CRISTINA ACUCELLA
L’accademia del Principe: il caso dei Rinascenti di Venosa
In
Letteratura e Potere/Poteri
Atti del XXIV Congresso dell’ADI (Associazione degli Italianisti)
Catania, 23-25 settembre 2021
a cura di Andrea Manganaro, Giuseppe Traina, Carmelo Tramontana
Roma, Adi editore 2023
Isbn: 9788890790584
Come citare:
https://www.italianisti.it/pubblicazioni/atti-di-congresso/letteratura-e-potere
[data consultazione: gg/mm/aaaa]
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CRISTINA ACUCELLA
L’accademia del Principe: il caso dei Rinascenti di Venosa1
Lo studio si sofferma sulla fondazione dell’Accademia dei Rinascenti, avvenuta nella provincia lucana del Regno, a Venosa, nel
1612. Del sodalizio, in particolare, sono indagati due aspetti. Uno è il contesto familiare dei Gesualdo, che in quel periodo vedeva
il passaggio dei poteri da Carlo al figlio Emanuele; l’altro è la strategia di autorappresentazione messa in atto dal principe
Emanuele, il quale fece di questo consesso uno strumento di controllo e consenso delle élites cittadine, in contrasto con il potere
ecclesiastico locale.
1. Quadro introduttivo
Un fenomeno che fa del piccolo centro di Venosa, collocato sulla strategica Appia, un’eccezione
particolarmente vitale della provincia lucana in età moderna è la fondazione di ben due accademie:
quella dei Piacevoli, voluta da un rappresentante del re spagnolo, Scipione de’ Monti, e fondata forse
intorno al 1582 con il contributo del celebre giurista venosino Ascanio Cenna, e quella dei Rinascenti,
che fu invece istituita nel 1612 proprio dall’allora principe della città, Emanuele Gesualdo, figlio del
celebre madrigalista Carlo.
Le pratiche di questi sodalizi sono in parte ricostruibili grazie all’unica fonte di cui siamo in
possesso, ovvero il manoscritto X.D.3 della Biblioteca Nazionale di Napoli (XVII sec.; ultima data
riportata 1640).2 Il codice, opera quasi sicuramente autografa del giurista e storico venosino Giacomo
Cenna, figlio del già citato Ascanio, tramanda il testo della Cronaca antica della città di Venosa. Alle cc.
157r-202v, sotto il titolo «Dell’Accademie della città di Venosa», figura il resoconto delle riunioni delle
due accademie. Le prime otto carte (157r-165v) riguardano i Piacevoli: la struttura discontinua e
incompleta con cui si presenta la storia di questa prima accademia lascia pensare che il giurista, allora
impegnato a Salerno per i suoi studi, si servì con molta probabilità degli appunti sparsi del padre, che
dei Piacevoli fu co-fondatore e membro, con il nome di Accademico Grave. Ben più ampio è invece
il resoconto sui Rinascenti, che consta di ben trentuno carte (171r-202v). In questo caso, Giacomo
Cenna, che ne fu co-fondatore, con Emanuele Gesualdo, vi prese parte con il nome di Accademico
Vivace. Registrando le sedute in tempo reale, o perlomeno a partire da appunti presi direttamente, il
cronista descrive nel dettaglio ben sei giornate di riunioni.
Su questa seconda accademia soffermeremo la nostra analisi, la quale mira essenzialmente ad
aggiungere ulteriori tasselli a due aspetti tra loro interconnessi. Uno è il contesto familiare in cui sorse
questo sodalizio, l’altro è la strategia di autorappresentazione di Emanuele Gesualdo, la quale molto
può dire sul progetto politico-culturale del suo promotore.
2. Sotto l’egida di San Carlo Borromeo: il ritiro di Carlo Gesualdo e i nuovi assetti del potere
Nell’archivio ambrosiano dei Borromeo è conservato un epistolario che consente di illuminare
molti punti di questa analisi. Partiremo da una lettera scritta da Andrea Perbenedetti, eletto vescovo
di Venosa il 20 marzo 1611; destinatario è il Cardinale Federico Borromeo, 3 cugino di San Carlo
Borromeo, zio da parte di madre di Carlo Gesualdo, e al tempo fresco di canonizzazione (avvenuta
il primo novembre del 1610).4
Con l’agiuto di Dio alli 17 di questo arivai a questa mia chiesa di Venosa doppo essermi fermato
alcuni giorni in Napoli, et avanti ch’io giungessi qua volsi visitare il Sig. Principe di Venosa in
Gesualdo [Carlo], dal quale ricevetti molte amorevolezze, e mostrò contento grande di vedermi.
