venerdì 11 aprile 2025

Baumgartner / Paul Auster

Baumgartner / Paul Auster; trad. di Cristiana Mennella. Torino: Einaudi, 2023.

Baumgartner è il primo romanzo di Paul Auster che leggo e l'occasione di farlo me la regala un'amica per il mio compleanno.

Un altro amico, appassionato di Auster, mi dice che a lui non è molto piaciuto ma che in fondo è un ottimo libro per conoscere lo scrittore americano perché in Baumgartner c'è proprio Auster che fa Auster. Io ovviamente non so bene cosa significhi ma mi immergo senza riserve nella lettura.

Posso dire che Baumgartner mi fa subito l'effetto di un libro della senilità, il che per me non è un difetto, visto che in questi ultimi anni sto riflettendo molto e per vari motivi sul non essere più giovani.

Il protagonista è un professore di una certa età che vive da solo dopo la morte della amatissima moglie Anna, una donna avventurosa e piena di vita che è stata travolta da un'onda alcuni anni prima.

A seguito di questo evento che ha tolto a Baumgartner per parecchio tempo la spinta vitale, il romanzo ci racconta da un lato l'elaborazione del lutto, dall'altro il suo ritorno alla vita e le riflessioni che l'accompagnano, anche attraverso lunghi flashback sul passato, stimolati - tra le altre cose - dalla lettura dei diari e degli scritti di Anna.

Quella di Baumgartner è una riflessione laica sull'esistenza, che non prevede seconde possibilità o vite future, ma che crede invece in una forma spirituale di connessione con chi si è amato e non c'è più attraverso il ricordo, che è l'unica cosa che tiene ancora in vita prima che anche la memoria di noi scompaia.

Baumgartner è stato definito un testamento spirituale dello scrittore (morto nel 2024), ma - come altri hanno fatto notare - nonostante la tristezza che inevitabilmente accompagna i pensieri della parte finale della vita, questo libro è anche pieno di una sottile ironia e di una forza vitale che conferisce senso all'esistenza per tutto il tempo che ci è dato di vivere.

La scrittura di Auster mi riporta inevitabilmente ad alcuni stilemi e forme tipiche del romanzo americano (a me ha fatto tornare alla mente alcune cose di Franzen), e questo stile narrativo non risuona perfettamente con il mio modo di sentire. Nel senso che, pur ritrovandomi in diversi passaggi ed essendone catturata, so già che il libro non si imprimerà - o almeno non consciamente - nella mia memoria emotiva e nel giro di poco tempo ne avrò un ricordo alquanto sfocato.

Voto: 3/5

mercoledì 9 aprile 2025

L’inferiorità mentale della donna / con Veronica Pivetti. Teatro Quirino, 8 marzo 2025

Quale spettacolo migliore da andare a vedere nella giornata internazionale della donna che L'inferiorità mentale della donna, portato in scena da Veronica Pivetti?

Lo spettacolo, per la regia di Gra & Mramor, è liberamente ispirato all'omonimo trattato di Paul Julius Moebius scritto nel 1900. A partire da questo testo Giovanna Gra propone un percorso attraverso il pensiero reazionario applicato al rapporto uomo/donna.

La narratrice e madrina di questo percorso è una Veronica Pivetti in versione steampunk primo novecentesca, affiancata da Anselmo Luisi, straordinaria spalla non solo sul piano musicale, ma anche su quello interpretativo.

L'analisi del testo di Moebius si alterna all'esecuzione, da parte della stessa Pivetti, di una serie di canzoni della scena internazionale e soprattutto italiana che hanno proprio la donna e il rapporto con l'uomo al centro del testo.

L'approccio è ironico: la narratrice, nell'aderire a questi testi, ne fa emergere la "naturale" assurdità per poi svelare e dichiarare la propria posizione nell'ultima parte dello spettacolo quando la Pivetti dismette gli abiti primo-novecenteschi.

Oltre al fatto che non ho trovato lo spettacolo né particolarmente originale né appassionante, mi sono chiesta per la sua intera durata a chi si rivolgesse, perché per chi queste cose le sa e già ne è convinto lo spettacolo non sposta una virgola, mentre temo che chi non la pensa così possa esserne solo indispettito.

In generale non amo molto queste scelte didascaliche che mi sembra servano solo a rassicurarci e a toglierci di dosso il peso della complessità e delle sfumature.

Del resto uno spettacolo simile si potrebbe scrivere anche per molte altre forme di razzismo, diverse da quello di genere; per fare qualche esempio i neri rispetto ai bianchi, ma anche altre categorie etniche, culturali, sociali o di altro tipo che nei secoli hanno subito varie forme di persecuzione e la cui inferiorità spesso la scienza ha contribuito ad accertare e dichiarare con metodi ovviamente discutibili.

Non voglio fare del facile benaltrismo, ma quello che voglio dire è che non sono sicura che questo tipo di cose aiutino la causa femminile e femminista, o almeno non sono sicura che spostino davvero qualcosa nell’opinione pubblica. O forse mi sbaglio, e alla fine tutto serve, non solo le vere guerre politiche sul fronte dei diritti.

Sta di fatto che a me lo spettacolo ha detto poco, e ne sono uscita alquanto delusa, sebbene devo dire che molte persone sedute intorno a me sembravano entusiaste (stessa situazione in cui mi sono trovata al termine della visione di C’è ancora domani).

Voto: 2,5/5

lunedì 7 aprile 2025

Mickey 17

Di Bong Joon-ho finora ho seguito soprattutto la produzione più strettamente coreana, da Mother a Memorie di un assassino fino all’acclamatissimo Parasite, che anche io ho amato molto.

Tramite questi film ho imparato a comprendere lo stile del regista sudcoreano e le sue peculiarità, e - nonostante alcuni aspetti che la distanza culturale mi rende non pienamente intellegibili - ho imparato ad apprezzarne poetica e narrazione.

Non ho visto invece Snowpiercer, film fantascientifico e post-apocalittico ispirato a un graphic novel francese, che, pur riprendendo alcuni elementi chiave della poetica di Bong Joon-ho, come ad esempio la lotta tra ricchi e poveri, era certamente molto più vicino a un immaginario e una narrazione occidentali, e prevalentemente occidentale era anche il cast.

Credo dunque che questo ultimo film, Mickey 17 (a sua volta una sceneggiatura non originale, tratta dal romanzo Mickey7 di Edward Ashton del 2022, e che - come mi fa notare mio nipote P. - ricorda molto il film del 2009 Moon con Sam Rockwell) si inserisca in una ideale linea di continuità proprio con quel film del 2013 (con cui condivide la produzione statunitense, che in questo caso sostituisce e non si affianca a quella sudcoreana).

Anche qui ci muoviamo nel territorio della fantascienza e in un ambito narrativo distopico.

Siamo in un futuro non proprio lontanissimo in cui la terra è diventata in parte invivibile e un ricchissimo politico che è rimasto escluso alle ultime elezioni, Kenneth Marshall (Mark Ruffalo), insieme alla moglie Ylfa (Toni Collette), guida una missione spaziale diretta verso un pianeta che vuole popolare di esseri umani.

Essendo debitore – insieme all’amico Timo - di un boss che gli ha giurato vendetta, Mickey Barnes (Robert Pattinson) si iscrive a questa missione come expendable (sacrificabile). In pratica, Mickey sarà utilizzato come cavia tutte le volte che ci sarà qualcosa da sperimentare di potenzialmente letale, e dopo la morte sarà ristampato da un’apposita macchina e nel suo cervello saranno riversato tutto il contenuto del Mickey morto.

Dall’inizio della missione Mickey è alla sua versione 17, ed è proprio lui che conosciamo all’inizio del film. È qui che, per una serie di coincidenze fortuite, il meccanismo si inceppa producendo una serie di conseguenze più o meno imprevedibili.

Personalmente, ho trovato compatta e di grande impatto la prima parte del film, quella che parte dal momento in cui Mickey 17 sta per morire e che racconta in un lungo flashback come si è arrivati fin lì.

Da questo momento in avanti, che poi è la parte centrale del film, ho avuto la sensazione che la narrazione si andasse sfilacciando e che il film procedesse per accumulazione, rischiando nel complesso di girare un po’ a vuoto.

Attenzione: Bong Joon-ho è un signor regista e questo è fuori discussione, però, man mano che si procede nella visione, l’oscillazione tra il puro divertissement (un film fantascientifico distopico senza particolari intenti) e il film impegnato politicamente e socialmente si fa sempre più incerta, e nel racconto si vanno accumulando elementi che spesso restano un po’ superficiali per risultare davvero incisivi.

