Marco Dalla Gassa
Marco Dalla Gassa (Turin, 1974) is a film scholar, associate professor at Ca’ Foscari University of Venice. His academic research focuses on Asian cinema, orientalism, film festival studies, cinematic representation of cultural differences, auteur theory and film analysis. From 2001 to 2010, he taught film studies at the Universities of Turin, Venice (Ca’ Foscari), Trieste and Rome (Lumsa). He has collaborated with several organizations dealing with the promotion and education of cinema (the Turin National Museum of Cinema, the Venetian film archive “Casa del cinema”, the “Festival dei Popoli” of Florence): he has curated exhibitions and film programs, courses, conferences, etc. He has been a researcher for the Italian National Childhood and Adolescence Documentation and Analysis Centre. He has edited and written several academic publications (essays and reviews) in peer-reviewed journals and magazines. His main books are two monographic studies about Abbas Kiarostami (edited by Le Mani, 2001) and Zhang Yimou (Le Mani, 2003, co-author Fabrizio Colamartino), a volume on contemporary Far East cinema (Utet, 2010, co-author Dario Tomasi), a film analysis of Kurosawa’s masterpiece Rashōmon (Lindau, 2012) and a dissertation about orientalism and exoticism in modernist European cinema (Mimesis, 2016). He co-directors a book series titled “Cinema & Cultural Studies” for Meltemi Press and a screening film series titled "CinemARTa Zone di contatto"
Address: Department of Philosophy and Cultural Heritage
Palazzo Malcanton Marcorà,
Dorsoduro 3484/D,
30123 Venice
Address: Department of Philosophy and Cultural Heritage
Palazzo Malcanton Marcorà,
Dorsoduro 3484/D,
30123 Venice
less
InterestsView All (36)
Uploads
Latest Publication: by Marco Dalla Gassa
Teatro Ca' Foscari 2024, Cinema
Giovedì 14 marzo 2024
Ore 16.30 - 18.30
"Una camera tutta per sé" - Masterclass con Céline Sciamma
Ore 19.00
"This is How a Child Becomes a Poet", di Céline Sciamma (Francia, Italia 2023, 16’)
"Petite maman" di Céline Sciamma (Francia, 2021, 72’)
Al termine della proiezione Caterina Serra (scrittrice e sceneggiatrice) e Alessandro Del Re (Rete Cinema in Laguna) dialogano con l’autrice Céline Sciamma
Introducono Marco Dalla Gassa (Università Ca’ Foscari Venezia) e Silvia Jop (Isola Edipo)
Presentato da CinemARTa Zone di contatto e “Una camera tutta per sé” in collaborazione con Rete Cinema in Laguna, Isola Edipo, Circuito Cinema Venezia, Dipartimento di Filosofia e Beni Culturali, Incroci di Civiltà e LEI - Leadership, Energia, Imprenditorialità.
La conversazione si terrà in francese e italiano
"Una camera tutta per sé" è un progetto a cura di Silvia Jop (Isola Edipo), Alessandro Del Re e Giulia Briccardi (Rete Cinema in Laguna), Marco Dalla Gassa (Università Ca' Foscari Venezia) che intende valorizzare lo sguardo cinematografico al femminile nelle sue competenze e sensibilità. Si articola in incontri con cineaste e filmmakers che hanno dimostrato, con le loro opere, di saper raccontare il mondo da punti di osservazione originali, personali, legati (ma non solo) a una prospettiva di genere.
"This is How a Child Becomes a Poet"
Girato a Roma in modalità produttiva completamente autonoma "This is How a Child Becomes a Poet" è un commiato pieno d’amore alla poetessa Patrizia Cavalli e ai suoi lavori. Attraverso le immagini di un vecchio film anni ’50, al ritmo del battito delle mani di Kim Novak, Céline Sciamma ci porta tra oggetti e le foto ricordo nella casa della compianta poetessa. (VeneziaNews)
"Petite Maman" racconta la storia di Nelly, una bambina di otto anni che ha appena perso l'amata nonna. Con i genitori, sta rimettendo in ordine le cose della casa tra i boschi in cui sua mamma Marion è cresciuta. Ha così modo di vedere la casa sull'albero in cui la madre era solita giocare. Un giorno, però, la madre scompare e Nella si ritrova davanti una bambina sua coetanea che asserisce di chiamarsi Marion.
Céline Sciamma ha studiato sceneggiatura alla FEMIS di Parigi. Tra il 2004 e 2006 scrive “Naissance des pieuvres”, aggiudicandosi la nona edizione del Prix Junior per la Miglior sceneggiatura. Una scrittura che nel 2007 diventa il suo primo lungometraggio, selezionato ai Festival di Cannes (Un Certain Regard), Toronto, Londra e Rotterdam. Nel 2011 firma “Tomboy” che si aggiudica, tra i numerosi premi, il Teddy Jury Award alla Berlinale. Nel 2014 presenta “Bande de filles (Diamante nero)” alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes. Due anni dopo scrive le sceneggiature di “Quand on a 17 ans (Quando hai 17 anni)” di André Téchiné e di “Ma vie de Courgette (La mia vita da Zucchina)”, film d’animazione di Claude Barras che riscuote un notevole consenso di critica e pubblico e che tra i numerosi riconoscimenti, riceve una Nomination agli Oscar. Nel 2019 torna alla regia con “Portrait de la jeune fille en feu (Ritratto della giovane in fiamme)”. Un altro grande successo che le porta in dote numerosi premi tra cui quello per la Miglior sceneggiatura al Festival di Cannes. Nel 2021 dirige “Petite maman” presentato in anteprima al Festival di Berlino. Nel 2018 insieme a molti colleghi ha fondato il Collectif 50/50, associazione francese che promuove l’uguaglianza tra donne e uomini e l’inclusione della diversità sessuale e di genere nell’industria cinematografica e audiovisiva.
Books by Marco Dalla Gassa
Edited Books and Special Issues by Marco Dalla Gassa
Journal Articles by Marco Dalla Gassa
Teatro Ca' Foscari 2024, Cinema
Giovedì 14 marzo 2024
Ore 16.30 - 18.30
"Una camera tutta per sé" - Masterclass con Céline Sciamma
Ore 19.00
"This is How a Child Becomes a Poet", di Céline Sciamma (Francia, Italia 2023, 16’)
"Petite maman" di Céline Sciamma (Francia, 2021, 72’)
Al termine della proiezione Caterina Serra (scrittrice e sceneggiatrice) e Alessandro Del Re (Rete Cinema in Laguna) dialogano con l’autrice Céline Sciamma
Introducono Marco Dalla Gassa (Università Ca’ Foscari Venezia) e Silvia Jop (Isola Edipo)
Presentato da CinemARTa Zone di contatto e “Una camera tutta per sé” in collaborazione con Rete Cinema in Laguna, Isola Edipo, Circuito Cinema Venezia, Dipartimento di Filosofia e Beni Culturali, Incroci di Civiltà e LEI - Leadership, Energia, Imprenditorialità.
La conversazione si terrà in francese e italiano
"Una camera tutta per sé" è un progetto a cura di Silvia Jop (Isola Edipo), Alessandro Del Re e Giulia Briccardi (Rete Cinema in Laguna), Marco Dalla Gassa (Università Ca' Foscari Venezia) che intende valorizzare lo sguardo cinematografico al femminile nelle sue competenze e sensibilità. Si articola in incontri con cineaste e filmmakers che hanno dimostrato, con le loro opere, di saper raccontare il mondo da punti di osservazione originali, personali, legati (ma non solo) a una prospettiva di genere.
"This is How a Child Becomes a Poet"
Girato a Roma in modalità produttiva completamente autonoma "This is How a Child Becomes a Poet" è un commiato pieno d’amore alla poetessa Patrizia Cavalli e ai suoi lavori. Attraverso le immagini di un vecchio film anni ’50, al ritmo del battito delle mani di Kim Novak, Céline Sciamma ci porta tra oggetti e le foto ricordo nella casa della compianta poetessa. (VeneziaNews)
"Petite Maman" racconta la storia di Nelly, una bambina di otto anni che ha appena perso l'amata nonna. Con i genitori, sta rimettendo in ordine le cose della casa tra i boschi in cui sua mamma Marion è cresciuta. Ha così modo di vedere la casa sull'albero in cui la madre era solita giocare. Un giorno, però, la madre scompare e Nella si ritrova davanti una bambina sua coetanea che asserisce di chiamarsi Marion.
Céline Sciamma ha studiato sceneggiatura alla FEMIS di Parigi. Tra il 2004 e 2006 scrive “Naissance des pieuvres”, aggiudicandosi la nona edizione del Prix Junior per la Miglior sceneggiatura. Una scrittura che nel 2007 diventa il suo primo lungometraggio, selezionato ai Festival di Cannes (Un Certain Regard), Toronto, Londra e Rotterdam. Nel 2011 firma “Tomboy” che si aggiudica, tra i numerosi premi, il Teddy Jury Award alla Berlinale. Nel 2014 presenta “Bande de filles (Diamante nero)” alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes. Due anni dopo scrive le sceneggiature di “Quand on a 17 ans (Quando hai 17 anni)” di André Téchiné e di “Ma vie de Courgette (La mia vita da Zucchina)”, film d’animazione di Claude Barras che riscuote un notevole consenso di critica e pubblico e che tra i numerosi riconoscimenti, riceve una Nomination agli Oscar. Nel 2019 torna alla regia con “Portrait de la jeune fille en feu (Ritratto della giovane in fiamme)”. Un altro grande successo che le porta in dote numerosi premi tra cui quello per la Miglior sceneggiatura al Festival di Cannes. Nel 2021 dirige “Petite maman” presentato in anteprima al Festival di Berlino. Nel 2018 insieme a molti colleghi ha fondato il Collectif 50/50, associazione francese che promuove l’uguaglianza tra donne e uomini e l’inclusione della diversità sessuale e di genere nell’industria cinematografica e audiovisiva.
Abbas Kiarostami's Shirin (2007) is a film that reflects, in a profound and original way, upon the life of the movie theater and upon the closely interconnected relationship between the actor’s gesture and the spectator’s gesture. It is in fact a film entirely built around the idea of shooting, systematically in close up, a group of female spectators attending the representation of "Khosrow va Shirin", a famous traditional Persian poem of the twelfth century written by Nezami Ganjevi, in a specially recreated movie theater. However, the peculiarity of this meta-specta(c)torial operation is to be found in the decision of the Iranian director never to show the reverse shot of what they are watching, restricting himself to conveying only the sound of the drama and some luminous reverberations. As a "scene denied", only the emotions that color the faces of the female spectators and the semantization of the voice-off inform us about the performances that take place on the unseen screen. There is more: perhaps the European public does not know it, but the entire audience of Shirin is composed of a group of stars of the Iranian cinema and television, thus used to acting and not silently witnessing the performances of others. Within this complex play of mirrors, the essay reflects upon the short circuit created in Kiarostami’s film between actor’s gesture, faceification of forms, presentification of the audience, the acousmatic force of the absence of images, the lability of stardom and above all the discursive centrality of the filmophanic dimension of the film.