Li presentai l’ultima lettera che V.S. Ill.ma mi mandò in Roma, nella quale gli scriveva sopra il
retratto di S. Carlo, che sua ecc.za desidera, et in mia raccomandatione, et la lesse con molto suo
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gusto mostrando desiderio intenso d’havere il retratto di detto santo; et ho scoperto che sua
ecc.za receverebbe contento infinito che V.S. Ill.ma gli mandasse un poco di reliquia di San Carlo
designando erigere una cappella a sua devotione, sì come ho veduto ch’ha fatto fare un quadro
di buona mano alli capuccini di Gesualdo con retratto di San Carlo intiero e di sua ecc.za e della
sig.ra Prencipessa sua moglie. Però dove V.S.Ill.ma può consolarlo, la supplico a farlo per essere
Prencipe molto pio e devoto, et affetionatissimo di V.S. Ill.ma, sì come anche il sig.r Don
Emanuele suo figliolo, quale se ne sta qui in Venosa con sua moglie, et è sig.re molto studioso e
spesso siamo assieme mostrando egli d’amarmi per sapere che son servitore di V.S. Ill.ma 5
Dalla lettera è possibile dedurre che a quella data Carlo si trovava ormai stabilmente a Gesualdo;
al suo arrivo a Venosa il vescovo trovò dunque il giovane Emanuele ad accoglierlo nelle vesti di
principe della città. Si legge anche che a pochi mesi dalla canonizzazione dello zio, alla cui cerimonia
non presenziò per un non meglio specificato disturbo, 6 il «pio e devoto» Carlo sta erigendo un altare
in sua memoria, destinato a ospitare le reliquie del santo, insieme alla tela di cui si fa menzione.
All’intento di fare della chiesa di Santa Maria delle Grazie, a Gesualdo, un luogo centrale del culto
borromaico, cui lo spingeva una venerazione «quasi superstiziosa», 7 il madrigalista congiungeva molto
probabilmente un progetto apologetico, ad anni di distanza dal duplice delitto compiuto ai danni di
Maria D’Avalos, la sua prima moglie, e del suo amante, Fabrizio Carafa, Duca D’Andria, avvenuto il
16 ottobre del 1590. Un atteggiamento di umile contrizione caratterizza infatti la sua figura nella tela,
nella quale un restauro di qualche decennio fa ha permesso di rintracciare la firma di Ioanni Balducci
Flo[rentinus] e il 1609 come data di ultimazione. 8
3. Emanuele a Venosa: l’‘impresa’ accademica e la rappresentazione del potere
La fondazione dell’Accademia dei Rinascenti, avvenuta il 26 marzo del 1612, coincise con gli
esordi dell’operato venosino di Emanuele Gesualdo, una figura su cui le notizie biografiche sono
decisamente scarse, se confrontate con quelle paterne. Emanuele era figlio legittimo di Carlo
Gesualdo, principe di Conca e di Venosa, e di Maria D’Avalos, la sua prima moglie. Aveva svolto il
suo tirocinio di principe, da giovanissimo, al seguito del cardinale Alessandro D’Este, fratellastro di
Eleonora, la seconda moglie di Carlo Gesualdo. Il principe, che nella già ricordata missiva era definito
«molto studioso» dal Perbenedetti, fu un uomo dalla notevole cultura e dai molteplici interessi. 9 Si era
trasferito a Venosa dopo il matrimonio con Maria Polissena di Fustemberg (i cui accordi ufficiali
risalgono al 1607) e, tenendo conto della già menzionata missiva del Perbenedetti, si è certi che nel
1611 fosse già alla guida di Venosa: il passaggio di consegne tra padre e figlio era coinciso molto
probabilmente con l’acuirsi della crisi morale e la malattia di Carlo, sempre più isolato nel suo castello
campano di Gesualdo.10 Il giovane principe morì prematuramente il 20 agosto del 1613, per via dei
traumi collegati a delle cadute da cavallo, durante una battuta di caccia, e con lui, che non ebbe eredi
maschi, la casata si sarebbe estinta.11 Ciò farebbe dedurre che anche l’accademia dei Rinascenti,
inaugurata il 26 marzo del 1612, dovette avere vita molto breve. Pure assumendo che la sua esistenza
sia proseguita al di là dei sei giorni registrati dalla Cronaca, si dovrà ipotizzare che, perduto il loro
promotore e animatore, le riunioni non si protrassero oltre l’agosto del 1613.
