di spinta da parte dei Paesi di
partenza, come la povertà cronica, l’eccessiva crescita demografica, i disastri ambientali e i cambiamenti
climatici. Particolarmente rilevante è la pressione demografica a cui risponde la pressione migratoria:
Stephen Smith stima al 2050 2 miliardi e mezzo di africani e 450 milioni di europei -> pressione migratoria
sul vecchio continente. Secondo i dati i paesi da cui parte il maggior numero di migranti sono India, Messico
e Cina.
La teoria push and pull non è esaustiva, lascia scoperte alcune domande, legate ad esempio al fatto che
partono persone da Paesi con un Indice di Sviluppo Umano anche intermedio e spesso individui provenienti
da fasce intermedie della società, non le più svantaggiate.
Caroline Winthol de Wenden parla di “Nuove emigrazioni” (titolo del suo saggio), evidenzia le direttrici,
meno ovvie e rispondenti alla visione biunivoca, Ovest-Est-Ovest, Nord-Nord oppure Nord-Sud.
Micheal J. Piore: Uno dei principali sostenitori della teoria dualistica del mercato del lavoro, vede
l’immigrazione come risposta a una domanda massiccia di manodopera non qualificata nei sistemi economici
sviluppati. Attività qualificate ben retribuite vs occupazioni non qualificate e a bassa redditività, i cui vuoti
sarebbero colmati dai migranti provenienti dalle aree del globo sottosviluppate. Anche Saskia Sassen
evidenzia come nelle maggiori metropoli del mondo si stia sviluppando questo sistema dualistico.
Maria Gemma Grillotti e Pierluigi De Felice: analizzano il fenomeno del land grabbing, cioè l’acquisto di
vastissime porzioni di terreno da parte di multinazionali o imprese occidentali -> estromissione dei piccoli
contadini e proprietari locali e realizzazione di immense piantagioni -> sconvolgimento degli assetti
economici e sociali locali.
Oltre a queste teorie che assegnano un ruolo preminente ai sistemi economici, ne sono state elaborate altre
che prendono in maggiore considerazione le spinte soggettive e le relazioni sociali, in particolare queste
ultime descrivono il migrante come individuo immerso nei sistemi di interazione sociale con i suoi
connazionali, in funzione dei legami sociali e simbolici che egli riconosce come propri. In questo senso
Douglas Massey parla di networks migratori – reti migratorie – cioè di “complessi legami interpersonali che
collegano migranti, antichi migranti e non migranti nelle aree di origine e di destinazione, attraverso vincoli
di parentela, amicizia e comunanza di origine.” Nelle aree in cui esistono già gruppi di persone immigrate, si
creano delle reti di solidarietà che permettono una maggiore accoglienza e forme di integrazione più
avanzate nel tessuto sociale, in termini di maggiore facilità nella ricerca di un lavoro, possibilità di parlare un
linguaggio comune, ecc. -> ragione per cui numerosi individui della stessa nazionalità spesso risiedono negli
stessi quartieri.
Le migrazioni hanno una forte connotazione spaziale e territoriale, la visione geografica permette di integrare
le teorie dell’economia globale e quella delle reti sociali portando l’attenzione agli spazi e ai luoghi che
permettono di comprendere la distribuzione dei migranti e le ragioni della loro presenza.
La convivenza “etnica”
La regola generale per quanto riguarda la convivenza tra individui del Paese ospitante e del Paese straniero
prevede che maggiori sono le differenze percepite tra i due gruppi, maggiore è la distanza sociale, minori
sono le possibilità che il gruppo autoctono accetti al proprio interno il gruppo minore.
Wilbur Zelinsky elabora la “dottrina del gruppo fondatore”, secondo la quale nel momento in cui un
territorio viene colonizzato e una popolazione esistente soppiantata, le caratteristiche del primo gruppo di
colonizzatori risultano cruciali per la successiva geografia sociale e culturale dell’area, indipendentemente da
quanto piccolo sia il gruppo iniziale di invasori. Le forme di discriminazione, segregazione o accoglienza da
parte del gruppo fondatore nei confronti del gruppo minoritario dipendono da molteplici fattori.
La concentrazione di gruppi in quartieri separati e omogenei dal punto di vista etnico (il punto più alto è il
ghetto) è il risultato dell’azione di fattori interni ed esterni. L’esistenza di un territorio etnico all’interno di un
Paese ospitante può avere delle funzioni positive per i gruppi minoritari:
- Difesa dei membri del gruppo
- Supporto
- Conservazione
- Attacco o rivendicazione
Verso una tipologia dei movimenti migratori
Tentativo di classificazione dei movimenti migratori in base a 1) motivazione, 2) alla durata, 3) alla
tipologia, 4) alla destinazione, 5) all’entità numerica degli individui coinvolti
Motivazioni:
ECONOMICHE: le prime motivazioni che vengono in mente quando si parla di migrazioni sono legate a
equilibri geopolitici ed esigenze economiche; spesso le migrazioni spinte da ragioni legate al mercato del
lavoro non sono però strettamente connesse all’aspetto pecuniario, ma riguardano il “desiderio di futuro”:
giovani altamente qualificati che sperano in un riconoscimento più dignitoso e in tempi più brevi delle
proprie capacità -> fenomeno dei cervelli in fuga.
POLITICHE: migrazioni spinte da condizioni di conflitto o da precise scelte politiche che consistono nel
rifiuto di un dato conteso. Conseguente anche se non univocamente connesso è il problema dei rifugiati e dei
richiedenti asilo.
AMBIENTALI: C. si concentra su un fenomeno ancora circoscritto ma in crescita, cioè spostamento dei
pensionati da luoghi freddi a luoghi più caldi; spostamento dettato anche dalla riduzione del potere
d’acquisto delle persone pensionate. Fenomeno che rientra più in generale nelle migrazioni spinte da cause
ambientali.
AFFETTIVE: si tratta di un tipo di motivazione che era spesso attribuito alle migrazioni femminili. Oggi
sono soprattutto i ricongiungimenti familiari, cioè le riunioni di nuclei familiari in un Paese diverso da quello
d’origine, ad essere letti in funzione degli affetti. Le donne, d’altro canto, non si spostano solo per
ricongiungersi ai mariti, sono diventate breadwinners (coloro che portano il pane a casa).
Durata: la migrazione può avere durata temporanea – si ricordi che secondo le Nazioni Unite un anno è il
tempo minimo perché si parli di migrazione – o divenire una migrazione permanente. Generalmente le
migrazioni si concludono con il ritorno nel Paese d’origine, soprattutto quelle che interessano giovani
lavoratori che fanno ritorno nel paese di partenza in età avanzata -> conseguenza di questo è un generale
ringiovanimento delle popolazioni ospitanti
Tipologia organizzativa:
Migrazioni spontanee: caratterizzate dal fatto di avere al centro la libera scelta degli individui
Migrazioni forzate o organizzate: subentrano fattori esterni che spesso non sono condivisi o scelti dagli
individui coinvolti negli spostamenti. Vi sono molti esempi di questa tipologia organizzativa di migrazione:
abbandono delle campagne venete, friulane ed emiliano-romagnole da parte di contadini per la bonifica della
Pianura Pontina; sfollamento di milioni di persone dalla Cina centrale per la costruzione della diga delle Tre
Gole; diaspora ebraica; deportazione degli Armeni, abitanti di Cilicia e Anatolia; caso dei curdi; deportazioni
di schiavi prelevati dal continente africano, il golfo di Guinea venne ribattezzato “Golfo degli schiavi”
perché luogo in cui gli schiavi venivano preparati per essere venduti ai mercanti; caso dei profughi della
guerra in Ruanda tra i gruppi etnici Hutu e Tutsi, esodo di due milioni di persone, l’Uganda è divenuta un
paese rifugio e la sua popolazione è aumentata. Ricordare i profughi dei conflitti medio-orientali, Primavere
arabe e guerra in Siria.
Numero di migranti: la migrazione può interessare individui o singoli nuclei oppure popoli interi, in questo
caso si parla di migrazione di massa.
Destinazione: le migrazioni possono essere a lungo o corto raggio, orizzontali e verticali, interne o esterne,
internazionali, intercontinentali o verticali (dalle aree montane verso le aree pianeggianti). I flussi migratori
possono essere classificati in relazione al peso che assumono i differenziali personali e territoriali: i
differenziali migratori territoriali si riferiscono alla direzione che assume lo spostamento; lungo il percorso vi
possono essere delle tappe oppure la destinazione finale può cambiare con il sopraggiungere di nuove
opportunità.
Distanza: fattore importante, tant’è che quando gli spostamenti non erano rapidi e immediati come oggi, si
poteva osservare una proporzione diretta tra distanza tra i luoghi e numero di migranti = teoria della distance
decay, cioè della diminuzione del volume dei flussi con l’aumentare della distanza. Questa teoria ha perso il
suo senso originale dato l’affermarsi di una maggiore accessibilità delle tratte.
