L’Universitas e il Principe. Molfetta e gli Spinola
Indice
Introduzione
p. 3
Capitolo I
p. 8
L’universo Universitas
1.1.
Stat Universitas pristina nomine
p. 9
1.2.
Nascita e sviluppo delle universitates
p. 13
1.3.
Viaggio all’interno dell’universitas
p. 15
1.3.1. Il reggimento
p. 17
1.4.
p. 19
Nobiles et Populares
1.4.1. Tra Nome e Virtù
p. 23
1.5. Logge, Sedili, Piazze: l’”Agorà Universitaria”
p. 32
Capitolo II
p. 36
L’Universitas di Molfetta
2.1.
Storia di “utili signori” e della città a loro infeudata
p. 37
2.2.
O felix patria, in qua nati fruimur libertate
p. 39
2.3.
Dai di Capua agli Spinola
p. 42
Capitolo III
p. 50
Gli excellentissimi Principi Spinola di Molfetta
3.1. Gli Spinola, Genova e la Monarquìa
p. 51
3.2.
Storia di ricchezze e di virtù
p. 57
3.3.
Vicari e luogotenenti. Tutti gli uomini del principe
p. 61
3.3.1. Uno “straniero” a Molfetta: Francesco Benigassi
1
p. 63
3.3.2. Gli “indigeni” de Luca al servizio segreto della Principessa. Un
carteggio inedito
p. 65
Capitolo IV
p. 72
Molfetta e gli Spinola tra pubblico e privato
4.1.
L’annosa contesa per lo ius moliendi
p. 73
4.1.1. «Gli Molfettesi sono teste malsane»: una lettera inedita del 1750
p. 78
4.2.
L’eredità di donna Isabella Maria Spinola Marchesa del Fresno
p. 90
4.2.1. Un padre amoroso e una controversa Primogenitura
p. 91
4.2.2. La «desiderabilissima unione»
p. 102
4.2.3. I diversi gradi di giudizio: La Gran Corte della Vicaria
p. 103
4.2.4. Il Sacro Regio Consiglio delibera
p. 105
4.2.5. L’ultima beffa: il sequestro in perpetuum della legittima
p. 108
Conclusioni
La fine degli Spinola di San Pietro. I Gallarati Scotti
p. 112
Appendice documentale
p. 119
Documentazione Archivio Privato Gallarati Scotti di Milano, Fondo
Spinola
p. 119
Documentazione fotografica di Molfetta da Via Piazza a Palazzo
Dogana
p. 127
Albero Genealogico degli Spinola di Molfetta
p. 134
Bibliografia
p. 134
Ringraziamenti
p. 150
2
INTRODUZIONE
Gli studi dedicati alle aristocrazie cittadine e, in generale, ai ceti dirigenti
delle università meridionali nell’età moderna sono“«di gran lunga più
modesti di quelli sinora accumulati per l’Italia centro-settentrionale». Il
tutto si deve alla «perdurante […] concezione del Mezzogiorno come un
indistinto “mare feudale” e il relativo corollario della centralità del rapporto
baronaggio-Corona», nonché, «almeno a livello storiografico, il tradizionale
rapporto, di subordinazione delle province alla capitale, di una
“campagna” vista in modo eccessivamente indifferenziato rispetto a una
“città” che sarebbe semplicistico identificare con la sola Napoli». Queste le
emblematiche parole con cui esordisce Angelo Massafra nell’introdurre il
volume di Spagnoletti L’incostanza delle umane cose1 in quello che possiamo
definire il momento fondante dell’emancipazione storiografica dagli
stereotipi e dai pregiudizi che avevano involto sino ad allora la storia del
Regno di Napoli, dal centro alla periferia, da Napoli alle allora
misconosciute Universitates.
Questa tesi ha l’intento, semplice eppur complesso, di analizzare quanto
ebbe peso, quanto peculiare fu nella forma e nei contenuti l’istituzione
Universitas nel Regno di Napoli, quale fu il suo modo di rapportarsi ora al
sovrano ora al barone. Adottando un metodo deduttivo, passeremo dalla
disamina generale di quello che è spesso stato definito, superficialmente e
in modo semplicistico, “Comune meridionale” sino a giungere alle
particolari vicende di Molfetta e di coloro che furono insigniti del titolo di
Principi di tale città dal XVII a tutto il XVIII secolo: gli Spinola.
Ma procediamo con ordine partendo da una indagine semantica e
giuridica del nostro campo d’osservazione principale: l’universitas e ciò che
la rende tale.