Per vedere più da vicino gli aspetti connessi alla strategia di potere e di autorappresentazione che
Emanuele Gesualdo mise in atto servendosi dell’accademia, sarà opportuno partire da quello che
possiamo definire il manifesto programmatico di questo organismo. Non possediamo uno statuto del
sodalizio, ma dalle prime pagine della Cronaca di Cenna si comprende che l’avvio dei Rinascenti
sembra replicare nella sostanza la prassi costitutiva delle accademie più o meno strutturate del XVI e
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soprattutto del XVII secolo, consistente nell’individuazione di una sede precisa e nella definizione di
un calendario degli incontri e dei ruoli chiave per il funzionamento delle adunanze.
E [Emanuele Gesualdo, Principe di Venosa] volle che, fatta una scelta de i più elevati ingegni de
i suoi più cari e familiari, cossì della corte come di più nobili della città, dovessero e questi e quelli
unirsi nel suo castello, dove due volte la settimana formassero una nova Academia, accioché in
tal guisa con grato intertenimento venessero i spiriti a sollevarsi, trattando di utile et vaghe
materie, concernente a varie scienze. […] E perciò a dì 26 di detto mese [marzo] furno tutti
congregati nel castello, e distribuiti l’officij. Fu creato il principe dell’Accademia e formati
l’assistenti, il secretario, il lettore, il bidello et altri conforme l’antiqui instituti [...]. Ciò detto fu
fatta resolutione et concluso da tutti Academici che per la seguente congregatione che doveva
farsi nel prossimo lunidì seguente, imperoché questa prima era cominciata nel giovedì .12
Un altro dato che merita di essere evidenziato è la presenza di una pluralità di figure, rispecchiante
sostanzialmente le élites politiche (incluso il governatore), militari e professionali della città: 13
Anello Gesuita, principe (Accademico Segace)
Annibale Caracciolo, segretario (Accademico Ardito)
Don Emanuele Gesualdo, lettore (Accademico Schivo)
Vincenzo Bruno, medico, primo assistente (Accademico Turbido)
Camillo di Luca, medico, secondo assistente (Accademico Ravivato)
dott. Cesare Principe, governatore di Venosa (Accademico Rinforzato)
dott. Don Iacovo Cenna, Archidiacono di Venosa (Accademico Vivace)
dott. Pompilio Russino, medico (Accademico Esercitato)
dott. Fabritio de Pilli (Accademico Oscuro)
fra’ Lorenzo di Terlizzo, teologo (Accademico Conosciuto)
Gio. Antonio Cappellano, capitaneo del battaglione (Accademico Pronto)
Iacovo Suave (Accademico Veloce)
Bernardino Cenna (Accademico Ringiovenito)
Matteo Cavaselice (Accademico Infiammato)
Jacovo Nigro (Accademico Rinfrescato)
Andrea Matteo di Ruggiero (Accademico Generoso)
Mutio Monaco (Accademico Svegliato)
Ottavio Alberti (Accademico Tempestoso)
Paulo Sarluca (Accademico Vago)
Andrà inoltre precisato che l’illustre parterre non era il risultato di un’acritica ammissione di
chiunque ne facesse richiesta:
Et perché alcuni pedanti avevano supplicato volere essere ammessi nell’istessa Accademia di
Renascenti, fu fatto decreto che in conto alcuno dovessero essere ammessi nel consortio di essa,
però che la prattica di essi era periculosa, e bisognava sempre volgerli la fronte, guardando che
non se ponessero ad alcuno sedere appresso. 14
La selettività del principe ci restituisce l’immagine di un organismo decisamente più accentrato
nelle mani del potere politico di quanto non lo fosse stato il precedente, animato e auto-gestito dalle
élites locali.15 A questa differenza rispetto ai Piacevoli se ne aggiunge un’altra, senz’altro riconducibile
alla centralità dei Gesualdo nell’iniziativa accademica, ovvero la presenza gesuitica: la famiglia vantava
infatti un legame di lunga data con quest’ordine, che non a caso risultò beneficiario di cospicui lasciti
da parte di Fabrizio, di Carlo e dello stesso Emanuele.16 A segnalare la rilevanza della presenza
gesuitica è il fatto che la carica di principe dell’Accademia sia ricoperta dal padre Anello, mentre a
Emanuele spetta la carica, almeno formalmente secondaria, di Lettore. E si consideri, inoltre, che tra
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i primi compiti che nella fase inaugurale il principe del sodalizio assegna agli accademici figura non
solo quello di creare un’impresa individuale, secondo le regole esposte nella lezione di apertura, ma
anche quello di comporre dei versi in memoria di Cristoforo Clavio, astronomo e matematico gesuita,
morto il 12 febbraio, poco più di un mese prima dell’avvio del sodalizio.
