Book Reviews by stefano bertani
Annali di Storia Moderna e Contemporanea - UC, 2004
Delia Frigessi, Cesare Lombroso, Torino, Einaudi, 2003, Biblioteca di cultura storica, pp. 426, e... more Delia Frigessi, Cesare Lombroso, Torino, Einaudi, 2003, Biblioteca di cultura storica, pp. 426, euro 34,00. «Grande» e «fantastico» Lombroso scriveva Freud a proposito del fondatore dell'antropologia criminale, certificando in qualche modo il successo non solo europeo, ma indubbiamente mondiale, che arrise al medico italiano tra Otto e Novecento. E, al di là della mancanza di un riscontro più decisivo nel rapporto fra l'antropologia lombrosiana e la psicanalisi freudiana, se non appunto che si muovevano in un orizzonte in bilico tra psichico e occulto, il giudizio ci sembra un dato interessante, su cui giustamente insiste l'Autrice per assumere un'adeguata prospettiva storica. Questa infatti sembra nel corso degli anni non tanto essersi smarrita, quanto piuttosto, e le pagine della Frigessi lo mostrano assai chiaramente, soprattutto distorta. La figura di Lombroso, infatti, che in vita fu «la celeberrima e più diffusa merce della nostra esportazione culturale», nel tempo non è scomparsa del tutto dalla storia specialistica della scienza o della filosofia, ed anzi essa permane diffusa anche popolarmente nella memoria di molti italiani, ma ne è restata impressa secondo uno stereotipo in buona parte deformante, legato com'è alla parte più vistosa e nota dell'attività lombrosiana, l'antropologia criminale. In particolare, di essa resta indelebile la deterministica associazione fra tipi di delinquenti e le loro specifiche conformazioni somatiche e craniche, per l'individuazione del cosiddetto «delinquente nato». L'apparente grossolanità dell'applicazione del metodo positivo, come oggi sembra per lo più letta l'antropologia criminale, ha quindi tramandato, a cominciare dalle critiche dell'idealismo gentiliano, un giudizio di sostanziale sufficienza, che spesso è divenuto il paradigma con cui si rischia di leggere anche molta parte di un'intera stagione della scienza e della filosofia, nella quale viceversa corsero conflitti e discussioni accesissime e assai complesse, e fu percorsa da forti suggestioni pratiche e teoriche che sono lontane dall'essersi esaurite. Il lavoro che viene ora pubblicato presenta perciò, a nostro avviso, almeno un duplice pregio. In primo luogo, l'estremo equilibrio dei giudizi, lontani da un'improponibile apologia, ma interessati soprattutto a mettere in luce le conquiste teoriche di Lombroso, e i molti loro limiti, entro il panorama delle scienze della vita, dalla medicina alla biologia, dalla psichiatria all'antropologia, che stavano divenendo le protagoniste non solo della scienza ma anche del pensiero filosofico, sociale e politico della fine del secolo diciannovesimo. E grazie a ciò, l'Autrice riesce nel contributo di illuminare la complessità di quella stagione che già Eugenio Garin suggeriva di chiamare, a causa appunto della vasta e varia morfologia con cui si avvicendarono storicamente le applicazioni di quel metodo, «dei positivismi». In secondo luogo, consente di tornare a fare i conti con la molteplice e articolata opera lombrosiana, la quale viene osservata e studiata in tutta la sua ampiezza. Ciò in virtù della predisposizione di un percorso che permette di seguire l'evolversi del pensiero e delle teorie sin dalla giovanile e fondamentale amicizia con il linguista e glottologo Paolo Marzolo («il Darwin dell'antropologia italiana» come egli amerà definirlo); sino agli anni maturi, nei quali si comincerebbero ad avvertire alcune significative contraddizioni e ambiguità, come ad esempio il conflittuale rapporto con il darwinismo. Prima, «nella sua veste di scienziato sociale» Lombroso si collocava «tra i darwinisti sociali», ma nella fase di crisi delle teorie darwiniane avvenuta dopo gli anni Novanta del XIX secolo, ne prederebbe le distanze in buona parte per «motivi che potremmo chiamare tattici e di opportunità», in ogni caso non scientifici ma legati alle vicende politiche del momento storico. Ma in queste contraddizioni l'Autrice prende a considerare, coerentemente con una tendenza culturale diffusa a cavallo dei secoli, alcune altre posizioni che assunse lo stesso positivismo lombrosiano, quando si volle orientare in modo sempre più spiccato verso applicazioni sociali di natura preventiva e coercitiva delle libertà individuali, da dove emergerebbe una sorta di conservatorismo politico del Lombroso, appiattito sulle necessità del controllo sociale dello Stato. Allo Stato infatti egli avrebbe fornito importanti categorie scientifiche per legittimare la prevenzione sulle fasce sociali delinquenziali secondo la legge dell'atavismo; salvo poi arrivare a sostenere le trasgressioni e le devianze come una necessaria fase evolutiva del progresso, che rompe gli schemi consunti, liberando le forze nuove per il tramite, ad esempio, della degenerazione o della follia del genio. Non è da credere, perciò, che il libro della Frigessi, non ostante il laconico titolo, si possa considerare una biografia lombrosiana. La forza dello studio non risiede infatti nella ricostruzione del 'personaggio' Lombroso, magari con intimi documenti inediti, quanto invece proprio nella ampiezza con cui le riflessioni dell'antropologo vengono studiate e
Fabrizio Pagni, Roberto Mussapi poeta, Edizioni Noubs, Chieti 2004 La monografia offerta da Fabri... more Fabrizio Pagni, Roberto Mussapi poeta, Edizioni Noubs, Chieti 2004 La monografia offerta da Fabrizio Pagni non viene, naturalmente, a certificare la statura di protagonista della poesia contemporanea da tempo ormai riconosciuta a Roberto Mussapi. A questo hanno, infatti, già provveduto non solo la saggistica specialistica, ma anche le crestomazie più accreditate, più o meno recenti, che hanno sempre attribuito al poeta cuneese un posto di assoluto rilievo nell'orizzonte letterario tardo novecentesco. In questione, dunque, c'è qualcosa di più essenziale e decisivo, che potremmo intendere come un giudizio interpretativo e storico, ossia un giudizio che deve tenere conto non solo delle ragioni biografiche o cronachistiche delle appartenenze a questa o quell'esperienza letteraria novecentesca, ma soprattutto del valore dell'opera secondo le sue appartenenze ad una certa tradizione e ad una certa cultura che si rinnova nel tempo. Pagni offre innanzitutto un volume che consente di seguire l'ormai lungo e articolato percorso poetico di Mussapi, cominciato nel 1979, e poi svoltosi, spesso con sorprendenti percorsi, tra poemi e poemetti, riscritture di fiabe o testi di elaborazione più chiaramente teatrale, sino a realizzare quella vocazione di «antichi poeti» che secondo Gioanola lo inserirebbe nella tradizione dei «narratori in versi che trasmettevano a voce a un pubblico reale le meraviglie dell'immaginario». Si intende quindi che la posizione di Mussapi, modernissimo 'antico' fra i 'moderni', risulti da sempre difficile da governare e riconoscere immediatamente, soprattutto se ci si affida a improbabili categorie come la presunta appartenenza ad una linea 'orfica', o ad una narratività più prosastica che poetica, o ancora alla più volte dichiarata estraneità e intolleranza verso la linea neo-avanguardista del Gruppo '63. Di qui anche l'altro pregio della monografia, che riesce a dar conto, lavorando soprattutto sul fronte dei temi, dei simboli e della loro ricorsiva apparizione e risignificazione, dell'universo cosmologico di cui partecipa la poesia mussapiana. «Gesto poetico come impresa di un destino» recita infatti il capitolo d'esordio, che pone immediatamente in campo la funzione del poeta come di colui che vive con «attenzione», incamminandosi nel «mistero del proprio destino», e «gettando se stesso nella sorte degli eventi». La poesia sarà quindi un continuo 'gettarsi' nel mondo, «un atto d'amore e di umiltà», come interpreta Pagni la figura dell'Arlecchino, e con essa