Le strategie migratorie si distinguono anche in base al continente di partenza: il Department of economic and
social affairs dell’ONU (DESA) afferma che nel 2019 la maggioranza dei migranti internazionali si sposta
tra Paesi situati nella stessa regione -> la teoria della distance decay non va rifiutata integralmente, perché
anche il fattore accessibilità non è valido allo stesso modo ovunque.
Nel panorama internazionale numerosi spostamenti coinvolgono individui ad elevato livello di istruzione alla
ricerca di nuovi contesti che possano rispondere ai loro bisogni: si parla del fattore “milieu”, cioè l’insieme
delle condizioni naturali e socioculturali che si sono stratificate in un luogo e rappresentano il patrimonio
comune della collettività che lo abita.
Pressione demografica differenziale: squilibrio tra il ritmo della crescita demografica e il ritmo dello
sviluppo economico -> più persone da sfamare, meno risorse e ricchezza.
Differenziali migratori personali: fattori che riguardano gli individui (età, stato civile, sesso) che entrano
comunque in gioco nei processi migratori. È stata per esempio registrata una certa propensione
all’emigrazione in alcune fasce d’età più che in altre. I giovani tra 20 e 30 anni sono più liberi di emigrare,
hanno meno legami sociali, una carriera meno avviata. L’analisi della distribuzione per età dei migranti
mostra una sovra-rappresentazione degli individui d’età compresa tra i 20 e i 45 anni. Il DESA stima che nel
2019 un migrante su 7 ha meno di 20 anni. Connessi al fattore età sono lo stato civile e il sesso. Ad esempio
c’è una maggiore propensione alla migrazione in individui celibi o nubili; per quanto riguarda il sesso,
nell’immaginario collettivo il migrante è per lo più un uomo, anche se le donne hanno sempre assunto ruoli
primari nei processi migratori.
La dimensione territoriale
Dalle città globali agli ottomila campanili
Hunter: i flussi di migranti, ai primi del 900, si dirigono prevalentemente verso gli Stati Uniti. Questa
affermazione riguarda l’Italia in primis, afflitta da problemi strutturali (le migrazioni si dirigono anche in
Europa). Anni 70: crisi economica (shock petrolifero), molti Paesi applicano norme restrittive di ingresso ->
ritorno in patria di molti italiani e i flussi in uscita diventano meno importanti di quelli in entrata. Gli
stranieri che non potevano entrare nei Paesi europei approdavano in Italia e vi restavano.
Come negli USA a inizio 900, anche in Italia i migranti si dirigevano verso le aree metropolitane. Le città
offrono reti di solidarietà per alcune nazionalità e maggiori opportunità lavorative. Le città si sono ingrandite
topograficamente e demograficamente proprio in risposta alla pressione migratoria; i migranti provenivano
sia dalle zone rurali appartenenti allo stesso Paese – o territorio - delle città “calamita”, oppure da Paesi
stranieri.
Le linee che hanno caratterizzato gli spostamenti interni della popolazione italiana, determinando l’assetto
demografico del Paese, e che hanno inglobato anche i movimenti di migranti stranieri, sono rintracciabili
nella storia degli ultimi due secoli: a partire dalla fine del XIX secolo, con la nascita delle industrie, si sono
avuti i primi spostamenti dalle aree montane e interne; giovani che abbandonano la pastorizia e l’agricoltura
per trasformarsi in operai inurbati. Crescita molto rapida delle maggiori città, con allargamento e
inglobamento o di centri preesistenti o con l’edificazione di nuove periferie (spesso con funzioni residenziali
ma prive di servizi).
All’inizio solo migranti interni, poi sono stati affiancati dai migranti internazionali. Le prime collettività si
sono concentrate a Roma e Milano e rispondevano alla carenza di manodopera a bassa qualificazione in
alcuni settori. Esempio: le collettività a forte presenza femminile si sono stabilizzate in città in cui il lavoro
femminile era sdoganato e c’era necessità di manodopera nel lavoro di cura (assenza di un sistema di
welfare). Le collettività a forte presenza maschile si sono orientate verso il settore del commercio e
dell’edilizia.
Altri luoghi della migrazione sono evidenti nei centri urbani in cui si trovano maggiori opportunità di lavoro
e dove si concentrano le reti di solidarietà: quartieri interamente occupati da migranti e che ne vengono
trasformati. Negli anni più recenti la concentrazione di migranti nelle grandi città si è andata dilatando nello
spazio e si è verificata una diffusione della presenza migrante e straniera anche al di fuori delle maggiori aree
urbane, nelle città medie e nei Comuni delle corone delle città più grandi, fino alle piccole località interne da
cui gli italiani sono andati via (nuova linfa vitale). Si può parlare di territorializzazione a macchia d’olio che
parte dai capoluoghi per investire le altre zone limitrofe, in accordo agli spostamenti interni della
popolazione nazionale e in risposta al decentramento produttivo, fenomeno recente.
La gentrification metropolitana
La crescita urbana ha registrato rallentamenti, soprattutto nelle grandi aree metropolitane: i problemi del
traffico, dell’inquinamento, dell’aumento dei costi, hanno spinto molti a spostarsi dalle grandi città verso i
centri limitrofi -> fenomeno della controurbanizzazione o sub/urbanizzazione: prima i centri urbani si sono
espansi inglobando le periferie, poi sono stati abbandonati dalla popolazione italiana e gli edifici industriali
sono stati decentrati. Gli individui e le famiglie a basso reddito sono rimasti ad abitare nei centri, non
potendo spostarsi o ristrutturare immobili che spesso sono lasciati all’incuria -> convivenza tra abitanti
originari (spesso anziani) e nuovi poveri e immigrati. In questo contesto, nei centri urbani sono nati quartieri
etnici, abitati da popolazione straniera a basso reddito. Differenziazione dello spazio urbano: in diversi
quartieri centrali rimasti fatiscenti, spesso vicino le stazioni, sono rimasti anziani/poveri/stranieri a basso
reddito; nelle grandi città gli stranieri si sono spostati anche nelle periferie più marginali.
Interventi speculativi di rigenerazione urbana attivano processi di ristrutturazione: edifici vecchi e degradati
subiscono un cambio nella destinazione d’uso, spingendo all’esterno i migranti; in queste zone viene attratta
nuova popolazione a reddito medio-alto. Questo processo viene chiamato gentrificazione: fasce marginali di
popolazione (tra cui prevalentemente migranti) vengono sostituite da popolazione a reddito-medio alto
soprattutto in zone centrali della città, e sono costrette a spostarsi in zone più lontane e marginali.
Verso un equilibrio territoriale
Il Nord è la macroarea che ospita il maggior numero di stranieri, in particolare la Lombardia, ma accanto ad
essa si distinguono Emilia-Romagna, Veneto e Piemonte. Centro: la presenza straniera si concentra nel Lazio
(al secondo posto della classifica generale) e in Toscana. Sud: presenza più sporadica, aree maggiormente
interessate da migrazione stagionale. Le regioni del Sud sono ancora considerate aree di approdo e transito
verso il Nord attrattore.
Su scala provinciale il rapporto si inverte: Roma > Milano; tipologia di insediamento diversa. Roma:
concentrazione nel Comune di Roma Capitale; Milano: struttura più reticolare nei diversi centri.
La consistenza di presenza straniera lungo la costa è correlata alla presenza italiana e alla richiesta di servizi
da essa generata, oltre che all’ampio mercato immobiliare resosi disponibile. Anni 60, boom economico:
molti individui hanno costruito seconde case lungo il litorale, litorale che si andava popolando nei weekend e
nella stagione estiva -> crisi economica: molti italiani hanno trasformato le case in opportunità di
investimento, alcuni immobili diventano le prime abitazioni dei figli; appartamenti e villette liberi sono stati
affittati e occupati da collettività straniere che pagano prezzi contenuti per zone considerate “periferiche”,
comunque lontane dai centri con più opportunità lavorative (spesso pendolari). È ciò che è accaduto nel
Lazio: concentrazione straniera in località precedentemente abitate da italiani, come nel caso del residence
“Bella Farnia” di Sabaudia, in cui la concentrazione residenziale di stranieri, ha allontanato villeggianti
italiani. Anche la costa adriatica è caratterizzata dalla presenza straniera, fascia che si allarga dal mare fino al
confine interno dell’Abruzzo.
Meridione: in Campania grande concentrazione costiera Napoli-Salerno, a fronte di un vuoto interno;
Basilicata bassa concentrazione; Puglia concentrazione nei centri urbani, stessa cosa in Calabria (soprattutto
comuni di Reggio Calabria e Cosenza); la Sicilia accoglie molti stranieri data anche la sua funzione di
“porta”; la Sardegna attrae stranieri soprattutto nel Nord, costa Smeralda e costa meridionale di Cagliari.
Esistono dunque vuoti e pieni, ma nel tempo tendono a un riequilibrio, come se valesse la logica dei vasi
comunicanti: aree fortemente concentrate rimangono stabili o perdono abitanti, aree più libere registrano
gradualmente maggiori arrivi e presenze.
Mappatura relativa alle attività economiche: la manodopera straniera è attratta da alcuni specifici settori.