The present text analyses Ellen Degeneres' viral selfie shot during this year's Academy Awards, examining the role played by the mobile devices to develop a complex and articulate discursive field. Such a field is not only a result of transmedia processes but also of filmophanic, diegetic, and iconic-configurative dynamics that places the selfie in a multifocal landscape. Reconsidering a few suggestions of Agamben and Deleuze, the discussion will focus in particular upon the question of subjectivity or de-subjectivity of the persons portrayed and of the those who use the images through mobile devices and social networks.
http://edizionicafoscari.unive.it/it/edizioni/libri/978-88-6969-101-0/
Attraverso alcune case scaturite dall’immaginario dei registi che meglio hanno saputo raccontarle, si è cercato di definire per quali ragioni l’“abitare” risulti fondamentale per il cinema ma anche per l’uomo, e in che misura la sua rappresentazione filmica costruisca uno spazio domestico paradossalmente irragiungibile.
Testi di Sergio Arecco, Alessandro Cappabianca, Antonio Costa, Marco Dalla Gassa, Michele Gottardi, Paolo Jachia, Julien Lingelser, Nuccio Lodato, Carlo Montanaro, Deborah Toschi"
"
"
Giornata di studi a cura di Marco Dalla Gassa, Andrea Gelardi e Federico Zecca e promossa dal Gruppo “Festival ed eventi cinematografici”, in collaborazione con Trieste Film Festival e AFIC – Associazione Festival Italiani di Cinema
Trieste, 23 gennaio 2024
Scadenza CFP: 20 ottobre 2023
CALL FOR PAPERS
L’educazione al cinema, ai media e alla diffusione dell’audiovisivo costituisce, da sempre, una delle dimensioni operative più importanti dei festival cinematografici, almeno di quelli interessati ad avere positive relazioni con le istituzioni pubbliche, un impatto politico e sociale con i territori, un certo prestigio da spendere a livello internazionale, la costruzione e la salvaguardia di un proprio pubblico (specie tra i più giovani). Non è infatti un caso che tra i promotori della prima Esposizione Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia del 1932 ci fosse anche l’ICE, l’Istituto Internazionale per la Cinematografia Educativa, membro attivo delle Società delle nazioni, né che il suo direttore, il giornalista Luciano De Feo, già fondatore dell’Unione Cinematografica Educativa (più conosciuta come Istituto LUCE), fosse tra gli animatori dei congressi sul cinema d’insegnamento e di educazione svoltisi a Basilea nel 1927 e a Roma nel 1934, tra i primi momenti in cui si raccolgono le buone pratiche di film literacy maturate in molti paesi europei e non solo (Tailibert, D’Arcangeli, 2017). Fin dal principio, insomma, il carattere fieristico e “glamour” dei festival ha dovuto fare i conti anche con un’agenda educativa e un’attenzione per le generazioni più giovani, promossa da organizzatori, istituzioni e portatori di interesse. Ciò è ancora più vero quando, dopo il secondo dopoguerra, oltre a Venezia, anche altre realtà festivaliere iniziarono a farsi promotrici di attività di carattere educativo, chi includendo sezioni o programmi di proiezioni esplicitamente rivolti ai ragazzi o alle scuole, chi accompagnando la programmazione con momenti di confronto e discussione tra pari, chi intessendo rapporti con scuole, università o associazioni del Terzo settore. Nell’attuale e screziato panorama festivaliero, ricco di migliaia di manifestazioni di ogni ordine e grado, la presenza di programmi educational non rappresenta soltanto una sorta di obbligo civile da parte di curatori e programmatori per avanzare temi e questioni che interrogano il presente, ma spesso si rivela uno strumento assai efficace per acquisire prestigio, ricadute sociali e, non ultimo, per accedere a finanziamenti pubblici e privati.
Nel quadro appena evocato s’inserisce Istruzioni per l’uso. Film literacy e attività educative nei festival cinematografici italiani ed europei, una giornata di studi che vuole indagare un ambito di azioni festivaliere – quelle educative e formative, rivolte agli spettatori più giovani, anche per non disabituarli alla vita della sala – generalmente poco dibattuta sia dagli studiosi, sia dagli operatori culturali e cinematografici. L’incontro, che si svolge all’interno del Trieste Film Festival e vede impegnate in prima linea la Consulta Universitaria Cinema e l’Associazione Festival Italiani di Cinema, si configura come una prima occasione di confronto e studio per maturare criteri, concetti e una terminologia comuni, per intessere nuove relazioni istituzionali e per contribuire allo sviluppo di metodologie, strumenti e operatività condivisi in un ambito tra i più interdisciplinari e promettenti all’interno dei Film Festival Studies.
A tale scopo, invitiamo le studiose e gli studiosi a sottoporre studi di caso o contesto, scelti in quanto esemplari di specifiche tendenze o portatori di best practices, riflessioni metodologiche o concettuali e tentativi di storicizzazione che abbiano a che fare con uno o più aspetti della reazione tra festival cinematografici, film & media literacy. Tra questi, si considerino, come tagli auspicabili, ma non esaustivi:
- I fondamenti teorici della film & media literacy nell’ambito festivaliero;
- Gli eventi e le iniziative storicamente fondative;
- I modelli, gli obiettivi e gli strumenti della film & media literacy nei festival;
- Le tipologie di pubblico di riferimento e la loro composizione;
- Il contributo di personalità o di formazioni collettive particolarmente attive in questo ambito;
- Le politiche e le logiche di finanziamento;
- Le relazioni inter-istituzionali e la cooperazione;
- I partenariati internazionali;
- Gli strumenti o le procedure per la misurazione dell’impatto delle attività educative dei festival.
Le proposte (massimo 400 parole) corredate da bibliografia essenziale e breve biografia dovranno essere inviate entro il 20/10/2023 ai seguenti indirizzi di posta elettronica: dallagas@unive.it; andrea.gelardi@uniba.it; federico.zecca@uniba.it. L’esito della selezione sarà comunicato entro il 25/10/2023 ai/alle diretti/e interessati/e.
La giornata di studi si terrà il 23 gennaio 2024, durante la prossima edizione del Trieste Film Festival. Ai relatori e alle relatrici selezionati/e verrà offerto un pass del Trieste Film Festival che consentirà loro di avere pieno accesso al festival durante la sua intera durata.
L'iniziativa è promossa dal Gruppo “Festival ed eventi cinematografici” della Consulta Universitaria Cinema, in collaborazione con Trieste Film Festival e AFIC – Associazione Festival Italiani di Cinema.
Venezia, 11-12 Febbraio, 2020
Bari, 25-26 Marzo, 2020
Dead-line (estesa) per la presentazione delle proposte: 22 ottobre 2019
Keynote Speakers:
Gian Piero Brunetta, Università degli Studi di Padova
Gianni Canova, IULM Libera Università di Lingue e Comunicazione
Marijke de Valck, Utrecht University
Jean-Michel Frodon, Sciences-Po
Dina Iordanova, University of St Andrews
Roy Menarini, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna
Dorota Ostrowska, Birkbeck, University of London
Organizzazione: Marco Dalla Gassa (Università Ca’ Foscari di Venezia), Federico Zecca (Università di Bari Aldo Moro), Angela Bianca Saponari (Università di Bari Aldo Moro), Andrea Gelardi (Università di St Andrews).
Venice, 11-12 February, 2020
Bari, 25-26 March, 2020
Abstract Proposal [Extended] Deadline: 22 October 2019
Confirmed Keynote Speakers:
Gian Piero Brunetta, Università degli Studi di Padova
Gianni Canova, IULM Libera Università di Lingue e Comunicazione
Marijke de Valck, Utrecht University
Jean-Michel Frodon, Sciences-Po Paris
Dina Iordanova, University of St Andrews
Roy Menarini, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna
Dorota Ostrowska, Birkbeck, University of London
Organized by: Marco Dalla Gassa (University Ca’ Foscari, Venezia), Federico Zecca, Angela Bianca Saponari (University of Bari “Aldo Moro”), Andrea Gelardi (University of St Andrews).
This double-event conference seeks to contribute to the so-called film festival studies through a series of roundtables and debates involving film critics, practitioners and scholars.
In this vein, Reframing Film Festivals seeks to foster an interdisciplinary and intersectional reading of film festivals, here conceived as a historiographic “dispositive”, as cultural formations and as financial institutions. Within a single and cohesive research framework, the Ca’ Foscari strand (11-12 February) will be devoted to the critical-historic and historiographic dimension of film festivals, while at the University of Bari (25-26 March) the focus will be placed on their cultural and economic dimension.
sistema espressivo ha sempre avuto un rapporto privilegiato con
l’esperienza del viaggio, intesa come esercizio creativo, momento
di formazione personale o sociale, genere artistico. Da questa
consapevolezza nasce "Nel mezzo del cammino. Il viaggio
come esperienza estetica" un’iniziativa accademica e culturale che ha intenzione di interrogarsi sulle forme di rappresentazione del viaggio nelle arti attraverso un convegno (il 12 e 13 aprile in Aula Baratto, a Ca' Foscari), alcuni incontri con autori e una serie di proiezioni cinematografiche.
Nel mezzo del cammino è un’iniziativa promossa dalla Scuola
dottorale inter-ateneo di Storia delle arti (Università di Ca’
Foscari, Iuav e di Verona), in collaborazione con il Dipartimento di
Filosofia e Beni Culturali, l’Assessorato alle Attività Culturali del
Comune di Venezia, il Circuito Cinema di Venezia, il Detour -
Festival del cinema di viaggio, Mimesis Edizioni, EDT, Libreria La
Toletta e – come media partner – Arabeschi, Rivista di studi su
letteratura e visualità.
La presente Call for papers intende quindi richiamare l’attenzione sulle modalità attraverso le quali il cinema italiano del Dopoguerra ha trattato il tema della cura, auspicando l’analisi dell’invecchiamento in relazione agli apporti sussidiari forniti da istituzioni di natura formale e informale.
La definizione di cura consegnataci da Joan Tronto all’inizio degli anni Novanta – quale dispositivo di accudimento materiale da porre in atto nei confronti di soggetti le cui situazioni esistenziali necessitino di riparazioni contingenti e risolutorie – è stata il punto di partenza per provare a considerare i processi e i meccanismi che sostanziano questa pratica di aiuto e di accudimento in termini senz’altro relazionali, concreti e contestuali.