Oltre alla matrice gesuitica, un altro elemento cruciale dell’accademia gesualdiana di cui finora non
è stata adeguatamente sottolineata l’importanza è il rapporto con gli Oziosi. Il collegamento più
lampante tra i due sodalizi viene innanzitutto da un dato cronologico: l’Accademia napoletana prese
vita su iniziativa di alcune personalità di spicco, tra cui il Della Porta e il Capaccio, proprio nell’anno
precedente a quello della fondazione dei Rinascenti, il 3 maggio 1611, configurandosi come uno dei
frutti più felici della politica culturale del conde de Lemos. 17 Di questa politica anche i Rinascenti
andranno visti per certi versi come un’emanazione. Pare, inoltre, che Emanuele Gesualdo ebbe
«esequie oziose», dopo la sua morte prematura.18
Sul rapporto, probabilmente anche ‘iconografico’, tra i due sodalizi, ho potuto soffermarmi in uno
specifico studio. 19 In questa sede cercherò invece di evidenziare un aspetto fin qui mai messo in
rilievo dalla critica, vale a dire il significato dell’impresa personale di Emanuele Gesualdo, un dato
che ritengo possa dire molto sull’autorappresentazione del principe, oltre che dell’accademico. Così
la Cronaca la descrive:
Il lettore si era il signore Don Emanuele Gesualdo, Prencipe di Venosa; s’intitulava l’Accademico
Schivo: haveva per impresa uno elefante in un prato con un topo vicino, con il motto che diceva
nauseat intuitu.20
L’elefante è un simbolo che si presta a diverse interpretazioni, ma che la tradizione intende
soprattutto come incarnazione di grandezza e potere. In quel suo ‘essere nauseato per la vista’, il
Principe Gesualdo intendeva molto verosimilmente esibire un’idea di superiorità di potere e insieme
di elitarismo culturale. La regalità, la mansuetudine e l’uso della forza solo di fronte alla necessità sono
del resto delle caratteristiche dell’animale fin dagli esordi della sua simbologia, come registra Pierio
Valeriano nei suoi Hieroglyphica, opera che peraltro è menzionata nella lezione sulle imprese che apre
i lavori dei Rinascenti, in cui è richiamata la celebre immagine dell’elefante che uccide il dragone. 21
Nella sua opera, base essenziale per i successivi trattati sulle imprese, Valeriano riconduceva tutto a
una caratteristica anatomica dell’animale: il non piegare il ginocchio e il piegare solo parzialmente la
caviglia simboleggiavano la sua regalità. A questa simbologia era ricorso Emanuele Filiberto di Savoia
per la sua impresa, riportata nei più celebri trattati del tempo: il Duca raffigurava sé stesso come un
elefante che camminava in un branco di pecore con il motto INFESTUS INFESTIS,22 a voler significare
insieme mansuetudine e nobiltà d’animo, o, ancora, come avrebbe più tardi commentato Picinelli, «di
non volere essere molesto e pregiudiciale, se non a chi l’havesse irritato et offeso». 23 Il Capaccio,
futuro accademico ozioso – il cui trattato funse forse da modello per il simbolo del baco da seta, che
i Rinascenti elessero come emblema della loro impresa collettiva –,24 riportava altri casi che qui
risultano particolarmente interessanti: l’elefante che fugge dalla capra (nemica capitale perché stolta)
o dal maiale (adulatore), e, soprattutto, l’elefante che insegue topi, visto come simbolo di «indegna
fatica di una tanto gran mole». 25 Nella sua impresa, Gesualdo non insegue, ma ha nausea alla sola
vista di ciò che è in partenza piccolo, quando non fastidioso e mediocre, tanto da non essere degno
di attenzione. C’è inoltre da considerare una lettura simbolica che, ricollegandosi verosimilmente
dall’idea della grandezza (estesa al piano morale e spirituale) e della nobiltà – di cui si sono viste delle