Settore primario: marcata frammentarietà territoriale, interessa soprattutto albanesi, marocchini, indiani,
tunisini, bangladesi; nel sud prevalgono attività stagionali con buona parte di lavoratori irregolari. È richiesta
manodopera straniera per attività come raccolta della frutta (Friuli), floricoltura (Liguria), allevamento.
Settore secondario: gli stranieri trovano lavoro in piccole e medie imprese del Settentrione, es. distretti di
concia delle pelli, industria tessile, comparto dell’edilizia.
Settore terziario: gli stranieri si occupano di commercio, settore alberghiero, ristorazione.
L’analisi dei dati INAIL relativi alle assunzioni mostra velocità differenziate: negli ultimi 10 anni
l’inserimento di stranieri nel settore primario e terziario è aumentato rispetto alla concentrazione di occupati
nell’industria. Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna sono le regioni con maggior numero di lavoratori
stranieri, cui si aggiunge anche il Trentino. A livello provinciale si distinguono anche Prato, Pesaro-Urbino,
Macerata, Arezzo, Siena, Perugia, Teramo, Chieti.
Ultimamente, anche le aree montane richiamano popolazione migrante: sebbene la concentrazione appaia
bassa in termini assoluti, se si guarda l’incidenza sulla popolazione le percentuali sono considerevoli. I lavori
spesso abbandonati dagli italiani nelle aree interne vengono ora svolti da stranieri, che spesso possono
abitare zone meno costose.
Incidenza straniera sulla popolazione italiana al 1° gennaio 2010: 7,5%; forte divario tra Nord e Sud. La
variazione percentuale 2010/2018 evidenzia aree stabili a buona attrazione, aree sature e aree di nuova
attrazione. In soli 6 anni il valore dell’incidenza straniera è raddoppiato: nel 2003 l’incidenza era del 3,4%.
Immigrazione come fenomeno strutturale. Si individua infatti un fattore di stabilità nel tasso di natalità degli
stranieri: nei primi periodi di immigrazione le nascite non sono incoraggiate, la programmazione di un
allargamento familiare è possibile solo se c’è una certa stabilità da parte della popolazione immigrata.
I segni del radicamento
A confermare il radicamento dei migranti stranieri nel territorio italiano è il numero assoluto degli stranieri
nati in Italia e residenti: si è registrato un incremento di bambini. Il numero assoluto di bambini è contenuto,
ma la percentuale di bambini stranieri in rapporto al numero dei bambini totali è consistente. Nelle Province
in cui i numeri sono più consistenti (Roma, Milano, altre del Nord), più del 10/20% di bambini stranieri sono
nati in Italia, figli di migranti che hanno pienamente assorbito la cultura italiana, anche se non sono italiani
legalmente.
1 gennaio 2010: all’anagrafe risultano iscritti 932.000 minori stranieri, di cui 572.000 nati in Italia, la
cosiddetta “seconda generazione”. Per quanto riguarda i bambini nati all’estero, il 70% è originario di Paesi
dell’Europa centro-orientale o del continente africano, ma scomponendo i dati si riscontrano significative
differenze. Gruppi africani: la struttura demografica è caratterizzata da forte incidenza di bambini d’età
inferiore ai 6 anni (-> propensione a formare nuclei in Italia); le collettività provenienti dall’Europa centro-
orientale sono invece caratterizzate da forte incidenza di nati all’estero.
Analisi dei dati degli stranieri deceduti: i valori sono molto contenuti, ma è perché quando gli stranieri
arrivano sono in giovane età (età lavorativa) e anche perché il fenomeno migratorio è relativamente recente;
inoltre, quando si è in età avanzata si preferisce tornare nel Paese d’origine. L’immigrazione, però, sta
diventando più stanziale, dunque si può prospettare un aumento degli anziani/dei decessi tra gli stranieri in
Italia.
Confronto delle piramidi per classi d’età dei residenti a Roma, tra quella riguardante la popolazione straniera
e popolazione italiana: la prima rileva una maggiore fecondità e una forte concentrazione nelle fasce d’età
lavorative (popolazione nettamente più giovane). La piramide della popolazione di Foggia, confrontata con
quella di Bologna, mostra una preponderanza maschile: la struttura produttiva del foggiano, quasi
interamente svolta nel settore primario, richiede manodopera maschile.
Lo stereotipo imperante sulla popolazione migrante in Italia riguarda la loro presunta mancanza di titoli di
studio superiori: difficoltà incontrate nella lingua, problematiche inerenti al riconoscimento dei titoli, l’aiuto
rappresentato dalle reti di connazionali, lo svolgimento di mansioni manuali che non richiedono la
conoscenza dell’italiano. Nonostante questi aspetti, lo stereotipo non è supportato da indagini statistiche, che
invece ci indicano un buon livello di istruzione; molti giungono in Italia in possesso di titoli di studi
secondari o universitari, ma spesso si ritrovano ingabbiati in un sistema sociale ed economico che li blocca
nelle attività lavorative e impedisce loro di esercitare professioni conformi alla propria preparazione ->
fenomeno del brain waste, spreco di cervelli.
La mobilità interna
Utilizzando cancellazioni e iscrizioni anagrafiche al 2009 sono state realizzate carte che riescono a restituire
le dinamiche degli spostamenti interni. In valori assoluti: vivacità dell’Italia centro-settentrionale, forte
attrattore di manodopera soprattutto in piccole e medie imprese; la dinamica sembra invertirsi nel
Mezzogiorno, investito però da un’accelerazione nell’accoglienza.
Le grandi città metropolitane (Roma, Milano, Torino) mostrano sì una forte presenza di residenti stranieri,
ma indicano una certa maturità del fenomeno perché accolgono meno stranieri rispetto ad altre aree “più
giovani” (cioè che da meno tempo accolgono migranti).
Fino a pochi anni fa si tendeva a distinguere tra: grandi aree urbane, monocentriche, in grado di inglobare i
migranti nelle periferie del tessuto urbano, e aree policentriche/reticolari, nelle quali i migranti risiedevano
nei centri medi. Oggi lo scenario mostra segni di maggiore diffusione di residenzialità straniera. Essendo
aumentato negli anni il numero di stranieri e la conseguente pressione sul territorio, c’è stata una progressiva
redistribuzione degli stranieri con movimenti centrifughi dalle maggiori aree urbane verso i centri
dell’hinterland. Anche aree montane prima abbandonate hanno ricevuto una spinta propulsiva e una
rivalorizzazione perché interessate dall’accoglienza di stranieri.
La pluriennale permanenza su suolo italiano da parte di un sempre maggior numero di stranieri si riflette in
una mobilità territoriale maggiore: gli stranieri tendono a spostarsi in tempi stretti minimizzando i costi degli
affitti e seguendo le opportunità di lavoro, prima di acquistare un’abitazione (raro). La flessibilità lavorativa
degli stranieri risponde, in un certo, senso, meglio alle richieste di flessibilità del mercato del lavoro, in tempi
inferiori rispetto a quelli degli italiani tendenzialmente più “stabili”.
Il mosaico etnico
Il mosaico etnico
In Italia comunità di vecchio insediamento si mescolano alla popolazione locale e nuovi arrivati. La
percezione che ogni italiano ha della presenza straniera in Italia è condizionata dal luogo in cui vive. La
prima comunità straniera residente in Italia proviene dalla Romania, seguono quella albanese e marocchina.
Quella Ucraina è cresciuta molto. Ben presente è anche quella cinese. La Romania è entrata nell’UE nel 2007
-> diritto all’ingresso, per i cittadini romeni, in ciascuna nazione dell’Unione.
L’incidenza delle diverse proveniente è correlata alla situazione politica, sociale, economica e ambientale
delle aree di partenza. Inoltre, la consistenza numerica dei gruppi è legata alle politiche migratorie attuate dai
Paesi di partenza e dai Paesi di destinazione -> per alcune comunità è più facile che per altre.
Distribuzione:
- Romeni: presenti lungo tutta la Penisola ma con maggiori accentuazioni nel centro-nord; risiedono
nei maggiori capoluoghi, nelle principali città della costa e delle pianure, lungo la dorsale
appenninica.
- Cinesi (quarta comunità straniera in Italia): si concentrano nelle aree settentrionali e privilegiano i
centri urbani. Si crea un vuoto attorno alla capitale: i cinesi si concentrano nel comune di Roma e
sono quasi assenti nei comuni dell’area metropolitana, almeno fino a qualche anno fa. Roma: attività
commerciali e di ristorazione, concentrati nel quartiere Esquilino.
- Ucraini: stanziati in buona parte della Penisola, aree sia al nord sia al sud, sia interne sia costiere.
- Filippini: privilegiano i grandi centri urbani
- Senegalesi ed egiziani: si concentrano prevalentemente al Nord e nella capitale (numeri molto
inferiori).
Se si pone in rapporto la consistenza numerica dei gruppi con l’universo totale degli stranieri si evincono
strategie spaziali di “specializzazione etnica” di alcune aree (es. molti senegalesi in Sardegna, i cinesi lungo
la costa adriatica). La distribuzione territoriale è strettamente legata alla specializzazione lavorativa; non
mancano fenomeni di segregazione, orizzontale e verticale: se le donne sono concentrate nel settore dei
servizi (segregazione orizzontale), tutto l’universo straniero è concentrato nelle attività a bassa qualificazione
(segregazione verticale).