fa il punto, dopo Il sonno di Genova dell''81, della situazione all'altezza dell'uscita, nel 1983, de La gravità del cielo. Le raccolte successive, soprattutto Luce frontale e Gita meridiana, risultano così già preparate in qualche modo a divenire testimonianze di un'epica moderna che si interroga sulle grandi questioni della vita dell'uomo, nella sua vita di «animale sociale», individuo in una specie, e non nel suo solipsismo lirico e nihilista. La poesia le attraversa con discese agli inferi, ai luoghi bui, cioè sin nelle loro profondità, nelle «stive» di navi in eterno viaggio; o le scandaglia attraverso l'implacabile memoria che conduce continuamente al confronto con le «età degli eroi», con le età della grandezza delle «origini» (come le intenderebbe Eliade), delle profondità del tempo. Il poeta dunque discende spesso accompagnato da Virgilii contemporanei, come il suo Beppe Fenoglio, sino all'incontro con gli antenati paleolitici, con i Camuni; fino all'incontro con i morti, i vivi dell'Altro mondo, cui sola si addice la memoria del poeta. Inutile qui poter dar conto del dispiegamento di sensi e significati ai quali dunque può condurre la poesia di Mussapi. Tuttavia, dal volume di Pagni emerge finalmente un punto su cui varrà la pena insistere, ossia la presunta «orficità», o visionarietà, ovvero 'irrazionalità' o 'spiritualità', della poetica mussapiana, la quale, dati i temi che abbiamo rapidamente elencato, sembrerebbe anche giustificarsi, giusta la coerente filiazione di Mussapi dall'esperienza della rivista «Niebo». Salvo che poi, come accade troppo spesso per certe sistemazioni critiche, le categorie interpretative anziché illuminare e articolare meglio gli oggetti, li distorcono per insufficienza di capacità di visione, perché insomma si rivelano troppo avare di fronte alla generosità di significati dell'opera d'arte. Un giudizio più coerente richiederebbe viceversa l'affidarsi a quel «senso storico» che T. S. Eliot auspicava come specifico della letteratura, capace di mostrare il reale collocarsi di un'opera entro un tempo fatto di storia e tradizione; un tempo che, non rinnegando il prima e il poi della diacronia storica, mostrasse nei reali rapporti di maggior o minore contemporaneità autori anche lontani storicamente tra loro ma 'contemporanei' per appartenenza ad una certa tradizione di significati che li rende vicini. Ci pare che vadano in questo senso le opere e le dichiarazioni dello stesso Mussapi, che ha più volte ribadito, anche assai
Annali di Storia Moderna e Contemporanea - UC, 2003
Franco Cajani (a cura di), L'attività di Paolo Angelo Ballerini dalla nomina a Patriarca di Aless... more Franco Cajani (a cura di), L'attività di Paolo Angelo Ballerini dalla nomina a Patriarca di Alessandria d'Egitto fino alla morte in Seregno (1867-1897), Besana Brianza, Edizioni G R, 2002, Quaderni della Brianza, pp. 794. Giunge finalmente a conclusione, con il presente volume, il lungo e paziente lavoro di raccolta del materiale storico dedicato da Franco Cajani alla figura di Paolo Angelo Ballerini. La capillare ricerca archivistica condotta da Cajani presso le singole parrocchie della Diocesi ambrosiana e su numerosissimi documenti epistolari, tuttavia, non va solo nella direzione della ripresa del Processo di Beatificazione, prematuramente avviato in precedenza ma presto arenatosi a causa delle incerte basi storiche e metodologiche, nei riguardi del Patriarca di Alessandria. Il lavoro dell'Autore, infatti, attraverso la ricostruzione minuziosa della biografia di monsignor Ballerini, consente anche di rimettere in discussione alcuni luoghi comuni della storiografia di quegli anni che da tempo pesavano sulla figura del Patriarca, secondo i quali, ad esempio, «il Ballerini "fu indotto a dimettersi nel 1867, ma chiese ed ottenne di rimanere vicino a Milano, teoricamente per assistere la vecchia madre, in realtà per controllare il Calabiana"». Si tratterebbe, in altre parole, di ridurre l'opera del prelato ai termini di una azione solo politica e quasi 'poliziesca', sino a farne una delle molte pedine che si muovevano in un campo di lotte intestine alla Chiesa e mosse dal conflittuale rapporto con il nuovo Stato liberale, fra transigenti e intransigenti, fra «austriacanti» e cattolici liberali. E il rischio di una simile riduzione è ben messo in luce da Cesare Mozzarelli nella presentazione al volume, in cui si individua l'origine di quel limite in una «storia religiosa» che «nei decenni passati è stata troppo spesso condotta sulla falsariga di quella politica». Pur ribadendo la piena legittimità di una storiografia che tenga nel debito conto gli intrecci fra «vicende politiche e religiose», Mozzarelli avverte infatti la parzialità di una «storia della chiesa fatta alla mera luce della politica» che risulta «al fondo insoddisfacente perché trascura la vocazione di quella stessa chiesa, e dei suoi uomini, a orientarsi» non solo verso «la città dell'uomo», ma anche verso «la città di Dio». Le vicende di cui fu protagonista monsignor Ballerini, da questo punto di vista, possono allora risultare davvero emblematiche, anche grazie alla nuova documentazione che Franco Cajani offre in questo volume. Il pregio del lavoro, infatti, consiste da un lato in una meticolosa organizzazione dei dati biografici per capitoli, cui è preposta anche una cronologia di quasi cento pagine, dettagliatissima e puntuale. Ma i dati biografici sono poi illuminati, e a loro volta possono illuminare, proprio quegli anni del secondo Ottocento in cui, nella Milano ambrosiana spaccata dalle tensioni create dalla formazione del nuovo Stato, Ballerini era costretto a rinunciare alla Cattedra episcopale a causa delle molte contestazioni del nuovo regime italiano, che lo voleva filo austriaco. Quindi, nella sua definitiva e defilata sede di Seregno e Vighizzolo, a sostenere anche gli attacchi di alcune testate milanesi che lo vedevano a tutti i costi tessitore di oscure trame ad ogni pubblica e privata discesa nella Metropoli lombarda. Ed è proprio in questi medesimi anni che viceversa emerge dalla cronologia e dai documenti offerti dal volume tutta un'ampia e intensa attività pastorale di Ballerini, sia ad esempio come Vicario del suo successore Calabiana nell'amministrazione dei sacramenti, sia direttamente al suo fianco; cui va aggiunta l'attività intellettuale che emerge dai suoi giudizi e dalle molte epistole, improntate ad atteggiamenti i più lontani possibile da quelli di un 'controllore' al servizio d'una causa mondana, e viceversa testimoni di quell'altra storia dell'Italia religiosa, auspicata da Mozzarelli, che consente, come nel caso della figura di Ballerini, di mettere in luce aspetti fondamentali della personalità di molti protagonisti della storia della chiesa sino ad ora considerati marginali. Così, il lavoro dell'Autore consente di restituire a Paolo Ballerini il ruolo che gli compete fra i protagonisti della storia della chiesa, senza per ciò dover essere «né fiammeggianti agitatori alla don Davide Albertario, né apostoli della dottrina sociale della chiesa, né combattenti entro qualche partito ecclesiale». Di qui anche l'interesse della pubblicazione, che va a proporsi come «uno stimolo importante a un ripensamento complessivo del come fare storia religiosa, ben oltre le stesse vicende cui si legò allora la figura di monsignor Ballerini». (Stefano Bertani)
Annali di Storia Moderna e Contemporanea, 2005
