Vai al contenuto

Satire di Tito Petronio Arbitro/30

Da Wikisource.
Capitolo trentesimo - Continuazione

../29 ../31 IncludiIntestazione 15 marzo 2012 100% Da definire

Petronio Arbitro - Satire (I secolo)
Traduzione dal latino di Vincenzo Lancetti (1863)
Capitolo trentesimo - Continuazione
29 31
[p. 178 modifica]

CAPITOLO TRENTESIMO

___


continuazione.



Il dì seguente levatomi sano di corpo e di mente mi avviai al bosco de’ platani, ancorchè lo riguardassi come un luogo malaugurato e mi posi tra gli alberi ad aspettar Criside per accompagnarmi. Nè molto rimasi seduto ove fui l’altro giorno, ch’ella comparve insieme ad una vecchierella, cui dava mano. E poi che mi ebbe salutato, disse: E così, signor disdegnoso, cominciate voi dunque a riprender lena?

Così dicendo, la vecchia si trasse di seno un legaccio formato di fili a più colori, e me ne cinse il collo: poi impasticciando della polvere collo sputo ne prese sulla punta del dito di mezzo, e ad onta mia me ne segnò la fronte.

Fatta questa incantagione, mi disse che io sputassi tre volte, e mi buttassi tre volte in seno alcune pietruzze magiche, ch’ella teneva involte nello scarlatto, e appressando le mani cominciò a tentare la forza dei lombi miei. All’ordin suo tosto ubbidirono i nervi, e le mani empierono della vecchietta con istraordinaria gonfiezza; sicchè ella tutta festeggiante disse: guarda, [p. 179 modifica]guarda, Criside mìa, il bel lepre che io ho suscitato per altri.


Giova sperar sin che si resta in vita:
    Or tu, rozzo guardian dai nervi tesi
    Priapo, accorri, e favorevol sia.


Ciò fatto la vecchia mi riconsegnò a Criside, la quale era contentissima del tesoro riacquistato a Madonna, e perciò affrettandosi mi condusse rapidamente a lei, introducendomi in un leggiadrissimo ritiro, dove si vedeva quanto la natura produce di bello a vedersi.


    Le estive ombre spargea l’eccelso platano,
E il pin tonduto dalla cima tremula,
E il pieghevol cipresso, ed il già carico
Delle sue ghiande allòr. Tra quei volgeasi
5Spumoso fiumicel colla volubile
Onda che i sassolin traendo mormora.
Ben era il luogo atto all’amor; e il rustico
Usignuol quivi con l’urbana rondine
A’ bei virgulti e alle viole tenere
10Intorno svolazzando celebravano
Il villereccio suol col gentil fischio.


Ella sdraiata posava il collo alabastrino sopra un letto dorato, e scotea l’aria con alcuni ramoscelli di mirto fiorito.1 In vedermi arrossì alcun poco per la memoria dell’affronto di ieri, di poi quando partiti gli altri mi fui seduto presso lei che me ne invitò, un ramoscello pose sopra i miei occhi, e da questa specie di muro frapposto resa più ardita disse: ebben, paralitico, sei tu oggi venuto intero?

Tu me ne domandi, risposi io, anzichè cimentarmi? e tutto gittatomi nelle sue braccia colsi fino alla sazietà quanti baci ella volle. Le belle attrattive del suo [p. 180 modifica]corpo mi incitavano alla lussuria: già i labbri incontrantisi romoreggiavano pei tanti baci: già le mani intralciantisi inventavano mille maniere di amore: di già i corpi avvinti in reciproco nodo, produceano pure la coniunzione delle anime: ma in mezzo a sì eccellenti principj, chinandomisi repentinamente i nervi, non potei giugnere al piacer sommo.

Colpita Madonna da questo replicato insulto ricorse finalmente alla vendetta, e chiamati i famigli ordinò di pettinarmi a dovere. Nè soddisfatta costei di tanta ingiuria provocatami contro, radunò tutte le filatrici, e la più vil feccia di servì, dicendo loro che mi sputassero addosso. Mi feci della mano scudo agli occhi, nè alzai veruna preghiera, ben sapendomi quello ch’io meritava, e a forza di flagelli o di sputi fui cacciato fuor della porta. Proselenide è cacciata del paro, Criside bastonata e l’intera famiglia penando mormora tra se, e chiede chi abbia alterato l’allegria di Madonna.

