Riassunto Satire Orazio

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Satira I

La prima satira, diretta a Mecenate, consente di comprendere la struttura di una


satira tipo, i cui
tratti rivelano la ripresa di Lucilio per l'utilizzo di invettive, l'impiego dell' ονομαστί
κομοδειν, e la peculiarità della satira oraziana, ossia la ricerca morale intrinseca fra
due poli principali, rispettivamente autarkeia e metriotes, seppur la ricerca morale
oraziana tratti sempre diversi aspetti della vita umana.Nella prima sezione(vv. 1-
22), rivolgendosi direttamente al dedi-catario, Orazio espone l’argomento generale
della satira (l’incontentabilità degli uomini), illustrandola subito prima con esempi
concreti e vivaci (il soldato, il mercante, l’avvocato, il contadino: ognuno di loro
considera gli aspetti negativi della propria vita e desidera la vita dell'altro)poi con
una specie di apologo, in cui si parla di un dio che vuole accontentare gli uomini, ma
se ne va seccato e sbuffante. Se anche invertisse le loro vite infatti essi non
sarebbero contenti. Con perfetto parallelismo, la seconda sezione (vv. 23-40) porta
avanti la critica al comportamento umano spostandosi dalla incontentabilità
all’insoddisfazione che ne deriva e che porta a un accumulo di ricchezze tanto
incessante quanto vano. I protagonisti sono all’incirca gli stessi della prima sezione
(vv. 28-30, ma con l’oste al posto del contadino), e anche qui abbiamo uno spunto
favolistico, quello della formica che accumula (ma che, più saggia dell’uomo, a un
certo punto si gode quanto ha messo da parte). La critica all’accumulo di denaro
prosegue nella sezione omessa (vv. 41-91).La terza sezione (vv. 92-107) mostra un
pro-cedimento tipico del genere satirico: la citazione non più di tipi generici, ma di
individui dotati di nome proprio(ονομαστί κομοδειν),ben noti ai tempi di Orazio, tanto
da diventare simboli di determinati vizi,dunque modelli da evitare. In questo caso,
abbiamo gli avari Ummidio (v. 95) e Nevio (v. 101) e lo scialacquatore Nomentano
(v. 102). Indicando due vizi opposti, la satira culmina nella teoria del giusto mezzo
(metriòtes), di derivazione aristotelica e diatribica. Infine Orazio torna con perfetta
circolarità al tema iniziale (Illuc, unde abii, redeo), quello dell’incontentabilità che
porta a sciocche competizioni di ricchezza. Un atteggiamento non tollerato dal
poeta è senz'altro la pretesa dell'avaro di essere estremamente parsimonioso, ma di
voler attingere la quantità di denaro di cui necessita da una molto più grande,
seppur non cambi nulla dal possedere soltanto quella (come se si volesse prendere
un secchio d'acqua soltanto dall'oceano).La conclusione è autoironica: Orazio cita
come esempio di noiosa prolissità il filosofo Crispino, ma lo definisce lippus
(«cisposo»), ovvero sofferente del medesimo male che affliggeva lo stesso Orazio.
Nutrendo Orazio evidenti simpatie per l’epicureismo, non stupisce che egli scelga di
chiudere la satira (vv. 117-119) con l’immagine del conviva satur, presente anche
nel-la letteratura diatribica ma resa famosa da Lucrezio nel libro III del De rerum
natura (vv. 931-939). Dopo aver dimostrato che l’anima è mortale e che ogni timore
di castighi ultraterreni è infondato, Lucrezio indica il giusto
atteggiamento da tenere verso la morte con una prosopopea in cui la Natura esorta
l’uomo a essere dignitoso nell’affrontare la morte: «Se infine la natura a un tratto
cominciasse a parlare / e muovesse rimprovero a uno di noi in questo modo: ‘Che
cosa ti sta cosìa cuore, o mortale, che indulgi / in modo eccessivo al dolore, e piangi
e lamenti la morte?Se infatti la vita trascorsa finora ti è stata gradita, e se tutte le
gioie, quasi accolte in un’urna incrinata, non fluirono via, né si persero ormai
divenute sgradevoli, perché non ti allontani come un commensale sazio dalla vita /
e a cuore sereno non prendi, o stolto, un sicuro riposo?’» (trad. L. Canali).