Secondo questa impronta di ricerca, il cinema nazionale del periodo considerato ha funzionato da eccezionale forma di rappresentazione per sondare la disposizione della cura nelle sue implicazioni storiche, sociali e culturali. Seguendo infatti il profilo cronologico che dall’immediata cessazione del conflitto ha condotto il Paese verso il boom economico e la fase del riflusso, sino agli anni Ottanta e Novanta, è stato possibile diagnosticare alcune caratteristiche essenziali dell’approvigionamento
della cura a vantaggio delle generazioni più anziane.
Il primo dato significativo – registrato sintomaticamente anche dall’istituzione cinematografica – è la strutturale fluidità dei processi di cura operanti in Italia proprio a partire dalla ricostruzione. Il cinema conterraneo smentisce la convinzione generale secondo cui fra cura formale e cura
informale vi sarebbe stata, nell’evoluzione dello stato sociale italiano, una rigida separazione. Non solo i due tipi di accudimento verso gli anziani si sono completati a vicenda; ma la stessa cura informale – principalmente illustrata dal cinema nell’ambito del gruppo familiare e spesso considerata come investita, da sempre, di una certo grado di sofisticazione – è in realtà una sorta di sottoprodotto di quella formale.
Il secondo punto d’interesse è direttamente collegato alla natura problematica dei rapporti tra le due realtà di cura appena citate. A più riprese e per mezzo di alterne angolazioni, il cinema italiano moderno pone in essere degli autentici arcaismi e anacronismi. Sul piano della raffigurazione dei luoghi della cura, a parte il segmento temporale immediatamente successivo al miracolo economico e alla riforma ospedaliera del 1968, le strutture di assistenza per gli anziani assumono delle connotazioni storicamente antiquate e formalmente spurie. Sul terreno diretto delle relazioni sociali, il ruolo vincente è senz’altro conferito alla cura informale e familiare, ache se quest’ultima, nella maggioranza dei casi, appare essere complicata, conflittuale e disfunzionale.
Infine, in relazione alle dinamiche sociali e agli equilibri di potere, la cura, empiricamente articolata e tradizionalmente veicolata da soggetti perlopiù femminili, per come il cinema in oggetto ce la mostra, perde progressivamente quest’ultima rilevante inflessione di genere. Uomini maturi,
indipendenti ovvero inseriti in un contesto familiare; giovani maschi che fanno ormai fatica a indossare pienamente gli abiti della norma patriarcale: questo insieme di attori sociali si misura con le emergenze più contingenti di soccorso ai propri parenti e congiunti.
the Intellectual Development of Children and Young Adults) where he enjoyed an extraordinary artistic freedom. Although he only achieved international recognition in the 1990s, with such masterpieces as 'Where
is the Friend’s Home?', 'Close Up', 'Life, and Nothing More' and 'Taste of Cherry', he was actually a “total” artist, able to give shape to meaning through several expressive media, from poetry to photography, from video art to theatre. In particular, during his final years before his recent death, he focused on the creation of short films, all portraying the deepest truths of everyday life. These short films are presented for the first time in a single event, which includes several national previews. These visual haikus will be alternated with readings — both in Italian and Persian — of some equally short and stunning poems written by Kiarostami in the same period. The result is a sequence of images that seek the power of words, and of words that achieve the intensity of images, in a quest for essential form and unexpected epiphanies.
di un film, mentre coinvolge di necessità l’intera storia, si pone anche come micro-narrazione autonoma foriera di significati indipendenti.
Reframing Film Festivals: Histories, Economies, Cultures
International Film Studies Conference
Venezia, 11-12 Febbraio, 2020
Bari, 25-26 Marzo, 2020
Dead-line per la presentazione delle proposte: 15 ottobre 2019
Keynote Speakers:
Gian Piero Brunetta, Università di Padova
Jean-Michel Frodon, Sciences-Po Paris
Dina Iordanova, University of St Andrews
Dorota Ostrowska, Birkbeck, University of London
Marijke de Valck, Utrecht University
Nel corso degli anni Duemila, il numero dei festival cinematografici ha subito un radicale incremento in tutto il mondo. Come emerge dai dati riportati dal sito FilmFreeway, nel 2019 risultano attivi tra i cinque continenti quasi ottomila festival: un numero due volte superiore a quello rilevato solo dieci anni prima. Le ragioni di questa esplosione sono molteplici: la centralità dei festival nella produzione e distribuzione (trans)nazionale dei film (Acciari e Menarini 2014; Iordanova 2015; Loist 2014; Wong 2011); la loro importanza nello sviluppo turistico ed economico dei territori di riferimento (Ercolano, Gaeta e Parenti 2017; Fischer 2013; Moretti and Zirpoli 2016); la loro rilevanza nella costruzione di specifiche culture di gusto e pratiche di consumo (Bills 1994; Di Chiara and Re 2011; Sassatelli 2011); ecc. Questa tendenza ha avuto un’importante riflesso anche all’interno degli studi di cinema: nell’ultimo decennio è emerso infatti un campo di ricerca, i film festival studies, interamente dedicato proprio all’analisi delle funzioni, della storia e della natura dei festival cinematografici (de Valck 2007; Elsaesser 2005; Iordanova 2013).
Ricollegandosi direttamente a questo settore di ricerca, il convegno Reframing Film Festivals: Histories, Economies, Cultures – organizzato sinergicamente dall’Università Ca’ Foscari di Venezia e dall’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro” in collaborazione con l’ Università di St Andrews e l’Apulia Film Commission – intende fornire un ulteriore contributo alla ricerca sui festival di cinema, attraverso il dialogo tra studiosi universitari, critici cinematografici e professionisti del settore. Più precisamente, il convegno mira a (re)inquadrare le riflessioni sui festival di cinema attraverso tre prospettive teoriche differenti ma strettamente intrecciate:
- Una prospettiva storiografica, che esplori le pratiche con cui i festival cinematografici contribuiscono a mettere in “forma” la storia del cinema (e dei media tout court), edificando specifici canoni estetici e gerarchie critiche.
- Una prospettiva culturalistica, che indaghi le modalità con cui i festival cinematografici contribuiscono ad articolare, attraverso i discorsi del e sul cinema e i media, specifiche identità nazionali, culturali, razziali, sessuali, ecc.
- Una prospettiva economica, che analizzi i processi con cui i festival cinematografici contribuiscono a produrre valore tanto all’interno della filiera industriale del cinema quanto sul piano dell’indotto turistico.
In questo senso, il convegno Reframing Film Festivals: Histories, Economies, Cultures intende promuovere una lettura interdisciplinare e intersezionale dei festival cinematografici, intesi sia come “dispositivi” storiografici, sia come formazioni culturali, sia ancora come istituzioni economiche. All’interno di un quadro di ricerca unitario e integrato, l’Università Ca’ Foscari di Venezia si concentrerà primariamente sulla dimensione storico-critica e storiografica dei festival; l’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro” si focalizzerà invece soprattutto sulla loro dimensione culturale ed economica.
A partire da queste premesse, il convegno intende stimolare proposte di interventi individuali o di panel precostituiti che lavorino sui seguenti ambiti di ricerca, declinabili sia a livello teorico che a partire da specifici case study:
- La forma-festival: storie e teorie
- Festival cinematografici e paradigmi storiografici
- Festival cinematografici e regimi estetici
- Microstorie dei festival cinematografici
- Politiche di selezione e programmazione
- Il cinema dei festival/il cinema “da” festival
- Direttori artistici, curatori di sezione, membri di giuria
- I prodotti editoriali dei festival cinematografi
- I pubblici dei festival cinematografici
- Festival cinematografici, cinefilia e critica
- Festival cinematografici e identità nazionali
- Festival cinematografici e geopolitica
- Festival cinematografici, etnocentrismo, esotismo
- Festival cinematografici e questioni di genere
- Festival cinematografici e razza
- Festival “monografici” e retrospettive
- Archival film festival e storiografia contemporanea
- Festival televisivi e web
- Virtual reality festivals
- Gli small festival: ruoli e funzioni
- Festival cinematografici e culture LGBTQI+
- I festival del cinema erotico e pornografico
- Il “circuito” dei festival e il mercato economico globale
- Festival cinematografici, distribuzione e produzione transnazionale
- Festival cinematografici e film funds
- Festival cinematografici e piattaforme digitali
- Modelli di business dei festival cinematografici
- Festival cinematografici e indotto economico
- Festival cinematografici e (cine)turismo
- Festival cinematografici e fashion industry
- Festival cinematografici e celebrity culture
- Forme di finanziamento dei festival cinematografici
- Festival cinematografici e sponsorship
Si prega di inviare una proposta di 300-500 parole e una breve biografia del/della proponente entro il 15 ottobre 2019 al seguente indirizzo di posta elettronica: reframingfilmfestival@gmail.com. Gli esiti della selezione delle proposte saranno comunicati entro il 31 ottobre 2019. Le presentazioni avranno la durata di 20 minuti. Le lingue del convegno sono l’inglese e l’italiano.
Organizzazione: Marco Dalla Gassa (Università Ca’ Foscari di Venezia), Federico Zecca (Università di Bari Aldo Moro), Angela Bianca Saponari (Università di Bari Aldo Moro), Andrea Gelardi (Università di St Andrews).
The deadline for the submission of abstracts is 15th April 2019.
Forse meno evidente, ma altrettanto decisiva è, a mio modo di vedere, la trazione/tensione che si stabilisce tra un “di qua” (de ci) e un “di là” (de là) e ancor meglio tra un qui e un altrove, in una rincorsa tra i due poli tanto delicata quanto determinata che si compie nelle logiche (di rappresentazione) del viaggio, dell’esserci precario (del cinema o dell’installazione) o del muoversi immobile (della fotografia). Ecco, nel quadro di una complessa e stratificata opera non-solo-cinematografica, la mia relazione al convegno intende indagare le forme di emersione odeporica che troviamo nella produzione più che cinquantennale di Varda, in modo particolare quella che si riferisce a viaggi in paesi «esotici» (eppure terribilmente concreti) come la Cina, l’Iran, Cuba o più recentemente, il Brasile e la Russia nella serie televisiva Agnès de ci de là Varda (2011).
Pochi mesi fa la Mostra del Cinema di Venezia ha festeggiato i suoi primi 90 anni. Era infatti l’agosto del 1923 quando negli spazi mondani dell’Hotel Excelsior si svolgeva la prima edizione di quella che allora si chiamava «Esposizione Internazionale d’Arte Cinematografica». Accorsero, solo per quella prima edizione, ben 25 mila spettatori, comunque pochi se si considera che nel 2022, quella del «ritorno alla normalità», la Biennale dichiara di aver venduto 60 mila biglietti e 12 mila accrediti, senza contare i 12 mila spettatori che hanno assistito alle proiezioni online. Se dal 1932 fino al 1946 la Mostra crebbe in un regime di monopolio, dal secondo dopoguerra in poi la concorrenza si è fatta sempre più intensa, visto l’affermarsi di analoghe manifestazioni in altre località e paesi non solo europei: da Cannes a Locarno, da San Sebastian a Berlino, da Edimburgo a Karlovy Vary e così via. Con il passare dei decenni alle manifestazioni già esistenti, se ne sono aggiunte un numero ancora più impressionante, di ogni risma e grandezza. Basti pensare che l’AFIC (Associazione dei Festival Italiani di Cinema) oggi include, tra le sue fila, più di 100 realtà associate, ma se si aggiungono quelle più piccole o più indipendenti in Italia il numero va moltiplicato per sette o otto volte. Secondo il portale FilmFreeway.com sono attualmente 698 i festival solo nella nostra penisola, più di ottomila in tutto il mondo.