tracce nell’interpretazione del Ferro –, fa dell’elefante un emblema di santità. Nel suo sterminato
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compendio sulle imprese, il già citato agostiniano Picinelli collegava l’animale a un evento che non
andrà trascurato nel contesto di questa analisi, quello della canonizzazione di San Carlo Borromeo:
In Milano nella canonizatione di San Carlo fu dipinto un elefante che rivolto verso il Cielo
caminava sopra una corda […] col motto [...] ASCENSU NITENS ARDUO, con che s’inferiva lo
sforzo ch’egli dalla parte sua fece per arrivare alla perfettione, e santità, caminando là su la strada
erta e difficile della legge divina e rendendosi ubbidiente la mole pesante di quel corpo 26
Non è stato possibile, dalle ricerche fin qui condotte, reperire altre notizie sull’opera menzionata
da Picinelli. Tuttavia, supposta la correttezza di questa testimonianza, non andrà escluso che per la
sua impresa personale Emanuele possa aver tenuto presente anche questa immagine associata al santo
che dichiarava suo «particolare protettore», della quale potrebbe aver ricevuto un resoconto
indiretto.27 Senz’altro la raffigurazione dovette apparire suggestiva per coloro che presenziarono alla
cerimonia milanese e, da parte del Gesualdo, il richiamo al medesimo simbolo usato per un così
importante antenato poteva essere funzionale a fare mostra di un lustro che poche casate potevano
vantare, quello del santo di famiglia. Andrà inoltre considerato il possibile richiamo relativo alla
struttura grammaticale del motto, che in entrambi i casi vede la presenza di un verbo coniugato al
supino.
Al di là delle sue possibili fonti iconografiche, si può vedere nell’impresa del Gesualdo una fonte
di dati importanti per inquadrare la strategia di autorappresentazione del Principe, il quale dovette
vedere nell’accademia un centro da cui irradiare la sua supremazia politica e culturale, cui l’immagine
dell’elefante, nella sua pluralità di significati legati al potere e a una concezione ‘elitaria’ dello stesso,
si prestava in maniera particolarmente efficace. È certo che il Gesualdo volle fare del suo sodalizio il
microcosmo di un potere tendente a occupare ogni aspetto della vita culturale delle élites cittadine.
Neanche l’elemento religioso restò escluso, se si considera che la quinta giornata è appunto dedicata
alla lettura di poesie composte sul tema della passione di Cristo. Questo atteggiamento può dire
qualcosa soprattutto se incrociato con un altro importante aspetto, ovvero i rapporti, di certo non
pacifici, con il massimo rappresentante locale del potere ecclesiastico, il già menzionato Andrea
Perbenedetti. Ne abbiamo un’importante prova in una lettera che lo zelante e alacre vescovo di
Venosa, stretto in un’imbarazzante morsa familiare, scriveva al cardinale Federico Borromeo:
Et come padrone mio devo dirgli che me ne sto a lavorare questa vigna, se bene non si può fare
di non passare qualche travaglio in materia di giurisdizione che in questo Regno non può andar
più a traverso, per la puocha simpatia che li Regnicoli hanno con li poveri vescovi. Io ho cercato
di destreggiare con il signor don Emmanuelle Gesualdo, figlio del Principe, il quale essendo per
natura molto fastidioso et avendo travagliato il vescovo passato, il quale, disgustato, morse fuori
di diocesi, et lasciò interdetta tutta la città, la quale un anno et mesi stesse interdetta, et fece tale
danno nel popolo che non molto si curarono più di chiesa. 28
Per avere un’idea del clima politico in cui questa missiva ha luogo, dobbiamo ricordare che nel
1607, proprio per contrasti sorti tra il precedente vescovo, Mario Muro da Melfi, e il governatore