Satira II
La critica ai vizi senz’altro connota i componimenti orazioni si presenta talvolta come
argomento di discussione dell’intero componimento: per questa ragione la seconda satira
viene anche definita satira “contro l’adulterio”, poiché la sua confutazione ha largo spazio
nel componimento, ma vi sono altri punti su cui soffermarsi. Dall’inizio infatti viene citato
Tigellio, cantore di Cesare, e le varie categorie dell’umile gente che ne piange la scomparsa
( Ambubaiarum collegia, pharmacopolae, mendici, mimae, balatrones-> Suonatrici di flauto,
venditori di farmaci, ballerine, accattoni): sennonché da malvagio , Tigellio sperperava il
patrimonio Paternò, e per questo non voleva essere ritenuto meschino: lodato da alcuni, è
biasimato da altri. Viene citato Fufidio, che guadagna cinque volte l’interesse del proprio
capitale approfittando più duramente di chi è disperato, ma teme la reputazione di
spendaccione e ozioso. Come volevasi dimostrare, quando gli stolti evitano i difetti,
incorrono in quelli contrari:
Anche rispetto alla donna amata non vi è senso di misura: c’è chi non apprezza alcuna
donna che non vesta la tunica sino alle caviglie in segno di fedeltà e pudicizia, come chi
frequenta soltanto donne da baraccone, liberte, con cui secondo Catone i giovani
dovrebbero relazionarsi, ma qualcuno come Cupiennio, ammiratore della donna “dalla veste
bianca”, non vorrebbe essere elogiato per questo .Tuttavia , chi biasima gli adulteri dovrebbe
comprendere i duri pericoli cui si gettano a capofitto per un incontro amoroso, da cui si trae
soltanto amaro piacere ( “Vale la pena ascoltare, voi che non augurate agli adulteri di farla
franca, come si affatichino da ogni parte e come per loro questo piacere avvelenato da
molto dolore capiti inoltre di rado spesso fra duri pericoli). Infatti agli adulteri poteva anche
essere data la condanna a morte dal marito della matrona: la pena non risparmiava neanche
la serva complice del tradimento. A questo punto lo stesso Orazio elogia invece le liberte,
con cui era possibile intrattenere relazioni libere da vincoli, durature, traendone così piacere
senza dover umiliarsi e vivere di momenti fugaci quanti dolorosi. Tantomeno bisogna
lasciarsi ingannare dalle lunghe toghe, che coprono la persona non lasciando trasparire
interamente il suo aspetto. Mentre un compratore di cavalli guarda il cavallo coperto
affinché l’aspetto non celi il piede debole, l’amante guarda con gli occhi di Linceo (acuto
osservatore) le parti del copro quali il le braccia, ma con gli occhi di Ipsia (un cieco) le sue
parti migliori. In ogni caso tuttavia, come afferma Galba, che si pecchi con un'ancella con la
toga oppure con una matrona viene meno il proprio buon nome
[e questo se, qualche mezzo, qualche ragione convincesse che è lecito al generoso esserlo
misuratamente, [50] vorrebbe essere buono e benevolo, darebbe quanto basta né sarebbe a
sé di danno e disonore]
(bonam deperdere famam, rem patris oblimare malum est ubicumque
quid interest in matrona, ancilla peccesne togata)
L'esempio di Villio, sedotto da Fausta, figlia di Lucio Cornelio Silla, minacciato a morte con
una spada per essere cacciato, è uno degli spunti a sfavore delle matrone; L'amante non
solo si troverà ostacolato dalla lunga toga che nasconde i difetti della donna, ma anche da
guardie, lettighe, parrucchieri, che ne impediscono la vista. Non si può scorgere nulla della
matrona al di fuori del viso; tuttavia è desiderata poiché rara rispetto alle liberte, in quanto
coglie ciò che sfugge alle altre donne e non ha nulla di comune, come il cacciatore con la
lepre di neve (leporem venator ut alta [105] in nive sectetur, positum sic tangere nolit,
cantat et adponit 'meus est amor huic similis; nam transvolat in medio posita et fugientia
capta). Tuttavia quando si ha realmente esigenza di qualcosa non si va' ricercando ciò che è
al limite della propria possibilità ( ad es. 'se avessi sete non berresti se non da una tazza
d'oro?'). La conclusione è questa: l’amore delle liberte è da preferire a quello delle matrone,
e nessuno può confutarlo (che Fabio mi darebbe ragione)

Satira III
Anche in questa satira viene ripreso un tema essenziale e piuttosto ricorrente all’interno
delle Satire Oraziane, ovvero quello della moderazione: si denuncia in chiave ironica
l’atteggiamento di Tigellio il sardo, cantore di Giulio Cesare, che non fa’ altro che passare da
un eccesso all’altro. Ora parla di re e tetrarchi, ora rivendica una parca mensa e afferma di
accontentarsi di poco, pur essendo in realtà avido( modo reges atque tetrarches, omnia
magna loquens[…] deciens centena dedusse huic parco, paucis contento, quinque diebas
nil erat in loculis). Se gli venisse richiesto, non canterebbe, al contrario quando non richiesto
declamerebbe l’”io Baccanti” dalla tonalità più grave a quella più acuta. In qualche maniera,
il cantore oggetto della satira sembra incarnare l’incoerenza, e tale descrizione consente
all’autore di aprire un discorso di stampo moraleggiante sui pregi e i difetti, invitando alla
riflessione su questo tema. L’amore di sè, l’orgoglio nel non ammettere i propri difetti, come
quello di Menio, personaggio delle Satire di Lucilio conosciuto per la sua dissipatezza,
maldicenza, che afferma di perdonare sè stesso per aver sparlato di Nevio in sua assenza,
andrebbe bollato. Cogliere i difetti degli amici è semplice, cogliere i propri richiede difficoltà
e senso critico che solo un saggio potrebbe avere: anche un uomo di cui sono evidenti i
difetti fisici, in realtà, può essere una brava persona ed un amico fedele ( at est bonus, tu
melior vir non alias quisquam, at tibi amicus… ). Quando si ama una persona, si è ciechi ai
suoi difetti, e così dev’essere con gli amici( sic nos debemus amici siquod sit vitium non
fastidire): quando un amico ha un difetto, non bisogna mostrarne fastidio. In genere però si
tende ad “incrostare un vaso che è pulito”, attribuendo ingiustamente vizi ad uomini
virtuosi ( atque sincerum vas incrustare). Ma nessuno nasce senza alcun difetto: vizi e virtù
secondo Orazio, andrebbero pesati secondo ragione, soppesando ciò che è buono e giusto a
ciò che è nocivo. Uno dei vizi che non può essere sradicato da chiunque non sia un saggio è
l’ira, come anche altri difetti: per tale ragione è necessario conferire ad ogni delitto la sua
giusta pena. Se per una piccola mancanza di un amico non lo si perdonasse,sarebbe
insensato ed ingiusto, come punire un servo che ha mangiato gli avanzi di un pasto altrui
con la crocifissione (vv.80-82). Chiedendosi come sia giusto comportarsi in questi casi, egli
risponde citando una delle principali massime dello stoicismo, distaccandosi
dall’atteggiamento moraleggiante assunto precedentemente ed enunciando una critica
velata, elaborata in chiave ironica, alla dottrina stoica. “ Quis paria esse fere placuit peccata,
laborant, cum ventum ad verum
est: sensus moresque repugnant atque ipsa utilitas, iusti prope mater et aequi.”

