Abissinia/Capitolo III
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CAPITOLO III.
Partenza pei Bogos. — In carovana. — Incontro di scimmie. — Paradiso dei cacciatori. — Arrivo alla Missione. — Le propagande. — Il villaggio. Usi e costumi della popolazione. — Ritorno. — Bellezze del paesaggio. — Fermata a Kalamet. — Nuovamente a Massaua. — Una festa originale.
Per quanto con Ferrari si facessero continuamente gite di caccia, pure la monotonia di questa vita ci stancò, e non sapendo ancora quando si potrebbe definitivamente partire per l’Abissinia, pensammo intanto di andarcene a fare un’escursione nel paese dei Bogos. A noi si associò l’amico Legnani che, pratico del viaggiare in carovana e parlando l’arabo, oltre che simpatico, ci fu pure utile compagno di viaggio. Fissati i camelli e fatti quei pochi preparativi che pensammo necessari, il giorno 12 lasciammo gli altri compagni, felici di incamminarci ad una vita nuova ed a paesi nuovi.
È uso che il primo giorno non si parta mai la mattina e si faccia solo una breve tappa, quasi a collaudo o correzione del carico dei camelli, per cui anche noi non potemmo ottenere di muoverci prima delle quattro. I nostri camellieri sono biscerini: per tutto abbigliamento un pezzo di tela bianca che avvolta alla cintura scende fino al ginocchio e la notte si stende ad avvolgere tutto il corpo per riparare dall’umido e dal freddo: ai piedi due logori sandali, e per cappello l’originale capiglia tura a ciuffo ritto e a ricci o trecce pendenti, contro la sferza del sole: per provvigione qualche pelle che si riempie d’acqua quando se ne trova, ed una piena di dura: per difesa, pendente dalla spalla sinistra, uno spadone colla guardia a croce in ferro e la guaina allargantesi ad uso freccia verso il basso; uno scudo in pelle da ipopotamo, rotondo, con una sporgenza conica al centro; una lancia alta forse due metri nella mano destra.
Oltrepassata di circa un’ora in direzione nord, la seconda diga, ci fermiamo a Omkullo, grossa borgata abitata da indigeni e da piccoli negozianti che tengono in Massaua i loro affari e passano qui la notte, pretendendo sia meno calda: riempiamo le nostre pelli ad un pozzo pubblico, poi proseguiamo volgendo leggermente ad ovest per fare alt verso le sette in un avvallamento qualunque. Le nostre coperte furono i nostri letti, la volta celeste il nostro tetto: alcuni nuvoloni ci fecero temere un’inaffiata in regola, ma la provvidenza ce la risparmiò.
Aperti appena gli occhi, la mattina seguente, ancora in una semi-oscurità e senza muoverci da dove eravamo, si fecero le fucilate a due jene che tranquillamente passavano a pochissima distanza. Non è molto a temere questo schifoso animale che difficilmente attacca l’uomo, perchè lo teme, e piuttosto si avventa agli animali od ai bambini, sempre ai cadaveri; è tanto ributtante che appena morto è carogna e tutta la sua vigliaccheria genera ribrezzo. Nessuno osa mangiare le sue carni e nemmeno far uso della sua pelle. Radunati i camelli che stavano pascolando, e fatto il carico, ci incamminammo a piedi, precedendo di pochi passi la carovana, sperando di poter fare un po’ di caccia, ma ben presto il sole ci fece ricordare che eravamo in Africa, per cui montammo le nostre cavalcature.
Siamo sfortunati nei camelli, che sono piuttosto cattivi, ed uno non soffre alcun movimento di chi lo cavalca: le selle poi sono perfide, ma ormai siamo in ballo e bisogna ballare. Tipo biscerino
Il terreno è sempre sabbioso e sparso qua e là di qualche cespuglio spinoso e di acacie nane, ma in complesso l’aspetto è piuttosto arido, perchè tutto bruciato dalla grande aridità: lentamente andiamo innalzandoci superando delle elevazioni di pochi metri, oso dire dei gradini, per passare una sequela di altipiani, tagliati di quando in quando da torrenti infossati che solo si gonfiano durante le piogge. Nei punti più bassi del loro letto sono generalmente praticati dei pozzi che per infiltrazione danno l’acqua necessaria a rifornire le carovane; e per vero dire non è sempre l’acqua più pura nè la più pulita: spesso è vero fango diluito con gusto anche di materie organiche in putrefazione, ma quel terribile male che è la sete alimentata dai raggi di questo sole cocente, fa superare certe cose che fanno ribrezzo al pensarvi quando si possono invece avere delle buone limonate.
Verso le 10 ½; passiamo presso un paio di capanne, abitazioni di qualche soldato che con aspetto e assetto tutt’altro che militare sta a guardia del telegrafo che tiene questa linea per spingersi fino a Kartum.
Le due cose meglio organizzate dove governa l’Egitto sono certamente la posta e il telegrafo, e dove passa quest’ultimo, che serve anche di guida alle carovane, con provvido sapere, Gordon pacha pose, ad ogni quattro ore circa di strada, una capanna di rifugio pei viaggiatori e spesso un soldato di guardia pel filo.
Ancora un’ora di cammino, e ci fermiamo nel letto di un torrente dove qualche macchia nerastra nelle sabbie e un po’ di vegetazione fresca ci indicano la presenza dell’acqua, per ristorare noi e lasciar pascolare i camelli.
Ripartiamo alle due, e sempre continuando in terreno piuttosto monotono, colla sola distrazione di stupendi uccelletti dai colori vivissimi, dai riflessi metallici e dalle code assai lunghe, e dell’incontro di qualche carovana diretta a Massaua per portarvi tabacco di Keren, ci fermiamo alle sette e mezzo sopra un’altura, in posizione perfettamente isolata, dove la notte fu solo disturbata dalle voci di qualche jena e da una abbondante rugiada.