A. Massafra, Prefazione, in A. Spagnoletti, L’Incostanza delle umane cose. Il patriziato di Bari tra egemonia
e crisi (XVI-XVIII secolo), Bari 1981, p. VII
1
3
Nel tentativo di definire – sia concessa una paronomasia - l’universo
universitas potremmo in primis considerare come esso sia limitato ai meri
confini della ricerca storica meridionale. Manca di una collocazione
“italiana” così nell’Enciclopedia italiana, come nel Grande dizionario della
lingua italiana di Salvatore Battaglia, che in ogni caso rimarca il significato
ultroneo di “insieme delle persone che costituiscono una popolazione”2. Per
il vocabolario Treccani è il «termine con cui, in Diritto Romano, viene
indicata semplicemente una pluralità di cose, di persone o di rapporti
giuridici»3: universitas personarum, la persona giuridica a struttura
corporativa; universitas rerum o facti, una pluralità di cose, fisicamente
separate ma tenute insieme da un’unica destinazione (caso tipico è quello
del gregge o della biblioteca); universitas iuris, l’insieme di rapporti giuridici
considerati unitariamente dalla legge anche prima che facciano capo a un
solo soggetto (caso tipico è quello dell’eredità).
L’origine di questa sorta di damnatio memoriae del termine Universitas,
confluita in un sottogenere locale del Comune settentrionale, come fa
rilevare Francesco Senatore, non si può che imputare al periodo
postunitario, a quell’ansia di uniformare ciò che uniforme non era ovvero
la storia e le istituzioni degli antichi Stati italiani4. Si è in questo modo
assistito all’equiparazione del termine Universitas a quello di Comune, con
relativa soccombenza del primo a favore del secondo.
E così anche a livello accademico l’Universitas ha finito col rappresentare
l’espressione del Comune in Italia meridionale, una sorta di mera
denominazione locale.
Ma non può l’adozione di un unico registro linguistico, e finanche
storiografico, definire l’avvenuta Unità italiana, o “fare gli Italiani”. Le
Grande dizionario della lingua italiana, XXI, UTET, Torino 2002, alla voce Università. Sono menzionati,
in ogni caso, anche gli usi di “Università” come corporazione e come ente collettivo, di origine medievale.
3 Treccani, Vocabolario online, voce Universitas.
4 F. Senatore, Gli Archivi delle universitates meridionali: il caso di Capua ed alcune considerazioni generali in
A. Bartoli Langeli, A. Giorgi e S. Moscadelli (a cura di), Archivi e comunità tra medioevo ed età moderna,
Siena 2009, p. 448
2
4
diversità permangono al di là dell’elemento filologico derubricato. Come
ribadisce Senatore «la ricerca sulle città meridionali è stata a lungo viziata
da giudizi stereotipati»5. Invero si è focalizzata l’attenzione su monarchia e
feudalità, il discrimen più netto tra Comune settentrionale e Universitas
meridionale. Laddove il primo risulta autonomo tout court non dovendo far
capo a nessuna autorità superiore, la seconda è legata ineluttabilmente alla
presenza di queste due forze estranee alla realtà interna cittadina, che
pongono il corpus universitatis in una sorta di necessaria convivenza e
subordinazione rispetto a un governo centrale e a una sua rappresentanza
locale.
Ma, al di là della vicenda del lemma universitas, appare doveroso
analizzare cosa essa significhi dal punto di vista giuridico - amministrativo.
Nulla può meglio significare la valenza collettiva di questo ente come la
glossa accursiana universitas nihil aliud est nisi singuli homines qui ibisunt, o il
passo di Ulpiano si quid universitari debetur, singulis non debetur: nec quod
debet universitas singuli debent 6.
Si può pertanto parlare della persona giuridica Universitas. La dottrina
meridionale di età moderna ha descritto il tutto come un vero e proprio
corpo, un corpo mistico 7 o un corpus fictum una civilis hominum societas, quae
neque familia, neque libera sit respublica, come asserisce Guarani 8.
Ivi, p. 455
«Opera immane è la glossa accursiana, realizzata tra il 1230 e il 1240 dal glossatore civilista Accursio
Essa attuò una selezione accurata e completa di tutto il materiale di glosse accumulatesi in oltre un
secolo e mezzo sui testi giustinianei. Consta di 96.000 glosse, raccolte tra le migliori, conciliate e
comunque presentate criticamente. Nell’uso pratico la glossa accursiana, detta anche Magna
Glossa o Glossa Ordinaria, ottenne un enorme successo e dopo la sua apparizione il diritto romano
giustinianeo poté diventare operativo soltanto attraverso l’apparato interpretativo da essa costituito.