Devo anche ammettere che il mix di generi che è tipico del registo sudcoreano – che nella stessa scena è in grado di virare dal drammatico al grottesco – in questo film risulta a mio avviso meno riuscito, o forse quello stile grottesco che in un film di impianto e ambientazione sudcoreana non appare stonato, ma perfettamente coerente con tutto il resto, una volta trasportato in un universo narrativo a noi più familiare facilmente si muta in ridicolo e perde parte della sua potenza emotiva.

Pattinson è bravo nel suo personaggio e nelle sue diverse varianti; Ruffalo e Collette mi pare che ormai ripropongano in film diversi lo stesso personaggio, risultando quindi meno incisivi col passare del tempo.

Detto ciò, il film risulta inquietante per quanto assomiglia alla realtà che stiamo vivendo e a quella che si prefigura nel nostro futuro. E nonostante il finale pieno di speranza, non si esce dal cinema a cuor leggero.

Voto: 3/5


mercoledì 2 aprile 2025

A real pain

L’opera seconda da regista di Jesse Eisenberg era stata presentata all’ultima festa del cinema di Roma, ma a suo tempo l’avevo persa. Nel frattempo non solo il film è arrivato in sala, ma Kieran Culkin ha vinto il premio Oscar come miglior attore non protagonista, quindi l’aspettativa verso il film è cresciuta ulteriormente.

A real pain (espressione che in inglese può avere un significato letterale, quello appunto di un dolore reale, ma può anche essere usata per fare riferimento a un rompiscatole) racconta di due cugini di origini ebraica, David (lo stesso Jesse Eisenberg) e Benji (Kieran Culkin), che, dopo la morte dell’amata nonna Dory, fanno insieme un viaggio in Polonia per andare in visita alla casa dove la donna è vissuta prima di emigrare in America per sfuggire alla persecuzione nazista. I due giovani, molti legati nell’infanzia pur essendo molto diversi, si sono un po’ persi di vista perché le loro vite hanno preso direzioni differenti. David è introverso, complessato e ossessivo, Benji è estroverso, empatico, diretto ed esuberante, ma anche decisamente rompiscatole. In Polonia i due condividono questo tour dell’Olocausto con altre persone che per qualche motivo sono particolarmente sensibili al tema o hanno vicende familiari che li collegano alla storia degli ebrei.

Il film di Eisenberg si sviluppa dunque su una doppia dimensione: quella personale che passa attraverso il rapporto tra David e Benji, e quella collettiva che mette loro, gli altri partecipanti al tour e noi spettatori di fronte non solo alla vicenda dell’Olocausto ma anche al modo in cui quella memoria viene gestita e vissuta oggi. In sostanza, Eisenberg si muove continuamente tra il piano del dolore collettivo e quella del dolore individuale, offrendo allo spettatore la libertà di coglierne i rimandi ma anche di leggerli secondo la propria sensibilità.

La maggior parte delle recensioni che ho letto mi sembra si concentrino sul contesto, ricordando che Eisenberg aveva già esplorato il rapporto con le sue origini ebraiche in uno spettacolo teatrale.

Certamente questa dimensione è importante, e non è un caso che tra i pochi momenti in cui la musica di Chopin - onnipresente in questo film - si ferma lasciando il posto al silenzio è durante la visita alle camere a gas, ai forni crematori e alle stanze con le migliaia di scarpe degli ebrei uccisi.

Però, per quanto mi riguarda – forse anche per effetto della sovraesposizione a questo tipo di narrazioni – l’aspetto che mi ha colpito di più e mi è entrato di più sottopelle è quello del rapporto tra i due protagonisti, e solo di riflesso quello con gli altri componenti del gruppo che partecipa al tour (che secondo me restano sullo sfondo).

Con un linguaggio e una cifra emotiva che oscillano tra scanzonato e leggero, ma anche sopra le righe, spiazzante, e infine in alcuni casi drammatico, Eisenberg ci racconta il rapporto tra un David che, pur essendo una persona ansiosa e con qualche difficoltà nel rapporto con gli altri, ha trovato un suo posto nel mondo (ha un lavoro, una moglie e un figlio che ama), e un Benji che, pur essendo naturalmente empatico, estroverso, capace di affascinare gli interlocutori, vive un tormento interiore, un senso di solitudine, di mancanza di affetto, di angoscia che lo hanno lasciato al palo.

Personalmente ho empatizzato moltissimo con David, in cui mi sono riconosciuta sia nel suo essere ansioso e nervoso sia nel suo essere razionale sia nel suo tentativo di essere assennato e rispettoso verso gli altri, e ho trovato abbastanza insopportabile Benji. A distanza di 24 ore dalla visione del film ho capito quanto questo rapporto abbia toccato alcune mie corde sensibili. Il rapporto e lo stato d’animo di David verso Benji mi ha ricordato il mio verso alcune persone a cui sono molto legata e a cui voglio bene, ma rispetto alle quali nel tempo ho avuto sentimenti e atteggiamenti contraddittori: io che vengo da un passato di persona fortemente introversa e socialmente inabile, ho sempre sentito – soprattutto durante l’adolescenza e la giovinezza - una specie di ammirazione e quasi di invidia, a volte di astio, nei confronti di persone in grado di trovarsi bene rapidamente e in qualunque compagnia, ammaliando gli interlocutori e facendosi accettare anche nei loro aspetti più insopportabili, mentre io per quanti sforzi facessi sembravo trasparente agli occhi degli altri. Ora che ho oltre 50 anni e mi guardo indietro, mi rendo conto di quanto sono stata fortunata a riuscire a fare i conti con la me stessa di allora e a costruirmi una vita professionale e affettiva che con tutti i suoi limiti mi corrisponde, mentre persone che mi sembravano molto meglio attrezzate di me si sono aggrovigliate nei loro buchi interiori e non si sono più liberate di tormenti e dolori apparentemente invisibili, ma assolutamente reali.

E così ho capito perché Benji mi suscitava una naturale repulsione, ma subito dopo ne ho anche sentito in profondità il dramma, racchiuso magnificamente nell’ultima scena del film.

Voto: 3,5/5


lunedì 31 marzo 2025

Le cinque rose di Jennifer / di Annibale Ruccello; regia di Geppy Gleijeses. Teatro India, 5 marzo 2025

A distanza di poco meno di due anni da quando avevo potuto vedere per la prima volta a teatro Le cinque rose di Jennifer di Annibale Ruccello, messo in scena al Teatro Vascello da Gabriele Russo e interpretato da Daniele Russo, ho la possibilità di assistere a una seconda messa in scena al Teatro India.

In questo caso la regia è di Geppy Gleijeses, che ne è anche interprete insieme al figlio Lorenzo Gleijeses che interpreta il ruolo minore ma cruciale della vicina di casa Anna.

In generale, pur nella fedeltà di entrambi gli spettacoli al potentissimo testo di Ruccello, mi sembra che la messa in scena di Gleijeses sia più tradizionale, sia sul piano della scenografia che su quello drammaturgico.

Se lo spettacolo di Russo giocava sullo sdoppiamento della protagonista con la figura “esplicita” in primo piano e quella fatta di pensieri consci e inconsci in secondo piano, e utilizzava anche la colonna sonora sia sul piano diegetico che extradiegetico, nello spettacolo di Gleijeses tutto è più lineare, ma non per questo meno efficace.

La Jennifer di Geppy Gleijeses viene in un certo senso normalizzata: una donna che cucina, si trucca, ascolta la radio, risponde al telefono e attende prima la telefonata e poi l’arrivo del suo uomo, Franco, e che oltre a questo presente ha anche un passato di matrimonio e figli da raccontare.

Dietro questa presunta normalità niente è però quello che sembra: Jennifer è un travestito e vive in un quartiere di Napoli abitato da travestiti, dove le linee telefoniche funzionano male e la radio continua a dare notizia di omicidi degli abitanti ad opera di un fantomatico serial killer; Franco è un uomo conosciuto una sera in discoteca, diversi mesi prima, che aveva detto che si sarebbe fatto risentire ma non ha mai chiamato; il passato raccontato da Jennifer evidentemente è un’invenzione e chissà da quale storia personale la protagonista arriva realmente.

Quella che comincia come una commedia leggera e grottesca, a tratti esilarante, si fa sempre più malinconica, dolente e infine tragica, man mano che la verità si rivela e la solitudine della protagonista esplode in direzioni inattese.