Prima che i camelli siano pronti, ci incamminiamo la mattina del 14 cacciando le lepri che in buon numero fuggono davanti ai nostri passi. Avanti a noi sta un’enorme pianura e allo sfondo una catena di montagne che dobbiamo raggiungere per trovar acqua, e che pare si vadano sempre allontanando al nostro avanzare: la stanchezza era alleviata dalla distrazione di trovare frequenti gazzelle, ma il sole ci faceva desiderare il punto fissato pel riposo: verso mezzogiorno incontriamo molti buoi e capre, indizio che siamo poco lontani dalla sospirata fonte: pieghiamo infatti leggermente ad ovest, entriamo in una larga vallata che va a poco a poco restringendosi, la vegetazione si fa più fitta, e verso l’una ci accampiamo presso il letto di un torrente in cui con gran consolazione vediamo scorrere acqua limpida.
Qui vicina troviamo pure fermata un’altra carovana che segue la nostra direzione e che già avevamo incontrata jeri. Dopo un riposo abbastanza lungo per noi, ma necessario pei camelli, ci rimettiamo in strada verso le quattro, in coda dell’altra carovana forte di una trentina di camelli. Seguitiamo sempre camminando nel letto del torrente dove alle volte scorre acqua, e di quando in quando scompare sprofondandosi nella molle sabbia che ne rende tanto faticoso il camminarvi. Le due sponde del torrente sono coperte da folta vegetazione che dev’essere piena di caccia, ma è impossibile il penetrarvi: folta ma non molta grandiosa però, specialmente sulle alture circostanti dove la si vede stanca per lunga sete. Subito dopo l’epoca delle piogge dev’essere di una frescura sorprendente. Siamo circondati da montagne non molto alte, di natura vulcanica, roccia cupa, molti detriti, acacie nane, qualche grossa euforbia, qualche boabab spoglio affatto di foglie, col tronco enorme e rami tozzi, qualche arbusto dalle foglie grigiastre e carico di grosse pallottole verdi contenenti i semi, e presso l’acqua canneti, papiri ed altra vegetazione che ama l’umidità. Di quando in quando la vallata si restringe fino a lasciare solo uno stretto passaggio fra rocce quasi verticali e poco discoste, per poi ritrovarci in bacini ancora assai vasti. La notte arriva e il procedere lento e cadenzato della carovana assume un aspetto veramente imponente, cui la cantilena dei camellieri che intonano le loro preghiere dà un carattere assolutamente maestoso e misterioso.
Si fa perfetto buio, troviamo passaggi piuttosto difficili, dove i camelli a stento trovano ove posare i loro piedi fatti per calcare le sabbie del deserto: nell’ombra della notte si capisce che bella dev’essere la natura che ne circonda, e come viaggiatori ne duole perderne la vista, ma i nostri camellieri, timorosi forse di fermarsi soli, sono sordi alle nostre domande e ai nostri ordini, e colla scusa della mancanza d’acqua ci fanno camminare fin dopo le otto, fin quando cioè si fermò l’altra carovana. Accampati in un allargamento del letto del torrente vi lasciarono liberi i camelli di andarsene a pascolare, si accesero parecchi grandi fuochi, si fece una meschina cena, e ci sdrajammo in cerca del meritato riposo.
Continuiamo la mattina dopo, alternandosi passaggi stretti ed allargamenti del fondo della vallata per la quale si va risalendo: mentre attraversiamo appunto una di queste gole di pochi metri di larghezza, le cui pareti si elevano a scaglioni basaltici, e la nostra carovana preceduta dall’altra cammina silenziosa e quasi triste, un assalto di acute grida ci scuote dal letargo in cui eravamo quasi caduti, e chiama la nostra attenzione a pochi passi davanti a noi, dove centinaia di scimmie se ne stavano bevendo attorno ad un pozzo e furono disturbate dal nostro apparire. Fu un fuggi fuggi generale, le più grandi stringendo al seno o caricando sulle spalle le piccine, tutte saltando e arrampicandosi sulle rocce laterali, poi disponendosi sull’estremo ciglio quasi a darsi spettacolo del nostro passaggio: fra noi e loro non saprei davvero chi fu il più divertito.
Dopo qualche ora usciamo in un vasto altipiano, e ci andiamo a fermare verso il mezzogiorno all’ombra di un grosso albero, poco lontano dal quale i nostri fucili ci procurarono qualche faraona pel pranzo. Circa tre ore di sosta, poi nuovamente in cammino: incontriamo una carovana che porta dei prigionieri a Massaua: sono quattro che alternativamente camminano a piedi o salgono due camelli: quelli che stanno a camello sono incatenati alle mani ed ai piedi, quelli che camminano ci destano un vero senso d’orrore: un grosso ramo d’albero lungo circa due metri e terminato a forcella racchiude con questa il collo del condannato e ve lo stringe dietro con intreccio di corde: all’altra estremità è legato alla sella del camello. Nei viaggi in Africa che ho letti, ho visto questo genere di supplizio usato come mezzo di trasporto o meglio di punizione per gli schiavi, e m’aveva inorridito: non mi sarei mai aspettato di vederlo ufficialmente usato da una potenza che la pretende a civiltà, quale l’Egitto. Sapere poi come questi disgraziati sono trattati, per quanto colpevoli, è meglio non ripeterlo, per rispetto a qualsiasi principio di umanità.