Gli stranieri occupano oggi non più soltanto le maggiori città: non è più possibile pensare a un sistema
dualistico centro-periferia, la società attuale è profondamente coinvolta nel fenomeno migratorio e la
presenza straniera è parte strutturale del contesto. La popolazione straniera non è parte altra da tollerare, ma
parte costituente la popolazione nella sua interezza.
I paesaggi etnici
Le popolazioni che arrivano in un territorio e lo abitano, creano paesaggi modificando ciò che c’era prima. I
paesaggi sono multiformi e cangianti, suscettibili delle trasformazioni naturali ma anche umane.
ArjunAppadurai analizza i processi culturali legati ai grandi cambiamenti del mondo contemporaneo e parla
di “modernità diffusa” come condizione nella quale entra come fattore costituente anche il fenomeno
migratorio; come chiave interpretativa A.A. l’esistenza di diversi paesaggi “ethnoscapes” (landscape of
persons who constitute the shifting world in which we live).
La progressiva trasformazione dei luoghi caratterizzati da un’alta densità di segni etnici, che rendono visibile
il radicarsi di una comunità straniera, porta alla territorializzazione semantica, concetto coniato da Davide
Papotti. Tra le componenti materiali che rivelano questa territorializzazione ci sono: spazi residenziali, spazi
legati al movimento, spazi legati alla pratica religiosa o al commercio; vi sono poi importanti componenti
immateriali, come gli elementi linguistici (insegne e pubblicità), i suoni, la corporeità degli abitanti
(lineamenti e abiti diversi). Paesaggio etnico = manifestazione tangibile della diversità culturale data dalla
presenza di popolazioni straniere. La percezione di un paesaggio non è legata solo alla visione che la
comunità “ospitante” ha della popolazione straniera, ma è veicolata anche dai mass media: le immagini
mediatiche orientano la percezione individuale -> per questo, prima di lasciarsi orientare dalla
comunicazione mediatica, è bene accedere a una previa conoscenza scientifica dei fenomeni nella loro
totalità.
I luoghi del commercio etnico
Le attività commerciali rappresentano un’occupazione molto frequente per gli stranieri presenti in Italia, in
cui vige anche una specializzazione produttiva per le diverse collettività: commercio ambulante gestito dagli
africani/bangladesi, commercio all’ingrosso gestito dai cinesi.
Commercio ambulante: bassa qualità dell’offerta, immagine commerciale semplice, forte caratterizzazione di
genere (attività svolta quasi solo da donne). La forma più semplice di commercio ambulante coinvolge
individui mobili che trasportano merce sulle spiagge oppure davanti ai supermercati. Le bancarelle del
commercio ambulante, quando autorizzate, rappresentano il segno di un’attività minimamente organizzate.
Più stabili sono i segni della vendita nei negozi, che spesso si presentano come showroom e come luoghi di
rifornimento per gli ambulanti immigrati. Spesso l’apertura di un nuovo negozio etnico attrae individui
appartenenti a persone della stessa comunità -> attività commerciale intraetnica, inizialmente. Diventa poi
interetnica quando si rivolge ad altre popolazioni. Molti di questi negozi rappresentano non solo luoghi di
vendita, ma anche di aggregazione e punti di riferimento nello spazio pubblico. La richiesta di prodotti
esotici da parte degli acquirenti stranieri residenti in Italia sviluppa un sistema di import-export. La presenza
di negozi etnici non sempre trova accoglienza benevola, tant’è che spesso le amministrazioni locali
intervengono con specifiche normative: es. Roma, l’amministrazione comunale ha emanato alla fine degli
anni 90 una cospicua produzione normativa per la “salvaguardia del centro storico”, limitando il commercio
all’ingrosso nel centro storico, soprattutto nel rione Esquilino. Il commercio all’ingrosso è stato bandito dai
rioni storici e questo divieto ha inciso soprattutto sulla comunità cinese. Le pubbliche amministrazioni
tendono a spostare le attività all’ingrosso verso le aree periferiche dei centri urbani, in quelle di poco pregio i
cui terreni hanno costi contenuti (esempio è l’area periferica di Commercity, vicino Fiumicino, dove si
trovano molti negozi all’ingrosso).
L’imprenditoria straniera
Di recente i migranti hanno avviato attività imprenditoriali in ambito agricolo, cominciando anche a coltivare
in Italia prodotti etnici che prima venivano importati. La piana di Latina è un caso interessante di questo
fenomeno, con la creazione di nuove colture vegetali tradizionalmente non italiane. Tra 2010 e 2018 gli
imprenditori stranieri sono aumentati del 31,7% (quelli italiani diminuiti del 12%). Metà dei titolari di
impresa nati all’estero esercitano la propria attività nel Nord; aumento sensibile recente anche nel Sud. Tra le
regioni spicca la Lombardia, seguono Lazio e Toscana. Gli imprenditori stranieri sono attivi nei servizi e
nell’industria e in settori “labour intensive” (ristorazione, costruzioni, noleggio, ecc). Problemi che
incontrano: accesso al credito e burocrazia.
I segni della devozione
Presenza di edifici di culto = segno di stabilizzazione di una comunità e di riconoscimento. Libertà di culto
sancita dalla Costituzione, ma sono note le difficoltà pratiche nell’esercitarla. Molti edifici usati per la
preghiera, in assenza di intese formali con lo Stato italiano, non possono essere definiti “luoghi di culto”.
Roma, 1955, inaugurata la più grande Moschea d’Europa (ai piedi del Monte Antenne). Nei primi tempi di
arrivo nel Paese di destinazione, la preghiera è lasciata ai singoli, oppure a piccoli gruppi che si creano però
privatamente. Con il passare del tempo, poi, le comunità costruiscono un edificio destinato alla preghiera o
sottopongono un edificio esistente a un cambio di destinazione d’uso (cambiamento nel paesaggio). La
comunità cinese di Roma ha acquistato un terreno nell’area di Via dell’Omo (molte attività a conduzione
cinese), per la costruzione di un luogo di culto; edificio che è stato prima costruito in Cina numerando i
pezzi, poi smontato e ricostruito in Italia. Da qui è nato il più grande tempio buddista d’Europa, il tempio
HuaYi. Le Intese con lo Stato italiano sono lo strumento formale con cui si attua l’articolo 8 della
Costituzione italiana; si riconoscono ministri del culto e festività religiose, aree riservate nei cimiteri e la
possibilità di utilizzare i fondi a loro destinati dall’8 per mille.
Inaugurato nel 2011 un tempio sikh a Pessina Cremonese; i sikh, svolgendo lavori legati all’allevamento dei
bovini, sono molto concentrati nelle pianure; a Pessina vive una comunità indiana che incide del 16,7% sulla
popolazione; il comune si è sempre dichiarato libero da pregiudizi razziali e ha incentivato dinamiche
inclusive e di accoglienza. La comunità sikh ha qui costruito il suo tempio, con un grande contributo da parte
dei membri della comunità stessa (più mutuo).
Altra recente costruzione è la Chiesa dei Mormoni di Gesù Cristo Dei Santi Ultimi Giorni, a ridosso
dell’arteria stradale GRA (inaugurata nel 2019).
La questione abitativa
La casa è un nodo cruciale nel processo di inserimento nella società ospitante; quest’inserimento talvolta è
problematico e insufficiente, migranti spesso inseriti in interstizi centrali abbandonati dalla popolazione
locale oppure nelle estreme periferie. Le esigenze abitative variano molto in base all’età, al sesso, allo stile di
vita, ai tempi di permanenza delle persone coinvolte. Soprattutto uomini e donne, anche se provenienti dallo
stesso paese, possono attuare strategie residenziali diverse. Molte immigrate, ad esempio, vengono in un
primo momento ospitate dalla collettività etnica d’appartenenza, poi possono trovare alloggio presso le
famiglie italiane per cui lavorano. Ci sono quartieri a reddito medio-alto che se accolgono molte donne
immigrate, allo stesso tempo respingono i nuclei stranieri a basso reddito. Molte famiglie straniere si
affastellano nei quartieri popolari e nelle periferie in cui spesso si concentra la povertà; spesso la convivenza
in questi contesti si fa difficile, le condizioni abitative sono molto precarie.
L’uso dello spazio privato e pubblico cambia in relazione all’appartenenza etnica degli individui: es. il
balcone viene vissuto come spazio estraneo dagli africani. Nella casa musulmana invece il salotto ha un
ampio spazio (spesso a quest’esigenza non riescono a rispondere le case italiane).
Come sottolineato dal Rapporto di Scenari Immobiliari, in Italia manca una politica di affitto sociale
promossa dalla pubblica amministrazione, che possa fornire alle fasce di reddito più basse l’assistenza
necessaria.