Coloro che hanno sentenziato che le colpe sono più o meno uguali fra loro, si trovano nei
guai, quando si viene alla realtà delle cose: si ribellano il buon senso, il costume e la stessa
utilità, che è, per così dire, la madre del giusto e dell’equo.

Ma Orazio aderisce ad un concetto di giustizia diametralmente opposto a quello di matrice


stoica: rifacendosi alle origini dell’umanità, afferma che il sorgere della civiltà abbia
determinato un venir meno del bellicismo fra gli uomini. Sottoporsi al diritto è l’unica
maniera, per gli uomini, di sottrarsi ai soprusi. Se dunque la natura non può distinguere il
bene dal male, il giusto dall’ingiusto, il ragionamento non può provare che vi sia equità fra
delitti di gravità ben diversa (“qui teneros caules alieni fregerit horti et qui nocturnus sacra
divum legerit”).
La figura del saggio stoico, inoltre, viene ridicolizzata: gli stoici, infatti, pretendevano che il
sapiens non avesse alcuna mancanza, che esercitasse ogni virtù e vantasse di ogni capacità
esistente. Il sapiens, dunque, è sutor, come afferma Crisippo, senza aver mai realizzato
sandali o ciabatte. Ma il saggio, re assoluto, non avrà seguaci se non Crispino in quanto non
può ammettere mancanze. Sarà ben voluto invece, chi ammette i propri difetti e sopporta di
buon grado i difetti dei propri amici “e vivrò,da semplice cittadino, più felice di te che sei re”.

Satira IV
La quarta satira di Orazione si propone come un componimento di argomento
letterario(assieme alla X che ne costituisce il seguito) ed una vera e propria
apologia della satira. Viene chiarito immediatamente l’intento satirico per
eccellenza, ovvero conferire espressione all’aggressività comica coniugandola con la
diatriba. L’attacco mirato ai personaggi che detengono determinati vizi è un τοπος
della satira di assetto luciliano, derivante dall ’assetto storicamente attribuito dalla
satira dai suoi predecessori ( Eupoli, Cratino, Aristofane, citati nel verso I). Dopo ver
usato metri var, fu lo stesso Lucilio infatti ad apportare un cambiamento radicale
nello stile e nella forma della satira istituzionalizzando per tale genere il verso
esametro. Orazio lo giudica garrulus (insofferente), in quanto non sembrava gli
pesasse inquadrare le satire in uno schema di composizione predefinito. Non è
assente la critica a Crispino, poeta e filosofo stoico citato nella Sat I, che sfida
apertamente l’autore in una gara di scrittura. Mediante il personaggio di Fannio,
scrittore sconosciuto, imperterrito nel portare di sua iniziativa alle botteghe dei
librai le sue opere, Orazio si contrappone a tal genere di scrittori: egli, infatti, scrive
per sè, teme la lettura in pubblico ( volgo recitare timentis). Vi è una ragione, da
non ricondurre alla riservatezza del poeta, tanto quanto al disprezzo sentito daal
pubblico rispetto a tal genere di poesia, spesso mirato alla critica dei loro difetti,
presso dovuto alla consapevolezza di esserne un potenziale bersaglio (omnes hi
metuunt versus, odere poetas. ‘Faenum habet in cornu, longe fuge; dummodo risum
excutiat, sibi non, nonquicuam parcete amicum[…]’ Le critiche ad Orazio
scaturiscono in parte, bisogna chiarire, dalla stesura della satira II ‘contro
l’adulterio’. In questo componimento infatti egli vuol replicare a tali accuse: in primo
luogo, egli si esclude dal novero di alcuni poeti, che si ritengono tali per il sol fatto
di praticare la scrittura: poeta è colui che possiede onori quali l’ingegno,
l’ispirazione divina ed una voce soave. Da qui una constatazione della commedia
come genere più simile alla prosa che alla poesia, per l’assenza di toni veementi: un
tentativo di apportare una maggiore veemenza alla commedia è la
drammatizzazione della furia del padre, adirato a causa del figlio che, ubriaco, si
aggira per la città con le fiaccole accese quando ancora non è notte(…)

(Continuo ne file Sat IV completo)

Satira V
Rispetto ai componimenti precedenti la satira V si distingue proprio perchè consiste
nella narrazione per tappe di un viaggio compiuto dal poeta presso alcune cittadine
dell’Italia meridionale:

Ci troviamo nel Lazio: uscendo da Roma, il poeta, stavolta protagonista delle


vicende narrate, si reca ad Ariccia, antichissima città ai piedi dei colli Albani, prima
tappa del viaggio, i compagnia di Eliodoro, retore greco. Di lì giungono a Forappio
(40 km da Ariccia), all’ingresso delle paludi, pontine ricco di “barcaioli e locandieri
imbroglioni” (differtum nautis cauponibus atque malignis). Trattandosi di un
percorso molto lungo, viene diviso dai viaggiatori in due tappe: quelli che si legano
la tunica più in alto sono in grado anche di percorso in un’unica volta. Grazie alla via
Appia ciò è possibile, sebbene sia messa in condizioni precarie presso le zone
paludose. A causa della pessima acqua, il poeta attende che i compagni cenino e,
sul far della sera, ode gli sciavi lanciare improperi ai barcaioli: quelli legano la mula,
affinchè tiri il barcone lungo l’arzaia. La notte trascorre presso le paludi, ove
zanzare e rane impediscono il sonno. Il barcaiolo inzuppato di vino ed un viaggiatore
cantano, fin quando lasciano andare la mula a pascolare e tornano a dormire.
Intanto prosegue la navigazione notturna. Sul far del giorno, quando la barca non si
muove d’un metro, sale un tale, testa calda, e spiana a mula e barcaiolo testa e
schiena. Sbarcano intorno alle dieci ad una fonte dedicata a alla dea Feronia, con la
cui acqua ci si lava il volto e le mani (ora manusque tua lavimus, Feronia , Lympha).
Dopo pranzo, i viaggiatori proseguono per tre miglia e si collocano al di sotto
dell’antica roccia Anxur: si trovano dunque ai piedi della città nuova di Terracina. I
due vengono raggiunti dai compagni Mecenate e Cocceio, coloro che sono stati
inviati a mettere pace fra Ottaviano e Antonio (missis magnis de rebus uterque
legati aversi soliti componere amicos). Insieme a loro Fonteio Capitone , consul
affectus del 33 a.C., legato di Antonio: anche lui si unisce alla trattativa. Lasciano
così la cittadina di Fondi al pretore Aufidio Lusco, ridendo del suo abbigliamento
quasi stravagante a causa de suoi numerosi distintivi: praetextam et latum clavum
prunaeque vatillum (toga pretesta, laticlavio, braciere con i cartoni accesi) con cui il
giovane magistrato va’ pomposamente incontro ai gran signori di Roma. Sfiniti, i
viaggiatori arrivano nella cosiddetta “città dei Mamurra”, nomignolo con cui ci si
riferisce a Formia, di cui sono originari i Mamurra (espediente per rientrare nel verso
esametro). La località ospitava in genere numerose ville di eminenti cittadini
romani. Il giorno seguente spunta felicissimo assai ( multo gratissima):
sopraggiungono alcuni amici, Plozio (M. Plozio Tucca, poeta e critico), Vario (poeta
epico e tragico) in compagnia di Virgilio, amico di Orazio nonché celebre poeta. (C’è
da aggiungere che Vario e Tucca sono i curatori dell’Eneide di Virgilio post-mortem).
Si incontrano a Sinuessa, fra abbracci gioiosi: non vi è cosa più piacevole alla mente
di incontrare un amico soave ( nil ego contenermi iucundo sanus amico). Da qui a
Capua, accolti presso la villa di Cocceio (incontrato prima) collocata sulle alture di
Caudio, città sannita nei pressi di Capua. Qui riprende in chiave ironica i primi versi
dell’Odissea, rifacendosi alla richiesta da parte del poeta di ispirazione alla Musa
( cantami, o’ Musa, di Sarmento il buffone duello con Messio Cicirro, e da che padre
l’uno e l’altro ingiaggiasse la zuffa). Messio proviene infatti dagli Osci, Sarmento è
un ex schiavo: il primo dice lazzi di ogni sorta sul morbo campano dell’avversario,
cioè una grossa verruca, e gli chiede di danzare la danza del Ciclope pastore. Ma
insiste particolarmente sulla condizione di schiavitù di Sarmento, dal momento che
egli ha acquistato libertà con la fuga, diventando scriba, ma essendo ancora
sottoposto ai diritti della padrona. Da qui i compagni d viaggio proseguono e
giungono a Benevento: il divagare delle fiamme nella casa dove alloggiano gli ospiti
lascia i convitati affamati e i servi timorosi nel tentativo di salvare la cena (convivas
avido cenam servosque timentis tum rapere atque omnis restinguere velle videros).
Dopo Benevento, si lascia la vi Apia e ci si arrampica sui monti dell’Aquila, dove lo
scirocco non lascia scampo: da qui si spostano a Trevico, vittime dei fumi caldi e
oscuranti delle montagne. La mattina dopo arrivano alla città di Daunia, dall’acqua
limpida e dal buon pane, differente dal pane di Canosa. Passando per Riva e Bari
pescosa, giungono ad Egnazia: è interessante la credenza popolare secondo cui
l’incenso sul tempio si consumi senza fiamma, sottintendendo l’intervento di una
divinità. ma, agli occhi di Orazio, non può essere cosa vera, in quanto, gli dei
esistono, certamente, ma vivono indipendentemente dalle vicende umane, come
recita la dottrina epicurea ( namque deos didici secured agere aevom nel, si quid
miri faciat natura, deos id tristis ex alto caeli demittere tecto). Con l’ultima tappa,
Brindisi, si chiude il viaggio e la satira ( Brundisium longae finis chartaeque viseque
est).