L’autorità della glossa fu talmente alta che in Germania, quando si operò la recezione del diritto
comune, nacque l’adagio “chi non conosce la glossa non conosce la curia”. Il passo citato è di Ulpiano
(Ulpianus, l. X ad edictum)» Voce Glossa in F. Del Giudice, Dizionario Giuridico Romano, Napoli 2017
7 F. Roggero, Il “corpo” e il “territorio” dell’universitas nel Regno di Napoli, in «Historia et ius- rivista di
storia giuridica dell’età medievale e moderna», 11/2017, p. 15
8 Cfr. M. Guarani, Ius Regni Neapolitani novissimum (1774, con una seconda edizione molto accresciuta
nel 1782 e una terza nel 1787-88), dedicato a Marcantonio Colonna principe di Stigliano, dal 1774
viceré di Sicilia.
5
6
5
Ma questa civilis societas non può prescindere dall’esser rappresentata da
sindaci e da eletti, al fine di poter agire al di là della cinta muraria. Questo
«corpo finto», questa «figurata persona, priva di sensi, di volontà, e di ogni
altra potenza, che risulta dalla unione di quegli stessi uomini che la
compongono, benché sia da quelli separata, e distinta», non può «da se
stessa governarsi, esser in giudicio, e le sue ragioni proporre»9.
Ed è qui che entrano in gioco coloro che operano per essa: «i decurioni, i
consiglieri, i sindaci, i proccuratori, i diputati, gli eletti, gli anziani, i massari,
e altri con altri nomi, che la rappresentano»10. Costoro possono e devono
rapresentare l’universitas, quando, invece, non è dato farlo ai comuni
cittadini, quia lis universitatis non est lis singulorum11. Al di là del discorso se
vi siano analogie tra il concetto di universitas e quello di repubblica (ossia i
comuni del Nord Italia del tutto autarchici e indipendenti da qualsivoglia
potere superiore, a differenza delle Universitates del Mezzogiorno), è
innegabile che entrambi poggino la loro - non così dissimile - autonomia
giuridico-amministrativa
sull’opera
di
magistrati
e
di
propri
rappresentanti. Difatti omnis recta gubernatio etiam in universitatibus subditis
potest dici respublica largo modo, et omnes civitates sortiuntur nomen
reipublicae12.
Sin dal 1969 Giuseppe Galasso ha tentato di porre rimedio all’annosa
questione, definendo Comune – sia esso la “città stato” settentrionale o
l’università meridionale - come «il ricostituito potere municipale che, entro
un ambito di competenze più o meno largo secondo i tempi e secondo i
luoghi, torna dopo alcuni secoli a esprimere una certa misura di autonomia
Roggero cita un passo di S. Di Stefano, La ragion pastorale, over comento su la pramatica LXXIX De
officio Procuratoris Caesaris, I, Napoli 1731, p. 308 ne Il “corpo” e il “territorio”, cit., p. 13
10 Ibidem
11 C. de Jorio, Feracissimus tractatus de privilegiis universitatum, Napoli 1713, n. 3, p. 305
12 …ex eo, quod in earumgubernatione est quaedam forma reipublicae, ut quemadmodum in
republicaadestdistinctiomagistratuum et officiorum, et alii imperant, et alii obediunt. Sic in recta universitate,
quae recte gubernatur, adest quaedam forma reipublicae, ita, ut sit in ea distinctio variorum officiorum, et vario
rum munerum, sicut est in republica, et quemadmodum respublica gubernatur ad instar unius corporis, ut
diximus supra ita qualibet universitas, civitas, seu municipium, curia et societas in A.A. Caputo, De regimine
reipublicae tractatus fertilis, Napoli 1622, nn. 11-12, p. 351
9
6
locale e a limitare, condizionare e affiancare in questo senso il potere
centrale e sovrano dello stato (eventualmente anche dello stato comunale)
o di coloro che ne sono in loco, come feudatari e grandi enti immunitari,
delegati e rappresentanti»13.
Pertanto, anche alla luce di una storiografia sempre più vasta, che esplora
in modo approfondito anche i risvolti giuridici della questione, si erra
inevitabilmente sia nel porre dei distinguo netti e invalicabili tra le due
persone giuridiche in esame sia nel costruire un amalgama confuso delle
medesime nel vano tentativo di unificare realtà che identiche non sono e
tuttavia non appaiono neppur così diverse.
13
G. Galasso, Dal Comune medievale all’Unità. Linee di Storia Meridionale, Bari 1969, p. 9
7
Capitolo I
L’universo Universitas
8
1.1. Stat Universitas pristina nomine
L’universo delle universitates era il perno attorno al quale girava
l’intero sistema amministrativo del Regno di Napoli. Le università erano
ovvio riferimento per il territorio, loci vitae per la popolazione ove si
evolvevano gli scambi nel passaggio da un’economia esclusivamente
agraria a una più variegata e rivolta al commercio.