Presentato come uno studio che intende sopperire alla mancanza di una «visione biografica d'insie... more Presentato come uno studio che intende sopperire alla mancanza di una «visione biografica d'insieme», il libro di Giorgio Cosmacini risulta in realtà qualcosa di più e di diverso. Di più, perché, oltre alle vicende biografiche del celebre medico olandese, Cosmacini indugia con interesse speculativo intorno alla proposta del suo «materialismo scientifico», rendendo il lavoro denso di suggestioni filosofiche e di indicazioni per una revisione del panorama culturale ottocentesco anche italiano. E di diverso, perché la biografia si propone esplicitamente in una prospettiva simpatetica nei confronti del medico e del pensatore, dichiarando sin dal principio l'intenzione di «riscattare il personaggio» non solo dall'oblio, ma soprattutto dall'ostracismo ideologico cui sarebbe stato sottoposto, proponendone quindi una adeguata «collocazione nella storia delle idee». E, in questo caso particolare, si tratta in effetti di un compito piuttosto arduo, dovendo fare affidamento, come si evince anche dalle date della bibliografia di riferimento, a studi di filosofia della scienza che risalgono per lo più a trenta e più anni fa. Poiché dunque di Moleschott vengono insieme presentati «vita e pensiero», l'articolazione del libro in tre parti non rispecchia solo momenti decisivi della vita di Moleschott, vale a dire le sue peregrinazioni fra Olanda, Germania, Svizzera e finalmente la sua seconda patria, l'Italia. Neppure coincidono esattamente con le vicende accademiche, la polemica presso l'Università di Heidelberg, la pubblicazione della Circolazione della vita (1852), e il forzato trasferimento in Svizzera con la nomina presso l'Università di Zurigo. Infine la chiamata a Torino capitale del neonato Regno, grazie al ministro Francesco De Sanctis, ma voluta già da tempo dallo stesso Cavour. Ognuno dei tre capitoli, infatti, mentre procede nella narrazione delle vicende biografiche-per la verità limitate in gran parte alle questioni accademiche, alle nomine, al dibattito culturale-sviluppa soprattutto le tappe decisive della storia delle «idee» del medico-filosofo. Nel primo capitolo, ad esempio, spicca la querelle che Moleschott suscitò con il notissimo chimico Justus Liebig, autore, nel 1844, di un'opera destinata a grande fortuna, le Lettere chimiche, cui Moleschott rispose appunto con le sue «lettere fisiologiche» sulla «circolazione della vita». Ciò che immediatamente risulta, tuttavia, dal polemico dibattito fra i due scienziati, è che di tutto si trattò tranne che di uno scambio di ipotesi o di critiche svolte «nel campo della chimica organica» o rivolte alla «metodologia seguita nell'ambito delle ricerche». Cosmacini ribadisce senza equivoci che in gioco vi era, da parte di Moleschott, il tentativo di attaccare «la concezione spiritualistica della scienza», così come Liebig sembrava averla impostata, ossia la «tesi creazionista» secondo la quale «il mondo è tutta opera della provvidenza». In altri termini, «la controversia non ha luogo tra il fisiologo e il chimico, da scienziato a scienziato, ma tra due filosofi della scienza attestati su due opposti versanti ideologici». Per tale ragione, «l'opera di Moleschott» non ha un'importanza solo scientifica, ma «anche filosofico-culturale e, in ultima istanza, politica». È vero perciò, come osserva l'Autore, che l'opera fu oltre che la sintesi della fisiologia materialista, anche l'esposizione di tutta una Weltanschauung con «ambizione di verità oggettiva e di liberazione umana». È vero anche che «il triplice carattere dell'opera», ossia «di esposizione scientifica, di elaborazione teorica e di predicazione ideologica» diede all'opera quel successo, che definiremmo «popolare», in seno a tutta la società culturale dell'epoca. Ma è soprattutto interessante, crediamo, insistere sulla doppia natura assolutamente inscindibile di molta scienza ottocentesca, in cui ricerca scientifica e predicazione formativa, sino alla progettazione di un nuovo sistema di riferimento cosmologico e antropologico alternativo ai saperi umanistici e teologici tradizionali, facevano un tutt'uno, con le conseguenze scientiste che tuti conosciamo. Moleschott, insomma, risulta paradigmatico della moderna figura 'intellettuale' del fisiologo-antropologo, che si pone in diretta concorrenza con il sacerdote della tradizione, facendo della fisiologia e del suo metodo il nuovo «credo» per una appassionata religione moderna. Interessanti, al proposito, risultano i paragrafi finali del capitolo, che Cosmacini, coerentemente con l'impostazione di «storia delle idee» della monografia, dedica ad un'analitica disamina della Circolazione, commentata e riassunta in tutte le sue lettere. È quindi nel secondo capitolo che, narrando con maggior dettaglio la «lotta per il materialismo» in Germania, Cosmacini sintetizza il dibattito interno fra filosofi scienziati meccanicisti, vitalisti, allievi di Friedrich Wöhler (Brücke, Du Bois-Reymond, von Helmhotz), fino alla specifica formulazione del
Annali di Storia Moderna e Contemporanea - UC, 2005
P. Marangon (a cura di), Antonio Fogazzaro e il modernismo, Accademia Olimpica, Vicenza 2003. Dop... more P. Marangon (a cura di), Antonio Fogazzaro e il modernismo, Accademia Olimpica, Vicenza 2003. Dopo l'impegnativo lavoro del '98 sul Modernismo di Antonio Fogazzaro, Paolo Marangon prosegue lo studio di questo particolare aspetto della cultura fogazzariana, che mostra una straordinaria fecondità di spunti e sollecitazioni. Il volume infatti raccoglie una serie assai diversificata di contributi, organizzati in una divisione tripartita: fonti; atti della tavola rotonda, saggi. Tuttavia, l'Introduzione del curatore è assai più che una presentazione dei materiali, e si offre quale imprescindibile status quaestionis intorno alla ormai ricca messe di studi apparsi nell'ultimo decennio sulla figura dello scrittore vicentino. Il panorama che viene così tracciato si articola secondo i diversi indirizzi metodologici che si sono occupati del rapporto tra Fogazzaro e il riformismo religioso, in particolare quindi dell'ultima fase della sua attività non solo letteraria. Prima Marangon riferisce dell'ambito critico-letterario, dei lavori di Cavallini, di Finotti, di Girardi, di Pullini, della Petrocchi, di Morbiato, di Cavalluzzi, e diversi altri, rilevando «un salto di qualità» rispetto al passato, che consisterebbe nello «sforzo di interpretaione "dall'interno"» e in una «più attenta ricostruzione filologica delle fonti e dell'iter compositivo», oltre che in un «fecondo dialogo interdisciplinare» fra letterati e storici, auspicando anche interventi di altri specialisti. Appunto al fronte degli studi storici e teologici è dedicata la seconda parte dell'introduzione, dove Marangon torna nuovamente sul problema del Fogazzaro modernista o cattolico liberale, ridiscutendo le note tesi di Lorenzo Bedeschi, che lo esclude recisamente dal modernismo strictu sensu. Viceversa, l'ipotesi di lavoro di Marangon, e in ciò risiede evidentemente anche la proposta del volume, muove dalla preoccupazione della «ricostruzione di un contesto storico-religioso e di un clima culturale», che non facciano «semplicemente da sfondo all'itinerario intellettuale e letterario dello scrittore», ma entrino «nella sua vita intima fino al punto di diventare fonte di ispirazione artistica». Si toccano quindi, attraverso la disamina dei recenti convegni di Vicenza, del 1992, e di Subiaco, del 1997, i rilievi sulla dimensione della categoria stessa di modernismo, nell'ipotesi di una sua estensione cronologica sin nelle sue radici primo ottocentesche; la questione delle implicazioni moderniste del Santo e della sua condanna, di cui si attende di poter studiare i documenti definitivi della Congregazione dell'Indice. Si discutono quindi nuovi studi, come quello di De Giorgi sulla lunga e interessante vicenda dei «Cavalieri dello Spirito», che coinvolse la Serao, e che trova riferimenti alla cultura messianica europea. Ovvero di padre Sequeri sull'«ordine degli affetti» nell'ultima narrativa fogazzariana, che sviluppa uno dei principali temi religiosi di Fogazzaro, l'amore; nonché una cospicua serie di altre suggestioni interpretative emerse dalle ultime pubblicazioni. La prima parte del volume, destinata alle fonti, è invece introdotta da Annibale Zambarbieri, che ricostruisce il clima in cui vennero pronunciate le conferenze sul Santo di padre