locale, la città venne colpita da una scomunica di cinque anni. Al durissimo scontro aveva partecipato
la popolazione locale, che si era schierata al fianco del potere civile. Solo nel 1613, per intercessione
del nuovo vescovo, Andrea Perbenedetti, l’interdetto venne rimosso da papa Paolo V.29 Nella stessa
lettera al Borromeo del 15 marzo 1613, commentando il suo successo nella riabilitazione di Venosa,
il vescovo non aveva perso occasione per accusare apertamente il principe Emanuele:
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con l’agiuto di Dio quietai il tutto, et mentre attendevo di far qualche bene, questo Signore in
alcuna occasione s’è mostrato puocho devoto alla Chiesa, et tra l’altre voleva esso conoscere una
causa della Santa Inquisitione d’abusi di olio santo,30 né voleva restituirmi un reo perché era laico
[…] questo Signore non obbedisce il padre, né nessuno, né sta meno in pace con se stesso.31
Dopo soli due anni dal suo arrivo, il giudizio sul Principe da parte del pastore ecclesiastico era,
così, radicalmente mutato, in conseguenza di rapporti di certo non floridi, intervallati da continue e
reciproche ingerenze. In quest’ottica si può comprendere come l’Accademia dei Rinascenti venne
intesa come parte di un progetto culturale di ‘risposta’ e contrasto al culto borromaico del
Perbenedetti, uno di quei «vescovi zelanti» che, dopo aver partecipato all’ultima fase del Concilio,
lavorarono per l’accentramento del controllo sociale e culturale dei fedeli delle rispettive comunità. 32
Il progetto accademico di Emanuele ebbe dunque luogo in un clima certamente più complesso di
quanto l’esigua testimonianza della Cronaca del Cenna33 intenda testimoniarci.
Studio condotto nell’ambito del PON-AIM “Ricerca e innovazione” 2019-2022 - Linea 1 dell’Università degli
Studi della Basilicata.
2 Si elencano i principali studi (molti dei quali contenenti delle trascrizioni) sulla cronaca e le due accademie:
Giacomo Cenna e la sua Cronaca Venosina, Ms. del sec. XVII nella Bibl. Naz. di Napoli, con prefazione e note di
G. Pinto, ristampa anastatica dell’ed. Trani, Vecchi, 1902, Venosa, Editrice Appia, 1982, 370-381; R. NIGRO,
Per un’indagine sulla letteratura lucana. Centri intellettuali e poeti nella Basilicata del secondo Cinquecento, Melfi, Edizioni
interventi culturali, 1978, 147-160; 191-206; e, dello stesso, L’Accademia dei Rinascenti e il Bembismo a Venosa.
Discorso-trattato sull’estetica di Annibale Caracciolo, in Studi lucani e meridionali, a cura di P. Borraro, Galatina, Congedo,
1978, 83-94; Un inedito di Giacomo Cenna, il Discorso sulla poesia, «Archivio Storico per la Calabria e la Lucania»,
XLVII (1980), 85-114; Basilicata tra umanesimo e barocco (testi e documenti), Bari, Levante, 1981, 147-184. Più recente
è lo studio storico di A. D’Andria, I segni dell’onore. Giacomo Cenna e la “Cronica Antica della Città di Venosa”,
München, Grin Verlag, 2018; si veda, inoltre, M.T. IMBRIANI, Le accademie venosine: dei Piacevoli e dei Rinascenti, in
EAD., Appunti di Letteratura lucana. Ventisette ritratti d’autore dal Medioevo ai giorni nostri, con un saggio introduttivo
di N. De Blasi, Potenza, Consiglio regionale della Basilicata, 2000, 33-38. In assenza di un’edizione critica, in
questa sede il testo è citato attingendo direttamente al manoscritto, i cui testi (così come quelli tratti dalle stampe
antiche) sono trascritti con un ammodernamento della punteggiatura, volto a renderne più leggibile il dettato.
Minimi interventi riguardano anche la grafia: si sciolgono le sigle e le abbreviazioni, si distingue tra u e v e si
adeguano all’uso moderno apostrofi, accenti e maiuscole.