Tutto ciò premesso, la riflessione di Calasso “la città è presente allo Stato
sopra tutto coi suoi elementi materiali, come una circoscrizione territoriale
e un insieme di uomini”14 ha attualmente, seppur senza far riferimento al
termine Stato, ancora ragion d ’essere, in quanto per dirla con Roggero
«coglie la reale dialettica che si venne instaurando, nel Mezzogiorno
d’Italia, tra quell’ordinamento e le comunità»15.
Ciò che marca ancor più la differenza tra il Comune settentrionale e
l’Universitas meridionale è il concetto di territorium. Laddove il territorium
del Comune comprende necessariamente il contado circostante, la città
meridionale ne è priva: «può possedere casali fuori dalle sue mura
(Cosenza, Teramo e sino alla prima metà del Seicento Napoli stessa), ma
queste sono circondate quasi ovunque dalle giurisdizioni feudali»16.
Appunto per questo «parlare del rapporto tra città e campagna significa
formulare un problema che ha maggior peso per la storia dell’Italia centro settentrionale che non per quella del Mezzogiorno»17 in cui non sono
contemplate per le universitates «la dimensione progettuale e pratica
dell’espansione territoriale della città, il tentativo di sottomettere le aree
feudali esterne alla città, una politica di alleanze tra città diverse, la
conquista e la riduzione a contado di territori e comunità circonvicine»18.
F. Calasso, La legislazione statutaria dell’Italia meridionale. Le basi storiche. Le libertà cittadine dalla
fondazione del regno all’epoca degli statuti, Roma 1919, rist. anast. Roma 1971, p. 279
15 F. Roggero, Il “corpo” e il “territorio”, p. 30
16Ivi, p. 135
17 M. Berengo, Città italiana e città europea, ricerche storiche, Reggio Emilia 2010, p. 129
18 G.Muto, Comunità, governo centrale e poteri locali nel Regno di Napoli in età moderna. In «Mélanges de
l'École
française de Rome. Italie et Méditerranée», tome 116, n°2. 2004, p. 511
14
9
Il concetto di territorium descrive ancor meglio la natura dell’Universitas
rispetto al Comune settentrionale. Il contado è infatti separato dalla città,
quoad territorium. In altri termini, produce l’effetto della divisione dei due
distretti fiscali, risolvendosi nella scomposizione dell’ambito tributario
originario in due o più settori di ampiezza inferiore.
L’Universitas, cioè, non era in senso proprio domina dell’intero suo
territorio, perché esso apparteneva appunto a molti proprietari diversi, ma
su questo essa esercitava un “diritto”, ossia un insieme di prerogative19.
Questa natura del territorium e il suo legame necessario con l’universitas non
sono contraddetti dai casi di quelle universitates che sembrano non avere
territorio:
Le università hanno il distretto del territorio, come si è mostrato […]
ma può avvenire che alcuna non ne abbia affatto. Cessano allora tutti
i diritti del territorio, perché non vi è dove esercitarli, e la società
averà i suoi effetti solo nelle persone sociate che sono fra il recinto
delle abitazioni20.
In questi casi in realtà il “territorio” dell’universitas è quello interno alle
mura21. Pertanto l’elemento territoriale si configura come una vera e propria
circoscrizione fiscale, all’interno della quale la stessa università raccoglieva
le imposte che essa, come “corpo”, pagava al fisco centrale. «Ogni università
esigerà la bonatenenza22 per quei fondi che sono siti dentro il suo confine,
Federico Roggero ne Il “corpo” e il “territorio” dell’universitas nel Regno di Napoli, in «Historia et ius»
n. 11/2017, p.18, riporta un passo emblematico di Pecori: «La parola demanio, o domanio è corrotta
da quella di dominio, e significa ciò che è in dominio del principe o del pubblico, per distinguere ciò
che è in dominio de’ privati. Ha cominciato ad usarsi per dinotare anche ciò che è in dominio delle
città ed uso de’ cittadini, perché essendo in uso di tutt’i cittadini, sembra, rispetto a loro, di fare una
figura di pubblico uso, come a suo luogo ne faremo più chiara menzione. In tanto, per non recar
confusione colla singolarità, ci serviremo delle parole demaniali, pubbliche, comuni, universali per
significare i beni delle università soggette, tutto che, per propriamente parlare, loro non si
converrebbero questi nomi» in R. Pecori, Del privato governo dell’università, I, Napoli 1770, p. 29. Si v.,
negli stessi termini, ma con maggiore dettaglio, pp. 286-289
20 Roggero si riferisce sempre alle discettazioni di Pecori, che nel 1770 era stato in grado di fornire una
visione organica dell’Istituzione, F. Roggero, cit., p. 20
21 M. Guarani, Ius regni neapolitani novissimum, tom. I, Napoli 1787, p. 258
22 La bonatenenza era la principale imposta diretta dovuta su tutti quei beni cosiddetti burgensatici
(non di carattere feudale) che erano raccolti all’interno dell’universitas. Relativa a proprietari indigeni
e non, ciascuno nella misura di quanto detenuto.