Le montagne si vanno facendo più alte, i boabab e le euforbie più numerosi, grossissimi i primi, alte le seconde. Verso le cinque, poco lontano da una stazione di soldati, vediamo nel fondo della valle un recinto con tracce di coltivazione e qualche capanna: è l’abitazione di due francesi che vi stanno tentando una speculazione, di cavare cioè del filo dalle foglie di cespugli comunissimi in questa località che porta il nome di Kalamet. Noi oltrepassiamo, ed alternata ancora la roccia colla sabbia, ci fermiamo a notte fatta nel letto del torrente asciutto. Ci vien detto essere le vicinanze molto abitate da leoni, e quindi utile prendere le necessarie precauzioni: invece di lasciar liberi a pascolare i camelli, si dispongono in un circolo attorno al quale si accendono sei grossi fuochi, che qualcuno dei camellieri veglia a tener nutriti tutta la notte.
Questo accampamento in luogo perfettamente isolato e selvaggio, il mistero della notte, l’apprensione per quel che poteva forse succedere, e l’emozione del poterci veder davanti quei due occhioni scintillanti senza le barre di ferro che ce ne separino, un ascoltare ansiosi ad ogni muover di foglia, la cantilena dei camellieri che sparsi a gruppi stavano preparandosi con pochi grani di dura la loro cena, la luce delle enormi fiamme che innalzavano grosse colonne di fumo e spandevano i loro raggi luminosi sulle foreste che da ogni lato ci circondavano, tutto questo, ripeto, formava uno spettacolo veramente imponente e fantastico. Lo contemplammo lungamente, poi ci sdraiammo coi nostri fucili al fianco e cercando addormentarci con un occhio aperto, ma la stanchezza la vinse ben presto. S. M. il re delle foreste non venne a turbarci i nostri sonni placidi e solo verso l’alba un muoversi confuso fra le piante ci fece balzare e mettere in guardia, ma non era che un innocente cignale che se ne andava facendo la sua passeggiata mattutina.
Fu questa la nostra sveglia, e poco dopo riprendemmo il nostro itinerario, lungo il quale incontriamo spesso dei cimiteri di tribù nomadi che vi tennero le loro tende. Le tombe consistono di un ammasso conico di pietre o di un largo circolo segnato pure da pietre, con un tumulo al centro; generalmente si copre la tomba con piccole pietre di quarzo bianco; se la tomba è di fresca data, è circondata da una siepe di rami spinosi per tenervi lontana la jena, ed allora ogni fedele che passa vi recita una prece e vi aggiunge un sasso.
La natura si fa sempre più grandiosa e selvaggia, la vegetazione aumenta, i boabab sono giganteschi, non hanno in questa stagione una sola foglia, ma molti frutti consistenti in piccoli globi verdastri, che contengono una farina bianca acidula e di sapore grato e molti semi dal gusto di mandorla; le euforbie si fanno veri alberi di cinque, sei, otto e più metri d’altezza e in alcuni punti costituiscono da sole vere foreste. Saliamo sempre finchè ci troviamo in un vasto bacino, attraversato il quale, in direzione ovest, ci si presenta un’erta salita che ne è forza superare a piedi.
Passata così la catena dello spartiacque che dà origine a levante al torrente Ain, del quale rimontammo il corso, e dall’altro versante ad altri torrenti che radunati gli sfoghi di varie vallate secondarie, attraversano la provincia di Barka, costituendo il Xor Barka che ha foce poco lungi da Suakin, ridiscendiamo per una lunga vallata dove la natura non è per nulla cambiata, ma da dove ci sta davanti un esteso e variato panorama, e alla 1 ½, ci fermiamo in un vastissimo altipiano.
Dopo un paio d’ore di riposo, rimontiamo a camello, ma fatti pochi passi siamo attratti a discenderne dall’abbondanza della caccia. Siamo in vera Africa, come tante volte la ammirai nelle illustrazioni e ne sognai la realtà; i monti generalmente conici, staccati uno dall’altro e raramente tentando formar catena, vegetazione non rigogliosa, ma abbondante; la nostra carovana avanza nel letto sempre sabbioso del torrente largo da venti a trenta metri e fronteggiato da dense foreste dietro le quali ad intervalli si nascondono spazii coltivati a dura; il nostro cammino è continuamente accompagnato dall’apparire di gruppi di pernici, faraone, lepri, gazzelle; sugli alberi svolazzano stormi di uccelli dai colori smaglianti; fra me e Ferrari è un continuo schioppet tio e un continuo far vittime, che passiamo al buon Legnani che ne orna i fianchi del suo camello. In poco tempo eravamo materialmente stanchi della fucilata e sazii della carneficina, e non avevamo fatto che pochi passi, dopo ripreso le nostre cavalcature, quando avanti a noi vediamo attraversarci la strada un piccolo quadrupede, poi due, poi una sequela infinita: sono piccole scimmie che inseguendosi forse per giuoco, passavano dalla destra alla sinistra sponda. Attraversato questo vero paradiso dei cacciatori, risaliamo altre alture per discendere in altri piani; incontriamo qualche truppa di pecore e buoi, il sole tramonta e sempre camminiamo. A quest’ora, attorno ai pozzi scavati nelle sabbie, è un vero formicolio di selvaggina che vi si raduna per abbeverarsi e che noi ci accontentiamo di disturbare col nostro passaggio per non fare un inutile macello. Non sappiamo dove troveremo alloggio a Keren, per cui non volendo arrivare a notte inoltrata, voremmo fermarci per proseguire l’indomani, ma i nostri camellieri non acconsentono, ripetendoci che siamo vicinissimi alla meta. Avanti dunque; si scorge un lume, ma non è che l’abitazione di un agricoltore che ha i suoi campi lontani dal villaggio. Finalmente i lumi si moltiplicano, passiamo fra molte capanne; nell’oscurità si distingue dell’abitato, e non sapendo dove dirigerci, ma memore dell’ospitalità usatami nei conventi di Terra Santa, ci facciamo portare alla Missione, certi di trovarvi rifugio almeno per la prima notte. Alla destra, avanti una casa di cui nell’oscurità si distinguevano a stento i contorni, vediamo il largo cappello di una suora che con un fanale entra da una porta, e piegato a sinistra siamo, dopo pochi passi, alla casa dei missionarii. La carità cristiana che andavamo ad incontrare, il forte contingente di quell’appetito che collima colla fame, che portavamo noi, e il sapere od almeno il supporre che la buona e abbondante tavola non fa mai difetto nei conventi, ci avevano fatto sognare una cena poco meno che luculliana, e con questa speranza, col solo titolo di viaggiatori, ci presentammo ad un padre, chiedendo ospitalità. Era l’ora della preghiera, per cui portammo un po’ di scompiglio in questo piccolo esercito della fede; ci venne assegnata una camera in cui si stesero delle stuoie e ci fu detto che con sommo dispiacere a quest’ora i fuochi delle cucine erano già spenti. Una lettera che persona molto alto locata aveva data in Italia per la spedizione, fece per altro l’effetto della molla che fa comparire il diavoletto nella scatola di dolci, e per noi invece allontanò il brutto fantasma del digiuno e fece comparire del pane, del cacio e dell’idromele, detto tecc o vino degli Abissinesi, ottenuto dal fermento di acqua e miele coll’infusione di alcune foglie o radici.