Satira VI

All’interno della sesta satira si verifica nuovamente un distacco dal contenuto della
satira precedente finalizzato ad introdurre un argomento nuovo, che, anche i questo
caso, concerne in parte la biografia di Orazio ma mette in luce alcune questioni di
natura sociale che interessano l’autore rispetto al proprio vissuto. Infatti punto di
riferimento e interlocutore è Mecenate: di elevata estrazione sociale, egli è il più
nobile delle terre etrusche , ma non guarda con disprezzo a chi è nato da padre
liberto. Non è importante, secondo Mecenate, la famiglia dove si è nati se si è nati
liberi: non di rado uomini nati da oscure progenie vissero rispettati, ad esempio lo
stesso Servio Tullio, modello di homo novus e di auctoritas. Gli viene accostato
Valerio Levino, che vantava la discendenza da Valerio Publicola, uno dei cacciatori di
Tarquinio il superbo, ma nonostante questo era bollato dal popolo. Eppure, il popolo
si fa’ giudice anche tenendo conto dell’estrazione sociale di un candidato al
governo: prima assegna le cariche alle persone sbagliate ,poi si fa schiavo del nome
e resta ad ammirare le iscrizioni e i ritratti degli antenati che seppero gestire la
propria carriera pubblica, uno dei vanti della nobilitas. Dunque, in ogni caso il
popolo preferirebbe affidare la magistratura a coloro che sono nati da un padre di
nascita libera al di là delle loro capacità, e, se anche un umile figli di liberto tentasse
in questa impresa, se ne pentirebbe a causa dei rischi che possono derivarne. Solo il
fatto di ricoprire una carica di rilevanza pubblica significa porre la plebe in
condizione di domandarsi chi sia suo padre e se non porti per caso la macchia di
una madre senza casato (quo padre sit natus, num ignota matre inhonestus, omnis
mortalis curare et quaerere cogit). Nunc ad me redeo libertino padre natum, recita
Orazio ritornando a sè e spiegando come le convinzioni sociali vigenti abbiano
influito sul suo vissuto, in quanto ora egli è invidiato per essere compagno di mensa
di Mecenate, una volta lo era per essere stato nominato tribuno militare
nell’esercito repubblicano. Tuttavia, l’amicizia con Mecenate non ha motivo di
essere schernita quanto una sua possibile carica, perché egli soltanto chi è lontano
dalle storture dell’ arrivismo, sa’ ben distinguere l’uomo degno dall’uomo onesto.
Non parte preclaro, sed vita et pectore puro. A questo punto ribadisce il merito di
suo padre nell’ allontanarlo dai vizi peggiori e nel lasciarlo vivere all’insegna
dell’umiltà, che gli consente ora di lodarsi da sé. da i numerosi meriti del padre di
Orazio vi è quello di avergli consentito un’educazione degna di cavalieri,
preservandolo e trasmettendogli il senso del pudore che non lo ha mai
abbandonato. Mai cercherebbe delle ragioni per lamentare le proprie umili origini,
come la gran part degli uomini che, se potesse scegliere i propri genitori
percorrendo la vita a ritroso, giudicherebbe matto chi si accontenterebbe dei suoi e
non cogliere l’opportunità di scegliere origini prestigiose. Agli occhi di Orazio, la vita
libera è anche meno comoda in quanto comporta necessariamente la salutatio, la
presenza di accompagnatori all’ordine del giorno ed ogni spostamento deve
avvenire in carrozza, quando una vita semplice consente maggiore autonomia in
quanto non occorre curarsi della propria reputazione, bensì di trascorrere la giornata
al meglio delle proprie possibilità: l’autore al contrario si consola di non aver avuto
“un questore per nonno e per padre e per zio”, così termina il discorso in chiave
ironica e moraleggiante.

Satira VII

Componimento più breve del libro I delle Sermones, la settima satira rievoca in
generale una lite tenutasi fra Persio e Rupilio Re: la rievocazione di questo
battibecco è funzionale, per Orazio, alla messa in prova delle proprie capacità
compositive, trattandosi le vicende narrate di ricordi freschi di giovinezza.
L’enunciazione dell’ aneddoto è ironica e proverbiale: il modo in cui Persio, definito
“mezzosangue” per la sua duplice origine, greca e romana, abbia ottenuto vendetta
da Rupilio Re il proscritto, così definito in quanto proscritto dai triumviri ed ammesso
alla corte di questi, è noto a chiunque,a “cisposi e barbieri”. Persio è un uomo duro,
capace di vincere il Re per odiosità, tanto da “staccare i Sisienna, i Barro, come
corresse (velocemente) su cavalli bianchi”. È interessante il parallelismo fra i due
litiganti e i protagonisti dell’Iliade: non si arriva fra i due ad un accordo alcuno,
come due eroi in opposizione per ragioni belliche. Solo la morte potè dissipare il
rancore fra l’impetuoso Achille e il valoroso figlio di Priamo, non c’era altra causa se
non il valore, distribuito in equal modo in entrambi. Orazio rievoca a questo punto
un episodio del VI libro dell’Iliade per proporre un esempio di uno scontro avvenuto
fra due litiganti di valore diseguale, spiegando, in modo certamente sarcastico,
come la disparità di forze fra i due abbia messo il più debole in condizione di evitare
lo scontro [ duo si discordia vexet inertis aut si disparibus bellum incidat, ut Diomedi
cum Lycio Glauco, discedat pigrior, ultro muneribus missis ]. Nel libro VI infatti
dell’Iiade il licio Glauco affronta Diomede, ma, poiché riconosce nell’altro un eroe
legato a vincoli affettivi e familiari, i due si scambiano in segno di neutralità le armi
e giurano di evitare lo scontro diretto. Viene descritta in seguito la scena in cui i due
si slanciano in tribunale, offrendo spettacolo come fossero dei gladiatori impegnati
in una sanguinosa lotta (‘ in ius acres procurrunt, magnum spectacular uterque’
‘cum Bitho Bacchius’). Non manca il divertimento della giovane coorte
nell’assistere alla scena(ridetur ab omni ). Riprende forse lo scontro fra Messio
Cicirro e Sarmento di cui si parla nella V Sat. Persio, nell’esporre la sua causa,
rivolge un elogio a Bruto, poi alla coorte, paragonando Bruto al Sole dell’Asia ed i
suoi compagni alle stelle splendenti del firmamento escluso Rupilio, paragonato alla
costellazione del Cane, odiosa agli agricoltori. Rupilio ribatte con la salace
aggressività, tipica della campagna italica, ove dall’alto del filare giungono
improperi dal vignaiolo che risponde alle provocazioni canzonatorie di un passante
che imita il verso del cuculo :”il Prenestino lancia insulti di quelli che si lanciano
dall’alto di un filare, da vignaiolo ruvido e cocciuto, cui più volte l’ha dovuta dar
vinta il viandante che gridava forte il verso del cuculo.” (L’imitazione del verso sta’
infatti ad indicare che il lavoro di potazione delle vigne è in ritardo, dal momento
che il cuculo canta solo al sopraggiungere dell’equinozio di primavera. Inondato di
italico aceto (Italo perfusus sceto), il greco Persio replica chiedendo a Bruto, come di
consuetudine, di mandare a morte anche quest’altro Re. Si tratta del finale di un
movimento epigrammatico: fa’ riferimento al fatto che Bruto sia stato responsabile
dell’uccisione di Cesare e della cacciata di Tarquinio il Superbo, per cui è “lavoro” di
Bruto far condannare a morte uomini di potere.
“Persius exclamat: ‘ per magnos, Brute, deos te oro, qui reges consueris tollere ,
cur non hunc Regem iugulas? Operum hoc, mihi crede, tuorum est.’