Semeria, qui finalmente pubblicate, che pare andassero a suffragare presso Pio X l'ipotesi dell'esistenza di un «gruppo di pressione» che si stava costituendo in nome delle idee moderniste divulgate dal romanzo. Ma i testi di Semeria offerti alla lettura eccedono senz'altro il problema modernistico, aprendo l'interesse anche, ad esempio, alla cultura scientifico-positivista di cui il padre barnabita, come Fogazzaro, erano partecipi, contribuendo effettivamente ad estendere e arricchire la ricostruzione del clima storico-culturale auspicata da Marangon. La seconda parte è desinata invece agli atti della tavola rotonda tenutasi il 25 febbraio 2000 a Vicenza, e contiene, oltre alla prefazione di De Rosa, interventi di Bandini, che illustra il rapporto tra l'idea artistica del Fogazzaro e la sua aziuone di militanza riformista; Goichot, che mette a confronto del Santo altri esiti della letteratura europea; Zambarbieri, sui «primi echi modernisti» dell'Santo; e di mons. Nonis, vescovo di Vicenza. Infine, il volume si chiude con tre ampi saggi di specialisti della figura fogazzariana e del modernismo. Lorenzo Bedeschi, per un verso, sviluppa il rapporto tra personaggi del romanzo e reali figure di riformatori modernisti; Fabio Finotti, sul fronte letterario, insiste su di un importante distinzione, già fogazzariana, fra essere «moderni» ed essere «modernisti», mettendo implicitamente in guardia dal rischio di ridurre, con l'insistere solo sul suo «modernismo», la grandezza dell'intellettuale vicentino; infine, Nicola Raponi, il quale torna sul rapporto tra Fogazzaro e Gallarati Scotti, in relazione alle
P.L. Bernardini-G. Luzzatto Voghera-P. Mancuso (a cura di), Gli ebrei e la destra. Nazione, stato... more P.L. Bernardini-G. Luzzatto Voghera-P. Mancuso (a cura di), Gli ebrei e la destra. Nazione, stato, identità, famiglia, Aracne, Roma 2007; euro 20,00. La storia degli ebrei e del Fascismo, compendia Bernardini nella postfazione al volume, «è un piccolo episodio nel quadro di una storia terribile». Senonché la «storia terribile», come forse ci si aspetterebbe, non è solo quella del popolo ebraico, ma anche l'intera vicenda della «nascita e affermazione dello Stato moderno». E tanto più terribile, sia perché il volume illustra le illusioni che molti ebrei alla ricerca di una nuova identità si fecero intorno alle promesse offerte dalle ideologie della nazione moderna; sia perché la storia di quel connubio, dalle sue radici sette-ottocentesche (a cominciare da Rousseau, naturalmente) sino ai Totalitarismi, non pare conclusa affatto. Secondo Bernardini infatti l'esistenza di uno Stato di Israele, pienamente legittima nelle vicende che l'hanno generata, per certi aspetti «inquieta più che non rassicuri», proprio a causa della difficoltà nel rileggere la contraddizione connaturata alla propria storia e alla propria genesi: il popolo dell'olocausto troverebbe la propria identità entro la forma di quello stesso Stato-nazione che ne fu il più terribile persecutore. In questa nuova luce è perciò da intendere la doppia prospettiva del titolo del volume: da un lato l'indagine su alcuni momenti e figure di rilievo della storia dell'ebraismo italiano, dall'altro l'orizzonte comune entro cui vengono collocati, vale a dire l'ascesa dell'istituzione paradigmatica della modernità, lo Stato nazionale e accentratore. Si tratterebbe quindi di «ricollocare gli ebrei nella dimensione delle società civili contemporanee, restituendoli alla storia», sostiene la Luzzatto Voghera, «sottraendoli dagli scomodi panni di eterna "vittima"», uscendo così anche dai limiti di certa storiografia «che in anni recenti si è cimentata con la storia degli ebrei in Italia in età contemporanea» ponendo però «l'accento in prevalenza sugli anni delle persecuzioni razziali». I diversi saggi qui raccolti presentano infatti, secondo diverse angolazioni, un contributo all'indagine intorno al mondo ebraico italiano visto attraverso quegli esponenti che pensarono di trovare nel Fascismo l'eredità degli ideali di patria del Risorgimento e della Nuova Italia, che avrebbe avuto il merito di emancipare gli ebrei. Rovesciando quello che spesso rappresenta un troppo angusto cliché, i giovani ricercatori coinvolti in questo progetto hanno pertanto cercato di illustrare i rapporti controversi e assai complessi-di adesione, di conflitto interiore, di connivenza, di delusione-che molti rappresentanti della cultura e della storia ebraiche intrecciarono non tanto, o non soltanto con le istituzioni fasciste, quanto piuttosto con la cultura e con l'ideologia che ne aveva preparato in qualche modo l'ascesa e ne aveva sostenuto l'affermazione, sino agli esiti del suo declino, e oltre. Attraverso l'indagine condotta su riviste (il «Vessillo Israelitico», ad esempio), o figure di uomini politici, intellettuali e organizzatori di cultura ebrei (il celebre storico dell'antichità Arnaldo Momigliano, Renzo Ravenna podestà di Ferrara, l'editore Formiggini, Julius Evola, sino a Leo Strauss e alla «deriva» neoconservatrice statunitense) vengono perciò messe in discussione anche linee storiografiche consolidate e in particolar modo alcune delle categorie che le sottendono, come quelle di razza, famiglia, identità nazionale. Verrebbero in tal modo confermate, o corroborate, le «questioni imbarazzanti» che vanno a «colpire in pieno l'immagine stereotipata di una comunità ebraica che esce dalle persecuzioni come naturale alleato delle forze democratiche antifasciste». Ad esempio, come emerge dallo studio della Schwarz, alla guida delle stesse comunità ebraiche italiane vi sarebbe stata «un'élite oligarchica» capace di ottenere sotto il fascismo leggi, potere e una «rappresentatività» ancora attiva «per diversi decenni dopo la fine del regime». E se gli atteggiamenti più diffusi di collaborazione fattiva si possono spiegare con il fatto che molti ebrei, come si diceva, caddero nell'equivoco di riconoscere «nel regime il puro prodotto moderno della nazione risorgimentale», occorre anche tener conto di quella minoranza del gruppo di sionisti revisionisti analizzato, ad esempio, dal saggio di Vincenzo Pinto, che ebbe invece una «più propria consonanza ideale» con il fascismo. Si spiega così anche la necessità di un'estensione dell'arco cronologico della ricerca a tutto l'arco della storia dell'Italia unita, che consente di mettere ulteriormente in discussione la «vecchia interpretazione crociana» del fascismo come parentesi violentemente impostasi tra gli ideali dello stato liberale e i suoi eredi antifascisti del dopoguerra. Interpretazione che appunto, se già a cominciare dalle precocissime intuizioni di Giacomo Noventa non poteva essere sostenibile se non
Aa.Vv., I Sacri Monti nella cultura religiosa e artistica del Nord Italia, a cura di Dorino Tuniz... more Aa.Vv., I Sacri Monti nella cultura religiosa e artistica del Nord Italia, a cura di Dorino Tuniz, Edizioni San Paolo, Milano 2005, pp. 295, euro 75 La ricchezza degli interventi e la bellezza dell'iconografia fanno del volume appena uscito per le Edizione Paoline un'ideale strenna per le prossime festività natalizie. Tuttavia, l'opera è tanto più meritevole d'essere aquistata per sé o donata proprio perché è lontana dalla consueta dimensione del bel libro da regalo. Essa infatti riesce a presentare con competenza indiscutibile una delle realtà più strordinarie del patrimonio culturale italiano e mondiale (riconosciuto dall'UNESCO nel 2003), descrivendo la natura artistica, il significato religioso o la complessa e variegata vicenda storica dei Sacri Monti del Nord Italia. Benché nulla dei pregi consueti di una monografia d'alto profilo manchi a questo volume, esso tuttavia sembra aspirare a qualcosa di più impegnativo. In modo implicito, ma presente nella maggior parte degli interventi qui raccolti, emerge infatti una vera e propria provocazione a ripensare all'autentico valore di questi spazi sacri che costellano le valli alpine, a giudicarne