La Jennifer di Geppy Gleijeses è a sua volta estremamente naturalistica nel rappresentare una veracità da basso napoletano, ma risulta altrettanto efficace nella virata dolente e tragica, comunicando attraverso viso e corpo quel senso di frustrazione, sconfitta, assenza di prospettive che il suo personaggio – come molti altri personaggi di Ruccello – riassume in sé.

Il lungo applauso finale di un pubblico davvero numeroso conferma il successo di questa messa in scena nonché ancora una volta – se ce ne fosse stato bisogno – la grandezza intramontabile dei testi di Ruccello.

Ed è a lui “che ci guarda da lassù” che – a mio modo di vedere – Gleijeses rivolge lo sguardo e il gesto delle mani al termine dello spettacolo mentre si prende i meritati applausi, perché il teatro napoletano di oggi, che affonda le radici proprio in quegli anni, ha un grosso debito nei confronti di questo ragazzo dal grande talento, ma dal destino tragico come i suoi personaggi.

Voto: 3,5/5

venerdì 28 marzo 2025

Black dog

Siamo in Cina, a Chixia, una città alle estreme propaggini del deserto del Gobi. È il 2008. La Cina si prepara alla grande cerimonia di inaugurazione delle Olimpiadi di Pechino, occasione per dimostrare la grandezza del dragone al mondo intero.

Lang Yonghui (Eddie Peng) sta tornando con un pulmino verso la sua città dopo aver trascorso diversi anni in prigione, accusato - come scopriremo dopo - dell'omicidio colposo del nipote del macellaio Hu. Prima di finire in prigione Lang era una celebrità come cantante e per le sue acrobazie con la moto, ma al suo rientro a Chixia tutto è cambiato.

Suo padre, che gestisce lo zoo della città dove ormai sono rimasti pochissimi animali, è un alcolista con grossi problemi di salute.

La città è in uno stato di semiabbandono ed è invasa da cani randagi, mentre vengono annunciati interventi del governo volti ad abbattere gli edifici vecchi per costruire quartieri più moderni e funzionali.

Perseguitato dal macellaio Hu che vuole vendicare il nipote, Lang accetta di far parte della squadra di accalappiacani al soldo di un boss locale, zio Yao. È così che incontra il cane nero a cui tutti danno la caccia e che si pensa sia rabbioso.

Lang e il cane diventano inseparabili, accomunati nel tentativo di sopravvivere a un mondo in rovina.

Il film di Guan Hu è un oggetto cinematografico difficile da classificare. Un po' film post-apocalittico, un po' western, un po' slapstick, un po' disneyano nel rapporto uomo-animale, un po' surreale e fiabesco.

La storia di Lang, un protagonista che sembra quasi muto viste le pochissime parole che pronuncia, e il suo rapporto con il cane sono quasi un pretesto - capace però di conferire densità emotiva - per raccontare una realtà lontana dai riflettori, un'area remota e marginale della Cina dove la ruralità e l'arretratezza sociale e culturale si mescolano con i segni di una urbanizzazione e industrializzazione forzata e dissonante, producendo un effetto straniante che il regista amplifica con le sue scelte, in termini di sguardo e narrazione.

In sottofondo costante il rapporto tra uomo e natura, che in un contesto estremo e remoto come questo appare sempre in equilibrio incerto, con una natura che è sempre pronta a riprendere il sopravvento e l'essere umano che cerca di sottometterla ai suoi obiettivi.

Black dog ha vinto il premio Un certain regard a Cannes, ed è certamente un film solo apparentemente semplice, ma che invece si presta a molteplici letture e interpretazioni, oltre a portarci con sé in un mondo per noi sconosciuto riuscendo in qualche modo ad avvicinarcelo emotivamente. Che è poi la forza del cinema.

Voto: 3,5/5


mercoledì 26 marzo 2025

Follemente

Non era nei miei programmi cinematografici ma chiamata a raccolta da I. decido di dedicare una domenica sera al film di Paolo Genovese, di cui avevo apprezzato a suo tempo Perfetti sconosciuti (diventato poi un successo mondiale) e non mi era dispiaciuto, pur con qualche riserva, The place.

Questa volta Genovese, autore del soggetto e coautore della sceneggiatura insieme a Isabella Aguilar, Lucia Calamaro, Paolo Costella e Flaminia Gressi, di ispira a Inside out, il cartone della Pixar, per raccontare quello che accade nella testa di un uomo e una donna, Piero (Edoardo Leo) e Lara (Pilar Fogliati), a un primo appuntamento.

A differenza che in Inside out, qui i soggetti che abitano le menti dei due protagonisti non sono le loro emozioni, ma le loro differenti personalità, quella romantica, quella razionale, quella folle, quella istintiva.

Le personalità di Piero sono incarnate da Maurizio Lastrico, Marco Giallini, Rocco Papaleo e Claudio Santamaria, quelle di Lara invece sono rappresentate da Vittoria Puccini, Claudia Pandolfi, Maria Chiara Giannetta e Emanuela Fanelli.

L’intero film ha un impianto fortemente teatrale (e non ho dubbi che diventerà anche uno spettacolo per il teatro, visto lo straordinario successo che il film sta avendo): tutto avviene nella casa di Lara, mentre le diverse personalità di ciascuno stanno gli uomini in una stanza e le donne in un’altra.

Il film ha una sceneggiatura brillante e credibile, oltre che godibile e a tratti decisamente divertente, ed è ben interpretato da tutti gli attori; il tema indagato è quello della relazione tra uomini e donne che da un lato ha dei tratti universali e perduranti, dall’altro fa i conti con i cambiamenti sociali e l’evoluzione del concetto di maschile e femminile, con tutto quello che comporta.

Per tutti questi motivi il pubblico, di qualunque età e di qualunque condizione sociale, non farà fatica a immedesimarsi e a riconoscere pensieri e situazioni con cui si è confrontato almeno una volta nella vita, direttamente o indirettamente.

Alcune trovate sono davvero riuscite ed esilaranti, come la rappresentazione dell’orgasmo di lei attraverso l’esecuzione da parte di tutte le personalità in coro, maschili e femminili, di Somebody to love dei Queen. Meno mi ha convinto il momento dell’incontro, verso la fine, tra tutte le personalità, quando invadono la casa di Lara e si confrontano direttamente e non attraverso i due protagonisti.

Nel complesso, un film piacevole per una serata di relax e senza troppi pensieri, una commedia italiana che sa mantenersi perfettamente in equilibrio tra leggerezza e intelligenza, ma certamente non un film che farà la storia del cinema italiano.

Voto: 3/5


lunedì 24 marzo 2025

Diciannove

Siamo nel 2015. Leonardo (Manfredi Marini) ha 19 anni e parte da Palermo per fare l'università a Londra dove vive già sua sorella. Il periodo londinese è però molto breve, perché Leonardo vuole studiare letteratura e non business, e dunque decide di trasferirsi all'università di Siena. Qui Leonardo trascorre questo anno non facile della sua vita, tra grandi passioni letterarie, grande isolamento sociale, e altrettanto grande confusione sessuale.

Il dialogo finale - alquanto surreale - con un conoscente in una grande casa torinese piena di arte contemporanea è il momento per mettere a fuoco il percorso fatto e guardare avanti con più fiducia.

Vedo questa opera prima di Giovanni Tortorici - per sua stessa ammissione un'opera autobiografica e del resto i conti tornano - in un cinema Troisi gremito di gente, in particolare giovani che hanno più o meno l'età del protagonista del film.

Al termine della proiezione, il regista, l'attore protagonista e il produttore Luca Guadagnino sono a disposizione del pubblico per un Q&A in cui emerge che questo racconto, molto personale e che non vuole in nessun modo essere generazionale, risuona invece con i sentimenti e le emozioni di molti che hanno quella età o che se la ricordano.

Più che generazionale in effetti il film di Tortorici rappresenta molto bene un'età della vita che per molti è un momento di transizione molto delicato, quello nel quale abbiamo la libertà di decidere finalmente in quale direzione andare ma ancora non abbiamo la maturità e la consapevolezza per farlo, condizionati dalla lunga fase della vita che ci ha visti dipendere completamente dai nostri genitori.

Nel modo di essere un po' estremo di Leonardo e in alcuni comportamenti propriamente suoi è difficile non riconoscere - fatte le dovute differenze - alcune modalità che sono appartenute anche a noi a quell'età. Forse non eravamo appassionati di letteratura trecentesca e collezionisti di libri, forse non ci ubriacavamo per non dover fare i conti con la nostra identità sessuale ecc. ecc., però probabilmente eravamo massimalisti, insicuri, scontenti e al contempo appassionati come lui.