Il mercato immobiliare
Gli stranieri che cercano un’abitazione devono confrontarsi con i problemi del mercato immobiliare, che
interessano anche la popolazione italiana a basso reddito. I migranti non solo hanno, generalmente, reddito
basso, ma essendo spesso breadwinner della famiglia di origine, mandano regolarmente le rimesse nel Paese
di partenza. Secondo una ricerca di Scenari immobiliari, due stranieri su cinque sono costretti ad adottare
soluzioni abitative di ripiego. Tuttavia, tra 2006 e 2018 gli stranieri sono stati coinvolti in scambi
commerciali riguardanti alloggi per un volume di affari di 100 miliardi. C’è dunque un incremento
complessivo delle compravendite di case che coinvolge gli stranieri. 2019: mercato che ha rappresentato il
9% delle compravendite immobiliari. La maggior parte dei migranti però si rivolge al mercato degli affitti,
che sono elevati, spesso anche di più per gli stranieri a causa di pregiudizi e discriminazioni. A causa degli
affitti alti spesso i migranti finiscono per condividere la casa se non la stanza. Si evidenzia una forte
mancanza di cultura dell’accoglienza da parte degli italiani. Non sono rari casi di sovraffollamento delle
abitazioni, come quello oggetto di reportage da Repubblica, riguardante appartamenti di circa 150 mq con 60
persone ad abitare, nel quartiere del Pigneto. Gli stessi agenti immobiliari italiani confermano la presenza di
forme di discriminazione per quanto concerne l’acquisto di immobili da parte di persone straniere; tuttavia,
nell’ultimo decennio gli acquisti da parte di migranti sono diventati consistenti e i movimenti attuati da
migranti, pur coinvolgendo una quantità di denaro limitata, rappresentano un’opportunità per il mercato
immobiliare in relazione al reddito investito, anche perché si rivolgono a un segmento immobiliare spesso
disertato dagli italiani.
Rustico, villetta o condominio?
Da un’indagine di “Scenari Immobiliari” emerge come, anche a fronte della consapevolezza di una
permanenza temporanea, alcuni migranti decidono comunque di spendere i loro risparmi nell’acquisto di una
casa, che è vista come una possibilità di uscita dal mercato degli acquisti. Non è raro il caso di migranti che
acquistano un’abitazione, spesso in Comuni di prima o seconda cintura delle grandi città, per poi rivenderla e
acquistarne un’altra in zone più centrali. Ciò che interessa è la conquista di una certa indipendenza, che
spesso spinge a prediligere abitazioni isolate – villette o rustici – rispetto ai condomini, in cui possono crearsi
condizioni di conflitto. Alcuni dati:
La distribuzione territoriale degli acquisti è concentrata nel Nord (Lombardia, Veneto, Emilia-
Romagna).
Le collettività che tendono ad acquistare maggiormente immobili provengono da Albania e Cina;
minore propensione è mostrata da cittadini del Bangladesh e del Pakistan.
Gli stranieri provenienti dalla Cina possiedono immobili con la rendita catastale più alta.
La provincia italiana più interessata dall’acquisto di immobili da parte di stranieri è Prato
Ultimamente si è passati da una concentrazione nelle maggiori città a una presenza sempre crescente nelle
cittadine di prima/seconda corona o nelle province limitrofe. Questi spostamenti hanno fatto contrarre il
mercato residenziale nelle grandi città, contrazione che si è andata a sovrapporre ad una diminuzione
generale degli atti d’acquisto da parte dei migranti nell’intero Paese a causa della crisi economica. Gli
acquisti sono calati dal 2019, calo dovuto a: a) minori concessioni di mutui b) aumento precariato e
disoccupazione. Non è da sottovalutare poi il fenomeno per cui, per abbattere i costi dell’intermediazione e
per far fronte alla consistente domanda da parte dei migranti, sempre più stranieri diventano essi stessi agenti
immobiliari.
Le agenzie immobiliari a gestione etnica
Sono nate negli ultimi anni agenzie immobiliari gestite da stranieri, coinvolgendo imprenditori provenienti
soprattutto dall’Est Europeo e dalla Cina. I cinesi, ad esempio, si rivolgono quasi esclusivamente alle agenzie
gestite dai connazionali (stereotipo dei cinesi che riciclano denaro così); i cinesi acquistano immobili
soprattutto attraverso i doni di nozze.
Il ricordo all’intermediazione dei connazionali influisce sulla locazione delle residenze, perché il raggio
d’azione dell’agente si rivolge principalmente a un’area specifica e tende a privilegiarla. Es. concentrazione
di attività economiche cinesi in Via dell’Omo a Roma (intervento di un agente immobiliare cinese). Le
strategie residenziali attuate dalla comunità cinese portano a una concentrazione esclusiva all’interno di spazi
ben individuabili. Nell’area romana operano più di 300 agenzie immobiliari con proprietario nato all’estero;
una consistente percentuale di queste opera oggi in Provincia, nei comuni di prima cintura (fenomeno del
decentramento residenziale di cui sopra).
La segregazione residenziale
Numerose dinamiche di carattere storico, sociale ed economico concorrono a tratteggiare lo spazio in un
modo preciso, che spesso va nella direzione di una segregazione residenziale. La città e i suoi quartieri
accolgono alcuni gruppi e ne allontanano altri. Le singole realtà sono diverse tra di loro, ma si possono
individuare modelli di segregazione proposti nella letteratura internazionale per evidenziare elementi
costanti. Premessa: la periferia non si misura soltanto in chilometri di distanza dal centro, un’area
spazialmente periferica può essere ricca di opportunità economiche e culturali (e viceversa), dipende da
come è organizzato il tessuto urbano, se interconnesso, isolato, accessibile o negato, monocentrico o
policentrico. Inoltre, lo spazio urbano può essere polifunzionale o specializzato in una funzione (es. quartieri
in cui ci sono quasi solo uffici oppure quasi solo residenze).
Tra città europee e d’oltreoceano
Lo spazio urbano europeo è molto diverso da quello statunitense e canadese. USA e Canada: città pianificate
prima di essere costruite, si ergono le industria che occupano una fascia posta a confine con il centro, accanto
a queste industrie vivono gli operai; città formate da zone concentriche occupate da precisi strati della
popolazione. Città europee: le industrie vengono edificare su un tessuto preesistente, spazio occupato da
vestigia storiche, quartieri spesso indistinguibili, tessuto più complesso.
Le teorie che analizzano il fenomeno della segregazione residenziale si sviluppano non a caso negli USA, a
Chicago: negli anni Venti nasce la “scuola dell’ecologia sociale”, che metteva in luce soprattutto le forze
della competizione sociale per lo spazio. La società Nord-americana era attraversata da una rapida crescita
demografica e un’immigrazione massiccia, anche perché le industrie avevano bisogno di manodopera ->
formazione di interi quartieri abitati da migranti, es. Little Italy. La scuola di Chicago guarda alle forme di
segregazione residenziale, osserva i migranti che, quando arrivano nella nuova società, privi anche di un
bagaglio linguistico e di opportunità lavorative, si rivolgono alle reti sociali già esistenti di connazionali, da
cui vengono spesso ospitati per una prima sistemazione -> poi cercano una sistemazione autonoma, ma
sempre all’interno dei quartieri etnici, “nicchie etniche”. Se i migranti si emancipano (lingua e reddito) allora
si sposteranno in altre aree facendo spazio a nuovi migranti. Vi è quindi una sorta di successione, per cui una
collettività si sostituisce a un’altra. A livello spaziale: prima ci si stabilisce nei nuclei centrali in cui sorgono
le industrie -> poi ci si allontana verso le periferie in cui vivono le classi sociali a reddito medio-alto. Teoria
detta “dell’assimilazione”.
Modello efficace negli USA, meno per i contesti europei. Inoltre, questa teoria non tiene conto di pregiudizi
etnico-razziali che persistono nel tempo e impediscono la mobilità e l’integrazione. Negli USA inizialmente
le barriere per migranti provenienti da Asia, Caraibi, Africa e sud-America erano chiuse, si aprono dagli anni
60 -> muta la composizione demografica della città.
La misura della segregazione
Le strategie residenziali delle diverse collettività non seguono tutte le stesse logiche. La ricerca
internazionale ha sviluppato indici statistici in grado di misurare il livello di segregazione di un gruppo;
questi hanno avuto un’ampia applicazione per lo studio della distribuzione dei gruppi sociali su diverse scale
temporali e spaziali. Gli indici si calcolano considerando la popolazione presente in piccole porzioni di
territorio; l’uso di porzioni più o meno estese incide sui risultati.
Massey e Denton identificano 5 dimensioni della segregazione spaziale: 1) uniformità: omogeneità di
distribuzione di un gruppo etnico; 2) esposizione: misura del contatto del gruppo con i gruppi maggioritari;
3) concentrazione in un settore specifico della città; 4) centralità: tendenza a occupare lo spazio centrale di
una città rispetto al resto della popolazione; 5) clustering: tendenza a raggrupparsi in un’unica area oppure a
disperdersi
Questi sono tutti aspetti della segregazione che vengono appiattiti da un indicatore complessivo perché
altrimenti ci vorrebbero indicatori specifici. Peach, ad esempio, suggerisce di puntare l’attenzione su: grado
della concentrazione, l’assimilazione e l’incapsulamento (cioè l’isolamento). L’indice di Massey e Danton
viene ancora ampiamente utilizzato, anche se ha limiti interpretativi.
