Sonetti Vittorio Alfieri

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Tacito orror di solitaria selva

Composto nell’86, del periodo degli anni francesi. Alfieri aveva amato profondamente le terre
scandinave, la Svezia, la Norvegia con i loro ghiacci, con i loro boschi oscuri e silenziosi, quei
luoghi orridi e desolati, ebbene continua ad amarli anche negli anni parigini, dove
probabilmente si reca a nord di Parigi, nei boschi nella Normandia, ne scrive in questo testo.
Vittorio Alfieri ha scritto poesie, componimenti in rima, per tutto l’arco della sua vita, dagli
della giovinezza fino a quasi la morte, le ha date poi alle stampe con il titolo generale ‘Rime’. Il
modello di qualsiasi poeta italiano che si voglia cimentare nella lirica è sempre Francesco
Petrarca, poeta classico del 300. Tuttavia Petrarca non è seguito in maniera così vicina da
Alfieri, poiché è un innovatore, sotto certi aspetti anticlassicista, perché non ricerca l’armonia,
l’equilibrio, la proporzione all’interno dei versi, in particolare all’interno dei suoi sonetti, ma
la disarmonia e dissonanze, il conflitto interiore deve rispecchiarsi anche nella lingua, nello
stile, nelle parole, abbiamo sempre interrogative, esclamative, punti di sospensione, pause,
interruzioni. Abbiamo alcuni versi amorosi che esprimono sentimenti non ricambiati, nella
prima fase giovanile della sua vita, poi abbiamo molti sonetti nei quali si presenta con
atteggiamento titanico ed altri di tipo politico, nei quali si oppone alla tirannia. Spesso dedica
le sue liriche anche alla natura, come in questo testo dove emerge sia il tema politico che
l’ambiente naturale circostante, una natura selvaggia, isolata, spaventosa, incontaminata,
sublime. Qui vediamo Alfieri che cerca rifugio nella natura dai suoi tormenti, dai suoi conflitti
interiori.

Abbiamo un sonetto autobiografico di confessione, in cui il poeta parla in prima persona di se,
analizza il suo animo, la sua interiorità. Dice il silenzioso orrore di un bosco solitario mi
riempie il cuore di una tristezza molto dolce (sensazioni che gli vengono procurate a contatto
con la natura, abbiamo poi un ossimoro ‘dolce tristezza’, accostare due parole opposte che ci
mostrano l’inquietudine di Alfieri) perché in quel bosco come me non si ricrea, non si conforta
tra i suoi figli nessuna orribile belva (si paragona ad un’orrida belva di questa selva, dicendo
che nessuna belva è così felice come egli dall’angolo inquieto e tormentato nel vivere in
questo luogo selvaggio).

E quanto più il mio piede si inoltra all’interno di questa selva, tanta più calma e gioia si crea
dentro di me (contrasto: più frequenta luoghi selvaggi e solitari, tanto più sente nel cuore
pace, serenità e tranquillità) così che ricordando come io sono felice nei boschi, spesso la mia
mente talvolta con il pensiero torna in quella selva (quando è lontano da boschi solitari per
consolarsi ripensa ad essi e il suo cuore si consola).

Adesso spiega il motivo della ricerca di tanta solitudine: ciò avviene non perché io odi gli
uomini (non per una sorta di misantropia), oppure perché io non veda errori in me stesso,
anzi ne vedo più che negli altri (consapevole dei suoi errori e limiti), non è che io mi creda più
vicino degli altri uomini al buon cammino della virtù (non si ritiene migliore degli altri, ne più
virtuoso o vicino al bene)

Tuttavia (ultima terzina che contiene il suo messaggio finale) non mi piacque mai il mio vile
secolo (motivo politico), è oppresso infatti dal pesante giogo regale (dalla tirannia,
assolutismo monarchico) e dunque solo nei luoghi deserti tacciono i miei guai, lamenti (si
consola solo nei luoghi solitari perché odia il suo secolo, e i luoghi asserviti della sua
generazione).
Bieca, o Morte, minacci? E in atto orrenda
Ancora una volta il poeta manifesta il suo atteggiamento titanico e la sua tematica politica.
Spesso la morte è pessimisticamente al centro della riflessione del poeta, perché egli cerca
eventualmente anche il suicidio come possibilità di uscita dall’asservimento politico, quindi
l’uomo libero può attestare con la morte la sua rinascita libera. In questo sonetto si rivolge
direttamente alla morte personificata, che egli immagina trovare davanti a se con una falce in
mano, così come si rappresentava all’epoca la morte soprattutto nei quadri, nell’iconografia
dell’epoca.

Oh Morte (apostrofa direttamente la morte personificata con atteggiamento titanico) tu


minacci guardandomi di traverso? (la morte è come una donna che lo sfida) e orrenda a
vederti tu brandisci dinanzi ai miei occhi la tua falce adunca (sfida la morte chiedendo se sia
pronta a sferrare il colpo, atteggiamento titanico di chi non ha paura nemmeno della morte).
Uccidimi pure: non mi vedrai mai pregarti tremante di sospendere questo grande colpo (non
chiede alla morte di allontanarsi, perché egli non teme eroicamente la morte)

Qui specifica il perché: per me la nascita è una triste vicenda, non la morte, perché con la
morte io rimango libero di tante angosce (la morte diventa liberazione); ed in un solo breve
istante (quello della morte) io rimedio all’errore della mia nascita servile (si riteneva un uomo
non nato libero, perché nato subito del Re di Sardegna, del re di Piemonte, dei Savoia,
oppresso da una nascita servile).

Morte vieni a troncare la mia vita vergognosa, odiosa che io traggo in catene (lui che è un
uomo libero, indegno di servire, titanismo) che cosa aspetti omai, se il tuo indugio mi irrita?
(egli dice alla morte che addirittura si fa aspettare troppo, che deve arrivare presto perché
non la teme).

Tu devi sottrarmi ai re (ai tiranni, odio anti-tirannico, deve essere liberato con la morte dal
tiranno), a cui la viltà dei più (continua a considerare i contemporanei vili) da orgoglio e
potere, e questa viltà invita i tiranni a inferocire nei confronti dei popoli, e a prevenire il tardo,
lento, ultimo sdegno dei pochi uomini nati liberi (come Alfieri, pessimismo nei confronti dei
suoi tempi, condanna dei suoi contemporanei, i quali sono servi del potere ed al potere non si
oppongono, vivendo oppressi dai tiranni, i quali approfittano della viltà dei più e diventano
ancora più feroci).

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