nuovamente la collocazione storica e lo spessore culturale e, in ogni caso, a vincere l'inerzia di uno sguardo troppo 'turistico' che, come spesso accade per i capolavori del nostro Paese, rischia di distorcerne e ridurne il significato più profondo. Forse troppo a lungo assuefatti alla prospettiva del turista straniero che cerca nel Bel Paese, secondo il codice romantico tuttora invalso, le origini perdute e i luoghi dell''infanzia' della civiltà, anche noi italiani rischiamo di guardare ai Sacri Monti con la sentimentale nostalgia dei Moderni nei confronti degli ormai incomprensibili e ingenui Antichi. Nel migliore dei casi, come turisti 'colti', riusciamo a ritenerci sufficientemente edificati dalle note biografiche intorno ai fondatori, o alle vicende legate agli sponsores laici più noti, come Lodovico il Moro, sino a riuscire a cogliere la più ampia situazione geopolitica nella quale molti dei Sacri Monti sorsero. E non v'è dubbio che sia fonte di interesse comprendere la loro genesi anche in relazione all'impossibilità di raggiungere in quei secoli Gerusalemme, ormai nelle mani dei Turchi, e quindi al bisogno di ricostruire in loco i Luoghi Santi del pellegrinaggio. Ma i saggi del lavoro, benché non manchino di fare con precisione il punto sulle vicende costruttive e le dinamiche storico politiche, spesso suggeriscono un altro ordine di riflessioni. Innanzitutto a ricomprendere, come fa monsignor Ravasi, la vicenda dei Sacri Monti in quella assai più ampia e duratura delle diverse ascensioni immaginate dall'umanità tutta, dall'Olimpo pagano ai monti sacri giapponesi, sino alle molteplici sante montagne del Signore presenti nella letteratura e nella Scrittura. Quindi, come fa Amilcare Barbero, a dare nomi e luoghi alla dimensione europea del fenomeno, che, come accadde per quasi tutta la cultura del Cinque-Seicento italiano, vide nascere in Italia i modelli di civiltà profana e di devozione sacra poi ereditati e sviluppati da tutta la cultura occidentale. Infine, a mettere in discussione molte delle categorie storiche e culturali legate al Rinascimento italiano, che ancora definiscono forse troppo schematicamente gran parte della nostra identità non solo nazionale, ma anche religiosa. Emerge con evidente chiarezza infatti dall'intervento di Danilo Zardin che la straordinaria stagione di fioritura dei Sacri Monti prealpini non può essere spiegata solo nei termini di una reazione controriformistica per il rilancio missionario cattolico, o come una «manovra di arroccamento difensivo» contro il contagio delle teologie riformate d'Oltralpe. Esiste invece una continuità tra medioevo ed epoca moderna che può arrivare da sola a spiegare in gran parte l'esito rinascimentale dei Sacri Monti, e che quindi costringe a mettere in discussione tropppo schematiche linee di sviluppo storicistico, che molte volte hanno imposto alla storia un percorso che essa in realtà non intraprese. La tradizione francescana del vedere, ad esempio, compendiata a suo tempo nel Presepe da San Francesco, suggerisce non solo che la tradizione dei Sacri Monti precede il moto controriformistico, ma anche che l'esigenza di condurre alla gente la presenza dell'esperienza cristiana si continua entro i secoli moderni, consegnando ad essi la rivoluzionaria esperienza affettiva e sensibile dell'incontro con la divinità incarnata. Il Sacro Monte di Varallo, archetipo di molti altri successivi e presentato da Elena De Filippis (sono descritti anche Orta, Crea, Oropa, Domodossola, Belmonte, Ghiffa, Montrignone, Varese, Ossuccio), dispiega infatti lungo il suo percorso di giardini a labirinto
La scienza naturale di von Balthasar Per una recensione di Hans Urs von Balthasar, La domanda di ... more La scienza naturale di von Balthasar Per una recensione di Hans Urs von Balthasar, La domanda di Dio dell'uomo contemporaneo (1956), Queriniana, Brescia, 2013. Non credo sia illegittimo recensire un volume di questa natura partendo dal fondo. Addirittura, dall'indice analitico e alfabetico degli autori citati. Legittimo non solo perché, come i più sanno, la preliminare lettura dell'indice alfabetico è il modo consueto con cui si ausculta il contenuto dei volumi, spesso però arrestandosi lì; ma soprattutto perché l'autore è uno di quegli uomini dalla statura magistrale immensa e dalla cultura enciclopedica, la cui vastità spesso intimorisce, mentre la capacità che la sua scrittura possiede, di connettere orizzonti di tale ampiezza, affascina. L'Essay über die Gottesfrage des heutigen Menschen (il Saggio sulla domanda di Dio dell'uomo contemporaneo) è in realtà un piccolo libro (200 pagine), soprattutto se confrontato con le altre più note opere di von Balthasar, che non tradisce però la densità di senso davvero ammirabile promessa da un titolo così impegnativo. La domanda di Dio, si intende, avviene a qualsiasi latitudine culturale, dunque potrebbe essere rilevata sotto una pressoché infinita varietà di manifestazioni, forme, linguaggi, opere, dalla filosofia all'arte, dalla musica alla scienza, dall'economia al diritto. E tutti sanno che von Balthasar è stato probabilmente tra i più raffinati teologi del XX secolo, con la non comune capacità di perlustrare pressoché tutti i linguaggi dell'uomo contemporaneo e di rinvenire in essi le tracce della inesausta ricerca metafisica. Ciò che quindi sorprende, scorrendo l'indice dei nomi, non è perciò il loro considerevole numero, né forse la loro appartenenza ad ambiti diversi della cultura umanistica: teologi e filosofi, naturalmente, ma poi letterati e artisti, secondo un dialogo fra pensiero ed estetica cui von Balthasar ha educato migliaia di lettori e di fedeli. Dall'amato Dante al meno prevedibile Petrarca, sino a Benedetto Croce, per gli italiani; dai letterati francesi, come La Fontaine e Baudelaire, Rimbaud e poi soprattutto i suoi Bernanos, Péguy, Claudel, ma anche Verne, e poi Sartre e Camus; Shakespeare, Milton fino a Melville e Lawrence nella letteratura anglosassone; Goethe, Mann e Jünger nella tedesca. Quindi la fittissima schiera degli artisti, da Giotto a Leonardo a Michelangelo a Tiziano a Donatello a Luca Signorelli, e poi Bruegel, Bosch, Blake; e i musicisti, da Bach a Beethoven a Mozart, Haydn, sino a Mahler e Wagner. Non li elenchiamo tutti, ma la loro varietà basti a suggerire anche l'idea della galassia di nomi dei rimanenti, che vengono chiamati in causa sul fronte più direttamente consentaneo della filosofia, da quella antica a quella contemporanea. Eppure, come dicevo, non è questa pluralità di riferimenti e di manifestazioni della ricerca di Dio nella cultura occidentale a sorprendere, così vasta appunto in un tutto sommato agile volumetto. È
Nessuna chimica divina in questo testo, anzi, la c uriosità "per i legami che la scienza, la più... more Nessuna chimica divina in questo testo, anzi, la c uriosità "per i legami che la scienza, la più alta testimonianza dell 'umanissimo desiderio di conoscere, ha con altre espressioni dell'umanit à: l 'arte, la letteratura, il teatro, il gioco": un progetto di "chimica umanistica". Recensione di Ermanno Bencivenga, Alessandro Giuliani, Filosofia chimica, Editori Riuniti, Roma 2014, pp. 137. Potremmo forse aspettarci esalazioni sulfuree dalla copertina di un libro intestato alla Filosofia chimica. La sapienza alchemica del conte di Cagliostro, che ha segnato il fasto della modernità dei lumi con la manipolazione degli elementa e delle pietre filosofali, ha spesso evocato, sin dal suo rinascere dalle ceneri antiche, un fascino strano. Lungo quella linea moderna, il philosophe onnivoro, spregiudicato e demistificante, figlio dell'illuminismo; o il genio introverso, maledetto e nostalgico, figlio della passione romantica, non sono stati da meno. Questa modernità più nostra e più vicina si è inaugurata in una luce fosca, con l'inquietante Ballata dell'apprendista stregone e del Faust di Goethe o del Mefistofele di Boito, cui faceva pendant, in terra empirista, l'ancor più ambiguo, perché filantropo e benpensante, doctor Frankenstein: quelli, salvati dalla dolce Beatrice-Margherita; questo, condannato alla tracotante supponenza dalla delicata scrittura di Mary Shelley. Solo Walt Disney, il nipote sentimentale di quei progenitori ed il loro maggior erede, mentre edulcorava magistralmente le fiabe dei Grimm, zeppe di morti, orfani, matrigne, figliastri, patrigni senza più storia né futuro, fu parimenti in grado di far sorridere generazioni di bambini _______________________________ ______________________________ http:// lineatempo.ilsussidiario.net http://www.lineatempo.eu 1