IS = 0.5 x ∑ |xi/X-yi/Y| x 100 (i = zona urbanistica)
xi: numero residenti di un gruppo nazionale nella zona urbanistica
X: numero residenti di un gruppo nazionale nella città
yi: totale popolazione residente nella zona urbanistica
Y: totale abitanti della città
L’indice varia tra 0 e 100: 0=maggiore dispersione; 100=maggiore concentrazione. Questo indice, detto di
dissimilarità, permette di comprendere la peculiarità della distribuzione di residenza delle comunità, ma
ovviamente (grazie al ca), non rende possibile l’individuazione territoriale della logica seguita.
Il quoziente di locazione
Altri indicatori sono in grado di rappresentare graficamente e puntualmente lo stato di distribuzione della
popolazione straniera; si può così calcolare il quoziente di localizzazione dei gruppi nazionali scelti e
realizzare carte tematiche. Il quoziente esprime il rapporto tra: a) proporzione di un gruppo nazionale e
popolazione straniera nelle singole unità urbanistiche e b) consistenza del gruppo nell’intera città rispetto alla
popolazione straniera. QL = (xi/yi) / (X/Y). Se:
- QL = 1 -> la distribuzione in una zona urbanistica è uguale a quella nell’intera città
- QL < 1 -> il gruppo è presente nella zona urbanistica in misura minore al resto della città
- QL > 1 -> il gruppo è presente nella zona urbanistica in misura maggiore al resto della città
Il QL è un indice che dà uno sguardo più completo: infatti mentre con l’indice di segregazione i singoli
gruppi vengono messi a confronto con la somma delle popolazioni presenti nella città, ma si perdono
informazioni relative alla distribuzione dei migranti (perché tra le popolazioni incide soprattutto quella
autoctona), con il QL si affina il confronto all’interno dell’universo degli stranieri e dunque si può capire se
le diverse collettività si distribuiscono indifferentemente sul territorio o se si dividono lo “spazio etnico”.
Se in una zona c’è una forte presenza di un gruppo nazionale e una presenza minima delle altre collettività,
allora il quoziente di localizzazione è alto; se invece coesistono diverse collettività nazionale l’indice è
basso. Limiti del quoziente di localizzazione: 1) l’indice è nullo quando nella zona non è presente nessun
individuo del gruppo di riferimento, anche se la zona è popolata da altre comunità; 2) l’indice è insensibile
all’ampiezza della zona considerata e non considera la popolazione relativa; 3) l’indice non rileva se le zone
statistiche in cui si divide il territorio urbano hanno dimensioni estensive diverse.
In Italia gli studiosi tendono a valutare la percentuale di collettività straniera sul totale della popolazione
residente.
La comparazione internazionale
Il modello dell’assimilazione che è diventato di riferimento nel contesto statunitense è meno capace di
fornire interpretazioni realistiche nei contesti europei. Le analisi di dettaglio e comparative che sono rese
possibili dalla presenza sul suolo Nord-americano di una griglia amministrativa e statistica uniforme, non
sono altrettanto possibili in Europa, in cui ogni Paese definisce gli ambiti da rilevare seguendo specifiche
definizioni che rendono impossibili analisi comparative. Anche gli ordinamenti statali e la presenza o meno
di aree metropolitane ben definite rendono difficile la comparazione in ambito europeo -> scenario
complesso.
Se si parte dalla necessità di comparare lo stesso gruppo nazionale straniero nelle capitali europee ci si
imbatte nel problema dell’estensione territoriale delle capitali. Parigi: piccola estensione se si considerano i
20 arrondissements, ma questo è solo il core dell’area metropolitana e solo uno degli spazi in cui si
concentrano gli stranieri, che sono molto presenti nei quartieri periferici. Roma Capitale, all’opposto
(1285,31 kmq) assorbe processi di gentrificazione dell’area centrale e i flussi centrifughi verso la periferia.
Ogni Paese europeo ha una sua griglia statistica e raccoglie dati sull’immigrazione a diverse scale territoriali;
anche la diversa composizione demografica della città rende difficili le comparazioni.
Per un’analisi comparativa a livello internazionale è necessario porre attenzione anche alla diversa
cronologia dei censimenti, che avvengono con scadenze temporali specifiche.
Emerge anche la diversa definizione che ogni Stato dà ai termini “straniero” e ai suoi derivati; c’è chi
considera straniero chi non è cittadino del Paese ospitante anche se nato lì.
Tutto questo rende la complessità del fenomeno migratorio e i suoi riflessi territoriali.
La frammentazione europea
L’analisi delle logiche residenziali in alcune capitali europee fa emergere dinamiche molto diverse rispetto a
quelle americane. In Francia, Germania, Italia e Spagna, le città sembrano avere un tessuto melange con
qualche macchia (anziché a scacchiera; negli USA si parla di ghetti etnici) -> in Europa esistono quartieri
multietnici con bassi indici di segregazione. È da rifiutare comunque un modello univoco di descrizione della
segregazione residenziale in Europa, c’è una netta differenza tra città del Nord e del Sud Europa. Inoltre, non
è per forza negativo il fenomeno di concentrazione etnica nelle città europee (vantaggi della convivenza del
singolo all’interno di un quartiere etnico in cui si sente accolto).
Tra le principali città europee solo Parigi presenta un aumento della differenziazione tra quartieri ricchi e
quartieri poveri, come derivazione dalla strutturazione che si è cristallizzata dal XIX secolo. I ghetti sono
piuttosto formati da individui ad alta istruzione e alto reddito che vogliono isolarsi dal resto della
popolazione. Le politiche sociali possono essere considerate un fallimento (social housing, zoning).
Madrid: aumento del numero di immigrati che ha trasformato la capitale con diversificazione delle
provenienze. Dal 2001 al 2007 è cresciuto il numero di aree in cui i migranti non-UE sono molto presenti e
sono diminuite le aree a fortissima concentrazione = distribuzione etnica. Esiste qui una correlazione tra
presenza etnica e qualità strutturale dei quartieri (condizioni architettoniche, vie di comunicazione, efficienza
dei mezzi di trasporto). In questa città la storia coloniale e il mercato del lavoro determinano due tipi di
segregazione spaziale: da un lato le nazionalità privilegiate (UE, Nord America, Argentina e Cile) sono poco
segregate e abitano in quartieri “di alto livello” a breve distanza dal centro urbano; dall’altro aree con
“qualità geografiche di basso livello”, in cui sono concentrati individui provenienti da Africa, Asia, Est
Europa. Le comunità maggiormente segregate provengono dal continente africano. C’è anche una
segregazione verticale: abitano gli appartamenti posti sotto il livello stradale o quelli situati più in alto (più
difficili da raggiungere). Questa situazione è riscontrabile anche a Roma e Berlino.
Berlino: concentrazione etnica a livello di edifici. Berlino Est: territorio con pochi migranti; oggi ci sono tre
principali aree ad alta concentrazione; Berlino Ovest: ha più un carattere di miscuglio, la popolazione
straniera si concentra di più nelle aree centrali della città caratterizzata da vecchi edifici (molti prima erano a
confine con il muro e sono stati abbandonati dalle fasce più ricche)
Amsterdam: i PB sono un esempio di contesto in cui le minoranze di migranti sono ben inserite negli spazi
urbani e considerati parte integrante della comunità (politiche sociali avanzate).
I quartieri etnici
In Nord America
USA: il gruppo fondatore dell’epoca coloniale (principalmente anglo-americani) ha dato origine alla cultura
dominante. Emigrazione di massa nel XIX secolo: sono arrivati immigrati appartenenti a diverse culture ->
formazione di quartieri etnici in cui la comunità prevalente legava la sua presenza al toponimo del quartiere
(Chinatown, Little Italy, Germantown ecc.). Le collettività etniche si aggregano in aree centrali della città e
spesso irradiano la propria cultura anche oltre i confini del quartiere. Ci sono casi di dispersione delle
collettività etniche e casi di segregazione spaziale come espressione di diversità.
Differenziazione etnica -> differenziazione spaziale su base etnica. Con il passare del tempo, quando le
comunità crescono, nascono quartieri satelliti nelle aree periferiche, generalmente dotati di minori servizi e
con edifici popolari: prendono il nome di “ethnoburbs” (ethnic suburbs = periferie etniche). Se il gruppo
etnico occupa uno spazio preciso per via di discriminazioni che ne forzano la localizzazione, allora si parla di
ghetto.
Le rivolte di Londra e Parigi
Inghilterra: nel 2011 si sono verificati episodi di violenza e rivolta in diverse città inglesi. Caso di
Tottenham: ragazzo nero fermato dalla polizia e poi rimasto ucciso -> ne sono seguite rivolte e scontri con le
forze dell’ordine; protesta allargata anche ad altre città, come Birmingham. Alain Touraine, sociologo
francese, parla di questi episodi come di conseguenze di mancata integrazione sociale dei migranti che causa
conflittualità e violenza (non tutti gli studiosi sono d’accordo). T., in un’intervista sul “Corriere Adriatico” ha
indicato le motivazioni per lui alla base delle rivolte: conflittualità nella recente accentuazione della
xenofobia, le cui cause sono da ravvisarsi anche nel peggioramento delle condizioni economiche in alcune
fasce sociali e in alcuni quartieri -> ricerca di un capro espiatorio in un’altra collettività. Ondata di
movimenti legati alla xenofobia che provocano una duplice reazione: la xenofobia si aggrava, si inaspriscono
le reazioni antirazziste.