Ci svegliammo l’indomani quando il vescovo, monsignor Touvier, con due preti vennero ad augurarci il buon giorno e con ogni sorta di gentilezze vollero traslocarci in uno spazioso salotto con un letto e due comodi divani.
La provincia dei Bogos geograficamente appartiene all’Abissinia, ma è ora occupata dall’Egitto che la tiene preziosa come linea di comunicazione fra il Sudan e il porto di Massaua, e per questo è fonte di continue inimicizie e di frequenti attacchi fra i due Governi. Essa è costituita da un altipiano a più di 1200 metri sul mare, rinserrato da montagne granitiche; la sua popolazione, sparsa in parecchi villaggi, si pretende da secoli immigrata dall’interna provincia del Lasta e derivare quindi dalle bellicose tribù degli Agau, dei quali mantiene lingua, costumi e tradizioni.
La capitale ne è Sanayd, villaggio posto sul versante di un’altura coronata da un forte costrutto da Munzinger pacha; rimpetto a questo, e più sotto la montagna, sta Keren, ove siede la Missione stabilitavi or fanno circa trent’anni dal padre Stella, che dopo avervi consacrata l’esistenza, facendosi amare dalla popolazione, morì travagliato da dispiaceri e perseguitato da chi gli mosse ingiusta guerra. Col tempio della fede vi aveva stabilito pure un faro di civiltà, unendo così queste due propagande che sempre dovrebbero essere compagne nella faticosa marcia attraverso popoli barbari, e praticando per tal modo la vera e pura dottrina di Cristo. Una colonia di Europei dava l’esempio del lavoro, e mostrava alle popolazioni selvagge che la missione dell’uomo sulla terra ha uno scopo ben più alto che quello di vegetare abbrutendosi e facendosi continua guerra gli uni agli altri. Ma come pur troppo spesso succede, la mancanza di mezzi materiali e di costanza a sopportare le prime disillusioni per un avvenire migliore, fecero che la piccola colonia finì per morire quasi di consunzione. La Missione restò, ed è ora occupata da lazzaristi francesi, e la colonia riprese sviluppo quando or fanno quattro anni si introdusse la coltivazione del tabacco.
Uscimmo accompagnati dal padre Picard, un simpatico uomo che da quattordici anni vive in questo paese cristianizzando: è commovente vedere come tutti lo amano e lo rispettano, e come al suo apparire, vecchi e fanciulli gli corrono incontro chiamandolo gaetana o abuna, che suonano mio signore, mio padre, gli baciano la mano e gliela toccano col fronte in segno di venerazione. Con lui andiamo a far visita al governatore, comandante il presidio di circa 600 uomini.
È un nero del Sudan che fece, nella legione straniera, la campagna del Messico, poi fu in Francia, ma ebbe troppo rispetto per la civiltà, e non osò troppo avvicinarla; fu però con noi cordialissimo e ci fece vedere in tutti i suoi particolari il forte costruito sotto la sua direzione. Quasi alla vetta del colle su cui è piantato, per occupare i soldati, fece scavare una gran vasca per raccogliere l’acqua delle piogge, idea questa assai buona e pratica in un paese dove fa tanto difetto questo elemento. Passiamo a visitare qualche Greco e il reggiano Cocconi che tengono piccoli negozii, e vi coltivano tabacco, e da tutti quanti siamo ricevuti con gran festa, poi passiamo da M. Constant, un francese e il principale degli agricoltori.
Egli tiene una bella fattoria composta di tre capanne rettangolari in stuoie, ma ben costrutte e pulite, e presso queste l’essicatoio del tabacco che si appende a fili tesi fra pali per farlo essicare, quindi farne delle grosse balle che si mettono in commercio. Qui sentiamo come questo genere di industria potrebbe essere assai proficua se non ci fossero molti ma e se. Il Governo che invece di favorire un’industria nascente, cerca di paralizzarla con gravi tasse; la lontananza dal porto di Massaua, la mancanza di strade e la difficoltà delle comunicazioni; la mancanza di sicurezza, essendo continuamente minacciati da un invasione degli Abissinesi; l’incertezza delle piogge, cui è affidata la nascita e lo sviluppo delle piante, piogge che alcuni anni anticipano, altri ritardano, e possono quindi esser causa di gravi spese impreviste e della perdita completa della seminagione, senza che s’abbia ancora il tempo a ripeterla. Cause tutte insomma che finirono alla conclusione, che su tre si può calcolare ad una annata veramente buona. Aggiungi, che tutti questi onesti agricoltori, bisognosi di capitali per le prime spese di impianto, trovarono in loro soccorso aperte le borse di alcuni Greci, che diventarono poi i più fieri strozzini, che oggi vergognosamente impinguano coi guadagni di chi ci mette intelligenza e fatica.