E Manfredi Marini riesce benissimo a trasmetterci tutte queste sensazioni contraddittorie, rafforzate da uno stile cinematografico molto originale, che mescola al racconto elementi onirici e utilizza anche l'elemento disegnato e animato. Anche l'uso della cinepresa è molto ardito con punti di ripresa vari e inaspettati.

Un esordio che, pur mostrando qualche elemento di naiveté (che secondo me fa molto parte della personalità del regista a quanto si può intuire dall'intervista), risulta decisamente diverso dalla cifra stilistica di certi esordi cinematografici italiani e per questo colpisce.

Dopo questo primo lavoro di scavo interiore nel proprio sé del passato, attendiamo a questo punto Tortorici alla seconda prova cinematografica e personalmente sono molto curiosa di sapere della direzione che prenderà il suo cinema.

Voto: 3,5/5 (voto sulla fiducia futura!)


sabato 22 marzo 2025

Come sabbia tra le dita / Matsumoto Seichō

Come sabbia tra le dita / Matsumoto Seichō. Milano: Mondadori, 2018.

In una visita pre-estiva da Feltrinelli per fare il pieno per le vacanze estive (ormai un ricordo lontano) scopro questo titolo di Matsumoto Seichō che non conoscevo. E quindi lo compro insieme all'ultimo libro pubblicato da Adelphi che era il mio obiettivo iniziale.

L'estate per me i gialli sono una componente essenziale del relax.

Lo leggo durante il viaggio in treno verso la Puglia e la mia permanenza a casa di mio padre.

Con Matsumoto Seichō si va sempre piuttosto sul sicuro anche se ovviamente non tutti i libri sono allo stesso livello.

Qui ci troviamo di fronte a un poliziesco classico in quanto l'ispettore Imaneshi di Tokyo è chiamato a scoprire l'assassino di un uomo il cui corpo è stato trovato sui binari. L'indagine è lunga e faticosa e si intreccia con le vicende di un gruppo di intellettuali di avanguardia che nel Giappone degli anni Sessanta sta attirando molte attenzioni. Man mano che le indagini vanno avanti, al primo omicidio seguono altre morti sospette apparentemente naturali che l'ispettore ritiene siano tutte collegate all'omicidio iniziale.

Non andrò oltre perché con i gialli è vietato farlo.

In merito invece alle mie impressioni posso dire che, rispetto ad altri libri di Seichō, pur apprezzando sempre il racconto che lo scrittore fa del Giappone di quegli anni e, in particolare, in questo caso, delle ferite lasciate dalla guerra e dai bombardamenti, ho trovato la storia meno appassionante e soprattutto meno approfondita sul piano psicologico per quanto riguarda sia gli investigatori sia le vittime sia l'assassino.

Resta un giallo piacevole e di facile lettura, ma temo che mi rimarrà meno impresso di altri suoi romanzi.

Voto: 3/5

venerdì 21 marzo 2025

Il tempo del futurismo. Galleria Nazionale di arte moderna e contemporanea, 23 febbraio 2025

E così sono riuscita ad andare a vedere anche la mostra su cui ci sono state più polemiche – di natura squisitamente politica – negli ultimi tempi, e ho potuto fare la visita con Vincenzo Spina di Rome Guides, che è ormai diventato il mio assoluto punto di riferimento per le visite guidate.

Vincenzo ci dice che questa mostra, che nei primi tempi è stata piuttosto disertata forse proprio per effetto delle polemiche succitate, proprio nelle ultime settimane di apertura si è enormemente popolata, probabilmente grazie allo sgonfiarsi delle polemiche e al passaparola. Del resto è notizia di qualche settimana fa che la mostra è stata prorogata fino al 27 aprile.

Al netto di tutto il dibattito, che personalmente mi interessa poco, si tratta di un imponente allestimento che occupa ben 24 sale (in pratica la quasi totalità della Galleria Nazionale), e che si propone di guardare al futurismo da molteplici punti di vista (principalmente attraverso le opere pittoriche, ma anche – secondariamente – attraverso la produzione di libri, opuscoli e manifesti, nonché in misura ancora inferiore attraverso la scultura, l’architettura, il cinema). Non mancano, a riempire le sale, automobili, motociclette, la copia di un aeroplano di quegli anni, ma anche oggetti, mobili, arazzi e molto altro.

Che dire? Credo che se ci fossi andata da sola o comunque con una guida meno in gamba di Vincenzo la mostra sarebbe risultata dispersiva, una carrellata giocata sui grandi numeri e sulla quantità di cose in esposizione, ma in cui sarebbe stato difficile costruire un percorso, e dunque destinata a essere dimenticata in men che non si dica.

Grazie al fatto di avere una guida come lui non ho nemmeno prestato troppa attenzione all’apparato illustrativo ed esplicativo della mostra, e dunque non sono in grado di dire se fosse adeguato a spiegare le cose e a consentire ai visitatori di farsi un’idea del contesto e dei contenuti del futurismo.

Lo stesso Vincenzo salta alcune sale che considera meno significative e forse anche meno appropriate, ed esprime qualche critica ad alcune scelte di allestimento.

Ciò detto, io ho potuto ripercorrere, grazie alle sue spiegazioni, la storia del futurismo attraverso i suoi principali protagonisti, Filippo Tommaso Marinetti, Giacomo Balla, Umberto Boccioni, e più avanti Fortunato Depero e Gerardo Dottori, e ho potuto apprezzare ancora una volta – qualora ce ne fosse stato bisogno – che non c’è niente di più libero dell’arte, che a volte può incontrare le ideologie ma che difficilmente riesce a rimanere nei confini che i compromessi e gli opportunismi della politica richiedono. Anche perché l’arte e gli artisti evolvono, scompaginando le carte e mettendo in discussione anche le alleanze politiche apparentemente più solide.

E dunque basta parlare di appropriazione culturale, perché la verità è che l’arte e la cultura appartengono alla storia dell’umanità, in quanto - pur nascendo dentro una temperie storica e politica - sono poi in grado di trascenderla e di diventare patrimonio condiviso, spazio comune e non divisivo.

Almeno sulla storia culturale cerchiamo di sottrarci alla polarizzazione (e anche per questo non darò un voto a questa mostra).

mercoledì 19 marzo 2025

Setak (+ Marco Scipione). Monk, 22 febbraio 2025

Setak, nome d’arte di Nicola Pomponi, era per me un emerito sconosciuto fino a qualche mese fa, quando nell’opening del concerto di Fink l’ho sentito cantare le sue canzoni e suonarle insieme al suo chitarrista Alessandro Chimenti.

Dopo quel giorno ho comprato un paio di album di Setak e l’ultimo, Assamanù, l’ho decisamente consumato nell’ascolto. Cosicché vedendolo nel cartellone del Monk e questa volta non ad aprire un altro artista ma con un concerto tutto suo, e per di più nel mio ormai orario preferito dei concerti, ossia alle 19, non mi sono fatta sfuggire l’occasione di tornare ad ascoltarlo dal vivo.

Trascino al concerto – non con qualche titubanza perché con la musica è difficilissimo indovinare i gusti degli altri – un’amica e altri suoi amici, che sono già al bar a bere una birra quando io arrivo intorno alle 18,30. Mentre loro mangiano un boccone, io mi fiondo in sala per prendere posizione, come al solito in prima fila, in modo da poter fare le mie amate foto.

Dopo pochissimi secondi e quando in sala c’è ancora pochissima gente, inizia a suonare Marco Scipione, un sassofonista per me ignoto, che all’inizio suona uno strumento che è una via di mezzo tra un sassofono e un basso tuba (ammetto la mia ignoranza!) e con cui ci suona una musica che sembra arrivare direttamente dalla savana e richiamare i versi dei grandi animali selvatici. Passa poi al sassofono vero e proprio con cui esegue – arricchendoli con l’uso di una pedaliera - una serie di brani strumentali che sarebbero perfetti come colonna sonora di un film e che trovo molto suggestivi.

Dopo un brevissimo cambio di palco, ecco arrivare Setak in formazione full band: con lui ci sono alle tastiere il fratello Nazareno Pomponi, al basso Fabrizio Cesare, alla batteria (e non solo) Emanuele Colandrea e alle chitarre il già noto per me Alessandro Chimenti.

Sono davvero curiosa di ascoltare questa volta Setak non in versione semiacustica, ma con questi arrangiamenti importanti e ricchi.

Il concerto si apre con la canzone che dà il titolo all’ultimo album, Assamanù, e poi si sviluppa spaziando attraverso i suoi lavori che – per chi non lo sapesse – a parte pochissime eccezioni sono tutti scritti e cantati in dialetto abruzzese.