3 Tredici sono le lettere che il Perbenedetti inviò al cardinale Borromeo, conservate all’Ambrosiana, come
segnala C. PICCARDI, Carlo Gesualdo: l’aristocrazia come elezione, «Rivista italiana di musicologia», IX (1974), 67-116:
73, nota.
4 La causa per la canonizzazione si concludeva a soli 26 anni dalla morte del Borromeo. Era stata avviata da
Clemente VIII e giunse a compimento sotto papa Paolo V. Tra le illustri parentele ecclesiastiche dei Gesualdo
dovrà annoverarsi anche quella con Giovanni Angelo Medici di Marignano (1499-1565), ovvero papa Pio IV
(in carica dal 1559 al 1565), zio di Federico e di Carlo Borromeo, dunque prozio di Carlo Gesualdo.
5 Andrea Perbenedetti a Federico Borromeo, 30 maggio 1611 (Biblioteca Ambrosiana di Milano, G 208 inf,
281r). Si cita dalla trascrizione di PICCARDI, Carlo Gesualdo…, 76-77.
6 Lo attesta una sua lettera al cardinale Federico del 25 ottobre 1610 trascritta ivi, 70-71.
7 Ivi, 69. Lo stesso studioso elenca le dodici missive perlopiù ancora inedite spedite da Carlo Gesualdo al cugino
Federico Borromeo nel cruciale torno di anni che va dal 1590 al 1612 (ivi, 70, nota); in particolare, a partire dal
1609 le lettere gesualdiane tendono a incentrarsi in maniera piuttosto ossessiva sulla richiesta di alcune reliquie
e del ritratto del cugino santo (ivi, 69-71). Il culto era del resto condiviso dal Perbenedetti, noto per aver portato
a Venosa una serie di reliquie del santo, al quale dedicò una cappella nella cattedrale: cfr. H. HOUBEN, Venosa
1655. Un’anonima storia, descrizione e serie dei vescovi nel lascito di Ughelli, presentazione, indice dei nomi, dei luoghi e
delle cose a cura di A. Capano, Venosa, Appia 2 Editrice [dopo il 1994], 45.
8 Giovanni Balducci, Il perdono di Gesualdo, 1609, Gesualdo, chiesa di Santa Maria delle Grazie, cappella privata
di Carlo Gesualdo. Sulle interpretazioni e sulla storia della tela votiva, cfr. C. TAVARONE, Il perdono di Gesualdo:
dal restauro nuove acquisizioni, Roma, De Luca Edizioni d’Arte, 1989; A. VACCARO, Carlo Gesualdo, principe di
Venosa. L’uomo e i tempi, Venosa, Osanna Edizioni, 20053, 162, nota; D. MORRIER, Carlo Gesualdo, Paris, Fayard,
2003, 97; G. WATKINS, The Gesualdo Hex: Music, Myth, and Memory, New York, W. W. Norton & Co., 2010, 324.
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Cfr. G. FELICI, Il principato di Venosa e la contea di Conza: dai Gesualdo ai Boncompagni Ludovisi, a cura di A. Capano,
Venosa, Appia 2, 1992, 163-166; VACCARO, Carlo Gesualdo…, 167-173; A. COGLIANO, Carlo Gesualdo da Venosa:
per una biografia, praefatio G. Watkins, Irsina, Barille, 2015, 345-363.
10 Su questi ultimi anni travagliati cfr. G. WATKINS, Gesualdo: the man and his music, London, Oxford University
Press, 1978, 83 ssg.; VACCARO, Carlo Gesualdo…, 167-173.
11 Sul séguito, rappresentato dal ramo dei Gesualdo-Ludovisi, si rinvia a FELICI, Il principato di Venosa…, 169
ssg.
12 G. CENNA, Cronaca antica della città di Venosa, Napoli, Biblioteca Nazionale, ms X.D.3, cc. 171r-173v.
13 L’elenco è ivi, c. 157v.
14 Ivi, c. 178r.
15 Sulla questione mi permetto di rinviare a C. ACUCELLA, Le accademie venosine dei Piacevoli e dei Rinascenti. I testi,
il canone e le politiche culturali, di prossima uscita negli Atti del convegno Intellettuali e potere. Il potere degli intellettuali.
Produzioni culturali nel Mezzogiorno “provinciale” in età tardo-medievale e moderna a cura di C. Acucella, P. Conte, T. De
Angelis, (Potenza, 10-11 marzo 2022).