Satira VIII
Si evince dall’inizio del componimento che, ad Orazio, si sostituisce in qualità di io-
narrante, una statua di Priapo, dio della fecondità che, da un fico di legno comune,
viene modellato dal falegname e reso un dio protettore del raccolto. Egli, con le
canne conficcate nel capo allontana gli uccelli dannosi agli orti, con la mano destra
ed il piolo scarlatto inguinale eretto, allontana i ladri e qualunque pericolo. I nuovi
giardini sono gli horti di Mecenate, un complesso di parchi e di edifici che il ministro
di Ottaviano aveva ricavato sull’Esquilino, e che ora sostituisce un il cimitero
comune, situato ai piedi del terrapieno delle mura servirne, presso cui alcuni
schiavi, spesso confratelli dei collegia, si occupavano personalmente della sepoltura
degli umili della plebe e servi: i defunti venivano riposti in misere stanzette
seminterrate. (Hoc miserae plebi stabat commune sepulcrum; Pantolabo scurrae
Nomentanoque nepoti - questo era il cimitero comune
Con commune sepulcrum si designava ciò che viene inteso, da alcuni moderni e
scoliasti, come “fosse comuni”, che dovevano comprendere puticoli, a cui
probabilmente allude Orazio, cioè piccoli pozzi in cui venivano gettati alla stessa
maniera carcasse di animali e corpi di giustiziato, schiavi, povera gente. Pantolabo e
Nomentano sono due dissipatori destinati ad essere sepolti nello squallore. Orazio
descrive le fosse comuni con amara ironia, secondo le caratteristiche di una tomba
familiare, come volesse denunciare l’incuria della societas verso i ceti meno
abbienti, dal momento che soltanto le tombe di chi possedeva eredi erano
dichiarate inalienabili (heredes monumentum ne sequeretur ). Ora invece la zona è
stata bonificata e, ormai salubre, vi si può anche abitare, ove poco prima di allora il
campo biancheggiava per la presenza di ossa. Non tanto impedire i danni provocati
da avvoltoi, quanto le donne intente a creare incantesimi servendosi di ossa e
germogli velenosi. I componimento tende ad assumere un carattere orrifico. Era
apparsa infatti improvvisamente Gratidia ( detta Canidia da “canus” “bianco,
canuto”), maga fattucchiera e avvelenatrice, con la sua assistente Sagana, dal
mantello nero lungo la cintola e lo spaventoso pallore, che sbranavano un’agnella
nera e ne facevano sgorgare il sangue in una fossa per ottenere i responsi degli dei
Mani, avidi di sangue. Questa scena potrebbe rimandare all’episodio dell’Odissea in
cui Ulisse, per interrogare Tiresia, scava analogamente una fossa per interagire con
gli dei. Avevano con sé un pupazzo di lana, più grande, che rappresentava il
demone committente del rito magico, il cui destinatario era rappresentato da un
pupazzo più piccolo di cera, per omeopatia la persona che deve subirne gli effetti. (Il
pupazzo di cera stava in atto di supplice, come chi è destinato a morire alla maniera
degli schiavi).

Satira IX (satira del seccatore)


Nella celeberrima “satira del seccatore” Orazio descrive il suo incontro con un tipico arrampicatore
sociale molesto: mentre il poeta passeggia per la via che dal Foro sale al Campidoglio, gli si avvicina
una persona di cui conosce a mala pena il nome e che si presenta come un letterato e aspirante poeta (v.
7). Dopo pochi convenevoli, Orazio cerca di liberarsi di questa scomoda compagnia, dapprima
mostrandosi indaffarato (vv. 8-10), poi fingendo di andare a trovare un amico malato al di là del Tevere
(vv. 16-18). Tutto però si rivela inutile: il seccatore intuisce chiaramente (vv. 14-16) le intenzioni del poeta
e si mostra pronto a seguire un Orazio ormai rassegnato. Al v. 21 l’interlocutore inizia a magnificare le
proprie doti artistiche, sostenendo di essere in grado di comporre velocemente molti versi, di saper
ballare con grazia e di cantare in modo straordinario: egli si sente perciò superiore sia a Visco e Vario,
due personaggi del circolo di Mecenate, sia al noto cantante Ermogene. (In realta queste capacità non
sono più ritenute doti al tempo di Orazio). Orazio tenta a questo punto (v. 24) di interromperlo e fa
riferimento ai parenti del seccatore: il motivo esatto di questa menzione ci sfugge, ma possiamo
ipotizzare che il poeta esorti l’uomo a non elencare tutte queste invidiabili qualità, se vuole evitare di
incorre nell’invidia degli dei e tornare al più presto - - sano e salvo dai suoi. Ma anche questa volta va
male: la risposta disarmante del seccatore (v. 28: “omnis composui”, ovvero, con humour nero, “li ho
seppelliti tutti”) rafforza l’idea che egli non abbia proprio nulla da fare e che a casa non lo attenda
nessuno; potrà perciò dedicarsi totalmente al nostro povero poeta. Con ironia Orazio riferisce ora al
lettore (v. 29) le parole che una vecchia fattucchiera, che egli inventa di aver conosciuto durante l’infanzia
nella sua terra natia, aveva pronunciato profetizzando la sua morte: essa sarebbe stata causata per
l’appunto da un garrulus, cioè un chiacchierone. I due arrivano intanto, tra le nove e le dieci del mattino,
nei pressi del tempio di Vesta (v. 35). Il seccatore dovrebbe recarsi a questo punto in tribunale e chiede a
Orazio di fargli da advocatus; sperando di liberarsi una volta per tutte dell’inopportuno compagno, il poeta
rifiuta, sostenendo di non esserne in grado. Dopo un attimo di incertezza, però, l’interlocutore decide di
abbandonare il processo e di continuare a seguire il poeta. È solo adesso (v. 43) che il seccatore rivela il
motivo della sua insistenza, cioè il desiderio di essere presentato a Mecenate. Egli, però, ha un’idea
completamente distorta dei rapporti esistenti all’interno di questo circolo di amici: questi, infatti, non si
basano su favoritismi e adulazione, come gli fa notare Orazio in uno scambio serrato di battute, ma sulla
sincerità e l’onestà (rivedi satira VI). Ecco comparire ora (v. 60) sulla scena Aristio Fusco: questi, al
quale Orazio fa immediatamente capire la situazione tramite occhiate e gesti disperati, ne approfitta per
prendersi gioco dell’amico e lo lascia in balia del seccatore. Quest’ultimo però è trascinato in tribunale dal
suo avversario, apparso quasi d’incanto sulla scena. (Il poeta fa’ riferimento ad Apollo, venuto in suo aiuto
alla “ deus ex machina” . Si può evincere nuovamente un riferimento parodico all’epica)