Non temere: il volumetto di Sgarbi, pesa; ma le meraviglie di cui narra, sono davvero leggere. Un... more Non temere: il volumetto di Sgarbi, pesa; ma le meraviglie di cui narra, sono davvero leggere. Una vera «cartografia del cuore». E se per ragioni editoriali si pubblica nella collana dei «Saggi» Bompiani, potremmo suggerire di definirlo una sorta di «saggio da viaggio». Più che far venir voglia di leggere, credo faccia venir voglia di infilarselo in qualche zaino e andare a vedersele per davvero quelle meraviglie. Grande pregio di certi libri è sempre stato quello di far scoprire le bellezze del mondo, e quindi muovere, anche e proprio fisicamente, il lettore ad una azione conseguente. Il libro di Sgarbi è dunque un libro rigorosamente morale, ossia indica una direzione e chiama chi legge ad una responsabilità di fronte ai tesori d'arte e di paesaggi che l'Italia reca in dono a chi la abita. O fai solo il turista, e quindi consumi, come all'ipermercato, i cosiddetti «beni culturali». Oppure provi a viaggiare i luoghi della penisola, e li ammiri contemplandoli per quello che sono e possono rivelarti, gratis. La bellezza di cui si parla in questo libro non deve giustificare la propria esistenza con l'essere per forza 'produttiva' o fonte di qualche indotto commerciale. È la rara bellezza, e forse perciò la sola autentica, di ciò che non ha prezzo. Nella felicità di cui è capace la scrittura di Sgarbi, sempre misurata, spesso stilisticamente raffinata, e a tratti anche pedagogica-ad esempio nel raccordare con linee essenziali un percorso di storia d'arte per inquadrare meglio gli oggetti-; in quella felicità da scrittore consapevole che il bello, spesso, ha bisogno di forme semplici per essere meglio inteso; ebbene, in quella felicità, e quasi facilità del suo discorso, Sgarbi pone questioni importanti e decisive. La prefazione, in questo senso, è un piccolo tesoro. Noi siamo, secondo l'Autore, come Alice che si trova «nel bel mezzo di una fiaba», in quel paese delle meraviglie che è l'Italia. Un'Italia però che «infaticabili privati e amministratori si sono accaniti per distruggere, rovinare, aggredire, sfregiare, torturare» e che tuttavia, anche a dispetto dei «vandalismi delle pale eoliche», resiste in «vasti spazi remoti e incontaminati di paesaggio». Un'Italia «non obbligatoria, non frequentata, non ricercata», quella «che non rende» con gli «sviluppi sostenibili». Di qui il senso del libro: non tanto riscoprire sotto un diverso punto di vista luoghi noti ma dimenticati, quanto piuttosto vedere finalmente quel che ancora rimane «proprio non prima visto». Quindi giù, da nord a sud, da oriente a occidente, da Trieste a Milano, da Imola a Pisa, da Brindisi a Riace a Gela. Quella dimensione dello sguardo pieno di stupore per la ricchezza d'acque dolci e di pesci, che aveva mosso nel Duecento Bonvesin da la Riva a narrare le Meraviglie di Milano, si estende qui all'intera penisola, ritrovando una tradizione del saggio d'arte che anche l'altro gran lombardo, dico Carlo Emilio Gadda, aveva saputo rinnovare in piena modernità novecentesca. Leggiamo così dei veri protagonisti del libro, che non sono perciò le grandi città d'arte, pur vagliate con occhio nuovo e curioso; quanto i brevi e a volte brevissimi capitoli dedicati, e cito per esercitare il gusto, a Cerveno e a Varallo; a Mondovì o a Camogli; a Faenza o a Cagli. O al monumento intitolato a Francesco Baracca, che si alza in volo nel cielo di Lugo di Romagna. O alla Fiasca dei fiori del Cagnacci nella pinacoteca di Forlì. Così, appunto, solo per 'saggiare'. E continuerei, come se avessi viaggiato per davvero, con la voglia di raccontarvi tutte le meraviglie che ho visto. Ma per fortuna l'ha già fatto Sgarbi.
Come tutti i Moderni, che sanno di appartenere al giusto senso della storia e del progresso, anch... more Come tutti i Moderni, che sanno di appartenere al giusto senso della storia e del progresso, anche Corrado Augias è un uomo Antico. Del resto, ogni Modernità è sempre nata come appassionato rinnovamento di valori che si ritennero smarriti o corrotti da qualche epoca di mezzo, da qualche medio evo più o meno lungo, più o meno buio; deturpati da qualche barbaro o da qualche fanatica guerra religiosa. Lo fu l'Umanesimo, e il filologo Valla è infatti subito ricordato in questa narrazione. Lo fu il Rinascimento del Machiavelli, scandalizzato dal commercio politico delle istituzioni sacre. Lo fu Lutero, che invocava un ritorno alle antiche origini del culto interiore. E in questa solidarietà coi Padri, con le Autorità della tradizione dei 'virtuisti', come li definiva polemicamente Giacomo Noventa, anche Dante che si scaglia contro il potere temporale dei Papi può diventare piuttosto che l'ultimo medievale, il primo dei proto-moderni. Addirittura San Francesco, solo che si pensi non alla sua obbedienza o alla lode del Creato, ma al rigore della sua povertà davanti allo sfarzo della Corte papale. «Molti anni addietro»-scrive infatti Augias a proposito della commistione fra sacro e profano-«personaggi di assai maggior peso dell'autore di questo libro avevano lamentato più o meno le stesse cose. Per esempio, Francesco d'Assisi o Martin Lutero». Se il ritorno agli Antichi è una costante dei protagonisti del primo mondo moderno, a maggior ragione lo sarà stato per i protagonisti del secondo, come gli Idéologues dell'Illuminismo, immersi come furono nel culto del Neoclassico, e la cui lezione tanto penetrò l'intelletto e il cuore del giovane Manzoni, anch'egli spesso citato, che ne sintetizzò l'ideale nel celebre «sentir e meditar». Tuttavia, come erede di quei Moderni, Augias sembra voler ribadire innanzitutto con questo libro una particolare lezione degli Antichi: passione civile e nobile uso della ragione: sentire e meditare, appunto. Certo, in questa altezza morale, assai preziosa dati i tempi che corrono, sta anche il limite di uno sguardo che non può dirci nulla circa il paradosso dell'esperienza storica di un Dio invischiato a tal punto nelle faccende umane da sembrare, come ricorda Augias, «troppo umano», per essere davvero un Dio. Da uno sguardo orientato verso la sola vicenda dell'intrigo politico o del complotto di potere o della brama sessuale, non si dovrà perciò attendersi più di quanto potesse dire un antico e colto storico romano intorno all'assurdo logico di un re dei re, figlio di una serva, finito per sua volontà ammazzato. Se non costatarne con disappunto l'irragionevolezza. Ma Augias sembra far proprio questo limite ed anzi, pienamente consapevole di tale assunto, avverte sin dal principio che l'oggetto del suo lavoro non è la storia della «Chiesa cattolica in quanto espressione della fede», ma «alcune storie significative relative alla Santa Sede (il Vaticano)» narrate allo scopo di illustrare «il terribile prezzo» che la Chiesa ha pagato «per tenere unite la sua missione spirituale e la sua natura politica di Stato», per «conciliare cielo e terra». Non c'è bisogno di ripetere qui che l'Autore, oltre che narratore raffinato, è uno scrittore di parola. Ed è perciò entro tale prospettiva che varrà a chi legge il piacere di seguirlo. Di capitolo in capitolo egli infatti è capace di condurci attraverso una vicenda millenaria, che tuttavia prende l'avvio ogni volta non dalla storia, ma dall'amore per la sua città, Roma, declinato