Le monache sono ora in numero di sette e vi furono chiamate da solo un mese; la superiora fu per vent’anni a Roma direttrice del convento di San Spirito, da dove partì, come ella disse, dopo che i Piemontesi bombardarono ed entrarono.
Passiamo a visitare le scuole e il collegio degli allievi, che sono piccoli bambini fatti cristiani, e che per essere orfani od abbandonati, si ricoverano e si istruiscono. Vivono in capanne e sono custoditi da donne del paese istruite dai missionarii e che da questi ebbero il titolo di maestre. Macina e forno abissinesi
In una vasta capanna entriamo a vedere la fabbrica del pane che si dà loro. Quattro ragazze sono occupate a macinare la dura schiacciandola fra due pietre, una fissa a lastra, l’altra cilindrica che colle mani si fa scorrere sulla prima. Fatta con farina e acqua una pasta assai tenera, la si versa e distende su larghi piatti di terra sotto ai quali arde il fuoco, e si ottiene così un pane molle, ma abbastanza gustoso, di forma piatta, del diametro di circa quaranta centimetri e dello spessore di non più di uno. Ogni giorno ne vengono distribuiti ottanta ai bambini.
Visitiamo qualche capanna di nativi: le loro abitazioni sono meschine assai, e per mobilia, i meglio arredati, hanno qualche angareb, qualche stuoia o pelle di bue per sdraiarvisi, pelli per l’acqua, vasi in terra o scorza d’albero intrecciata per conservarvi farina, sale, ecc.
La chiesa è piccolina, in muratura ed eseguita per ordine di Munzinger pacha, poi donata alla Missione. Il convento non ha nulla di rimarchevole: una casina con cinque finestre, a due piani, e ai lati due bracci sporgenti col solo pianterreno, e in continuazione a questi qualche altro locale cogli opificii da un lato, e la tettoia col recinto per gli animali addetti al servizio, cioè muli, somari e buoi, dall’altro. Vi sono ora dieci preti e qualche indigeno convertito non solo, ma consacrato sacerdote perchè aiuti nella propaganda.
E giacchè il nostro itinerario ci ha portati su questo argomento, mi si permetta di fermarmici a dirne due parole. Ho tanto e sempre sentito dir bene delle Missioni cattoliche che hanno sede a Kartum, e delle quali è capo l’egregio monsignor Comboni, ed ho avuto io stesso tali prove in Palestina dell’utilità che possono arrecare le Missioni quando siano ispirate da sentimenti veramente cristiani e umanitari, che davvero bisogna essere compresi da venerazione per simili istituzioni. Da coloro che vogliono atteggiarsi a critici giudicando le cose solo da lontano e senza altro aiuto che il proprio criterio, ispirato spesso da falsi pregiudizii o da spirito di parte, sentii spesso chiedermi cosa mai possano fare di bene pochi individui che si sagrificano per andare battezzando dei selvaggi sia in Africa, sia in altre parti del mondo: per rispondere a questi e per difendere una causa che i fatti m’hanno persuaso essere santa, mi permetto una breve disertazione in proposito. Pur troppo ho visto qualche volta missionarii che si accontentano di appiccicare il titolo di cristiani a dei bambini ottusi, solo perchè bagnarono loro il fronte con dell’acqua benedetta, aggiungendovi la formola battesimale, oppure perchè credettero convertire degli individui col far loro luccicare avanti agli occhi qualche tallero, o collo spaventarli approfittando della loro ignoranza e mostrando loro degli ignobili dipinti che fanno vedere Maometto all’inferno fra le fiamme perchè mangiava un cristiano mattina e sera, oppure un leone che fra parecchi dormienti si avventa sul solo mussulmano che se ne sta fra cristiani; e schiettamente io pel primo ammetto che non si possono seriamente chiamare cristiane delle genti convertite con simili mezzi che mi permetto di chiamare immorali. Io crederei offendere Cristo presentandogli di tali fedeli, come sono convinto che con questo sistema nulla si può far di bene alla umanità, e si vilipende anzi la santità dello scopo. Apprezzo sempre l’abnegazione di chi si sagrifica per la causa di cui è convinto, ma prescindendo da questo merito tutt’affatto personale e presa invece a considerare la causa delle Missioni quando basano su tali principii, tenuto calcolo dei sacrificii, delle preziose esistenze, delle somme enormi che questa propaganda costa, e considerato il bene che ne deriva alla religione ed alla umanità, trovo che non regge il confronto coll’utilità che se ne potrebbe avere, usandone invece ad alleviare tante e tante miserie che pur sussistono fra noi.
Ma quando invece si prepara alla religione un fondamento di sviluppo intellettuale, si sveglia questa povera gente dal suo letargo di ignoranza, si fa loro vedere e toccar con mano di quanto bene possa esser fonte la civilità, si sviluppa l’industria e l’agricoltura, si aprono loro così la mente e gli occhi, e si migliora la loro condizione, si ottiene della gente che veramente ci ama e ci stima, ci crede, perchè ci vede capaci di un bene reale, e dietro questo si ispira ad amare e stimare chi ha ispirata in noi quella fede per la quale si abbandonò patria e famiglia per andare cercando il bene altrui, quel bene dal quale vedranno scaturire il loro nuovo benessere. Quando la propaganda si basa su tali principii, come fortunatamente si basi nel maggior numero dei casi, allora si prefigge ed ottiene uno scopo eminentemente utile e sacro, ed a questo proposito mi è caro poter ripetere qualche parola che pronunciava con me quel valente uomo che è M. Comboni, capo della Missione che risiede a Kartum e di lì distende i suoi raggi in un orizzonte quasi sconfinato. «Bisogna che noi conosciamo, mi diceva, l’anatomia dello spirito degli individui per prepararli al cristianesimo; abbiamo pressochè delle bestie che bisogna rendere uomini prima di farne dei cristiani, perchè la civiltà e la religione devono baciarsi in fronte ed essere sorelle alla scienza.»