Ascoltiamo così canzoni come Di chi ‘ssi lu fije?, Quanda sj 'fforte, Cumbà, Curre curre, Aspitte aspitte. A un certo punto del live, Setak invita sul palco un ospite, l’amico Bob Angelini, che si unisce alla band suonando la steel guitar e aggiungendo ulteriore fascino all’esecuzione delle canzoni. E così andiamo avanti ad ascoltare Figli della storia, Alé Alessa', ma anche Picché, suonata con l’accompagnamento del sassofono di Marco Scipione, e ancora Marije, suonata e cantata da solo sul palco, per finire in full ensemble con una versione molto coinvolgente di Pane e 'ccicorje.

Tra una canzone e l’altra Setak presenta la sua band, scherza con i musicisti ospiti, chiacchiera con il pubblico, che tra l’altro vede una folta presenza di abruzzesi e di persone che conoscono tutte le canzoni di Nicola Pomponi e non si sottraggono ai singalong che il cantante propone.

Né Setak né alcuno dei suoi musicisti si risparmia, in un concerto che diventa un grande abbraccio, un vero happening e in cui si sente forte l’affetto del pubblico verso i musicisti, e viceversa, e questo affetto passa attraverso un collettivo amore per la musica.

Anche gli amici che mi sono trascinata dietro e che sono venuti a sentire Setak a scatola chiusa sono parecchio entusiasti, il che mi conferma l’impressione di un concerto davvero riuscito.

Voto: 4/5

lunedì 17 marzo 2025

Toccando il vuoto / di David Greig. Argot Studio, 21 febbraio 2025

Per la mia prima volta ad Argot Studio, un piccolo teatro nel cuore di Trastevere che ha una programmazione piuttosto interessante, scelgo questo spettacolo suggerito da un’amica.

Toccando il vuoto è tratto dal testo del drammaturgo scozzese David Greig, portato per la prima volta sui palchi italiani con la regia di Silvio Peroni che ha lavorato sulla traduzione di Monica Capuani.

Lo spettacolo racconta la storia vera di due alpinisti, Joe Simpson e Simon Yates (interpretati rispettivamente da Lodo Guenzi e Giovanni Anzaldo) che, durante un’escursione sulle Ande peruviane, in fase di discesa si trovano in una situazione critica: Joe cade in un dirupo e Simon a un certo punto non può che tagliare la corda.

Il testo di Greig è a sua volta l’adattamento teatrale del libro omonimo (Touching the void) scritto da Joe Simpson, da cui è stato tratto un film di Kevin McDonald che in Italia è stato distribuito con il titolo La morte sospesa.

Tutte queste cose in realtà le realizzo dopo la visione dello spettacolo, a cui arrivo completamente impreparata, tanto che per tutta la sua durata resto convinta che lo sfortunato protagonista, Joe, sia morto nell’incidente, che è quasi certamente l’effetto voluto dal testo di Greig e dalla messinscena di Silvio Peroni.

Quindi, tutto sommato, meno male che non sapevo del libro e non ricordavo di aver visto il film (cosa che mi ha ricordato il giorno dopo la mia amica S.) perché questa mia dimenticanza mi ha consentito di vivere lo spettacolo nel modo giusto, inseguendo le tracce narrative per cercare di capire cosa fosse realmente avvenuto e cosa invece sogno e/o allucinazione.

Rispetto a quanto mi aspettavo leggendo la presentazione, lo spettacolo mi è parso molto meno incentrato sul tema etico – che è ovviamente presente, ma secondo me non così centrale – e molto più sull’approfondimento della psicologia degli alpinisti e dell’insieme di relazioni che ruotano intorno a questa storia.

Gli attori sono tutti molto bravi, con una menzione particolare per Eleonora Giovanardi che interpreta la sorella di Joe e per Matteo Gatta che è il giovane viaggiatore un po’ naif a cui Joe e Simon affidano la custodia del campo base durante la loro escursione.

Interessantissima la messa in scena complessiva che, con una scenografia piuttosto minimale (una struttura in ferro che rappresenta la montagna da scalare e poco altro) e un uso appropriato di luci e suoni, riesce a rendere tutta la complessità di una vicenda che si svolge in parte sulla montagna e in parte nella mente del protagonista.

Sebbene a un certo punto non ne potessi più di questa specie di lotta estenuante per la sopravvivenza che vede protagonista Joe, devo dire che lo spettacolo è molto ben fatto e riesce ad essere molto efficace sia sul piano narrativo sia su quello emotivo.

Voto: 3,5/5

venerdì 14 marzo 2025

Don Giovanni / Molière; con Arturo Cirillo. Bologna, Teatro Arena del Sole, 14 febbraio 2025

Approfitto di un weekend bolognese per andare a vedere l’ultimo spettacolo di Arturo Cirillo che nel suo tour – almeno per questa stagione – non tocca i teatri di Roma.

Che Cirillo avesse una passione per Molière lo sapevo da quando, un po’ di anni fa, avevo visto il suo adattamento de La scuola delle mogli.

A questo giro il regista e attore napoletano si cimenta con un’opera classica di Molière, il Don Giovanni, personaggio presente in diverse tradizioni culturali e che ha ispirato prodotti culturali diversi, tra questi particolarmente famosa è l’opera di Mozart, musicata a partire dal libretto di Lorenzo Da Ponte.

Cirillo, dunque, tenta una specie di operazione impossibile, ossia mette in scena un Don Giovanni in cui si fondono i tratti dell’opera di Molière con le caratteristiche del libretto di Da Ponte, senza dimenticare il cantato e la musica di Mozart.

Ne viene fuori uno spettacolo che sulle prime potrebbe lasciare perplesso lo spettatore, soprattutto quello che conosce il Don Giovanni nella sua versione operistica e che dunque si ritroverà ad ascoltare le parti cantate in forma recitata o in una forma intermedia tra il recitato e il cantato su una partitura minimale che arriva direttamente da Mozart.

Io che l’opera di Mozart la conosco solo nell’adattamento dell’Orchestra di Piazza Vittorio e ricordo a malapena le arie più famose non ho particolari aspettative e sostanzialmente mi godo la storia di Don Giovanni, quest’uomo che ama il gioco della seduzione e che sull’altare della seduzione sacrifica qualunque remora religiosa e morale, fino a sfidare la morte.

Il suo alter ego è rappresentato dal servo Sganarello, che - pur obbedendo ai suoi ordini e pur manifestando di tanto in tanto le stesse debolezze - cerca di richiamare continuamente il suo padrone ai dettami sociali e religiosi.

Ne viene fuori una storia che ai miei occhi – come spesso mi accade di fronte alle opere musicali – mi appare un pastiche, in cui la narrazione è totalmente al servizio dell’intrattenimento, ma che – nella rilettura di Cirillo – riesce a mescolare sapientemente tragedia e commedia, dando spazio ad alcune forme ossessive che lo stesso regista riconduce addirittura a certo teatro dell’assurdo.

Personalmente – ma chi sono io per dirlo? – l’operazione appare pienamente riuscita e anche quel fastidio iniziale per una drammaturgia che mescola codici e linguaggi diversi via via si attutisce fino a risultare interessante e divertente.

Bravissimi gli attori, lo stesso Cirillo – che però per me non è una sorpresa – e soprattutto Giacomo Vigentini nei panni di Sganarello che si rivela una vera forza della natura.

Voto: 3,5/5

mercoledì 12 marzo 2025

L’uomo nel bosco = Miséricorde

Alain Guiraudie è un nome che si è affacciato piuttosto tardivamente alla ribalta cinematografica internazionale e lo ha fatto con un film, Lo sconosciuto del lago, che ho inseguito a lungo ma che ancora non sono riuscita a vedere (mentre ho visto un film che ha avuto meno distribuzione ma che ho trovato interessante: L'innamorato, l'arabo e la passeggiatrice).

Per questo ho deciso che non mi sarei lasciata sfuggire L’uomo nel bosco, film presentato a Cannes in una sezione collaterale e che in Francia ha fatto il pieno di candidature ai César francesi.

Ho voluto ricordare nel titolo di questo post che il film, nella sua versione originale, si chiama Miséricorde, che secondo me è un’informazione utile per interpretare la narrazione, volutamente ambigua e misteriosa, che Guiraudie ci propone.

La storia è presto detta: Jérémie (Félix Kysyl) torna da Tolosa nel paesino dell’Ardèche di cui è originario per partecipare al funerale del panettiere locale, con cui ha lavorato e a cui era legato. Rientrato nel contesto dal quale proviene, dopo il funerale, Jérémie decide di fermarsi qualche giorno, ospite della vedova del panettiere (Catherine Frot).