16 Cfr. COGLIANO, Carlo Gesualdo…, 295-315.
17 Sull’importanza di questa figura si veda A. QUONDAM, La parola nel labirinto. Società e scrittura del Manierismo a
Napoli, Bari, Laterza, 1975, 247-270. Nello specifico, in relazione agli Oziosi, si veda G. DE MIRANDA, Una
quiete operosa. Forma e pratiche dell’Accademia napoletana degli Oziosi 1611-1645, Napoli, Fridericiana Editrice
Universitaria, 2000.
18 Cfr. ivi, 160.
19 C. ACUCELLA, L’impresa del baco da seta all’Accademia dei Rinascenti (1612). Il simbolo, il testo, la tradizione, «Lettere
italiane», LXXIV, 1 (2022), 70-97: 80-83.
20 CENNA, Cronaca antica…, c. 174v.
21 Ivi, c. 173r. L’immagine è in I.P. VALERIANI, Hieroglyphicorum, ex sacris Aegiptiorum literis, libri octo, Firenze,
Torrentino, 1556, c. 17v.
22 G. FERRO, Teatro d’imprese [...] all’ill.mo e r.mo s. cardinal Barberino. Parte prima [-seconda], Venezia, Giacomo
Sarzina, 1623, parte II, 296.
23 F. PICINELLI, Mondo simbolico, o sia Università d’imprese scelte […], Milano, Stampatore archiepiscopale, ad
instanza di Francesco Mognagha, 1653, 172.
24 Cfr. ACUCELLA, L’impresa del baco da seta…
25 G.C. CAPACCIO, Delle imprese [...]. In tre libri diviso […], Napoli, ex officina Horatij Salviani, appresso Gio.
Giacomo Carlino et Antonio Pace, 1592, libro II, c. 18v.
26 PICINELLI, Mondo simbolico…, 172.
27 Sappiamo infatti che il principe non potè presenziare alle cerimonie celebrative per la canonizzazione di San
Carlo per via di un’indisposizione della moglie, successiva a un parto. Lo attesta una sua lettera di scuse del 6
novembre 1610 inviata al cardinale Federico, trascritta da COGLIANO, Carlo Gesualdo…, 351.
28 Andrea Perbenedetti a Federico Borromeo, da Venosa, 15 marzo 1613 (Biblioteca Ambrosiana di Milano, G
214 inf, fol. 169). Si cita dalla trascrizione di COGLIANO, Carlo Gesualdo…, 353.
29 Su queste vicende cfr. M. CAVALLO, Chiesa e Società nel Sinodo del Vescovo di Venosa Andrea Perbenedetti (11-13
maggio 1614), postfazione di E.M. Lavorano, Rionero in Vulture, Calice, 2014, 28-29.
30 Cfr. quanto osserva COGLIANO, Carlo Gesualdo…, 356 a proposito delle pratiche di stregoneria.
31 Ivi, 353.
32 A. CESTARO, Introduzione a Storia della Basilicata, a cura di G. De Rosa, A. Cestaro, Bari, Laterza, 2021 2, vol.
III, L’Età moderna, a cura di A. Cestaro, VII-XXIII: XVII. Andrà ricordato che il Perbenedetti fu fautore
dell’importantissimo sinodo venosino del 1614 (a stampa come Synodus dioecesana ecclesiae Venusinæ. Ab admodum
illust. […] d. Andrea Perbenedicto de civitate Camerini [...] habita anno Domini 1614, Neapoli, apud Lazarum Scorigium,
1615), che segnò paradigmaticamente «una data nella storia della “tridentinizzazione” del Mezzogiorno», R.
Colapietra, Profilo storico dei principali centri urbani, in Storia della Basilicata..., vol. III, L’Età moderna…, 33-54: 40;
cfr. anche G.M. VISCARDI, I sinodi, ivi, 251-273.
33 Nel 1614 anche il cronista sarebbe entrato in aperto attrito con il Perbenedetti, in occasione del celebre
sinodo tenuto da quest’ultimo. La vicenda è ricostruita da A. D’ANDRIA, “Della antiquità e nobiltà di Venosa”.
Intorno alla Cronaca Venosina di Giacomo Cenna, «Bollettino Storico della Basilicata», XXIV (2008), 209-222.
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