19
10
apprezzati tutt’i beni tanto de’ cittadini, tanto de’ forastieri”, i cosiddetti
bonatenti»23.
Quest’ultima dimensione del territorio, quella appunto fiscale,
condizionava tutte le altre, decidendo, in ultima analisi, dell’esistenza
stessa della universitas24.
La distinzione cardine tra universitates feudali facenti capo a un barone, e
universitates demaniali direttamente subordinate alla Corona non si riferiva
al territorio tuttavia, ma a chi esercitava su di esso la giurisdizione (quoad
iurisdictionem).
E
neppure
questa
distinzione
appariva
netta
e
inequivocabile.
Non è possibile nondimeno la costruzione di una mera dualità in materia
giurisdizionale nella estrema varietà e peculiarità che caratterizza le
universitates meridionali25, tanto che, come afferma Massafra, «nel modo in
cui venne concretamente esercitata la giurisdizione vi erano più analogie
fra i centri feudali più popolosi e più ricchi e le città regie […], che non tra i
grandi centri feudali [tra i quali non ultimo Molfetta] e le piccole comunità
infeudate del Subappennino dauno o dell’hinterland barese»26.
A queste classificazioni di carattere prettamente amministrativo e fiscale
si affiancava una serie di ripartizioni funzionali interne che introduceva una
sostanziale gerarchia tra le diverse comunità, tra i diversi centri abitati,
quasi alla stregua della distinzione dei ruoli di primogeniti e cadetti27.
Un esempio calzante è quella che Giorgio Chittolini ben definisce la
«quasi
città»,
o
per
dirla
con
Giovanni
Vitolo
«altra
città»28,
quell’agglomerato urbano che era costretto in una sorta di limbo, privo di
F. Roggero, Universitates, censi e imposte dirette nel Regno di Napoli (sec. XVII), Roma 2008, pp. 70-71
(l’autore cita il testo autorevole di Nicola Antonio Marotta, De collecta seu bonatenentia, edito a Napoli
nel 1642)
24 F. Roggero, Il “corpo” e il “territorio” dell’universitas, cit., pp. 21-22
25 G.Muto, Istituzioni dell’Universitas e ceti dirigenti locali, in G. Galasso e R. Romeo (a cura di), Storia
del Mezzogiorno, IX/2, Napoli 1993, pp. 19-24; id, Comunità, governo centrale, cit., pp. 511-514
26 A. Massafra, Una stagione degli studi sulla feudalità nel Regno di Napoli, in P. Macry e A. Massafra (a
cura di), Fra Storia e Storiografia, Scritti in onore di Pasquale Villani, Torino 1994, p. 124
27 G. Delille, Famiglia e potere locale. Una prospettiva mediterranea, Bari 2011, pp. 149 e ss.
28 G. Vitolo, L’Italia delle altre città. Un’immagine del Mezzogiorno medievale, Napoli 2015
23
11
un nomen e sotto diretto controllo regio29, o come precisa Annastella Carrino
che «presenta caratteri urbani “difettosi” ma che non hanno nulla a che
vedere con il villaggio contadino dell’Europa preindustriale»30.
Talune “altre città” potevano infatti raggiungere il rango di civitates vere
e proprie, altre non ne avrebbero mai ottenuto lo status, rimanendo ferme
nel loro ruolo di “quasi città”, potendo rivestire mansioni urbane, pur
differenziandosi sia dalle città in senso stretto sia dalle restanti non città
denominate nelle fonti loci demanii o “terre famose”31.