Ci sono molte ragioni che spiegano perché un dispositivo così fragile come un festival – in balia della concorrenza di manifestazioni analoghe, dei chiari di luna dei finanziatori pubblici e privati, della dimensione effimera e volatile di ogni evento – è in grado di sopravvivere alle crisi economiche, alle dittature, alle pandemie e, da ultimo, allo svuotamento delle sale. Il festival, infatti, non moltiplica soltanto il capitale simbolico, economico e negoziale dei film, delle località turistiche e dei professionisti che lo abitano. È un barometro che influenza le pratiche della visione, le forme di circolazione, i gusti del pubblico e i criteri storiografici. È anche un acceleratore di esperienze e incontri, un volano di discorsi, un deposito di memorie, un laboratorio di formazione e apprendimento. Con sguardo retrospettivo, si può dire che certi festival hanno contribuito a plasmare la storia nazionale e geopolitica di molti paesi, dando forma alle contraddizioni dei contesti nei quali sono nati e cresciuti, anche se ultimamente assomigliano a eterotopie foucaultiane dove una comunità cinefila globale si può incontrare una settimana a Toronto e l’altra a Tokyo, una a Salt Lake City e l’altra a Riga, vedendo gli stessi volti, proseguendo gli stessi discorsi.
Per pensare e ponderare questo tipo di manifestazioni al di fuori delle giornate convulse durante le quali si svolgono, un’equipe di ricerca che unisce Ca’ Foscari, IUAV e VIU ha deciso di lanciare Carta Bianca. Storie orali e visuali dei festival cinematografici, un progetto che vuole valorizzare le storie e le memorie festivaliere dando voce ai suoi principali protagonisti: i direttori artistici da una parte e i film dall’altra. Lo stratagemma è quello della «carta bianca» ovvero l’attribuzione di libertà curatoriale a un direttore artistico che, nel corso di una serata-evento al Cinema Multisala Rossini, ricostruisce la storia del festival che dirige e presenta un film che ha segnato qualche edizione. L’occasione serve anche per ragionare su molte altre cose: dal modo di selezionare e valutare i film a come si tutela il patrimonio immateriale del cinema, da come divismo, glamour, arte e autorialità si conciliano a come certe logiche economiche o culturali incidono sulla fortuna o meno di una manifestazione e così via.
Il ciclo di incontri e visioni è iniziato il 19 ottobre con Giona A. Nazzaro direttore del Locarno Film Festival. I prossimi appuntamenti sono fissati per il 30 novembre e per il 14 dicembre rispettivamente con Sabrina Baracetti, direttrice artistica del Far East Film Festival e Gianluca Farinelli, direttore del Cinema Ritrovato di Bologna. Nel nuovo anno sono previsti tre appuntamenti: il 18 gennaio con Steve Della Casa direttore del Torino Film Festival, il 15 febbraio con Luca Mosso a capo del FilmMakerFest Milano e per chiudere – immancabile – il 1° marzo l’incontro con Alberto Barbera, attuale direttore della Mostra del Cinema.
Marco Dalla Gassa e Carmelo Marabello
Curatori del programma
Ovvero sulla questione dell’in-accessibilità dell’immagine postmediale.
di Marco Dalla Gassa
Doors without keys è il titolo di un’installazione presentata all’Aga Khan Museum di Toronto nello scorso inverno e può essere considerata l’ultimo lavoro compiuto di Abbas Kiarostami prima della sua recente scomparsa. L’opera d’arte si costituiva come una sorta di dedalo composto di alcune sale e corridoi chiusi alle cui estremità si stagliavano stampe fotografiche a grandezza naturale di porte e inferriate chiuse. Grazie a particolari effetti di luce presenti nelle singole fotografie e poi valorizzate nell’allestimento curato da Amir Ali Alibhai, il visitatore della mostra non era in grado di discernere, a prima vista, se il suo sguardo si posasse su vere e proprie porte serrate oppure su loro “banali” raffigurazioni bidimensionali. A completare l’installazione altre pareti contenevano haiku dell’artista dedicati al tema della porta e delle chiavi (qui, qui e qui alcune immagini della mostra).
Immagine lirica tra le più diffuse nella poesia persiana classica (ne fanno ampio uso, tra gli altri, anche autori come Hafez o Rumi), la porta è tradizionalmente un luogo-limite che marca l’inattingibilità dell’orizzonte mobile rappresentato dall’oggetto della ricerca. Quando chiusa, a segnalare una dimora inaccessibile, questo tipo di soglia allude alla presenza, quasi mai visibile agli occhi, d’infiniti piani da svelare. Pienamente inserita in una sensibilità estetica comune alla cultura e al cinema in lingua farsi (si veda ad esempio La casa è nera di Forough Farrokhzad) essa è stata utilizzata spesso dallo stesso Kiarostami nella sua filmografia perché luogo ideale nel quale ingenerare, in un orizzonte lirico condiviso, le condizioni di esistenza di racconti e interpretazioni spesso, però, senza vie di uscita (cfr. Dov’è la casa del mio amico? o Il vento ci porterà via).
Da questa prospettiva, Doors without keys – e più in generale tutta l’ultima parte della produzione kiarostamiana che annovera videoinstallazioni, fotografie, poesie, regie teatrali, ecc. – è un ottimo banco di prova per valutare come alcuni paradigmi culturali che caratterizzano una data tradizione estetica o un percorso artistico personale, siano costretti a trovare configurazioni differenti e profondamente ambivalenti in epoca di (supposta) illimitata accessibilità a informazioni, dispositivi, spazi di vita. Il malinteso ottico che sta alla base dell’installazione avanza, infatti, stringenti interrogativi non solo sulla natura “ontologica” delle immagini digitali o sui limiti del modello oculocentrico (peraltro già pienamente indagati nella stagione del modernismo), ma anche sulle tante forme d’inaccessibilità al sapere che viviamo nel presente, acuite dalle ristrettezze degli spazi d’interazione tra i corpi degli individui e i media dentro cui sono collocati. Non sfuggirà il fatto che le immagini di usci da cui non si esce (e in cui non si entra) sono in realtà finti medium che non assicurano la propria funzione connettiva e che, di contro, mettono in scacco persino le possibilità aptiche dei visitatori.
Le foto delle porte senza chiavi di Kiarostami sono, insomma, un buon punto di partenza per ragionare, anche sul piano teorico, sulle modalità – insieme ambientali, culturali e tecnologiche – attraverso le quali i meccanismi ermeneutici e le sensibilità estetiche vivono spesso una condizione di “inceppo” in un ecosistema postmediale che promuove, con beffarda irrisione, un’illimitata e insieme inaccessibile accessibilità ai dati sensibili.
Pendant le dernier septembre, les espaces d’exposition de Ca’ Corner della Regina, siège de la Fondation Prada à Venise, ont accueilli une séance spécial de Japan 1984 – 7 Betacam Tapes, un travail de révision et valorisation des matériaux d’archive de Michelangelo Antonioni, conduit par Luigi Alberto Coppini, Stefano Franco di Celle et Enrica Fico. Il s’agit d’une série des vidéos enregistrées lors d’un séjour en Japon en 1984 quand le cinéaste de Blow Up et sa copine ont été invités par la Sony pour tester un nouveau format sur bande magnétique, le Betacam, commercialisé par la société japonaise il y a quelques mois. Les cassettes vidéo, partialement projetées à l’intérieur d’une émission télévisée de la RAI de l’époque, n’ont jamais circulées après cette occasion; malheureusement, il faudrait ajouter, car ils représentent un admirable atelier pour étudier les dynamiques de proximité et contact entre un regard culturellement déterminé et les pratiques de l’altérité. En particulier, ce que ces matériaux remettent en question est, précisément, le rôle et la position de l’Auteur qui se déplace. Il se trouve que les mêmes images du Japon brouillant des années quatre-vingt visibles dans les images filmées par Antonioni déboulent dans les films d’autres cinéastes européens en mission de travail à Tokyo, comme par exemple Tokyo-Ga de Wenders ou Sans Soleil de Marker : on revoit toujours – et toujours avec les mêmes prises de vues – les salles de Pachinko, les spectacles des Takenoko-zoku, les petits téléviseurs installés sur les taxis, les routes de nuit de l’Electric Town de Akibahara, etc. Cela implique que les vues capturées par la couple Antonioni et leurs operateurs nippons ne évoquent pas l’«intentionnalité» de l’Auteur, la «valeur esthétique», les «marques de fabrique», mais au contraire reflètent sur sa «fonction» sociale (dans le sens de Foucault) de préservation et régénération de certains paradigmes culturelles, grâce à sa présence «incarnée» dans l’espace pro-filmique, sa transformation en archive «vivant» (même après sa mort) et au parcours de relocation des images dans les musées. En quelques mots, le but de cette article est d’analyser les Betacam « antonioniens » exposés à la Fondation Prada en se colloquant au carrefour où pensée philosophique, postcoloniale, ethnographique et cinématographique théorisent le rapport entre altérité et ipséité, l’inscription du soi dans ses propres images et son absence, l’équilibre entre compréhension du sens et malentendu.
In 1926 Jean Epstein wrote: « I would describe as photogenic any aspect of things, beings, or souls whose moral character is enhanced by filmic reproduction. And any aspect not enhanced by filmic reproduction is not photogenic, plays no part in the art of cinema. For every art builds its forbidden city, its own exclusive domain, autonomous, specific, and hostile to anything that does not belong. […] Photogénie is the purest expression of cinema».
The idea introduced by Epstein as well as by the French Impressionists almost a century ago has had several developments in the field of theory, but it has seldom been compared with one of the most recurrent practices of photogenic ornament of the image: exoticism. Apparently the two concepts have few elements in common. Post-colonial studies have taught us that the exotic and orientalist image usually does not enhance the «moral character» of the filmic representation (on the contrary, it downplays it, because of the ethnocentric subtexts it often includes), nor can it be seen as something belonging exclusively to film, as it is connected to a figurative tradition belonging to all arts. Nonetheless, in some of its most interesting expressions related to modernist cinema the exotic image reworks several issues introduced by the French theorists of photogénie; issues that are still relevant today because they concern the whole mediascape: the pre-linguistic character of the image, the obscenity of the exhibition of the body as an emotional shock, the vitalistic function of the representation, the alchemistic, destabilizing and sophisticating strength of editing.