Nobili massime queste, e si può aver piena persuasione del quanto siano vere e praticate, quando si videro i sagrificii ai quali questi martiri si espongono, la rassegnazione colla quale li sopportano, l’entusiasmo col quale sono sempre disposti ad affrontarne altri. Una prova la si può avere leggendo il libro da poco pubblicato, delle Memorie di padre Beltrame, che fu compagno al Comboni nell’avventurarsi in quelle vergini contrade colla fede per guida e la croce per difesa.
Il giorno 19 essendo domenica, assistemmo alla messa, che fu per vero dire soggetto di distrazione più che di divozione; era detta da convertiti Abissinesi che recitano le loro orazioni nella lingua madre, e vestono una lunga pellegrina come anticamente si usava nel servizio religioso; i chierici erano pure indigeni è vestiti di rosso; le candele anch’esse nere, perchè fatte con cera del paese non purificata. L’insieme era assai originale.
Tutti i giorni e spesso anche la notte, abbiamo accompagnamenti di canti e tamburi per qualche fantasia. Se ne fanno per nascite, per morti, per guarigioni, per matrimonii, per tutte le feste del loro calendario, e alle volte si continuano fin quindici giorni, per cui lascio immaginare che gazzarra continua. Padre Picard ci interessa sempre raccontandoci degli usi e costumi di queste popolazioni; per quanto il Governo egiziano cerchi far rispettare le leggi sue e far penetrare un po’ di civiltà a modo suo, e dal canto loro le Missioni tentino od almeno sperino dissipare certe superstizioni, pure la maggior parte delle istituzioni, se così si possono dire, di questi popoli, sono talmente inveterate dalla tradizione, che a ben poco riescono gli sforzi di questi due civilizzatori.
Ogni villaggio riconosce come suo capo supremo e giudice colui che per merito o meglio per anzianità fu chiamato a godere della fiducia di tutti i compaesani, fra i quali ancora vige una specie di sistema feudale, cioè i plebei riconoscono la superiorità dei patrizii ai quali devono parte dei redditi, ubbedienza, soccorso e difesa a pericolo della propria vita in caso di necessità. Ogni padre poi ha diritto di vita, di morte o di vendere quale schiavo, se può farlo in barba al Governo egiziano, sui proprii figli, finchè hanno raggiunto i 18 anni, in cui sortendo di minore età, diventano padroni di sè stessi e con questo cessa la superiorità e la responsabilità paterna. Lo spirito di vendetta vi regna fortissimo e tale che un’offesa viene qualche volta ripagata della stessa moneta dopo qualche generazione.
Nel caso di morte di un capo o di qualche persona influente o ricca, la famiglia, gli amici e alcune donne espressamente chia mate e pagate e delle quali la professione abituale è molto comune in paese e meglio tacere, si radunano nella casa del defunto e fingendo piangere e disperarsi decantano le virtù sue, lo glorificano come brava persona, guerriero invincibile, forte, prode, amato, distinto nel maneggio della lancia e della spada, ecc., e terminano sempre col rallegrarsi, perchè oltre questo era ricco, quindi in sua casa si troverà dell’idromele, della dura, dei talleri, molta roba d’ogni genere e quindi si mangerà, si beverà, si farà buon festino.
Dopo ciò si lava il corpo del morto con acqua, che si conserva in un gran vaso, e quindi si fa il trasporto alla sepoltura sempre seguiti da tutto il corteo; dopo circa un mese altra funzione solenne con canti, gridi, suoni, abbondanti libazioni e sagrificii di buoi e montoni; si investe allora il primogenito dell’eredità e dei diritti paterni, e per questo lo si lava da capo a piedi coll’acqua conservata dalla stessa operazione fatta al genitore morto. Trattandosi di uomini tenuti in gran conto, dove fu sepolto il padre, deve essere sepolto il figlio, per cui bisogna alle volte operarne il trasporto attraverso monti e valli.
I matrimoni si fanno innanzi testimonii, e meno la lavatura, presso a poco colla stessa cerimonia dei funerali.
Noi non avemmo ad assistere ad un banchetto funebre, ma fummo invitati un giorno ad un eccellente pranzo nella simpatica ed originale fattoria del cordiale signor Costant, poi pensammo alle provvigioni per il ritorno, e la cosa che ci fu più difficile procurarci, fu anche la più semplice e la più necessaria, il pane, perchè qui tutti usano farselo in casa propria. Dovemmo procurarci della farina che affidammo ad un greco, che il giorno dopo ce la restituì convertita in tante pagnotte.