Queste denominazioni però avevano una stretta attinenza con quella che
era la fisionomia istituzionale di un centro che andava molto al di là del
mero sviluppo materiale e fisico. La qualificazione di civitas era quasi
sempre legata alle «istituzioni civili e religiose con relativi privilegi che
ospitavano e per il potere che esercitavano su un più o meno ampio
territorio circostante»32. L’onore del risiedervi di un’autorità ecclesiastica
associata alla presenza di mura era, nella descrizione più diffusa, il requisito
principale per assurgere al rango di città, cui seguivano altri fattori come la
forma di governo o le strutture corporative in essa sviluppatisi, connessi a
dati economici e demografici, oltre a quello banalmente geografico della
dimensione degli spazi dominati33. E di regola «la geografia urbana
coincideva con quella della circoscrizioni diocesane e confermava una volta
di più che il primo elemento del rango cittadino era la sede vescovile»34,
G. Chittolini, “Quasi-città”. Borghi e terre in area lombarda nel tardo Medioevo, «Società e Storia», n. 47,
1990 , pp. 3-26 e in Id., Città, comunità e feudi nell’Italia centrosettentrionale, secoli XIV-XVI, Milano 1996,
pp. 85-104
30 A. Carrino, Quasi sint civitates. Società, poteri e rappresentazioni nella Puglia di età moderna, Roma 2017,
p. 15
31 «Si distingueva tra i loci demanii, definiti tali per il numero di giudici e notai attivi in loco, sovente
centri recentemente infeudati, su cui la corona era interessata a mantenere, se non un controllo diretto,
almeno una stretta relazione, e le “terre famose”, aree di cui possiamo ricostruire indirettamente un
elenco completo per tutto il Regno, permanendo tuttavia difficoltoso significare il connubio tra la
fama guadagnata in una provincia e il riconoscimento (di terra famosa appunto) ottenuto dalla curia
regia». G. Vitolo, L’Italia delle altre città, cit., pp. 1-102
32 G. Delille, Governo locale e identità urbana. Il caso italiano in una prospettiva europea, in M.A. Visceglia
(a cura di), Spagna e Italia in età Moderna. Storiografie a confronto, Roma 2009, p. 121
33 A. Carrino, Quasi sint civitates, cit., p. 16
34 G.Muto, Comunità, governo centrale, cit., pp. 508
29
12
illustrando così «il ruolo, effettivo della Santa Sede fino alla fine del XVIII
secolo, nell’attribuzione dei titoli urbani»35.
Eppure, riportandoci ancora una volta alle parole di Carrino, la città è
«un oggetto problematico e sfuggente a partire dalla sua stessa definizione»
che
«non appare scontata neanche per quelle realtà che soddisfano i
principi classificatori al tempo più adoperati» 36.
1.2. Nascita e sviluppo delle Universitates
Come già ribadito, non v’è un’inequivocabile distinzione tra il Comune
“politico” centrosettentrionale e quello “amministrativo” meridionale. La
differenziazione in tal senso proposta da Pini è giusta e sbagliata al
contempo, atteso che non è assolutamente possibile paragonare le due
communitates civium, né definire l’Universitas come sì un ente collettivo al
pari del Comune, ma, al contrario del secondo, del tutto privo di potere
politico37.
Analizziamo la questione dal principio. L’universitas cominciò ad
acquisire i contorni che conosciamo nel Mezzogiorno al passaggio dalla
dominazione sveva a quella angioina. Furon infatti una serie di
provvedimenti emanati da Carlo I d’Angiò a precisare questo
decentramento
amministrativo
ante
litteram
nel
basso
medioevo,
trasformando le città da semplici terrae in universitas38, ossia in accordo con
Manlio Bellomo, ne «l’istituzione cittadina che compendia e dirige la vita
urbana»39.
Fu lo Stato centrale a sostenere quello che possiamo definire con le parole
di Aurelio Musi: «il Comune meridionale che si impiantava sugli antichi
G. Delille, Famiglia e potere, cit., p. 149
Ivi, p. 15
37 A.I. Pini, Città, comuni e corporazioni nel medioevo italiano, Bologna 1986, pp. 61-63
38 Terrae sono i centri abitati che non hanno il rango di città né sono sedi vescovili.
39 M. Bellomo, Società e Istituzioni dal Medioevo all’Età Moderna, Roma 1993, p. 283
35
36
13
ducati, che erano andati caratterizzandosi attraverso la sostanza dinastica e
assolutistica del potere»40, per cui non v’era «né anomalia, né analogia» con
quello centrosettentrionale41. La dipendenza dal Regno, il non essere
assimilabile a una polis di antica memoria, non impediva in alcun modo alle
universitates di svilupparsi come comunità, né ne frenava il fermento
politico neppur nelle città infeudate.
Da Ferrante I d’Aragona in poi tutti i sovrani concessero a queste cellule
periferiche del potere statale
42
prerogative che non erano attribuibili al
semplice ius privatum, pur restando omnis iurisdictio et omnis districtio apud
principem43. Furono la prassi e le consuetudini a formare le basi politicolegislative di questi enti, in virtù principalmente delle generose concessioni
giurisdizionali dei sovrani stessi che preferivano preservare, addirittura
favorire, i poteri locali.