The choice of Pier Paolo Pasolini’s “Arabian Nights” – one of the most complex examples of modernist orientalism – as a case-study derives also from a fascinating coincidence: both Jean Epstein and Pier Paolo Pasolini were passionate readers of anthropological essays, a kind of study that adds a further dimension to the relationship between photogénie and the representation of the other. In the film made by the Italian director the theme of photogénie filtered through anthropology, peculiar of Epstein’s work, is re-read with intensity and taken to the extremes: the immoral value of the images of the Third World is exhibited with impudence, so as to reveal the “dark side” of photogénie: the cultural un-translatability not so much of the images but rather of their correct interpretation.
The idea introduced by Epstein as well as by the French Impressionists almost a century ago has had several developments in the field of theory, but it has seldom been compared with one of the most recurrent practices of photogenic ornament of the image: exoticism. Apparently the two concepts have few elements in common. Post-colonial studies have taught us that the exotic and orientalist image usually does not enhance the «moral character» of the filmic representation (on the contrary, it downplays it, because of the ethnocentric subtexts it often includes), nor can it be seen as something belonging exclusively to film, as it is connected to a figurative tradition belonging to all arts. Nonetheless, in some of its most interesting expressions related to modernist cinema the exotic image reworks several issues introduced by the French theorists of photogénie; issues that are still relevant today because they concern the whole mediascape: the pre-linguistic character of the image, the obscenity of the exhibition of the body as an emotional shock, the vitalistic function of the representation, the alchemistic, destabilizing and sophisticating strength of editing.
The choice of Pier Paolo Pasolini’s Arabian Nights – one of the most complex examples of modernist orientalism – as a case-study derives also from a fascinating coincidence: both Jean Epstein and Pier Paolo Pasolini were passionate readers of anthropological essays, a kind of study that adds a further dimension to the relationship between photogénie and the representation of the other. In the film made by the Italian director the theme of photogénie filtered through anthropology, peculiar of Epstein’s work, is re-read with intensity and taken to the extremes: the immoral value of the images of the Third World is exhibited with impudence, so as to reveal the “dark side” of photogénie: the cultural un-translatability not so much of the images but rather of their correct interpretation.
This process of decomposition appears even more clearly in Fellini’s unachieved projects. I’m thinking of The Journey of G. Mastorna or of Mandrake the Magician, two hypothetical films referred to in Fellini: A Director's Notebook and in a spot in Intervista. Above all I’m thinking of Trip to Tulum, a film subject published in episodes in the newspaper «Corriere della Sera» and that would be converted into images only on paper i.e. in a comic strip written by the director and drawn by Milo Manara for the magazine Corto Maltese. It narrates, in a fairytale-like and exotic way, the Mexican adventures of a director named Snaporaz, having the fascinating features of Mastroianni, entangled in an experience of exotericism, mystery, magic and erotic exoticism.
The working hypothesis that my speech will deal with focuses especially on this last graphic novel as it is thanks to the encounter of the comics artist and the film director – so different in matter of style, phantasy, figurativity, approach to reality and to the fantastic – that Mastroianni has the opportunity to “interpret” the Fellinian alter ego for the last time, without actually having to interpret anything, as the final ritual of dispossessing, the process of loss of corporeal consistency and of the actor’s substance is delegated to cartoons, speech balloons, captions and illustrations. Not an example of Fellini without Fellini, but an example of Mastroianni without Mastroianni.
Nel corso dell’intervento si è riflettuto sulle potenzialità e sui limiti dell’utilizzo di questo strumento in ambito educativo, con particolare attenzione al suo sfruttamento nell’ambito di due mostre allestite al Centre Pompidou tra 2007 e 2008: Erice/Kiarostami e Traces du Sacré.
Teatro Ca' Foscari 2023, Proiezioni
Giovedì 16 novembre 2023, ore 19.00
(Cina, 2018, 79’)
Regia di Wang Xiaoshuai
(versione originale con sottotitoli in inglese)
Al termine della proiezione intervengono Wang Xiaoshuai, Cristina Baldacci e Laura De Giorgi (Università Ca’ Foscari Venezia)
Introduce Marco Dalla Gassa (Università Ca’ Foscari Venezia)
In ricordo di Marco Ceresa
La conversazione si terrà in inglese e italiano
Ingresso ad accesso libero fino a esaurimento posti
Chinese Portrait
Gli album di famiglia possono contenere immagini in movimento? I ritratti dei propri cari, le foto in posa in classe o sul posto di lavoro, le vedute urbane o rurali, le istantanee sulla spiaggia, gli scatti rubati sui treni o sugli autobus, una volta divenuti cristalli del tempo, possono riprendere vita? E ridestandosi, ci danno l’opportunità di guardare meglio e più a fondo, ciò che solitamente diamo per scontato? E cosa accade se questa sorta di cartoline mobili giungono, come diceva Chris Marker, da un paese lontano? E se questa pinacoteca di quadri del quotidiano - se ne contano più di sessanta - diventasse una sorta di ritratto di una nazione?
“Chinese Portrait” di Wang Xiaoshuai sembra voler rispondere a queste domande nel momento in cui decide di proporci una serie di ritratti di persone immobili innanzi alla macchina da presa, mentre la vita intorno a loro scorre. Ogni tipo di soggetto rappresentato - dai contadini agli operai, dai turisti ai lavoratori edili, dai passeggeri dei treni allo stesso regista - può diventare infatti un punto di osservazione privilegiato per cercare di sintonizzare lo spettatore con la realtà di una Cina tanto frenetica e cangiante, quanto insondabile di fronte a posture, gesti, silenzi e attese.
Il viaggio che ne consegue sembra perlustrare tanto lo spazio, quanto il tempo: nello spazio ci si muove dalle metropoli urbane alle zone costiere, dalle regioni periferiche come la Mongolia interna o lo Sichuan fino al centro nevralgico e politico del Chung-kuo, quella Piazza Tiananmen dove vediamo il regista, novello Buster Keaton imbolsito, posare innanzi alla sua videocamera come un turista qualsiasi; nel tempo perché il film è frutto di dieci anni di riprese che scandite senza soluzione di continuità trasformano ogni istante del presente in memoria e, nel contempo, presentificano ogni gesto ed evento del passato, proprio come capita con le gallerie fotografiche che i nostri cellulari ci ripropongono in carotaggi algoritmici un po’ casuali.
In questo modo “Chinese Portrait” si offre come uno dei film più lucidi di Wang Xiaoshuai, celebre regista della Sesta Generazione, un film che riflette sul rapporto tra l'identità di un individuo e il suo Paese, quasi chiedendosi: “Come faccio a conoscere il mio Paese? Chi sono io, se sono il risultato del luogo da cui provengo?”
Wang Xiaoshuai
Wang Xiaoshuai (Shanghai, 1966) è un regista e sceneggiatore cinese, uno dei più acclamati in ambito internazionale. Sale agli altari della cronaca critica nel 1993 con il suo esordio, “GIorni d’inverno (Dōng chūn de rì zì)”, film realizzato senza visti e autorizzazioni e che, nonostante alcuni premi festivalieri ottenuti, lo pone immediatamente al di fuori del sistema cinematografico statale. Le difficoltà produttive di quegli anni lo spingono a lavorare sotto pseudonimo (Wu Ming, ovvero “Anonimo”) per il suo secondo lavoro, “Frozen (Jidu hanleng, 1996)” e per il suo terzo “So Close to Paradise (Biǎn dān, gū niángi”, terminato nel 1995, ma
fatto circolare solo tre anni dopo. Nel 2001 con “Le biciclette di Pechino (Shiqi sui de dan che)”, una sorta di remake di “Ladri di Biciclette” di De Sica, vince l’Orso d’Argento al Festival di Berlino mentre pochi anni dopo con “Shanghai Dream (Qing hong, 2005)” ottiene il Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes. Il suo è un cinema che riesce a essere molto concreto e incollato al reale, con un’attenzione particolare alle realtà urbane e alle giovani generazioni e nello stesso tempo gelidamente sperimentale e artistico. Insieme a Zhang Yuan e soprattutto a Jia Zhang-ke e Wang Bing, Wang Xiaoshuai è uno degli esponenti di punta del nuovo cinema cinese urbano che si è imposto, prevalentemente nel circuito festivaliero, negli ultimi due decenni.
dispositivi fragili (con le loro tracce effimere) e resistenti (nel loro perdurare contribuiscono a definire le abitudini dello sguardo) al tempo stesso. Da questa convinzione nasce Carta Bianca. Storie orali e visuali
dei festival cinematografici, un progetto che intende valorizzare le storie, le memorie e le risorse di un patrimonio immateriale di grande ricchezza.
Dal 19 ottobre 2022 al 15 marzo 2023, al Rossini si svolgeranno sei appuntamenti con altrettanti festival del cinema, presentati di volta in volta dai loro direttori o curatori in conversazione con personalità del cinema e della cultura. Al termine di ogni incontro è prevista la proiezione di un film a sorpresa a cura del festival invitato. Il ciclo di incontri è curato da Marco Dalla Gassa (Università Ca’ Foscari Venezia) e Carmelo Marabello
(Università IUAV Venezia - VIU Venice International University), in collaborazione con Circuito Cinema | Comune di Venezia, AFIC – Associazione Festival Italiani di Cinema & Consulta Universitaria del Cinema,
Veneto Film Commission.
Primo appuntamento, mercoledì 19 ottobre al Rossini alle ore 20, con il Locarno Film Festival: a rappresentarlo ci sarà Giona A. Nazzaro in conversazione con Daniele Dottorini (Università della Calabria).
Gli altri cinque appuntamenti in calendario:
- 30 novembre Far East Film Festival, Sabrina Baracetti in conversazione con Federico Zecca
- 14 dicembre Cinema Ritrovato di Bologna, Gianluca Farinelli in conversazione con Giacomo Manzoli
- 18 gennaio Torino Film Festival, Steve Della Casa in conversazione con Mariapaola Pierini
- 15 febbraio FilmMakerFest Milano, Luca Mosso in conversazione con Miriam De Rosa
- 15 marzo Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Alberto Barbera in conversazione con Marco Dalla Gassa e Carmelo Marabello
Teatro Ca' Foscari 2023, Proiezioni
Giovedì 28 settembre 2023, ore 19.00
(Spagna, Cuba, 2022, 78’)
Regia di Pavel Giroud
(versione originale con sottotitoli in italiano)
Al termine della proiezione Rafael Rojas (Centro de Estudios Históricos - El Colegio de México) dialoga con il regista Pavel Giroud.
Modera e introduce Vanni Pettinà (Università Ca’ Foscari Venezia)
La conversazione si terrà in spagnolo e italiano.