La mattina del giorno 20 i nostri camelli ci stavano aspettando nel cortile, per cui fatti i convenevoli e i dovuti ringraziamenti coi nostri ospiti, ci avviammo alla casa di Costant, dove si unì a noi il signor Jules Nevière, uno dei due giovani francesi che vivono a Kalamet e che ora ritorna alla sua solitaria dimora dove ci invitò di far sosta. Ingrossata così la carovana, giriamo l’altura su cui è il forte, e scendiamo a raggiungere in pochi minuti il letto del torrente Ansaba, che ci sarà guida fino al passaggio della catena ove ha origine. Attraversiamo dapprima qualche terreno coltivato a dura e tabacco, poi per lunga pezza proseguiamo attraverso pascoli popolati da capre e da buoi. Durante le prime tre ore ricalchiamo le orme impresse nell’oscurità completa arrivando, ed ora siamo sorpresi dalla bellezza del paesaggio che attraversiamo. Alberi giganteschi, gruppi pittoreschi quanto mai, piante secolari dalla forma squarciata abbracciate ad altre di diverso verde e di diversa natura, fiori e frutti pendenti, liane che si arrampicano, scendono a terra a succhiarne gli umori, poi risalgono a bevere l’aria più pura e più fresca, enormi fusti troncati dal vento o dal fulmine, tronchi rovesciati che sbarrano il passaggio; cespugli d’ogni sorta, aloe, grassule, erbe e fiori che fanno un vero mosaico del suolo; e tutto questo animato dallo svolazzare di mille augeletti e dal fuggire al nostro avanzare d’ogni sorta di selvaggina. Tutti eravamo compresi dalla bellezza e dalla immensità di questa scena, e la carovana maestosamente procedeva di quel passo lento, ma imponente, che è proprio del camello. Ognuno di noi godeva, e quasi temeva recar guasto lasciandosi trasportare ad una esclamazione o comunicando al compagno le proprie impressioni, per cui regnava sovrano il silenzio, ciò che dava ancora miglior tinta al quadro. Respirando in mezzo a tutto questo, quelle aure africane, io gustavo la dolce voluttà di quell’oblio che fa confondere il sogno colla realtà, e dopo aver fantasticato che stavo sognando, che dalla mia camera la fantasia eccitata dal desiderio e dalla speranza, m’aveva portato in questo mondo di illusioni, doppiamente godevo rifacendomi da questa specie di letargo di pochi istanti e persuadendomi che tutto era proprio realtà, che stavo io in mezzo a questo splendido edificio del Creato.
Oltre i grossi boabab dai quali pendono numerosi frutti, vi sono grossissimi alberi che portano frutti simili a lunghe salsicce, assai originali, ed un bellissimo arrampicante di cui il frutto è una zucca a sporgenze acute, una vera bomba Orsini, che da verde passa colla maturanza al rosso e al giallognolo. Fra i molti uccelli sono curiosi due tipi, uno che al passaggio delle carovane le accompagna con un perfetto ridere sgangherato, un altro che potrebbe dirsi un compito suonatore di flauto, tanto le sue note sono sonore e distinte.
Fermatici all’ombra di un bel gruppo d’alberi per la colazione, proseguimmo poi a piedi per procurarci colla caccia il pranzo, e quando ci fermammo la sera, la nostra casseruola traboccava infatti di pernici e faraone. La notte fu fredda e tanto umida che ci trovammo la mattina come usciti da un bagno. Sforzando la marcia passiamo la montagna il giorno dopo, e per mezzogiorno siamo ospitati dal nostro compagno di viaggio e dal suo socio.
Kalamet è all’incrocicchio di parecchie vallate e nel fondo di queste, sulla via fra Keren e Massaua e ad un quarto di strada dalla prima alla seconda. Questi due cordiali esploratori delle industrie, dopo girati i paesi limitrofi, vennero qui a stabilirsi, dove non esisteva altro che la misera capanna dei soldati, guardie al telegrafo, vi chiamarono dei servi, e mentre facevano i tentativi per la loro speculazione, si occuparono di adattarvisi il meglio che potevano. Impossessatisi di un bel tratto di terreno, lo circondarono con tronchi spinosi per delinearne la proprietà ed incutere rispetto alle fiere, scavarono un pozzo, piantarono frutta, verdure, tabacco pel loro uso, costruirono capanne per loro, per la cucina, per ripostigli, insomma un vero accampamento che mostrava quanto può l’uomo industrioso spinto dalla necessità e dal buon volere anche con mezzi limitatissimi, e per noi riuscì assai interessante. Sgraziatamente da tre mesi si erano sviluppate le febbri, i servi spaventati disertarono, ed uno solo era rimasto fedele, quindi la mancanza materiale di braccia e di sorveglianza avevano lasciato libero il campo al disordine.
Le capanne riposano all’ombra di cespugli e di una gigantesca acacia a ombrello intrecciata da grosse liane; l’ammobigliamento è rozzo ed originale, perchè tutto creato da questi industriosi giovani con tronchi d’albero, avanzi di casse, e tutto quello che il loro talento inventivo e speculativo faceva tornar utile fra il poco che si trovavano d’attorno.
Dopo una refezione fummo guidati in una vicina valle, dove avemmo la fortuna di incontrarci con diversi gruppi di grosse antilopi dette agazen: sono enormi, e basti il dire che le loro corna nere, attorcigliate a spira, misurano spesso più di un metro d’altezza. Caccia minore si incontra piuttosto abbondante, e la notte si ha spesso il ruggito del leone.
Dopo il mezzogiorno del 22 ripartimmo, seguendo sempre il letto del torrente che avevamo risalito pochi giorni prima, e ci fermammo per la colazione del 23 ad Ain, laddove finisce la vera vallata e comincia il piano inclinato, e dove anche venendo ci fermammo alla stessa ora beati di incontrare dell’acqua corrente. Discendiamo poi fino a sera calpestando detriti granitici, fra acacie e qualche altra varietà di piante, più fresche e verdi dove è depressione di terreno; frequenti sono dei mucchi di terra giallastra dell’altezza e diametro di due e più metri, che non sono altro che ciclopiche abitazioni di migliaia di formiche che continuamente lavorano a rendere più grandi esternamente e più comodi internamente questi frutti della loro arte e delle loro fatiche.