David Cameron ha parlato a tal proposito di “the broken society” società a pezzi, segregata, in cui gli spazi
sono divisi ed identificabili.
Parigi: rivolte nelle banlieue nel 2005, a partire da un incidente locale e poi estese al di fuori delle periferie
parigine. Protagonisti furono i giovani immigrati o figli o nipoti, originari delle ex colonie e residenti nelle
banlieue = periferie densamente abitate, costruite nel periodo del decollo economico per garantire alloggi alla
classe operaia e alla piccola borghesia. La crisi economica degli anni 70 però, aveva ingrossato le fila dei
disoccupati (tra cui molti immigrati), proprio quando ne arrivavano altri per il ricongiungimento familiare ->
incremento tasso di natalità. Molti stranieri hanno quindi popolato le banlieue, mentre molti francesi
lasciavano i quartieri, che ora sono diventati uno spazio conflittuale e problematico, anche per la scarsa
efficacia delle politiche sociali attuate (disoccupazione, dispersione scolastica, piccola delinquenza,
violenze).
Tensione esplosa anche nel 2020 a seguito dell’omicidio di George Floyd; dal Minnesota le proteste si sono
diffuse in tutti gli USA.
I ghetti italiani
Ghetti ebraici: il più antico è quello di Venezia (ghetto viene proprio dal veneziano gèto = gettata di metallo
fuso, poi passa a indicare l’area della fonderia di Cannaregio); gli abitanti venivano chiusi prima del calare
della sera; solo una porta d’ingresso e una d’uscita. Nel 1555 inaugurato il ghetto di Roma, dopo la Cum
nimis absurdum di Paolo IV. Non potendo costruire al di fuori del ghetto ed essendo la densità di popolazione
molto alta, gli edifici già esistenti venivano continuamente innalzati. Altri ghetti: Ferrara, Mantova, Padova,
Reggio, Torino; aboliti nel XIX secolo (ultimo 1870). Con l’avvento del nazionalsocialismo i ghetti
divennero il luogo della concentrazione coatta degli ebrei e per questo ne furono realizzati anche in Europa
Orientale; nei ghetti gli ebrei erano veri e propri prigionieri, per essere poi spesso direttamente prelevati e
condotti nei campi di sterminio. Attualmente i ghetti italiani, soprattutto a Roma e Venezia, sono abitati da
ebrei. Negli ultimi decenni si è assistito alla nascita di nuove forme di segregazione, sia in termini di
politiche delle pubbliche amministrazioni, sia come scelte dei singoli. Esempio di Padova: vi è stata eretta
una barriera di 3 metri intorno ad alcuni edifici abitati da migranti per isolarli “necessità di ordine pubblico”
-> luogo di marginalizzazione ed esclusione sociale. Altri casi di ghetto si trovano nelle campagne (Rosarno,
San Severo), zone in cui l’agricoltura ha bisogno di occupati -> fenomeno del bracciantismo, spesso
stagionale, condizioni di lavoro disumane. Al contrario, i cittadini di ceto medio-alto scelgono di isolarsi
nelle cosiddette gated-communities: zone residenziali private, costituite da appartamenti/villette, oppure
interi quartieri, per le cui spese urbanistiche spesso i residenti concorrono (cura del decoro urbano, servizi,
ecc.). Si tratta di forme di autosegregazione residenziale, che per alcuni autori è manifestazione della paura
del diverso e del confronto con nuovi contesti urbani.
Little Italy never die: le forme di migrazione italiana all’estero
Le LI hanno svolto diverse funzioni nella storia dell’urbanizzazione di molti paesi. Nelle LI gli italiani erano
inizialmente il gruppo immigrato più consistente; caratteristiche:
Le migrazioni ambientali
È difficile isolare la causa ambientale tra le molteplici che spingono gli individui a migrare, in quanto le
catastrofi ambientali impattano anche su dinamiche economiche e sociali difficilmente scindibili.
Le ricerche internazionali affermano che fino ad ora i flussi migratori ambientali si dirigono più all’interno di
uno stesso Paese. Rapporto della Banca Mondiale: il cambiamento climatico spingerà decine di milioni di
persone a spostarsi, che migreranno da aree meno vitali e con meno risorse (aree più povere e vulnerabili).
Queste dinamiche interesseranno anche l’Italia.
Una delle prime questioni da affrontare riguarda l’individuazione della stessa definizione da usare in sede
internazionale per definire i migranti ambientali, è complesso definire lo spazio occupato da questi fattori nel
processo decisionale. La riflessione terminologica è ora solo all’inizio
Alla ricerca di una definizione condivisa
Nel 1976 il ricercatore del Worldwatch Institute Lester Brown ha usato l’espressione “rifugiato ambientale”,
da lì proliferazione di termini; la stessa espressione appare nel rapporto UNEP del 1985.
L’International Organisation for Migration opta per il termine “migranti ambientali”, definendoli “persone
che, a causa di improvvisi o graduali cambiamenti nell’ambiente che influenzano negativamente le loro
condizioni di vita, sono obbligati a lasciare le proprie case, o scelgono di farlo, temporaneamente o
permanentemente, e che si muovono all’interno del proprio paese o oltrepassando i confini nazionali.”
Il Parlamento Europeo predilige l’espressione “environmentally induced migration”.
In ogni caso è importante differenziare tra migrazione forzata e volontaria, distinzione non sempre semplice.
Le migrazioni ambientali forzate non hanno un adeguato riconoscimento giuridico nella legge internazionale.
Nel cercare di comprendere lo spirito del dibattito tra i proponenti del termine “rifugiati ambientali” e i
contrari, Morrissey afferma che quanti propongono l’uso di questo termine per tutte le tipologie di migranti
ambientali alimentano una visione apocalittica delle migrazioni internazionali, spingendo a un numero
elevato di interventi gestionali. I governi, per evitare di impegnarsi nell’accoglienza dei “rifugiati”,
preferiscono impegnarsi in una maggiore tutela dell’ambiente. I migranti ambientali definiti come sfollati
sono persone costrette a spostarsi all’interno del proprio Paese a causa di disastri naturali o provocati
dall’azione antropica. Svezia e Finlandia sono gli unici due membri dell’UE ad aver incluso i migranti
ambientali nelle rispettive politiche migratorie nazionali. In Italia, nel Testo Unico Immigrazione del 2018 è
stato introdotto il “permesso di soggiorno per calamità naturali”, che permette di ottenere un permesso di 6
mesi che dimostri che non è possibile il rientro nel Paese di partenza.
Ambiente, sviluppo e migrazioni
La correlazione tra questi tre fattori condiziona fortemente le realtà sociali e andrebbe tenuta in grande
considerazione. Morrisey individua due approcci tra gli studiosi relativamente al tema dei rifugiati politici:
- Minimalista: vede il rapporto tra cambiamento climatico e migrazioni in senso lineare. Autori come
Naik, Stitger e Laczko riconoscono l’esistenza di relazioni complesse tra fattori ambientali e
fenomeni migratori e riconoscono lo sviluppo come terzo fattore essenziale; questi affermano che le
migrazioni possono avere fattori sia positivi sia negativi sullo sviluppo in quanto la capacità di
adattamento e di tolleranza di una popolazione potrebbe rallentare la spinta al cambiamento in un
contesto vulnerabile. Al contrario, le migrazioni attraverso l’impiego delle rimesse potrebbero
rappresentare un forte aiuto per la ricostruzione dopo una catastrofe. Lo sviluppo inoltre può
incoraggiare ma anche inibire le migrazioni: può permettere il viaggio e allo stesso tempo dissuadere
da esso.
- Massimalista: il rapporto è molto più complesso perché entrano in gioco altri fattori (pressione
demografica, mancanza di opportunità economiche, aumento della vulnerabilità del contesto, ecc.)
Un problema di tempi
Il binomio ambiente-migrazioni va analizzato in primo luogo su una scala temporale. Innanzitutto, gli eventi
catastrofici, anche quando sono di tipo naturale, sono profondamente interconnessi alle attività antropiche.
Fabio Pollice a riguardo dice che le configurazioni causali alla base delle migrazioni ambientali possono
essere rappresentate in un continuum che va da azioni esclusivamente naturali ad azione causate
esclusivamente dall’azione umana, in mezzo ci sono molte sfaccettature. Pollice suggerisce di distinguere
nelle cause di migrazioni di origine antropica tra cause accidentali, progetti di sviluppo (es. diga delle Tre
Gole in Cina) e strategie di guerra. Gli effetti catastrofici sulla popolazione possono essere diretti o indiretti.