La sua presenza in paese produce una serie di reazioni a catena, mandando in fumo gli equilibri tra le persone e portando allo scoperto il rimosso di ciascuno.

Di mezzo c’è anche un omicidio, ma il film non è un giallo, e in generale non è facile incasellare il film dentro una specifica categoria (come del resto gli altri di Guiraudie), e quando ci convinciamo che si tratti di un noir il film scarta lateralmente facendosi racconto psicologico con venature grottesche e a tratti esilaranti, quasi da commedia dell’arte.

Guiraudie – come lui stesso afferma in un’intervista – lavora per sottrazione: a partire dal suo stesso romanzo a cui il film è ispirato toglie tutti quegli elementi che ci aiuterebbero a interpretare fino in fondo i comportamenti dei personaggi: Jérémie, la vedova, suo figlio Vincent (Jean-Baptiste Durand, regista del bel film Chien de la casse), l’amico Walter (David Ayala).

Perché Jérémie divenga l’oggetto di desiderio di tutti, perché lui stesso attivamente si faccia seduttore, perché la sua presenza produca reazioni così scomposte e lui stesso se ne faccia coinvolgere, in che relazione erano i protagonisti in passato quando Jérémie abitava ancora nel paese non è dato saperlo.

Noi spettatori vediamo personaggi agìti dal desiderio, un desiderio a volte quasi inspiegabile, che sicuramente si contrappone alla monotonia e all’abbandono di un paese dove l’attività più diffusa e comune è passeggiare nel bosco per raccogliere funghi. E il bosco si presenta a seconda dei casi inquietante, fatato o splendente, per effetto della luce, del tempo atmosferico o semplicemente del modo in cui lo guardiamo e interpretiamo.

Esattamente la stessa cosa che accade con i personaggi: le loro azioni sono più inquietanti, bizzarre o stranianti a seconda del modo in cui le guardiamo e del significato che attribuiamo loro.

L’ambiguità è dunque la cifra dominante, ma come dice il fotografo giapponese Daido Moriyama “a normal human being will in one day perceive an infinite number of images, and some of them are focused upon, others barely seen out of the corner of one's eye.” Mi pare che questa citazione ben si attagli anche al cinema di Guiraudie.

Voto: 3,5/5


lunedì 10 marzo 2025

Ciao bambino

Fidandomi del giudizio della mia amica S. vado a vedere l’opera prima del regista napoletano Edgardo Pistone e ho anche la possibilità di guardare il film dopo la presentazione dello stesso regista e della protagonista Anastasia Kaletchuk, che si ferma anche al termine della proiezione per rispondere alle domande del pubblico.

Siamo nel quartiere Traiano di Napoli. Attilio (Marco Adamo) ha diciassette anni e insieme ai suoi amici oscilla tra la spensieratezza e i sogni dell’adolescenza e il confronto con la difficile realtà familiare e sociale dalla quale proviene.

Suo padre Luciano (interpretato dal padre del regista, Luciano Pistone) è appena uscito di prigione, e deve fare i conti con un grosso debito che ha contratto con un “amico”, mentre non riesce a sfuggire alle sue dipendenze dalla droga e dal gioco.

Per aiutare la famiglia Attilio decide di mettersi a lavorare per un boss locale, facendo da controllore a una giovane prostituta ucraina, Anastasia (Anastasia Kaletchuk), poco più grande di lui. Tra i due giovani, prima ostili, a poco a poco cresce la confidenza e la complicità, che a un certo punto si trasforma in amore. Ma Attilio, per poter guardare al futuro, deve prima risolvere la situazione familiare.

Nell’impianto narrativo il film di Edgardo Pistone non può non richiamare alla memoria un altro film di ambientazione napoletana, L’intervallo di Leonardo Di Costanzo, che pure si focalizzava sull’evoluzione del rapporto tra una ragazza e un ragazzo messo a farle la guardia.

In realtà però il regista, a specifica domanda, risponde che le sue ispirazioni a livello registico sono altre: Antonio Capuano per restare al contesto napoletano e soprattutto il cinema messicano degli ultimi dieci anni, che chiaramente rimanda ad Alfonso Cuarón, di cui il bianco e nero scelto da Pistone richiama il bellissimo Roma.

Pistone tiene a dire con forza che il suo non è un cinema neorealista e che anzi con il suo film vuole sovvertire alcuni cliché sulla periferia degradata e semmai andare alla ricerca delle bellezza che si può trovare ovunque se si guarda nel modo giusto e con gli occhi puliti.

Ovviamente Ciao bambino - come in parte è suggerito anche dal titolo - è anche un coming of age, la storia di un ragazzo che è sul limitare del passaggio all’età adulta, in quella fase della vita in cui – in un mondo normale e sano – dovrebbe essere ancora possibile coltivare i propri sogni, anche in maniera ingenua, e fare i propri errori con conseguenze limitate, perché non si portano ancora carichi importanti di responsabilità.

Non a caso il film si apre con Attilio e i suoi amici al mare, con i loro corpi giovani e levigati baciati dal sole, mentre si tuffano dagli scogli uno dopo l’altro, e scherzano e ridono tra di loro, come gli adolescenti di tutto il mondo. Però questi sono adolescenti come tutti gli altri solo fino a un certo punto, perché il contesto nel quale vivono gli impone di non fare passi falsi, in quanto gli errori si pagano anche se si è ancora bambini.

Non ci si aspetti però un melò negli ambienti della malavita – secondo un filone molto di moda negli ultimi tempi – bensì il racconto della vita di un ragazzo di cui, fatta la tara del contesto, il regista riesce a illuminare gli aspetti più tipici e normali della sua età: quel mix di spacconeria e tenerezza, ingenuità e cupezza, balordaggine e coraggio che solo chi ancora non ha varcato la soglia dell’età adulta può condensare in sé, e a cui fa da straordinaria cartina di tornasole il personaggio di Anastasia la quale – avendo solo qualche anno in più – ha già fatto i conti con la realtà e la limitatezza dei suoi confini.

Voto: 3,5/5


venerdì 7 marzo 2025

The Veils (+ Dario Sansone). Monk, 9 febbraio 2025

Da quando il Monk ha inaugurato questa linea degli early concerts devo dire che prendo i biglietti col cuore molto più leggero, perché so che posso andare ad ascoltare un concerto anche in mezzo alla settimana e questo mi stimola anche ad andare a sentire musicisti e cantanti che non conosco benissimo.

Ed eccomi qua per il concerto dei Veils, che conosco poco per il passato, ma il cui ultimo lavoro – Asphodels – ho consumato a furia di ascolti, trovandolo triste e dolce al contempo, ballate piene di malinconia, il cui pessimismo è attutito da una forma di rassegnazione e/o di saggezza.

Dieci minuti dopo le 19 il live comincia con l’opening di Dario Sansone, napoletano, che non conosco e scopro essere non solo musicista, ma anche attore, regista, illustratore, scrittore, quello che si dice un artista a 360°.

Inizia con un brano dal titolo Sole che viene dal suo nuovo album in uscita e che canta con gli occhi bendati. Poi prosegue con 3-4 altri brani del suo repertorio, uno dei quali è legato alla colonna sonora del film di animazione napoletano La Gatta cenerentola a cui Sansone ha collaborato.

Sansone ci dice di essere riuscito a esserci per questo opening nonostante l’influenza, e devo dire che nonostante le sue condizioni certamente non ottimali, ci permette di apprezzare la sua gran voce e il suo interessante repertorio.

Dopo una breve riorganizzazione del palco, ecco arrivare i neozelandesi The Veils, capeggiati dal loro leader (altissimo!) Finn Andrews. La formazione è fatta di 5 musicisti: oltre a Andrews che alterna tastiere e chitarre (elettrica e acustica) ci sono un bassista, un batterista, un polistrumentista (al synth, al violino e piccole percussioni) e un ultimo musicista alla steel guitar.

L’esibizione inizia con alcuni brani del nuovo album, in sequenza Mortal wound, The dream of life, The ladder, Fortune teller (tutti molto notturni, e suonati da Finn alla tastiera), per poi passare a brani per me meno riconoscibili provenienti dagli album precedenti e dalle sonorità decisamente più rock, per la cui esecuzione Andrews si sposta alla chitarra elettrica. Tra questi brani Not yet, Here come the dead, Birthday present.