Ingresso ad accesso libero fino a esaurimento posti
El caso Padilla
Primavera 1971. La Havana.
Il poeta Heberto Padilla viene rilasciato dal carcere. Era stato arrestato poche settimane prima (e torturato) perché alcune sue poesie, tratte da raccolte assai note e popolari come Fuera de juego del 1968 o Provocazioni del 1971, erano state considerate eccessivamente critiche nei confronti del regime castrista. Ciò che fece più scalpore fu ciò che avvenne subito dopo il rilascio: Padilla si presenta a una riunione dell’UNEAC, la corporazione degli scrittori cubani, e pronuncia una “ sentita autocritica” – queste le sue parole – in cui rigetta gli scritti passati e si auto-incrimina, definendosi agente rivoluzionario di fronte ai suoi attoniti colleghi.
L’episodio di cronaca politica e culturale torna in auge cinquant’anni dopo perché alcuni materiali audiovisivi inediti, provenienti da archivi, sono stati scovati e rimontati dal regista Pavel Giroud, accompagnati da alcune interviste ai protagonisti dell’epoca e a un cospicuo lavoro di scavo sulla copertura mediatica offerta dai giornali nazionali e internazionali del periodo. Ne nasce un documentario freddo, quasi etnologico, che riflette e pone molti interrogativi non solo sulla vicenda occorsa al celebre letterato, ma anche sulla capacità che avevano i regimi, e in particolare quello castrista, di portare avanti la propria agenda politica e sociale anche attraverso la «rieducazione» forzata delle classi letterate e più scolarizzate. Assistendo ad alcune delle dichiarazioni lucide e partecipate del poeta non ci si può non domandare: Padilla ha tradito i suoi colleghi? Ha avuto paura? Qual è stata la sua vera posizione all’interno della Rivoluzione? Quanto sono sincere le sue parole? Premiato nel 2022 al San Sebastián International Film Festival e al Telluride Film Festival e nel 2023 al Buenos Aires International Festival of Indipendent Cinema e al Jeonju International Film Festival, "El Caso Padilla" è un film che sembra giungere da un tempo lontano, ma che si rivela essere - in tempi di guerre, condanne e auto-denunce - di un’attualità disarmante.
Pavel Giroud
Pavel Giroud è un regista, sceneggiatore e montatore nato a Cuba nel 1973 e attualmente di stanza a Madrid. La sua carriera ha inizio come designer e pittore. Successivamente rimane affascinato dall’audiovisivo e inizia a integrare il video nel suo lavoro fino ad arrivare a dedicarsi totalmente al cinema e al linguaggio documentario. A seguito dei suoi primi cortometraggi, nel 2004 viene premiato al Festival di Montreal per la sua opera "Tres Veces Dos", girata con la collaborazione di Lester Hamlet e Esteban Insausti. Nel 2006 il suo film "La edad de la peseta" ("The Silly Age") riceve alcune nomination ai Goya Awards e viene premiato al Festival di Toronto e scelto per rappresentare Cuba agli Oscar Academy Awards. All’interno della sua produzione, prevalentemente documentaristica, i temi di maggiore interesse riguardano la realtà cubana rivoluzionaria e post-rivoluzionaria.
Teatro Ca' Foscari 2023, Proiezioni
Lunedì 8 maggio 2023, ore 19.00
(Messico, 2020, 82')
regia Luciana Kaplan
(versione originale con sottotitoli in italiano)
Introduzione di Luis Beneduzi (Università Ca’ Foscari Venezia)
Al termine della proiezione Vanni Pettinà e Laura Alicino (Università Ca’ Foscari Venezia) dialogano con la regista Luciana Kaplan e Marichuy
La conversazione si terrà in italiano e spagnolo.
Serata organizzata in collaborazione con il Corso di Laurea di Philosophy, International and Economic Studies (PISE).
Ingresso ad accesso libero fino a esaurimento posti
La vocera
Maria de Jesùs Patricio, nota anche come Marichuy, nel 2018 è stata la prima donna indigena a candidarsi per la presidenza in Messico, con una campagna radicale, che ha racchiuso in sé un nuovo modo di intendere il progresso. Coronamento di un percorso avviato con il primo Congresso Indigeno svoltosi in Messico nel 1974 e proseguito con la rivolta zapatista del 1994 con cui questa minoranza etnica ha cominciato ad acquisire un certo peso politico. Con "La Vocera", Luciana Kaplan segue Marichuy in un lungo viaggio per il Paese e cattura, grazie a un lavoro accorto della sua cinepresa, l’essenza della sua gente, ascoltandone le lamentele e le opinioni. Il cambiamento documentato richiede tempo e spesso si scontra con gli interessi di funzionari corrotti e dei cartelli della droga, ma il Messico non può più ignorare il grido dei quasi venticinque milioni di abitanti che si identificano come indigeni.
Luciana Kaplan
Luciana Kaplan è una regista, sceneggiatrice e produttrice argentina nata nel 1971 a Buenos Aires, ma da sempre vissuta e cresciuta in Messico dove studia regia al Centro de Capacitatión Cinematográfica (CCC) una delle più prestigiose scuole di cinema al mondo. Dedicherà gran parte della sua carriera al genere documentaristico riuscendo in più momenti a ritrarre la società che la circonda dalla prospettiva dei più deboli, degli emarginati, di coloro che lottano per la propria emancipazione. Elementi che fanno della stessa Kaplan una “lottatrice” dallo sguardo estremamente attento e sincero e che contribuiscono a delineare i tratti di una produzione artistica impreziosita da una serie di titoli davvero interessanti. Da “1982: La decisión del presidente” (2008) a “La revolución de los alcatraces” (2013), da “Rush Hour” (2018) con il quale compete per il miglior documentario ai premi Canacine in Messico a “La vocera” (2020), documentario che presenta in concorso al Guadalajara International Film Festival.
À Vendredi Robinson di Mitra Farahani (Francia, Svizzera, Iran, Libano, 2022, 96', vo. sub ita)
Introduzione di Marco Dalla Gassa (Università Ca’ Foscari Venezia)
Al termine della proiezione Alessandro Del Re (Rete Cinema in Laguna) e Stefano Pellò (Università Ca’ Foscari Venezia) dialogano con la regista Mitra Farahani
La conversazione si terrà in italiano e francese.
Serata organizzata in collaborazione con il collettivo Rete Cinema in Laguna.
Ingresso ad accesso libero fino a esaurimento posti
Sinossi
Jean-Luc Godard ed Ebrahim Golestan non si sono mai incontrati. L’uno è il padre della Nouvelle Vague, uno dei cineasti francesi che ha marcato con maggior forza la storia del cinema moderno. L’altro è il padre del cinema iraniano d’autore, al cui magistero si sono via via ispirati tutti i cineasti del suo paese, da Farough Farrokhaz ad Abbas Kiarostami, da Amir Naderi a Jafar Panahi. Non sembrano avere niente in comune, specialmente dopo che, grazie all’inventiva della cineasta Mitra Farahani, i due cominceranno una corrispondenza a distanza, dandosi un appuntamento epistolare al venerdì. Ne nasce un dialogo tra due pensieri che resistono l’uno all’altro e che fanno di questa resistenza la matrice di un confronto sempre più intenso. Lo stesso titolo allude alla solitudine che, come il famoso naufrago, percepiscono e vivono le due grandi personalità di Godard e Golestan. Condizione umana nella quale i due registi si riconoscono reciprocamente fornendo allo spettatore due preziose visioni non solo della loro arte, ma del mondo.
"À vendredi, Robinson" ha vinto il Premio speciale della Giuria nella sezione Encounters della Berlinale ed è stato recentemente proiettato nella prestigiosa cornice del Moma di New York.
Mitra Farahani
Mitra Farahani, iraniana, classe ’75, nata e cresciuta a Teheran, si insedia a Parigi non appena termina gli studi presso l’Università di Azad. Artista eclettica - è regista, produttrice e pittrice - esordisce dietro la cinepresa nel 2001 con il cortometraggio "Juste une femme", ritratto in chiaroscuro di una prostituta transessuale di Teheran, presentato e premiato alla Berlinale l’anno successivo. Il festival tedesco si dimostrerà particolarmente attento alla sua carriera, presentando tutti i suoi successivi lavori, da "Tabous" (2004) a "Fifi Howls from Happiness" (2013), un documentario sull’artista maledetto Bahman Mohassess, fino alla sua ultima opera "À Vendredi, Robinson" (2022). Come altri artisti iraniani della Diaspora, il suo modo di intendere l’arte è coraggioso, intenso, a suo modo politico, spinto a lanciare ponti tra le culture nonostante le difficoltà generate dalla complessa situazione politica nel suo paese che non sempre le ha consentito di esprimere liberamente il suo talento cinematografico.
Daleká cesta di Alfréd Radok ("The Long Journey", Cecoslovacchia 1948, 108’, vo sub ita)
Introduzione di Sara De Vido (Università Ca’ Foscari Venezia - Delegata della Rettrice ai giorni della memoria, del ricordo e alla parità di genere)
A seguire Armando Pitassio (Università degli studi di Perugia) dialoga con Francesco Pitassio (Università degli studi di Udine).
Modera Tiziana D’Amico (Università Ca’ Foscari Venezia)
Iniziativa realizzata in occasione delle celebrazioni per il Giorno della Memoria 2023, con il patrocinio dell'Ambasciata della Repubblica Ceca in Italia e del Centro Ceco di Roma e Milano.
Ingresso ad accesso libero fino a esaurimento posti
Sinossi
Per celebrare la Giornata della Memoria, viene proiettata la versione restaurata di "Daleká cesta", di Alfréd Radok. Il film è la prima opera cinematografica cecoslovacca che affronta lo sterminio degli ebrei e il primo film in Europa il cui regista ha avuto esperienza diretta, in quanto ebreo, delle leggi razziali e del campo di concentramento. A parlare del film, al termine della proiezione, il prof. Francesco Pitassio, storico del cinema, e il prof. Armando Pitassio, storico dell’Europa orientale.
"Daleká cesta" è un film del 1948. Sebbene terminato con l’approvazione del partito comunista, che a partire dal febbraio del 1948 ha il controllo del paese, il film viene boicottato, distribuito in pochissimi cinema fuori Praga e per una durata irrisoria. Nonostante il boicottaggio in patria, il film riesce a circolare, a partire dal 1949, al di fuori della Cecoslovacchia, incontrando una risposta positiva da parte di critici e, soprattutto, studiosi della Shoah. In "Daleká cesta", Radok, regista di teatro sperimentale prima della Guerra, utilizza diverse tecniche cinematografiche, in particolare quelle espressioniste e l’uso di materiali d’archivio, per raccontare la realtà di Terezin e della Shoah. Il film ritorna a essere visto e conosciuto in patria solo dopo la fine del regime comunista nel 1989.