Quanto a me curate le battiture, e ripreso coraggio, coprii cautamente le lividure, acciò Eumolpione di questa mia disgrazia non avesse a ridere nè Gitone ad affliggersi. Quello solamente che io senza vergogna potei simulare, fu di fingermi ammalato, e messomi nel letticciuolo, tutto il fuoco del furor mio rivolsi contro colui che tanti mali mi occasionò.


    Terribile coltello
Ben tre volte afferrai: tre volte poi
Languido più di giovine baccello,
Ebbi timor di quello,
5Che a me tremante mal servir potea
Nè ciò ch’io proponea
Eseguir più sapea,
Che per tema costui freddo venuto
Più del rigido ghiaccio,
10Tutto in grinze ristretto,

[p. 181 modifica]

S’era dentro le viscere perduto;
Quindi scoprirne appena
La testa non potei per dargli pena!
Ond’io deluso dal mortal deliquio
15Di quel pendol di forca incontro a lui
Scagliai motti, da cui
Quanto seppi maggiore
Gli avesse a derivar duolo e rancore.


Sostenendomi quindi sul gomito investii lo scellerato con questa specie di invettiva: Che puoi tu dire, o scorno degli uomini e degli Iddii? giacchè non meriti pure di avere un nome tra le cose esistenti. Questo ho io dunque meritato da te, che dal cielo ove io mi precipitassi all’inferno? che mi involassi i floridi anni del primiero vigore per opprimermi con la debolezza dell’estrema vecchiaia? Dammi dunque, per dio, un attestato della tua morte.2

Vibrate sdegnosamente queste parole,


    Fisso il nemico avea lo sguardo al suolo,
Nè a quel parlar più sollevava il volto
Di quel che faccia il salcio illanguidito,
O il piegato papavero cadente.


Ma io, finita questa sciocca sgridata, cominciai parimenti a pentirmi del mio parlare, ed a sentire una segreta vergogna per avere, in onta della mia modestia, rivolte le voci a quella parte del corpo, cui gli uomini più austeri non volgon pure il pensiero. Indi, lisciatami per qualche tempo la fronte, che ho io fatto di male, dicea, se ho voluto con uno sfogo naturale alleggerir la mia pena? Forse non abbiam costume di bestemmiare contra il corpo umano, quando il ventre, o la gola, o il capo ci dolgono, come accade spesso? Forse Ulisse non se la prese contro il suo cuore? E i tragici [p. 182 modifica]i proprii occhi puniscono, come se ascoltassero, i podagrosi maledicono i loro piedi, i chiragrosi le mani, i lippi gli occhi e coloro che si fan male ai diti, ogni volta che ne sentono il dolore, se la piglian co’ piedi.


    A che, o Catoni, con rugosa fronte
Mi sogguardate, condannando un tratto
Di non comun semplicità? Diletta
Certa avvenenza del parlar sincero,
5E ingenua lingua ciò che il popol opra
Narra fedele. Or chi di Vener mai
Gli annodamenti ed i piaceri ignora?
Chi vieta mai, che nel tepor di un letto
Si riscaldin le membra? E ciò prescrisse
10Il gran padre del ver dotto Epicuro,
Tal dicendo gli Iddii vita condurre.


Nulla è dunque più falso delle sciocche ostinazioni degli uomini, e nulla più sciocco di una bugiarda austerità.

Terminata questa declamazione, chiamai Gitone, e gli dissi: raccontami, o caro, ma con ischiettezza; in quella notte, che Ascilto mi ti rapì, stette egli desto sin che fu soddisfatto, o rimase pago di passarla vedova e pudica? Il fanciullo toccandosi gli occhi giurò chiarissimamente che Ascilto non gli usò forza veruna.

Note

  1. [p. 312 modifica]Il mirto era sacro a Venere.
  2. [p. 312 modifica]Apodixis defunctoria era precisamente ciò che noi diciamo Estratto mortuario. Vedi Svetonio nella vita di Nerone.