Si ritorna dunque a un paio di brani dell’ultimo album (Asphodels, The sum) per poi concludere di nuovo con il repertorio più consolidato, che è quello su cui il pubblico sembra più preparato ed entusiasta, anche se a me è quello che forse colpisce meno.

Il concerto è comunque in ottimo equilibrio tra momenti più dirompenti e altri più notturni, pur partendo dal presupposto che il repertorio dei Veils non è comunque mai spensierato. I musicisti sono completamente concentrati sulla musica, e Andrews, sebbene sempre empatico e attento al pubblico, si limita a ringraziare tanto e a ricordare che manca da Roma da moltissimo tempo ormai.

Dopo l’ultimo brano il pubblico chiede il ritorno sul palco della band, che premia l’affetto del pubblico con ben quattro brani, tra cui Lavinia, Nux vomica e The Tide That Left & Never Came Back. In realtà al primo brano, Lavinia, Andrews torna da solo sul palco e sembra che il bis si limiterà ad esso, ma poi dopo ogni brano il frontman chiede al pubblico se va bene che ne suonino un altro (One more?) e si va avanti così per un altro miniconcerto.

Bell’atmosfera, un gruppo solido e ormai maturo, una bella esecuzione dal vivo. Non una band che ascoltata dal vivo rappresenta un’illuminazione rispetto all’ascolto della loro musica registrata, però certamente un concerto di livello alto e di grande soddisfazione.

Voto: 3,5/5

mercoledì 5 marzo 2025

La morte a Venezia / di Liv Ferracchiati. Teatro India, 8 febbraio 2025

Seguo Liv Ferracchiati ormai da diversi anni, da quando ho scoperto il suo teatro con la Trilogia sull’identità.

Ogni volta che decido di andare a vedere un suo spettacolo, so dunque cosa mi aspetta: una scenografia minimale, pochi personaggi in scena, un flusso di coscienza destrutturato, una parte di nonsense, e tutto questo va accolto esattamente così com’è per poter essere apprezzato.

Con La morte a Venezia Liv Ferracchiati si confronta con il capolavoro di Thomas Mann, ma lo fa alla sua maniera, in assoluta libertà, come se il testo di partenza fosse un pretesto o – forse meglio – uno spunto per trattare tematiche care, tra cui la bellezza, l’ispirazione artistica, l’invecchiamento.

L’aspetto però più interessante di questo nuovo spettacolo è la sua forma. Sul palco ci sono dei teli sospesi, uno dietro l’altro, leggermente sfalsati. Davanti una telecamera che inquadra un cesto pieno di fragole. Dopo la proiezione di una frase di Iosif Brodskij tratta da Fondamenta degli incurabili che ha la città di Venezia e la sua bellezza come protagoniste (e un’altra frase dallo stesso libro chiuderà lo spettacolo), sul telo vediamo proiettato il cesto di fragole e una voce fuori campo (quella di Liv) comincia a parlare, mentre Liv a un certo punto compare sul palco, ma non parla direttamente, mentre sentiamo la sua voce come fossero i suoi pensieri.

Intanto Liv prende il controllo della videocamera e comincia a inquadrare il mondo intorno a sé, che è poi il teatro e il pubblico, e vediamo tutto questo sul telo sospeso. A un certo punto, nella carrellata sul pubblico, una persona diventa oggetto di attenzione specifica, e questa giovane donna (Alice Raffaelli) scende verso il palco e comincia a interagire con Liv, a danzare, a usare lei stessa la telecamera, a parlare.

Liv Ferracchiati ha sempre amato un teatro che si fa contaminazione di linguaggi (video, danza, parola), ma in questo caso mi pare che tale scelta performativa raggiunga il suo apice, con risultati davvero molto interessanti.

Lo sguardo dello spettatore si sposta continuamente tra quello che vede accadere sul palco e quello che vede sullo schermo, che non è mai esattamente la stessa cosa e in alcuni casi è addirittura una completa reinterpretazione della “realtà”. La messa in scena costringe dunque a cambiare continuamente punto di vista, e a interrogarsi su quanto le percezioni alterino i significati nel momento in cui si frappone una macchina fotografica o una videocamera tra noi e la realtà.

Il risultato visivo sia sul piano emotivo che intellettuale è molto interessante. E di per sé basterebbe, anzi forse sarebbe bastato.

Personalmente sono le parole la parte che ho trovato meno riuscita e più forzata di questo spettacolo, e sinceramente se devo pensare a cosa mi rimarrà di esso non saranno sicuramente le parole (se non pochissime suggestioni), bensì l’impressione visiva e la bellezza di alcuni mix tra coreografie e immagine proiettata.

Voto: 3/5

lunedì 3 marzo 2025

Alla riscoperta di un pezzo di Puglia

Il racconto di una vacanzina post-natalizia nella mia terra, che riserva sempre belle sorprese.

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Trani e la sua cattedrale
Il Nord barese e l'alta Murgia


Approfitto delle vacanze natalizie per programmare insieme a S. un piccolo ma intenso giro in Puglia. Si parte e si torna a Conversano, mio paese natale e per me dunque luogo del cuore.

Il primo giorno io e S. andiamo all'aeroporto di Bari a ritirare la macchina che abbiamo prenotato con Drivalia, una Lancia Ypsilon un po' vecchietta ma in ottime condizioni.

Ci fermiamo la prima sera a Conversano a mangiare i panzerotti preparati da mia sorella, poi la mattina seguente partiamo per il nostro giro.

Prima tappa è la città di Trani: qui prima facciamo un giro alla villa comunale e arriviamo al punto panoramico da cui si vede il porto e la cattedrale sul retro.

Trani: un cortile
Poi a piedi facciamo tutta la passeggiata lungo il porto e visto che è ora di pranzo ci fermiamo a mangiare una bella fetta di calzone di cipolle e una cartellata (entrambi buonissimi) al Panificio del Porto che consigliamo vivamente.

Quindi arriviamo alla cattedrale dove l'effetto della pietra bianca che si staglia sull'azzurro del cielo è davvero eccezionale. Ci allunghiamo al castello svevo da dove possiamo godere di un altro punto panoramico sulla cattedrale e quindi ci inoltriamo nelle stradine del centro storiche, che sono quasi vuote perché è ora postprandiale e in Puglia è praticamente sacra. Ci allunghiamo quindi al Code cafè che ho trovato nell'elenco dei posti in Puglia che serve specialty coffee. Prendo un primo caffè e comincio a parlare con Vincenzo, il gestore, un vero appassionato di specialty, nonché amico di Luigi Paternoster di Pierre cafè, uno dei primi in Puglia a occuparsi di torrefazione di caffè monorigine e anche a valorizzare la cultura e caffè. Alla fine me ne andrò via con un sacchetto di caffè in grani e due caffè bevuti che Vincenzo mi regala per farmi assaggiare delle cose.

Castel del Monte
Riprendiamo l'auto e ci dirigiamo verso Castel del Monte, il castello di Federico II che si scorge da lontano su una piccola collina della Murgia circondato da campi di ulivo. Parcheggiamo e attraversando un piccolo boschetto arriviamo all'ingresso e partecipiamo alla bella visita guidata che ci racconta origini e utilizzi del castello, le sue caratteristiche architettoniche, alcune vicende storiche legate alla figura di Federico II e alla sua presenza in Puglia.

Quando torniamo alla macchina e già quasi ora del tramonto che ci godiamo attraversando le strade di campagna dell'alta Murgia.

L'ora blu a Ruvo di Puglia
Ci allunghiamo poi fino a Ruvo dove io ho il desiderio di tornare a vedere la bella cattedrale romanica. Riusciamo anche a entrare e a visitare i sotterranei con gli scavi romani. Poi giretto in centro e quindi dritte verso il nostro alloggio per questo primo giorno: la masseria Tarantini che sta nella campagna dell'alta Murgia non lontano da Castel del Monte.

Siamo le uniche ospiti e il proprietario - nonché gestore della fattoria a cui il b&b è collegato - ci dice che ha acceso il fuoco da un paio di giorni per riscaldare camera e casa. Il sistema di riscaldamento è infatti collegato a una grande stufa a legna. In camera accendiamo anche un termosifone elettrico per migliorare il comfort.

L'Alta Murgia
La sera restiamo a mangiare qui grazie alla disponibilità del gestore di cucinare solo per noi. Mangiamo ottimi formaggi di produzione locale, salumi, pane e poi della pasta all'uovo con crema di zucca e pancetta. Tutto casereccio ma molto buono.