Protagonista è Hana, medico che lavora a Praga e che, in quanto ebrea, viene allontanata dall’ospedale. Il film mostra le crescenti limitazioni, difficoltà e soprusi verso il cittadino ebreo durante il Protettorato di Boemia e Moravia, il nome che viene dato dai nazisti dopo lo smembramento e l’occupazione della Cecoslovacchia nel 1939. In quanto sposata con un gentile (che entrerà nella resistenza), Hana non deve inizialmente lasciare Praga, ma la sua famiglia, come imposto dalle leggi razziali, è obbligata ad andare a Terezin, la città – ghetto per gli ebrei, poi anche campo di concentramento, e da cui partivano i treni verso gli altri campi.
Alfréd Radok
Nato da padre ebreo e madre cattolica, Alfréd Radok (1914-1976) viene battezzato nel 1939. Questo gli permette di sfuggire alle deportazioni al ghetto-campo di Terezín, come stabilito dalle leggi razziali nel Protettorato di Boemia e Moravia. Suo padre, e tutti i suoi parenti di linea paterna, periranno vittime della Shoah.
Durante il periodo dell'occupazione nazista Radok lavora come assistente regia per diversi teatri, fino al 1944, quando viene deportato nel campo di lavoro di Klettendorf.
Nel 1945 rientra in Cecoslovacchia e riprende a lavorare nei teatri.
Nel 1948 dirige il suo primo film, "Daleká cesta". Nonostante le modifiche al film fatte per ottenere l'approvazione da parte del partito comunista, la pellicola viene distribuita in pochi cinema in provincia. Il film ottiene però il plauso della critica internazionale nel 1949. Nel 1951, il suo secondo lungometraggio viene sospeso dalla censura e Radok viene espulso dalla Československý státní film, l'impresa cinematografica di Stato cecoslovacca.
Radok ritorna, con grandi difficoltà e solo per lavori di assistente, nel mondo del teatro. Nuovamente allontanato per motivi politici, dopo il successo de La lanterna magica all'expo del 1958, Radok tornerà alla regia teatrale solo nel 1966.
Dopo l'occupazione del 21 agosto 1968, emigra con la famiglia in Svezia. Morirà a Vienna nel 1976, dove avrebbe dovuto dirigere uno spettacolo di Vaclav Havel.
Teatro Ca' Foscari 2022, Proiezioni
Lunedì 12 dicembre 2022, ore 19.00
(Francia 2019, 103')
regia Ladj Ly
(versione originale con sottotitoli in italiano)
Introduzione al film Marco Dalla Gassa (Università Ca’ Foscari Venezia).
Al termine della proiezione Allegra Bell (Quarta Parete) dialoga con Stefano De Matteis (Università di Roma Tre) e Francesco Della Puppa (Università Ca’ Foscari Venezia).
Serata organizzata in collaborazione con Quarta Parete
Ingresso ad accesso libero fino a esaurimento posti
A Montfermeil, quartiere multietnico e periferico di Parigi, arriva l’agente Ruiz trasferitosi da poco per entrare a far parte della squadra di polizia locale. Ruiz viene affiancato agli agenti Chris e Gwanda che lo accompagnano in una sorta di passeggiata dantesca tra le strade di Montfermeil per vivere sulla propria pelle la dimensione di disagio e conflittualità che permea la zona. A sconvolgere Ruiz sono soprattutto gli scontri tra bande criminali e l’impossibilità di trovare, in quel mondo, una qualche forma di equilibrio. Sarà, poi, il rapimento di un cucciolo di leone da un circo il motivo che farà esplodere le tensioni sociali tra la polizia e le minoranze etniche che abitano il quartiere.
Ladj Ly
Ladj Ly compie i primi passi nel cinema all’interno del collettivo Kourtrajmé, realizzando i primi film e i primi documentari. Fin dai suoi primi lavori, è interessato a denunciare le violenze della polizia nei confronti dei cittadini francesi di origine afrodiscendente come in "365 Jours à Clichy-Montfermeil" (2007), "Go Fast Connexion" (2008), "365 jours au Mali" (2014). È grazie a questi lavori sempre al contatto con una umanità ferita e cresciuta troppo in fretta che egli matura uno stile di regia brutale, crudo, vicino alle estetiche avanguardistiche (anche musicali e figurative), delle banlieue, strumenti espressivi perfetti per denunciare il clima di violenze, ostilità e sopraffazione che avvolge i suoi protagonisti. Con "Les misérables", prima in versione da cortometraggio e poi lungometraggio, arriva la consacrazione sia della critica che del pubblico, merito anche del Gran Premio della Giuria che ha ottenuto al Festival di Cannes.
Teatro Ca' Foscari 2022, Proiezioni
Lunedì 14 novembre 2022, ore 19.00
(Cile 2021, 85')
regia Claudia Huaiquimilla
(versione originale con sottotitoli in italiano)
Introduzione al film Margherita Cannavacciuolo (Archivio Scritture Scrittrici Migranti)
Al termine della proiezione Olivia Casagrande (University of Manchester) e Alice Favaro (Università Ca’ Foscari Venezia) dialogano con la regista.
Modera Alessandro Mistrorigo (Università Ca’ Foscari Venezia)
La conversazione si terrà in spagnolo e italiano.
Ingresso ad accesso libero fino a esaurimento posti
I fratelli Ángel (17) e Franco (14) sono rinchiusi in un carcere minorile da un anno, in attesa della condanna del loro caso. Nonostante l'ostilità del luogo, stringono legami con altri giovani e trascorrono le giornate desiderando ciò che faranno una volta liberati. L'arrivo di Jaime (17), un giovane ribelle, cambia tutto quando propone di fuggire a causa di un ammutinamento. L'idea inizia a guadagnare popolarità, ma anche se Franco vuole unirsi, Ángel sa che non è sicuro. Tuttavia, diverse delusioni familiari e legali, oltre a liti, irruzioni e suicidi, faranno finalmente vedere a Ángel la rivolta come la sua unica via d'uscita. Ispirato da eventi reali accaduti nel sud del Cile, “Mis hermanos sueñan despiertos” (2021) è stato presentato in anteprima al Festival di Locarno e premiato al Festival Internazionale del Cinema di Guadalajara come Miglior Film, Miglior Sceneggiatura (Claudia Huaiquimilla e Pablo Greene) e Miglior Attore (Iván Cáceres). Il film è stato scelto per rappresentare il Cile agli Ariel Awards 2022, assegnati dall'Accademia messicana delle arti e delle scienze cinematografiche.
Claudia Huaiquimilla
Claudia Huaiquimilla è una giovane regista cilena, di origine mapuche da parte di padre. Durante la sua infanzia ha vissuto in Florida con la madre. Ha studiato regia audiovisiva alla Pontificia Universidad Católica de Chile. Nel 2012, il suo cortometraggio intitolato “San Juan, la noche más larga” (2012), ha ricevuto numerosi premi, in particolare ai festival di Valdivia e Clermont-Ferrand. Insieme a Pablo Greene, ha fondato la casa di produzione “Lanza Verde” con cui realizza i suoi due lungometraggi “Mala Junta” (2016) e “Mis hermanos sueñan despiertos” (2021) che hanno ricevuto numerosi premi in Cile e all'estero. Claudia Huaiquimilla è stata co-regista con Gaspar Antillo della serie “42 Días en la Oscuridad”, la prima serie prodotta da Netflix in Cile.
Teatro Ca' Foscari 2022, Proiezioni
Lunedì 7 novembre 2022, ore 19.00
("Caught", UK 2021, 61')
regia Nicola Mai e Colectivo Intercultural TRANSgrediendo
(versione originale con sottotitoli in italiano)
Introduce Sabrina Marchetti (Università Ca’ Foscari Venezia)
Al termine della proiezione Giulia Garofalo Geymonat (Università Ca’ Foscari Venezia) e Daniel N. Casagrande (Queer Lion) dialogano con il regista.
Ingresso ad accesso libero fino a esaurimento posti
Questo evento ha ricevuto un finanziamento del programma H2020 dell’Unione Europea (GA n. 870845 VULNER)
"CAER (CAUGHT)" è un documentario collaborativo prodotto nell'ambito di un progetto di ricerca sulla migrazione, il lavoro sessuale e la tratta, utilizzando il cinema collaborativo come metodo di ricerca strategico. Il film è il risultato della collaborazione tra Nicola Mai, che ha diretto il progetto di ricerca, e il Collettivo Interculturale Transgrediendo, un'associazione comunitaria che difende i diritti delle donne trans latinoamericane migranti nel Queens, a New York. Il metodo del film, l'etnofiction, si basa sull'uso di metodi di finzione che includono le popolazioni stigmatizzate nella co-creazione delle loro rappresentazioni. La storia e i ruoli del film sono stati scritti dai membri del Collettivo Interculturale Transgrediendo e sono interpretati da attrici non professioniste, tra cui alcune delle co-autrici originali, che hanno partecipato anche al montaggio del film.
"CAER" esprime la vita e le lotte per il riconoscimento e la giustizia di un gruppo sociale molto stigmatizzato. Il film mostra le due protagoniste, Rosa e Paloma, mentre combattono la violenza transfobica, la persecuzione da parte della polizia e difendono i loro casi di tratta in un ambiente politico sempre più contrario all'immigrazione negli Stati Uniti. Il film mostra anche donne trans latinoamericane che lottano per i loro diritti attraverso manifestazioni pubbliche e la richiesta di protezione umanitaria (visto T), mentre esprimono la loro identità in modo positivo durante uno spettacolo di drag queen che permette loro di contrastare l'emarginazione e la stigmatizzazione. CAER include diverse scene di dibattito durante le quali le protagoniste del film parlano di questioni importanti riguardanti la popolazione trans latinoamericane del Queens, come la persecuzione da parte della polizia, la differenza tra lavoro sessuale e tratta e la mancanza di alternative occupazionali al lavoro sessuale. La storia di finzione è incorniciata dalla proiezione di feedback del film ai membri del Collettivo Interculturale Transgrediendo che hanno collaborato alla sua realizzazione prima del montaggio finale, le quali discutono del loro coinvolgimento e della storia e dei personaggi che hanno scritto in relazione alle loro esperienze personali e collettive. CAER è innanzitutto un omaggio al lavoro e all'eredità di Lorena Borjas, la madre delle donne trans latinoamericane che vivono nel Queens, una delle prime vittime del COVID-19 a New York, scomparsa il 30 marzo 2020.