Quando si discetta di «normazione partecipata» nei privilegi e nelle
capitolazioni, si scivola sovente in una sorta di esaltazione della vicenda,
tralasciando di considerare come tale prerogativa aveva ragion d’essere
solo ed esclusivamente attraverso il placet formale dello Stato centrale, indi
del Re. L’universitas era, pertanto, seguendo e uniformando le definizioni
fornite da Musi prima ed Elena Papagna poi, certamente un «luogo di
un’ambivalenza strutturale»44: una sorta di «articolazione periferica del
potere centrale»45, ma al contempo era «espressione istituzionalizzata del
potere locale nel Mezzogiorno»46.
Perciò non si erra e, al contempo, non si è neppur avveduti, quando si
definisce l’universitas un’istituzione avulsa da poteri politici tout court: essi
A. Musi, “Introduzione” in A. Musi (a cura di), Le città del Mezzogiorno, Napoli 2000, p. 7
A. Musi, Né anomalia né analogia, le città del Mezzogiorno in Età Moderna, in G. Vitolo (a cura di), Città
e Contado tra Medioevo ed età Moderna, Salerno 2005, pp. 310-311
42 A. Musi, Mezzogiorno Spagnolo La via Napoletana allo Stato Moderno, Napoli 1991, pp. 76-77
43 V. Colorni, Le tre leggi perdute di Roncaglia, in Scritti in memoria di Antonino Giuffré, I, Milano 1967, p.
143.
44 A. Musi, Mezzogiorno Spagnolo, cit., p. 70
45 Ibidem
46 E. Papagna, Stato, Baroni e Università, in «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia di Bari» XXXVIIXVIII, 1994-1995, p. 375
40
41
14
vi erano, essa era sì autonoma, ma nei limiti e nelle forme del consenso
regio. Quel potere locale, incompleto almeno formalmente47, permetteva
tuttavia a chi lo deteneva di godere di immunità economiche e privilegi
fiscali oltre ad avvalersi di una sorta di «discrezionalità su cose e persone»48.
L’unico vero discrimen risiedeva infatti nella diversa funzione economica cui
esse erano rivolte
49.
La presenza di magistrature elette al loro interno o
acclamate o semplicemente accettate, prescindendo da un intervento diretto
del sovrano, ancorché rese legittime da un controllo o da una conferma della
Corona stessa era perciò la prova provata, la manifestazione evidente della
libertà goduta dalle universitates sul piano sostanziale 50.
1.3. Viaggio all’interno dell’Universitas
Pur nella succitata diversificazione e non omogeneità della realtà delle
universitates possiamo ben definire come organo costitutivo ricorrente e
necessario l’Assemblea o, come dir si voglia, il Pubblico Parlamento
formato da tutti gli individui maggiorenni - solitamente i capifamiglia appartenenti a qualsiasi ceto sociale purché di età superiore ai 18 anni.
Quest’«organo deliberativo per eccellenza»51, procedeva all’elezione diretta
o mediata (attraverso i Decurioni e gli Eletti) di 2 o 3 Sindaci: il cosiddetto
Reggimento. Le riunioni avvenivano principalmente nella piazza principale
«Contrariamente a quanto auspicavano i beneficiari dei privilegi, infatti, il re di Napoli si sentiva
obbligato a rispettare il dettato delle richieste da lui placitate non perché esse lo impegnavano come
un contratto privato, nell’ambito di un rapporto pattizio vero e proprio, ma semplicemente perché
non voleva venir meno alla sua parola». I re di Napoli non giuravano di rispettare i capitoli che
approvavano nei Parlamenti generali, i quali dunque, come tutti i capitoli placitati in favore di
comunità e singoli, non avevano la qualità di una «lex pactata seu conventionata» con «vis et efficacia
contractus». F. Senatore, Sistema documentario, archivi e identità cittadine nel Regno di Napoli durante
l'antico regime da «Archivi», X/1 gennaio-giugno 2015, pp. 40-41
48 F. Senatore, Sistema documentario, cit., p. 76
49 G.Muto, Saggi sul Governo dell’Economia nel Mezzogiorno Spagnolo, Napoli 1992, p. 13
50 M.Bellomo, cit., pp. 120-123
51 V. Naymo, Gli “Stati” feudali nel Regno di Napoli. Economia società e governo del territorio in età moderna,
Catanzaro 2013, p. 112
47
15
della città, ossia nel «luogo solito e consueto ove soglionsi fare i pubblici
parlamenti»52.