I fenomeni ambientali che causano le migrazioni non sono un tutt’uno ma è necessario scomporli in
categorie per monitorare la loro distribuzione geografica e le problematicità specifiche di ciascuno per come
impatta sulle migrazioni. Una prima differenziazione può essere fatta in riferimento alla scala cronologica:
due categorie generali di eventi catastrofici di breve periodo o di lungo periodo; più nello specifico,
all’interno di ciascuna categoria vanno distinte catastrofi legate a eventi geofisici, meteorologici, idrologici,
climatologici e biologici.
Dagli anni 70 il CRED (Centre for Resereach on the Epidemiology of Disaster) monitora gli eventi
catastrofici: ne emerge che dal 1900 il numero degli eventi catastrofici è aumentato, come è aumentato il
numero delle persone coinvolte (il numero delle vittime è diminuito). È stato registrato un aumento nella
frequenza di inondazioni e tempeste; le aree maggiormente interessate sono l’Asia e l’area del pacifico. Non
tutte le aree colpite da eventi catastrofiti vedono partenze di massa, in quanto esse sono determinate anche
dal grado di sviluppo economico e capacità di intervento statale (differenza tra gli uragani negli USA e il
terremoto ad Haiti).
Fenomeni ambietali di lungo periodo che hanno maggiore impatto sulle popolazioni: innalzamento del livello
del mare, siccità e desertificazione. L’area più interessata è quella del Pacifico. Alcuni piccoli stati come le
isole Tuvalu e Kiribati, oltre ai problemi ambientali sono interessati anche a prolemi demografici che
spingono all’emigrazione.
Nelle analisi delle migrazioni per cause ambientali bisogna considerare le catastrofi di origine tecnologica,
eventi indotti dall’azione antropica, come le fuoriuscite di petrolio da navi o pozzi petroliferi, incidenti
industriali ecc. (Chernobyl, Fukushima, ecc.)
Le politiche migratorie
Le politiche sono fondamentali per creare un paese ostile o acogliente; nelle macro categoria delle politiche
migratorie si possono distinguere:
- Il Migrant Integration Policy Index elaborato dal British Council misura le politiche di integrazione
nei paesi UE più Norvegia, Svizzera, Canada e USA.
- Migrant Integration Territorial Index
In ambito internazionale si potrebbero individuare tre modelli d’inclusione degli individui operanti nelle
società ospiti: 1) temporaneo, 2) assimilativo, 3) pluralista.
Immigrazione temporanea: esperienze europee del dopoguerra, nasce con l’idea che i migranti tornino in
patria; l’immigrato veniva considerato un lavoratore utile alla società che non avrebbe dovuto essere
necessariamente essere raggiunto dalla famiglia e stabilizzarsi.
Immigrazione assimilativa: le politiche tendono a una rapida omologazione dei nuovi immigrati, considerati
privi di radici culturali.
Immigrazione pluralista: le differenze vengono tollerate o valorizzate attraverso la creazione di politiche
multiculturali.
L’Italia sembra indirizzarsi verso politiche legate ai problemi della sicurezza e della lotta ai clandestini,
indirizzate a una “immigrazione corta”.
Oggi si sta affermando il cosiddetto “comprensive approach” = gestione delle migrazioni internazionali con
intervento sulle sue differenti dimensioni e sulle sue varie fasi di sviluppo. I tre livelli su cui questa tendenza
politica dovrebbe orientarsi sono: cause dei movimenti migratori, movimenti migratori in corso, inserimento
dei migranti nelle società di arrivo.
A livello internazionale i governi si rimpallano colpe senza un approccio costruttivo; passo in avanti è stato
fatto il 25 settembre 2015, con l’adozione all’ONU dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo sostenibile, in cui uno
dei target riguarda le migrazioni. Altro sforzo internazionale ha portato all’approvazione da parte
dell’Assemblea dell’ONU del Global Compact for Safe, Orderly and Regular Migration (CGM), in cui si
converge su un approccio comune alle migrazioni; a questo si affianca il Global Compact for refegees. Il
CGM comprende 23 obiettivi per una migliore gestione dei flussi a livello locale, nazionale, regionale e
globale. Non è vincolante e infatti spesso non viene rispettato.
L’housing sociale
Housing sociale: insieme di interventi che prevedono l’assegnazione di una sistemazione abitativa e
l’inserimento abitativo, proposti sia dalle istituzioni pubbliche sia dai settori no profit, erogati a costo
inferiore a quello di mercato. Tra i provvedimenti rientrano: prima accoglienza, politiche abitative come
l’edilizia residenziale sovvenzionata, il fondo sociale per l’affitto, ecc. ci sono anche interventi innovativi
come l’intermediazione immobiliare sociale e la gestione integrata degli immobili. Si tratta di interventi atti a
fornire una risposta alla crescente tensione sul patrimonio delle abitazioni sociali conseguente alle richieste
cosistenti sia da parte dei migranti sia di alcune categorie di italiani. La scelta dei governi che si sono
succeduti negli ultimi decenni di incentivare l’acquisto individuale delle abitazioni anziché prevedere
politiche di sostegno all’affitto hanno concorso alla costituzione di un mercato carente di immobili destinati
alla residenza pubblica.
Sonia Arbaci trova una correlazione positiva tra la segregazione residenziale e le tipologie di welfare del
singolo Paese. La situazione italiana evidenzia uno scarso intervento publico nell’ambito delle residenze
sociali e indica come il protagonista in quest’ambito sia il terzo settore. Come sempre si adotta un approccio
emergenziale. Gli interventi della pubblica amministrazione locale incidono sulle dinamiche dell’accoglienza
e sull’inclusione dei migranti, ma la libertà d’azione lasciata alle singole amministrazioni ha determinato
forti differenze territoriali. Alcuni municipi hanno infatti introdotto requisiti molto restrittivi per accedere
all’edilizia sociale, come ad esempio 5-10 anni di residenza consecutiva.
Il rischio principale delle politiche di housing sociale per i migranti è che vengano costruite utilizzando di
volta in volta le risorse disponibili, spesso programmae per altri scopi; in mancanza di una programmazione
organica spesso si producono effetti indesiderati.
“Non nel mio cortile”: la ribellione dei cittadini
Sono molto noti fenomeni di conflittualità tra popolazione italiana e collettività immigrate. Esistono forme di
contrapposizione netta da parte della popolazione locale, ma anche la cosiddetta “sindrome NIMBY” = “ Not
i my back yard” (non nel mio cortile), approccio di coloro che non si dichiarano contro l’accoglienza e la
realizzazione di interventi, benché queste siano costruite lontane dal loro cortile. Esempio: conflitti a Milano
per la costruzione della moschea, come è accaduto anche a Roma (caso in cui c’è stata una contrazione dei
prezzi degli immobili).
Le primavere arabe
Primi anni del decennio 2010: ingenti flussi di persone in arrivo dalle coste meridionali del Mediterraneo in
fuga da guerre e rivoluzioni. Questi flussi hanno ineressato l’Italia richiedendo sforzi per una gestione
corretta e umana. Il problema dell’accoglienza dei profughi è molto complesso; molti migranti sbarcati a
Lampedusa hanno intenzione di usare l’Italia come un ponte per raggiungere un altro paese Europeo, volontà
espressa in interviste rilasciate da un gruppo di tunisini sbarcato a Lampedusa nel 2011. La loro storia in
breve: dopo alcuni scontri avvenuti nel loro luogo di residenza, il villaggio di Kasserine in Tunisia, hanno
deciso di partire. Sapevano che il viaggio sarebbe stato rischioso, soprattutto nella fase della navigazione;
sono partiti in un gruppo di amici e parenti, escludendo le donne per le quali sarebbe stato troppo pericoloso
(spesso sono vittime di violenza sessuale); i ragazzi affermano di aver pagato 1000 euro solo per il tratto
marino. Alla fine del viaggio i minori sono rimasti a Lampedusa in attesa di una sistemazione e i 25 adulti
sono stati condotti nella struttura di Gualdo Tadino (Umbria); di questi 25 molti hanno completato le scuole
superiori, due sono ingegneri e molti conoscono più lingue. Per la maggior parte di loro l’Italia è solo un
approdo momentaneo, sebbene mostrino grande rispetto verso il Paese ospitante. Storie eterogenee ma in
questo caso fortunate.
La fuga dalla Siria
Molti dei morti nel Mediterraneo sono Siriani, in fuga dalla guerra e che hanno attraversato un viaggio
durissimo e pericoloso. La guerra siriana è cominciata nel 2011, ma l’anno di particolare crisi sul piano
migratorio è stato il 2015, definito anche l’anno della “rotta balcanica”, fuga di migliaia di migranti dalla
Turchia verso l’Europa. Report ONU: un milione di siriani nel 2015 ha lasciato il paese, circa l’80% ha
raggiunto l’Europa grazie alla rotta balcanica. Dalla Turchia generalmente i migranti raggiungono le sponde
del Mediterraneo e provano la traversata verso la Grecia -> viaggio a piedi attraverso Macedonia, Serbia,
Ungheria. Dalla Turchia inoltre si parte via mare anche verso Italia e Grecia. Molti dei migranti, negli ultimi
anni, sono rimasti imprigionati nei campi profughi in Grecia.