Satira X

Introduzione

In questa satira vi è una ripresa approfondita dei punti trattati nella Sat. IV, tra cui la critica a Lucilio per
alcuni aspetti della sua scrittura: Orazio critica infatti la sua negligente abbondanza nello stile , il ritmo
stentato con cui procedono i suoi versi e la sua sciatta prolissità. Afferma dunque che nella satira
Luciliana vi sono più cose da togliere che da lasciare, ma con ciò non intende sconsacrare Lucilio dal suo
riconoscimento come fondatore della satira.

Contenuto

La prima parte della satira fa riferimento al fatto che Catone l’Uticense, poeta dal verso solenne,
emendasse i versi elogiandone la forma, sebbene siano “contorti”, e critica alcuni aspetti della satira
luciliana, senza però tentare di sconsacrarlo dal suo primato come fondatore della satira: è lodato per
essere colui che ha istituzionalizzato L’esametro come verso per eccellenza e ad aver conferito un ordine
al genere satirico. Tuttavia Catone emendava tali versi con garbo certamente più sottile di un grammatico
latino la cui abitudine era quella di percuotere i suoi allievi in caso non riuscissero ad assimilare i precetti
dati (del garbo dei cavalieri). Questa parte viene ripresa con tono ironico da Orazio stando ad indicare
che lo stesso fosse stato soggetto a percosse da giovane. In primo luogo vi è da ammettere che Lucilio
utilizzasse un ritmo stentato: ma non lo si criticava per questo per il fatto di aver regolamentato il genere
satirico. Secondo Orazio però ciò non giustifica questo difetto e per questo afferma che, secondo questa
logica, dovrebbe apprezzare anche versi elementari come i mimi di Laberio. Orazio inneggia alla
semplicità, all’ alternarsi di un tono austero e di un tono ironico, come avveniva nell’antica commedia
greca ( commedia Aristofanesca, differente dalla commedia di mezzo): non basta creare versi divertenti,
ma anche cercare di trasmettere una morale. Utilizzare un tono ironico alla fine di un componimento è
molto efficace nel trasmettere un concetto al lettore, esattamente come nella commedia antica. Ma
quando tali versi vengono cantati da Ermogene, che si diverte nel cantare versi di Catullo è Calvo in
modo superficiale, perdono di senso. Un’altra caratteristica criticata da Orazio è il fatto che si mescolino
nei suoi versi greco e latino. Secondo Orazio non può ritenersi armonioso uno stile che richieda la
storpiatura dei versi latini con versi tratti da una lingua straniera, agendo come se ci si trovasse a
Canosa, una regione greca in cui si parlano sia greco che latino(tu preferiresti che al nostro idioma si
mescolassero parole raccattate in un paese straniero,come fa la gente bilingue di Canosa), ed immagina
che Quirino, apparitogli in sogno, nel momento in cui gli di imitare tal stile, gli suggerisca di non infittire
nuovamente le foreste della Grecia (metaforicamente non rinnegare la propria lingua per utilizzarne
un'altra)('Portare legna al bosco non è meno folle che volere ingrossare le file già serrate dei poeti
greci'.). In seguito Orazio elenca alcuni dei poeti più celebri della sua epoca, alcuni dei quali
appartengono al circolo di Mecenate, come Virgilio (ispirato dalle muse), Varrone l'uticense, Vario( circ. Di
Mecenate) Fundanio, Pollione, altri che trattarono il genere pur senza eguagliare Lucilio, in cui è possibile
trovare delle incongruenze, secondo il poeta, come le si trovano nei versi solenni di Ennio, come le trovò
Lucilio nelle tragedie di Accio, nei versi di Omero: non è dunque quello del poeta un tentativo di
sconsacrare Lucilio. ( ci sono più cose da togliere che da lasciare)

(anche lui, se il destino l'avesse calato nel nostro tempo, cancellerebbe molte
cose, sfrondando tutto ciò che si trascina oltre la giusta misura)
Per poter scrivere cose degne di essere letta, bisogna saper alternare la cancellazione alla
scrittura: personalmente Orazio si cura soltanto del giudizio di cavalieri e scrittori

(posso nominare te, Pollione, te, Messalla, con tuo fratello, e insieme voi,
Bíbulo e Servio, o ancora te, mio schietto Furnio, e tanti, tanti altri, dotti e
amici, che tralascio senza dimenticarli: a loro, sí, vorrei che fossero graditi
i miei scritti, valgano quel che valgano, addolorato solo se piacessero meno
di come m'attendo. Quanto a voi, Demetrio e Tigellio, vi lascio a miagolare
fra i divani delle vostre scolare)
Liber II

Satira I (computer)