Nicola Mai
Nicola Mai è regista, etnografo e sociologo. I suoi film si concentrano sulle esperienze e sulle rappresentazioni delle migranti che lavorano nell'industria del sesso. Il suo obiettivo è portare le loro complesse decisioni, priorità e traiettorie al centro dei dibattiti pubblici, inquadrandole sempre più spesso come vittime o responsabili della tratta, ignorando così le loro complesse realtà e necessità. Ispirandosi alle etnofiction di Jean Rouch, Nicola Mai ha sviluppato una metodologia di filmmaking partecipativo, creativo e collaborativo che trascende la distinzione tra fiction e non-fiction, partecipazione e osservazione, conoscenza ed emozioni. Combinando metodologie di finzione collaborativa e riprese osservative tradizionali, i suoi film coinvolgono gruppi e individui migranti emarginati nell'auto-rappresentazione delle loro complesse esperienze di autorealizzazione e sfruttamento nell'industria del sesso.
Teatro Ca' Foscari 2022, Proiezioni
Lunedì 24 ottobre 2022, ore 19.00
(UK 2020, 75')
regia Marc Isaacs
(versione originale con sottotitoli di servizio in italiano)
Introduzione al film Valentina Bonifacio (Università Ca’ Foscari Venezia)
Al termine della proiezione Miriam De Rosa ed Emiliano Trizio (Università Ca’ Foscari Venezia) dialogano con il regista.
La conversazione si terrà in inglese.
Ingresso ad accesso libero fino a esaurimento posti
Quando Marc Isaac chiede alla sua produttrice che tipo di film gli consiglia di girare per ottenere finanziamenti, la risposta è chiara: omicidi seriali, o qualunque argomento abbia a che vedere con il sesso. Frustrato e recalcitante, il regista decide di fare un documentario sulle persone che ruotano attorno a casa sua nel corso di alcuni giorni: i muratori che devono aggiustare il recinto, un senza tetto dalla Slovacchia che bussa alla sua porta per chiedere acqua, la vicina pakistana e la lavoratrice domestica colombiana. Il risultato è inaspettato e sorprendente, scatenando una serie di eventi che affrontano temi quali l’ospitalità, l’altruismo, la paura e l’amore. Spesso divertente e sempre provocatore, The Filmmaker’s House ci interroga nello spazio di un film sul modo in cui ci relazioniamo con gli esseri umani che ci circondano.
Marc Isaacs
Affermato e pluri-premiato regista britannico, Marc Isaac è Professore Associato presso il University College of London (UCL), dove insegna film documentario ed etnografico. I suoi film hanno girato in prestigiosi festival di documentario internazionali, ma anche sui canali televisivi, Channel 4 e BBC in particolare, affrontando le tensioni e le contraddizioni sociali della contemporaneità. Tra i numerosi titoli ricordiamo: "Lift" (2001), "Calais: The Last Border" (2003), "Philip and His Seven Wives" (2005), "All White in Barking" (2007), "Men of the City" (2009), "The Road: A Story of Life & Death" (2012), "The Men Who Sleep in Trucks" (2016), e "The Filmmaker's House" (2020).
(2020, 96')
Softie
regia Sam Soko (Kenya)
(versione originale con sottotitoli in inglese)
Introduzione al film Shaul Bassi (Università Ca’ Foscari Venezia)
Al termine della proiezione Alessandro Jedlowski (Université de Bordeaux) e Francesco Vacchiano (Università Ca’ Foscari Venezia) dialogano con il regista.
La conversazione si terrà in inglese.
Ingresso libero previa prenotazione
Boniface ‘Softie’ Mwangi è uno dei fotogiornalisti più provocatori del Kenya. Vive con la moglie Njeri e i loro tre figli. Quando, stanco dei soprusi e delle violenze che percorrono il suo paese, decide di candidarsi per una carica politica regionale, sfidando le lobby corrotte e le organizzazioni sociali su scala tribale, la sua vita quotidiana viene travolta, così come quella della sua famiglia. Tra manifestazioni, sit-in e comizi, arresti, mobilitazioni porta a porta e scontri in piazza, la campagna elettorale si fa di giorno in giorno più dura e faticosa e i sacrifici domestici sempre più onerosi. Grazie allo sguardo partecipe del documentarista Sam Soko, che trascorre ben 10 anni al fianco di Mwangi e Njeri, il film offre un ritratto a tutto tondo di un militante idealista, a suo modo fragile, in un quadro sociale e politico complesso, pieno delle contraddizioni che conosce il Kenya sotto la discussa e problematica guida di Uhuru Muigai Kenyatta.
Sam Soko
Sam Soko è un regista e produttore kenyano. I numerosi progetti sociali e politici che ha promosso nel corso degli ultimi anni, sia nell’ambito della musica che in quello del cinema, gli hanno permesso di lavorare con artisti provenienti da tutto il mondo. È co-fondatore di LBx Africa, una società di produzione che ha prodotto il cortometraggio di finzione Watu Wote di Katja Benrath (Germania, Kenya 2017) è stato candidato all’Oscar nel 2018. Softie è il suo primo documentario, selezionato in numerosi festival tra cui il Sundance e vincitore della 30a edizione del FESCAAAL - il Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina di Milano.
Teatro Ca' Foscari 2022, Proiezioni
Lunedì 2 maggio 2022, ore 19.00
(2021, 46')
regia Diana Toucedo
con Donna J. Haraway e Vinciane Despret
e con Camille, Ulysse, Sarah Buono, Alba, Oz, Shindychew & Xenomorphes
produzione CCCB, Centre Pompidou in collaborazione con Fabbula
testi Donna J. Haraway e Vinciane Despret tratti da Donna Haraway, The Camille Stories: Children of Compost, in Staying with the Trouble (Duke University Press, 2016)
3D art & animation Marija Avramovic & Sam Twidale
musica B. Vidal, D. Cobo, P. Martín
Album ExNovo © Arkestra discos 2021
Introduzione al film Federica Timeto (Università Ca’ Foscari Venezia) e Antonia Ferrante (Università IUAV di Venezia)
Ingresso libero previa prenotazione
Prenotazione
Le filosofe Vinciane Despret e Donna Haraway uniscono le loro voci in questo lavoro audiovisivo basato su due delle loro fabulazioni speculative: "The Camille Stories" (tradotto come "I Bambini del compost" in "Chthulucene" (Nero 2019) di Haraway e "Autobiographie d'un poulpe" di Despret (Actes Sud, 2021).
Nel futuro, Camille & Ulysse raccontano le storie intrecciate delle prime generazioni di comunità di umani e non umani, le comunità del compost. Camille si unisce simbioticamente alle farfalle Monarca migratrici, le cui rotte di migrazione e i cui insediamenti sono in pericolo negli Stati Uniti, in Messico e in Canada. Ulysse, come tutti gli Ulysses della comunità, sperimenta la possibilità di vivere insieme ai polpi già estinti, imparando i loro gesti, il loro linguaggio e particolari forme di sensibilità. Reso come un racconto orale e una corrispondenza tra le due narratrici e le loro fabulazioni, il film segue i modi di vivere e morire delle comunità su un pianeta danneggiato, e allo stesso tempo come diventano sempre più fluenti in un nuovo campo scientifico, la terolinguistica, o lo studio dei linguaggi animali. Le narratrici, in contatto con i loro compagni simbionti, entrano in sintonia con le possibilità di proliferare di questi esseri tentacolari e metamorfici.
Questo incontro è stato documentato dalla filmaker Diana Toucedo, i cui precedenti lavori includono l’enigmatico "Trinta lumes" (2017). Con il suo sguardo attento ai misteri del mondo naturale, ai confini diffusi tra ciò che è conosciuto e ciò che è intuito, Toucedo accompagna Haraway e Despret nella costruzione di un percorso narrativo fatto di molteplici linee intrecciate, come figure di filo in cui la finzione speculativa e il saggio sperimentale si fondono come simbionti.
Diana Toucedo
Diana Toucedo è una regista spagnola, la cui pratica è all’intersezione tra cinema e ricerca. Il suo lavoro è stato selezionato a festival cinematografici come la Berlinale, San Sebastián International Film Festival, Nara International Film Festival, Sao Paulo International Film Festival, FIDBA, Pesaro o DocLisboa. Più di venticinque lungometraggi sono stati presentati e premiati all’IDFA, Rotterdam, La Semaine de la critique di Cannes, Moscow International FF. Ha anche lavorato come montatrice per Netflix, HBO e Movistar. Attualmente insegna alla Netherlands Film Academy, UPF, ESCAC e sta completando il dottorato di ricerca che esplora come le immagini in movimento affrontano identità, memorie, cristallizzazioni storiche e tensioni sociali.
Teatro Ca' Foscari 2022, Proiezioni
Lunedì 11 aprile 2022, ore 19.00
(2016, 112’)
regia Vitalij Manskij (Germania, Lettonia, Estonia, Ucraina)
(versione originale con sottotitoli in inglese e italiano)
Introduzione al film Alessandro Farsetti (Università Ca’ Foscari Venezia)
Al termine della proiezione Andrea Franco (Università di Padova) dialoga con Matteo Benussi (Università Ca’ Foscari Venezia).
In collaborazione con Circuito Cinema Venezia e Trieste Film Festival.
Prenotazione
La storia degli ultimi due secoli dell’Ucraina è caratterizzata da un moto continuo, frontiere che cambiano, popolazioni che migrano, regimi che si susseguono. E tutto spesso nello spazio di pochi lustri e in forme diverse ma cicliche. Le famiglie diventano così mosaici di storie e particelle della Storia, rappresentando uno dei frutti più dolceamari di queste realtà. All’indomani della rivoluzione di Maidan (2013), il regista Vitalij Manskij decide di viaggiare lungo tutto il suo paese natale per incontrare i parenti più stretti, dispersi tra Leopoli e Odessa, il Donbass e la Crimea. Ne nasce un documentario che è insieme un viaggio della memoria e un ritratto lucido di un paesaggio sociale e culturale particolarmente composito, percorso da aspirazioni contraddittorie e da spinte identitarie centrifughe, ma anche da un sentimento di comprensione e intimità che solo l’ambiente domestico può preservare.
Vitalij Manskij
Vitalij Manskij è uno dei più importanti documentaristi della scena contemporanea. Nato a Leopoli, ha studiato alla VGIK, la celebre scuola di cinema di Mosca fondata da Lev Kulešov. Nel corso della sua carriera ha vinto più di cinquanta premi, tra cui quello per il miglior documentario a Karlovy Vary nel 2013 e nel 2018. Tra i suoi lavori spiccano una trilogia dedicata alla figure politiche apicali dell'ex Unione Sovietica - Michail Gorbačëv, Boris El’sin e Vladimir Putin - e uno dei rari documentari ambientati in Corea del Nord. Attualmente vive a Riga dove ha trasferito anche il festival di documentari che dirige, l’Artdocfest. Nel 2018 il Trieste Film Festival gli ha dedicato una delle sue prime retrospettive in Europa.
the present study aims at illustrating how modernist cinema questions and disconcerts, rather than conferming some of the historiographical characteristics commonly assigned to this period and to its
protagonists: the rule of mimesis, the question of intentionality, the contextualization of the “auteur” in discussions on the other and otherness