nelle forme di alcuni dei suoi più gloriosi monumenti o di alcune delle sue più celebri istituzioni. Dalla «casa tutta d'oro» di Nerone alla guardia svizzera del Papa; dall'Arco di Costantino, «tra i più noti e meno conosciuti», all'immensa Basilica di San Pietro; da un incrocio stradale di via delle Quattro Fontane a Piazza del Quirinale; da una lapide di marmo bianco all'«affaccio clamoroso» della Casa dei Cavalieri di Rodi; e così via, per il ricchissimo indice della toponomastica dell'Urbe segnata dalla presenza della Santa Sede. Dunque Roma è la vera protagonista del volume, e il suo fascino il vero motore dell'indagine storica che ne vuole rivelare un volto per certi aspetti inedito, il suo inestricabile rapporto con la storia del Vaticano; Roma, l'Eterna, come avrebbero detto gli amati e citati storici dell'ultimo impero, come fosse attraversata nel suo lungo viaggio terreno anche dalla lunga vicenda del cattolicesimo, da cui sembra attendere in una eterna pazienza, prima o poi, di liberarsi. Nasce forse anche di qui, oltre che dai drammi dei personaggi, il senso di una nostalgia che sembra attraversare i grumi di fatti e di sangue che Augias cerca di sciogliere con la forza della sua investigazione, del suo 'meditare', e anche del suo mestiere di storico. E credo si debba insistere su questi nodi centrali di ogni capitolo, così intensi per citazioni e documenti, per ampi e densi e gustosi excursus, se si vuole sentire la migliore delle virtù antiche diffondersi sulla tragicità degli eventi e le
La chiarezza della scrittura si accorda, è il caso di dirlo, con la limpidezza di una storia semp... more La chiarezza della scrittura si accorda, è il caso di dirlo, con la limpidezza di una storia semplice e insieme d'eccezione. Non a tutti infatti capita di cominciare a suonare la tromba nella banda di un paesino sardo e trovarsi dopo alcuni anni ad essere considerato tra i più importanti e celebrati jazzisti contemporanei della scena internazionale. Non vorrei però dare l'impressione che con il racconto autobiografico Paolo Fresu abbia inteso rinnovare a modo suo il genere delle biografie di uomini illustri e di successo, così in voga già nella tradizione del self-help ottocentesco, e ancora ben salda nella cultura contemporanea. Si capisce, spesso le biografie delle star o dei vip attraggono anche per questo, e piace a chi legge scoprire i presunti segreti dell'ascesa dell'uomo qualunque ai gradini della fama e della notorietà, con il relativo contorno di duro lavoro, fatiche, e occasioni che si sono astutamente sapute sfruttare. Non so, mi viene in mente Madonna; o anche Briatore. Il mito di volere è potere e dell'uomo che si fa da sé perdura e si trasforma. E invece no. La memoria di Fresu, scritta quasi tutta al semplice imperfetto, sembra nascere innanzitutto dalla necessità di esprimere una gratitudine: quella di un «miracolato» scampato al gioco ambiguo della sorte di un incidente mortale, che appunto così ringrazia della vita che ha vissuto. Autore consapevole del piacere della scrittura, che per diletto ha praticato spesso in italiano e soprattutto in sardo, a Fresu la scrittura piace anche «perché sa di suono». Così egli la rende partecipe del linguaggio con cui ha scelto di esprimersi meglio, quello della musica jazz appunto, per raccontare «una storia normale che altrimenti, dopo quella mattina d'autunno, sarebbe rimasta solo nelle note della mia tromba». Attraverso la musica delle sue parole scopriamo con lui non solo le vicende di una carriera, ma soprattutto il mondo e la cultura che lo hanno nutrito e circondato. L'incrocio di destini nella nativa Berchidda, le campagne e le trebbiatrici, le vigne, i tronchi dei sugheri, le processioni, le scuole, i maestri del conservatorio di Cagliari. Che non rimangono folklore oleografico e nostalgico, ma linfa che darà vita alla modernità delle sperimentazioni del suo jazz. La novità della sua matura concezione di suono e silenzio viene infatti da «una visione che prendevo direttamente dalla terra, dalla realtà del paese e della campagna». E scopriamo pure come nella vita dell'arte un incontro mancato, anzi l'Incontro mancato, quello naturalmente con il mito di Miles Davis, anziché un insuccesso possa diventare quasi per paradosso il rapporto più intenso e decisivo per la scoperta di sé, della propria via musicale e del proprio stile. Intanto l'orizzonte si allarga, e diventa Siena, con Rava, e l'Italia importante della cultura, dalla Vanoni a Fo alla poetessa Patrizia Vicinelli, da cui nasceranno straordinarie collaborazioni fra canto, gesto, suono e parole. E i viaggi e l'Europa, e la Cina e l'Africa. La musica diventa il linguaggio intorno al quale organizzare idee, e scopriamo Fresu promotore di manifestazioni e associazioni, come la sua «Time in Jazz», «una sfida umana e creativa e senza fine, spesso estenuante, ma che ogni volta gratifica, emoziona e riempie di gioia». Agli appassionati di Jazz, e soprattutto ai lettori che viceversa non ne sanno nulla, agli appassionati dell'arte e dei suoi linguaggi, e a tutti i curiosi, io direi di leggerlo.
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Io mi domando che cosa spinga gli uomini a pubblicare nuovi libri, a innalzare di un gradino la g... more Io mi domando che cosa spinga gli uomini a pubblicare nuovi libri, a innalzare di un gradino la gigantesca tomba delle loro speranze deluse, a posare una nuova pietra per quelle "cattedrali della studidità" che sono le nostre biblioteche. La nostra epoca, del resto, non ha bisogno di libri. Ne ha troppi. Non legge, o legge male, perché trova i libri lunghi e difficili. Le occorrono degli "slogan" grossolani, che la dispensino dal pensare. Perché non vuole pensare. E non vuol essere libera. Se vuole qualche cosa, forse inconsciamente, vuole la venuta di qualcuno che le prometta la salvezza. Che strappi la sua vita alla distruzione. Forse un santo. Un santo che abbia successo. Vi sono, senza dubbio, libri eterni, che bisogna salvare. Immortali, ma soltanto se rivivono nelle nostre anime. Ci si domanda appunto se essi rivivano nell'anima di questa generazione. Ci si domanda se i nostri giovani interroghino se stessi, con Socrate, sulla saggezza. Ci si domanda anche se essi conoscano Socrate. Se Socrate sia per loro qualche cosa di più che un nome, qualche cosa di più che un morto, morto per sempre, se non risveglia più il fervore dei nostri figli. Non sappiamo più chiaramente se l'angoscia di Amleto susciti in essi un'eco fraterna. Se essi piangano con chi piange, se gioiscano con chi gioisce. La Buick da 24 cavalli non è forse più "sacra" di tutto ciò? Le luci della città non sono forse più calde dei pallidi chiarori venuti da tanto lontano? C. MOELLER, Saggezza greca e paradosso cristiano, Brescia, Morcelliana, 1978 (I a ed. Paris 1948), p. 11 Torna alla mente, riflettendo sulle questioni offerte dal dossier dedicato al latino, una nemmeno troppo antica Pubblicità Progresso, che ebbe un certo successo televisivo. Per mostrare a tutti l'irrinunciabile e indispensabile presenza della plastica nel mondo moderno, la sua ormai irreversibile utilità sociale e, quindi, la sua intrinseca 'bontà', venivano mostrati momenti della vita quotidiana-gita di famiglia in auto, spesa al grande magazzino, gesti di vita domestica, normale attività lavorativa… − durante i quali via via cominciava a scomparire tutto ciò che fosse fatto di quel materiale. L'automobile si riduceva così ad una patetica ferraglia inservibile, il dentifricio colava sconfortato senza spazzolino, si tentavano improbabili scritture con penne inesistenti, gli uffici un tempo trionfanti di computer si svuotavano desolati… Così dovremmo provare ad immaginare cosa resterebbe del nostro mondo, della nostra cultura, delle nostre istituzioni, della nostra lingua e, quindi, di noi stessi se cominciassimo ad eliminare tutto ciò che è costituito dalla tradizione del latino e di ciò che con quella lingua