Satira II

La seconda satira consiste in un elogio della frugalità

Satira III

Nella terza satira, la più lunga di tutte, un commerciante fallito va' a visitare Orazio
nella sua villa in Sabina, ossia Damasippi, che si è recato lì per i Saturnali.
Approfittando della libertà di parola vigente in quei giorni, vuole dimostrare che
anche egli è pazzo, come tutti, tranne i sapientes della filosofia. Il breve discorso
iniziale di Damasippo consiste nella spiegazione della sua conversione alla dottrina
stoica: poco prima di ricorrere al suicidio a causa della sua chiara dipendenza dal
commercio e dal collezionismo, intervenne infatti Stertinio a salvarlo da morte
certa,ovvero un predicatore dello stoicismo, di cui viene riportato un lungo discorso.
Egli spiega in primo luogo cosa sia l'irragionevolezza con una metafora: due uomini,
l'uno prosegue a destra, l'altro a sinistra, ciecamente evitando la retta via.
Il concetto fondante della satira III consiste nel mostrare in che modo può articolarsi
l'irragionevolezza: nel caso dell'avaro essa consiste nella parsimonia assoluta, che
sfocia nella rinuncia categorica del vivere una vita dignitosa usufruendo dei beni
che si è accumulati allo scopo di mantenerli sempre integri. Viene riportata la scena
in cui l'anziano Oppimio ( pseudonimo da opes, ricchezze) scampato alla morte per
poco grazie alle cure del medico, lamenta di aver bevuto una tisana pregiata
anziché una bevanda più economica). Nel caso opposto , l'irragionevolezza può
essere rappresentata dal "gettarsi a capofitto nel fuoco oppure nell'acqua
impervia" , nel liberarsi di tutti i propri beni sprecandoli del tutto , seppur non vi sia
tanta differenza dallo stiparli in modo maniacale. Le follie possono essere scaturite
da un raptus, come in modo analogo possono essere compiute lucidamente e
crudelmente: secondo questo criterio le follie si distinguono in termini di gravità:
nell'opera di Sofocle Aiace, condannato al divieto di sepoltura dal re , risulta più
savio di Agamennone, in quanto resosi colpevole di un atto folle, l'uccisione
dell'intero gregge, perché ha perso la ragione, mentre il re si è reso volutamente
responsabile del sacrificio di sua figlia al fine di placare l'ira divina. Nel compiere la
pazzia Aiace non ha recato danno né ad amici, né a nemici, ma è stato comunque
aspramente condannato e le sue gesta dimenticate, quando è stato più folle il gesto
di Agamennone che ha fatto sacrificare la sua stessa figlia per vuoti onori.

65 E che? Se uno sacrifica


la figlia al posto di una muta agnella, è sano di mente?
Non venirmelo a dire. Dovunque perciò c'è uno sragionare,
distorto, lì c'è la più grande pazzia; chi commette delitti
sarà, al tempo stesso, pazzo furioso; chi si è fatto attrarre
dalla fama, che è come il vetro, costui è già stordito da
Bellona, la dea che si compiace del sangue.

Scialacquatore
Damasippo critica Orazio
Satira VI

Nella satira Orazio esprime tutta la sua gioia per il dono del podere in Sabina. Alla vita frenetica
che si conduce a Roma, descritta ampiamente nella prima parte della satira, viene contrapposta
nella seconda parte la tranquillità della vita in campagna. (nil amplius oro, Maia nate, nisi ut
propria haec mihi munera faxis) .Mentre Roma non permette ad Orazio di essere se stesso, il
Sabinum è il luogo della quiete che conduce alla vita beata. Infatti la vita in città è scandita da
fretta, lotte, litigi ogni qualvolta si abbia bisogno di accedere ad un servizio ( Non appena però si
è giunti al tetro Esquilino, cento impicci altrui mi saltano in testa e ai fianchi).Solo qui, presso il
podere donato da Mecenate, è possibile discutere seriamente su ciò che riguarda più da vicino
l’uomo; la città è invece il luogo delle chiacchiere futili. Se con Mecenate si può discutere del
ruolo dell’amicizia, se contino più le ricchezze o la virtù, qualcun altro inizia a raccontare
barzellette. Quest’ultimo punto è illustrato proprio in riferimento alla vita di Orazio in compagnia
di Mecenate, cosicché questa satira rispecchia i due aspetti del rapporto con l’illustre protettore:
Mecenate lega il poeta a Roma, ma dall’altra parte gli offre la possibilità di sottrarsi a lui,
ritirandosi nella villa sabina. Uno dei passi più famosi della poesia oraziana è la favola del topo
di campagna e del topo di città, che chiude la satira. Il topo di campagna ospita il tipo di città,
offrendogli le sue migliori vivande, ma parche: per questa ragione l’altro lo convince a recarsi in
città, dove hanno lungo grandi mense , ma entrambi sono costretti a scappare a causa
dell’arrivo di servi e schiavi. Per questa ragione il topo di campagna finisce per apprezzare la
sua umile casa rispetto alla città (tum rusticus: "haud mihi vita 115 est opus hac" ait et "valeas:
me silva cavosque tutus ab insidiis tenui solabitur ervo ->Allora quello di campagna dice: ‘Io non
ho bisogno di questa vita’ e ‘Stammi bene: il bosco e la tana sicura dalle insidie mi
consoleranno con le povere vecce’) . Due volte nel componimento il giorno e la notte svolgono
un ruolo ben preciso: il ritratto negativo di Roma è collegato al giorno, quello positivo del
Sabinum con la notte; nella favola il quadro positivo della vita di campagna è messo in relazione
con il giorno, quello negativo della vita di città con la notte, cosicché si può trarre la conclusione
che a Roma tanto il giorno (per gli inevitabili impegni) quanto la notte (per gli inevitabili
banchetti) hanno una loro connotazione negativa.

Satira VII

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