Tornate in stanza usciamo sul terrazzino a guardare le stelle. La masseria è davvero isolata e lontana dai centri abitati quindi si vede un cielo stellato che raramente si ha la possibilità di ammirare. Vediamo anche dei puntini luminosi in fila che si muovono e a un certo punto scompaiono: abbastanza inquietanti ma Internet ci rassicura perché troviamo che si tratta dei satelliti Starlink.

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Gravina di Puglia
La zona delle gravine


Il giorno dopo la nostra destinazione è una masseria nella zona di Grottaglie.

Scegliamo di fare una prima sosta a Gravina di Puglia. Appena arrivate facciamo un passaggio al punto vendita di Pierre cafè, che in quel momento è chiuso, ma io non demordo e contatto il cellulare indicato all'ingresso. La signora si è allontanata un attimo ma è appena rientrata. Quindi posso godere degli aromi di caffè di cui è intriso il laboratorio e compro un chilo di miscela classica in grani e un altro sacchetto di monorigine.

Poi, un po' scioccate dal traffico che infesta le strade di Gravina, parcheggiamo e andiamo a piedi al centro storico. Dopo una breve sosta al centro informazioni, ci dirigiamo al punto di partenza del tour Gravina sotterranea che decidiamo di fare sotto la guida di uno dei volontari dell'associazione alla scoperta di una parte dei tanti ambienti sotterranei presenti sotto la città e usati nel corso del tempo come luoghi di deposito di derrate, di lavoro, di incontro e anche come case e luoghi di ricovero per animali.

Masseria fortificata Jesce nella zona di Altamura
Poi infilandoci nelle stradine arriviamo alla gravina e al ponte-acquedotto che l'attraversa. Cerchiamo i punti panoramici per uno sguardo d'insieme sulla gravina e sul paese, una specie di Matera in tono dimesso come dice S.

Prima di ripartire compriamo mozzarelle e un formaggio e poi ci muoviamo verso Altamura. È ora di pranzo: in centro storico ci fermiamo all'antico forno di Santa Chiara dove mangiamo un paio di pezzi di focaccia a testa e prendiamo del pane per la cena della sera.

Quindi ci perdiamo nelle strade del centro storico, tra chiese, palazzi nobiliari, e soprattutto i tipici claustri, degli spiazzi che si aprono tra le strade e su cui si affacciano diverse case.

Un po' stanche di camminare ci dirigiamo verso la nostra destinazione non senza prima esserci fermate varie volte lungo la strada, prima a vedere una delle masserie fortificate di cui è ricca la zona (nello specifico la Jesce), poi a fare delle foto alla bellissima campagna.

La Masseria Celano
Arriviamo infine alla Masseria Celano che è quasi buio. Ci accoglie Andrea che ci illustra il nostro monolocale realizzato nelle vecchie stalle dello iazzo che ha ereditato dalla nonna e dove si è trasferito dopo aver studiato a Napoli.

Il posto è bellissimo, curato in ogni dettaglio, con arredo e scelte architettoniche molto rispettose e in linea con le tradizioni locali. Dormiamo benissimo e la mattina dopo ci attende una splendida colazione nella saletta apposita, dove abbiamo una colonia di gatti affettuosi che ci attende fuori dalla porta.

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Taranto
Taranto e Grottaglie


La mattina di questo penultimo giorno di vacanza la dedichiamo alla città di Taranto che io non conosco per niente.

Arrivando facciamo la prima sosta alla concattedrale moderna di Gio Ponti che sta in un quartiere a sud della città. Entriamo a visitare l'interno e a fare qualche foto in questa chiesa cosi diversa da tutte quelle che abbiamo visitato fin qui.

Andiamo poi verso il centro. Parcheggiamo in piazza Archita e ci dirigiamo subito al MArTA, il museo archeologico della città che nelle sue oltre 25 sale ospita straordinari reperti che raccontano la storia della Puglia dalla preistoria fino al Medioevo, in cui spiccano in particolare i reperti di età greca e romana. Trascorriamo quasi un'ora e mezza nel museo, poi ci dirigiamo verso il centro storico attraversando il ponte girevole. Alla nostra sinistra il mare grande, e alla nostra destra il mare piccolo su cui incombe all'orizzonte il profilo dell'Ilva.

Nel centro storico di Taranto
Attraversiamo l'isola che racchiude il centro storico e dove si alternano palazzi nobiliari ristrutturati (pochi invero) e molti palazzi e chiese cadenti, o addirittura parzialmente distrutte. La passeggiata lungo il mare piccolo è una catalogo di facciate decadenti e cadenti che richiamano alla mente l'immaginario di Cuba.

A me la passeggiata piace moltissimo e questa decadenza ispira moltissimo a livello fotografico anche se sento la ferita che questa città si porta dentro e non posso non fare riflessioni su quale possa essere il destino di questa città e se prima o poi anche qui arriverà la gentrificazione del centro storico e il suo completo recupero.

Dopo un frugale pranzo e un caffè riprendiamo la macchina e torniamo alla nostra masseria per riposare. Poi verso l'ora del tramonto usciamo alla volta di Grottaglie dove vogliamo innanzitutto fare dei giri al quartiere delle ceramiche per il qualche abbiamo ricevuto consigli dal nostro host la cui casa è punteggiata di tantissimi pezzi bellissimi.

La campagna vicino Grottaglie
Visitiamo i negozi di Enza Fasano, Nicola Fasano, Mimmo Vestita, Antonio Fasano e Marco Rocco. Tutti bellissimi, in particolare questi ultimi tre. Compriamo un po' di pezzi da Antonio Fasano che per noi è il migliore compromesso tra tradizione e innovazione e di cui ci piace l'atmosfera rilassata e non pretenziosa (anche se i pezzi di ceramica di design moderno di Marco Rocco sono davvero belli, sebbene meno tradizionali). Finiamo la giornata con una passeggiata nel centro storico di Grottaglie e una ottima cenetta alla Luna nel pozzo, osteria slow food all'ingresso del centro.

Tornando ammiriamo anche il fenomeno del SAR (l'arco aurorale rosso stabile), un tratto di cielo chiaro e rossastro nel cielo notturno, una piccola aurora boreale ormai visibile anche alle nostre latitudini).

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Martina Franca
La Valle d'Itria e la costa


L'ultimo giorno, dopo aver salutato non senza qualche lacrimuccia la nostra bellissima masseria, ci dirigiamo verso Martina Franca. La giornata è splendente e ci consente di apprezzare al massimo grado un centro storico curatissimo ed elegantissimo, a partire dalla bella piazza centrale e dalla cattedrale. Compriamo una piccola luminaria artigianale durante la passeggiata e ci perdiamo nei vicoli.

Ripartiamo indecise su dove proseguire. Nei dintorni di Locorotondo e Alberobello c'è molto traffico e decidiamo di non fermarci. Ci dirigiamo invece verso la Selva di Fasano attraversando la bellissima valle d'Itria punteggiata di trulli, masserie e ville. Sosta pranzo alla chiesetta di San Michele in Frangesto, nella zona della loggia di Pilato da cui si domina tutto il paesaggio lungo la costa, posto tranquillo e del cuore per me. Poi andiamo verso il minareto alla selva di Fasano ad ammirare questa strana architettura eclettica e le bellissime case che ci sono in questa zona. Quindi scendiamo verso la costa e ci fermiamo a Monopoli.

San Michele in Frangesto
Passeggiata nel centro storico fino al vecchio porto, e breve visita della Rendella, la Biblioteca comunale che sta tra il porto e il centro storico. S. rimane molto colpita dalla bellezza di Monopoli che è per me una cosa bella perché per me è praticamente casa e vederla con occhi nuovi è un regalo. Torniamo dunque verso Conversano passando per il borgo marinaro di San Vito con il monastero dei benedettini e la torre saracena che si colorano della luce del tramonto, poi facciamo la complanare che unisce San Vito a Cozze, e dove per me c'è uno dei pezzi più belli della campagna pugliese, dove i trulli e i colori della terra e delle coltivazioni si sposano magnificamente con i colori del mare e del cielo (in questo caso rosato).

Tra Cozze e Polignano a mare
Tornate a Conversano e dopo esserci un po' riposate, facciamo un bel giro nel centro storico vestito a festa (castello, cattedrale, scalinata del vucciarolo, chiesa di Santa Chiara, piazza del Municipio) e terminiamo la nostra vacanza pugliese con i panzerotti della caffetteria del teatro insieme a tutta la famiglia.

Domani si torna ai luoghi dove viviamo, ma con la luce e il calore della Puglia nel cuore.

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Per una selezione più ampia di foto del viaggio in Puglia si veda qui sul mio profilo Behance.