ancora oggi si riesce a dire e a costruire. Non credo si andrebbe molto lontani dal vero se ci immaginassimo un mondo franato e abitato da uomini pressoché afasici, incapaci di intendere e comunicare alcunché. E verrebbe la tentazione di fare una prova anche con ciò che qui si sta scrivendo; ma lasciamo volentieri l'esperimento al lettore. Eppure sembra proprio questo il destino che da più parti, e massime quelle istituzionali, si sta preparando per la cultura latina ed il suo insegnamento. Certo, il coraggio di finirlo, di farlo fuori con rapidità, sembra che manchi, e si fa appello perciò ad astratti valori del passato, che giustificherebbero almeno la sopravvivenza di questo relitto, di questa lingua 'morta', nei musei della cultura e nei laboratorii di necrofili specialisti, dai Licei classici alle Facoltà Universitarie. Per fortuna, le voci di alcuni autorevoli uomini di cultura si sono alzate a sua difesa, mettendo in guardia dalla troppo facile soluzione delle 'riserve indiane', che non rende ragione della forza che il latino ancora oggi esercita sulla costituzione del mondo Occidentale. Sono questioni importanti, che alcuni ambienti universitari, alcune scuole e alcune riviste specialistiche da tempo stanno discutendo sistematicamente. Quello che invece ha spinto una rivista di storia e letteratura moderna a rischiare un numero 'impopolare' sul latino è stato piuttosto constatare sui volti di molti colleghi e di troppi amici la
Studiato il vino nella vite, considerato nella leggenda, nella poesia e nei costumi, visto come s... more Studiato il vino nella vite, considerato nella leggenda, nella poesia e nei costumi, visto come si compone e come si traffica, in che maniera opera sull'organismo, e per che via conduce al delitto, alla pazzia e alla morte, non resta che a trattare dei suoi effetti psicologici: dire, cioè, come agisca sull'intelligenza, sull'immaginazione e sul sentimento, fin che si rimanga, bevendo, molto di qua da quel limite funesto varcato il quale il bevitore cade nelle mani del Professore Lombroso. (E. De Amicis, Gli effetti psicologici del vino) C'era una volta il lontano e lontanissimo 1880. Era una sera d'inverno, dicono le cronache. Noi, quella sera, la immaginiamo anche gelida e sferzata dal vento, che spesso soffiava alle latitudini della Torino della belle époque. In quel buio freddo, negli accoglienti locali della Società Politecnica, una ricca sala veniva illuminata per accogliere i signori del nuovo pubblico dell'Italia Unita. Nobili, colti borghesi, dame e signore, medici, rappresentanti del clero, avvocati, commercianti, economisti, uomini d'affari, latifondisti, studenti universitari, veri intellettuali, accorrevano agli appuntamenti che scienziati e letterati diffondevano, per rinnovare, a sentir loro, la vecchia e stantia cultura nazionale. In quell'inverno torinese, il pubblico era andato ad ascoltare, per undici serate, alcuni fra i più celebri relatori del tempo: il filologo Arturo Graf aveva parlato de La leggenda del vino; Alfonso Cossa de La chimica del vino; l'antropologo Corrado Corradino del vino Nei costumi dei popoli; il notissimo naturalista, scrittore e rettore dell'Università,Michele Lessona, aveva trattato invece de I nemici del vino; l'economista Cognetti De Martiis aveva spiegato Il commercio del vino; Giovanni Arcangeli La botanica del vino; La fisiologia del vino era stata esposta dal famoso medico Angelo Mosso; mentre lo scrittore Giuseppe Giacosa, amico di Fogazzaro, aveva intrattenuto il pubblico su I poeti e il vino; infine, Il vino nel delitto, nel suicidio e nella pazzia aveva avuto l'onore di essere presentato dal luminare delle scienze antropologiche, alieniste e criminali Cesare Lombroso, che allora godeva di fama internazionale. Non si era trattato, dunque, di discutere sulla rivoluzione del darwinismo o dell'origine scimmiesca dell'uomo; e neppure delle recenti e meravigliose applicazioni della corrente elettrica: tra le austere, scientifiche e positiviste pareti della Società Politecnica, il tema stesso sembrava scelto apposta per scaldare le menti e gli animi di tutti i partecipanti. Quale argomento più tradizionale del vino, in Piemonte poi, avrebbe meglio potuto rappresentare la vittoria delle esatte conoscenze razionali sulle irrazionali, mitiche, fumose, ebbre visioni del passato? Come se finalmente, con l'avvento dell'Età del progresso, fosse cessata la grande sbornia dell'irrazionalità umana e della sua ignoranza. La civiltà moderna sarebbe stata senza dubbio più sana, robusta e, soprattutto, più sobria e «per bene» di quella trascorsa in mezzo ai fumi dell'alcool. Insomma, il vino andava una volta per tutte addomesticato. E vinsero la loro battaglia, come si vede oggi dal numero esorbitante di dotti esperti del vino che intrattengono le casalinghe in tv. Occorre aggiungere, tra l'altro, che il vero ideatore del ciclo di incontri era stato il più popolare degli scrittori di quegli anni, Edmondo De Amicis, l'autore del best and long seller della letteratura italiana per la scuola e per l'infanzia, il libro Cuore. Non poteva dunque essere che De Amicis a chiudere il ciclo con l'ultima conferenza, nella quale studiava la dimensione «psicologica» del vino, i suoi effetti sulla mente ancora lucida, prima cioè che si varcasse la soglia della ragione per entrare nel regno della demenza e della follia, studiata dal Lombroso. Mentre però il libro di De Amicis sarebbe diventato il modello per un'educazione degli Italiani seria e compita, il collega Collodi andava in giro a sbandierare sulle riviste dell'epoca il cattivo esempio di quel birbone di Pinocchio, burattino «maraviglioso», che secondo le intenzioni del suo creatore, mastro Geppetto, sapeva «ballare, tirare di scherma e fare i salti mortali»: e pare addirittura che il vecchio falegname l'avesse costruito non a fin di bene o di qualche sano utile, ma al solo scopo di
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Papers by stefano bertani
Testi letterarii a confronto.
P. Camporesi, Cultura popolare e cultura d’élite fra Medioevo ed età moderna
G. Leopardi, Saggio sopra gli errori popolari degli antichi
1. La Querelle des Anciens et des Modernes
2. Le Due culture, umanistica e scientifica
3. Cultura d’élite e cultura popolare
4. Cultura paterna e cultura materna
Pleni sunt coeli et terra gloria eius.
Gravy (Pacchia)
No other word will do. For that’s what it was. Gravy. Gravy, these past ten years. Alive, sober, working, loving, and being loved by a good woman. Eleven years ago he was told he had six months to live at the rate he was going. And he was going nowhere but down. So he changed his ways somehow. He quit drinking! And the rest? After that it was all gravy, every minute of it, up to and including when he was told about, well, some things that were breaking down and building up inside his head. “Don’t weep for me,” he said to his friends. “I’m a lucky man. I’ve had ten years longer than I or anyone expected. Pure Gravy. And don’t forget it.
(Ray Carver; traducetela pure con Google translator)
ricevuto il di lei secco rifiuto alla resa pubblica sul suo Giornale (pubblicazione oggidiana di rapido consumo) le mando allora del materiale grezzo, su cui chissà mai far scrivere altri meglio attrezzato nel dinamico format articolistico. A me di tali pagine vetuste ne capitano tra le mani assaissime, e trattan di certe quistioni passatiste, di polemiche 'datate' come dicon gli 'oggidiani'. Ma poi sboccia sempre un fiore che profuma e che distrae dal dibattito, dalle riforme strutturali della politica economica, dalla militanza virtuale, dalle smentite serie dei social. No, su Elon, Maschera della Marvel ancora non mi riesce. Ecco, tuttavia, uno scarabocchio come questo, tra scuola e giornalismo, tra scuola senza voti e giornali senza articoli, non parrebbe così peregrino da lasciarlo all'archivistica. Però. È del tal Croce, Benedetto. Chissà che un influencer non vi trovi ispirazione.