Il 24 attraversiamo il deserto, e verso sera dense nubi e un primo acquazzone ci fanno avvertiti delle cattive intenzioni KALAMET del cielo. I camellieri volevano ad ogni costo fermarsi, ma avendo già sperimentato quanto sia sgradevole l’essere esposti alla pioggia senza tende per la notte, e sapendo d’altra parte che non poteva essere troppo lontana la stazione dei soldati, mi opposi assolutamente, dichiarando che non mi sarei fermato se non era raggiunta quest’ultima. Dopo un’ora circa la raggiungemmo infatti, e per buona fortuna nostra, chè non erano trascorsi dieci minuti che una pioggia dirotta cominciò e senza interruzione continuò tutta la notte. Bene o male eravamo riparati da un tetto di paglia, e tranne qualche goccia che filtrava ce la passammo discretamente, tanto più pensando alla nostra posizione, se ci fossimo fermati lungo la strada.
Il giorno 25 discendendo i diversi piani a scaglioni e passando per le alture che ci avevano ospitati la prima notte nell’andata, giungemmo verso mezzogiorno ad Omkullo dove ci rifocilammo per ripartire quasi subito, ed essere così verso le tre a Massaua.
Durante la nostra assenza aveva durato in queste regioni l’epoca della piogge, e straordinario fu il cambiamento che trovammo al ritorno, da Ain in avanti. Allora tutto era secco, sterile, desolante; ora invece le piogge vi banno portata una verdura che spira fresco e vita; il suolo non è più arido, ma quasi tutto coperto da uno smalto verde; quel che allora era irrigidito, ora è vivo, le acace hanno messe le nuove puntate, gli uccelli vi stanno saltando di ramo in ramo e vi costruiscono i loro nidi pendenti a forma di borsa, dei quali fin venti contai sulla stessa pianta; le lepri, le gazzelle, i dik-dik, le pernici sono stanate dai loro rifugi, e si incontrano frequentissimi; i pastori colle loro mandre sono ridiscesi dagli altipiani e vi stanno pascolando: insomma, completamente un altro paese, una natura risuscitata da vera morte a nuova vita, e questo nello spazio di circa due settimane. Ciò prova la fertilità del suolo e la mancanza assoluta d’acqua anche nel sottosuolo.
Al nostro ritorno in Massaua speravamo trovare tutto combinato è pronto per incamminarci verso l’Abissinia, ma invece niente di tutto questo, e la sola notizia portata da un negoziante proveniente da Adua, che le mule che vi avevamo spedite a comperare, sarebbero partite un paio di giorni dopo di lui. La stagione che avanzava, questa vita monotona, resa ancor più grave per noi dopo aver provato qualche giorno di carovana, l’abitudine ormai fatta alle chiacchiere di questi paesi, dove con tutta facilità i giorni diventano settimane ed anche mesi, e alle promesse di questa gente più che indolente, apata, ci indussero a fare i nostri passi presso il governatore per avere i mezzi necessarii onde metterci in cammino. Fummo molto contrariati dai diversi consigli per la scelta fra la via di Gura più breve, ma più faticosa e attraverso le tribù indipendenti dei Schohos che assai facilmente attaccano le carovane che si avventurano nei loro territori, e la via dell’Amassen, più lunga, ma più sicura e più comoda pel trasporto del bagaglio. La scelta cadde su questa seconda.
Si celebrava in quei giorni la festa per la circoncisione di un bambino d’un impiegato al divano, e fummo invitati ad intervenire una sera al divertimento.
Su una pubblica piazza, accanto all’abitazione, erano disposti quattro pali a rettangolo, e dei lampioncini pendevano a delle funi che li riunivano: alcuni angareb servivano per gli invitati, la massa del pubblico stava disposta in seconda linea; c’era tutta l’apparenza d’una compagnia di saltimbanchi ad una nostra fiera; fummo molto gentilmente ricevuti e serviti di caffè, liquori e sigarette.
Una ballerina venuta dall’Egitto, bassa avventuriera del paese, bambina di undici anni e che già da tre anni aveva abbracciata questa poco onorifica carriera, girava il circo affettando mosse voluttuose nel genere delle almee, facendo però prova più di forza e di costanza, che di abilità o di grazia, e fermandosi di tratto in tratto avanti qualche spettatore per dedicargli una speciale pantomima che le fruttava risate e applausi dal pubblico e qualche piastra dal prescelto. Quattro pifferi e un paio di tamburelli continuavano un baccano infernale; dietro una siepe di stuoie che limitava da un lato l’arena improvvisata e confinava colla casa dell’anfitrione, stava la moglie di questi colle sue amiche, spiando, come le nostre ballerine dal sipario, e fendendo di quando in quando le più alte regioni dell’atmosfera con acuti gridi e trilli. Negli intermezzi della protagonista entravano uomini vestiti a donna o seminudi, e rappresentavano scene di cui non è permessa la descrizione, e solo si può dire che invece di risa, in chi ha appena germe di educazione e di senso morale, destavano ribrezzo e indignazione. E tutto il pubblico, fra cui vecchi, donne e ragazze, assisteva e si compiaceva di queste scene che attestano la più schifosa depravazione. Questa gazzarra dura circa una settimana, principiando sul far della sera e continuando fino a mattina. È la preparazione al sagrificio, alla vigilia del quale, una massa di popolo portando candele, lampioncini, emblemi qualunque, e seguiti dalla solita musica, andò girando la città accompagnata dal padre e da un cavallo bianco elegantemente bardato, sul quale un giovanetto teneva e mostrava il povero bambino di circa due anni, che sbalordito e piangente si disponeva ad essere per l’indomani un mussulmano di fatto. Così si andò di porta in porta da tutti i conoscenti, gridando ai loro nomi, ed obbligandoli quasi a presentarsi e gettar dolci o meglio monete.