Il Reggimento, che durava in carica un anno, esercitava il potere esecutivo,
principalmente tra i suoi compiti figuravano quelli di vigilare sulla «salute,
conservazione e tranquillità del popolo»53. Ulteriori e precipue funzioni del
Reggimento erano quelle di esercitare lo ius vigilandi su tutto quanto
concerneva i beni alimentari e, in particolare, la raccolta del grano e il suo
utilizzo successivo, ossia la panificazione, la cui licenza era appannaggio
dei sindaci. Le cariche comuni alla totalità delle universitates, secondo Muto,
si potevano così elencare e denominare: «1) Sindaco ed Eletti; 2) Cassiere (o
Tesoriere ed Erario); 3) Razionali (e computanti addetti alla revisione dei
conti e dell’Amministrazione); 4) Mastro Giurato; 5) Avvocato della città; 6)
Giudice civile con il relativo Mastrodatti (se la città era infeudata la nomina
spettava al barone); 7) Cancelliere; 8) il Capitano, di nomina regia»54 o
feudale, a seconda che si parlasse rispettivamente di città demaniali o
infeudate.
Se la distinzione tra le universitates era basata sul valore politico –
economico che queste avevano, non ci si può meravigliare di come
protagonista di questo proscenio fosse nella quasi totalità dei frangenti il
Cassiere, meglio definito come «l’esattore delli fiscali», ossia colui che era
deputato alla raccolta dei tributi erogati dai singoli abitanti del territorio
universitario e successivamente al versamento delle somme dovute al Regio
Fisco. Le controversie di diritto tributario aventi primariamente a oggetto
la diffusa pratica dell’abuso feudale55 sono quelle di cui maggiormente
recano traccia gli archivi delle universitates, ma non fotografano in alcun
I. Carli, Il Cancelliere istruito, Vol. I, Napoli 1803, p. 102
A. Bulgarelli Lucaks, Le universitates meridionali all’inizio del regno di Carlo di Borbone: la struttura
amministrativa, «ClioXVIII» 1981, n.1, p. 10
54 G. Muto, Saggi sul Governo, cit., p. 13
55 Fenomeno noto di cui già discetta Davide Winspeare nel suo Storia degli abusi feudali, Napoli 1811,
che trovò una risoluzione solo con l’operato della Commissione feudale, frutto delle leggi
sull’eversione della feudalità nel 1806.
52
53
16
modo l’essenza di un’istituzione così complessa e poliedrica, non
costituendone di certo il nucleo principale.
Ciò che maggiormente interessa la storiografia attuale, e perciò le nostre
ricerche, è quanto ricorre sovente nella dialettica sociale interna alle diverse
universitates. Non si può parlare infatti di un linguaggio comune che giunga
a unificare e omogeneizzare tutte le realtà locali del Regno di Napoli. Non
è plausibile in alcun modo definire uniforme ciò che tale non era e non
avrebbe mai potuto essere.
1.3.1. Il reggimento
La complessità regnava sovrana nel reggimento universitario, che si
diversificava, difatti, in base anche a taluni dettagli. Elemento comune a
tutte le universitates era il sistema della separazione dei ceti. Nobili e
popolari divisi nelle cosiddette piazze formavano un parlamento, ma non
v’era alcuna uniformità tra i diversi statuti, i cosiddetti Libri Rossi che ne
definivano il modus e i mores56. Queste distinzioni potremmo pertanto
ascriverle con un ardito ossimoro a una sorta di diritto pubblico circoscritto
a un’area territoriale ristretta ma anche e soprattutto a un gruppo ben
definito di cittadini facenti capo comunque a una stessa entità statale.
I ceti nei fatti non erano però “uguali", non a caso differenziato era
l’accesso alle cariche pubbliche. Nella maggioranza delle città del
Mezzogiorno erano “riservati ai nobili i posti di comando più importanti e
meglio remunerati”57. I Libri Rossi, attraverso i quali si definivano diritti,
spettanze ragioni e privilegi, riflettevano efficacemente e senza iperboli i
“rapporti di forza” dei gruppi cetuali58.
In altri casi si dà vita ad una sorta di corpo assembleare, al quale partecipano tutti i capifamiglia
del loco. Quest’ultima soluzione, però, si riferisce principalmente alle Universitates meno popolose.
Cfr. F. Carabellese, La Puglia nel secolo XV da fonti inedite, parte II, Bari 1907
57 G. Delille, Famiglia e potere, cit., pp. 105-106
58 Ivi, p. 111
56
17
La comunità eleggendo i propri rappresentanti e ufficiali aveva il potere
di esigere imposte dirette e indirette per conto di altra autorità, regia o
baronale che fosse, oltre che per sé stessa, avendo facoltà di concedere
appalti, deliberare lavori pubblici e – questione non di poco conto –
prendere decisioni politiche in situazioni di emergenza come rivolte,
suppliche all’autorità e, non ultimi, eventi bellici.
Era evidente che questa tutela dell’autonomia cittadina, questi privilegi
di cui godevano le universitates, rappresentavano per il sovrano non già una
graziosa quanto gratuita espressione di benevolenza, ma - molto più
prosaicamente - un mezzo opportuno e oltremodo incisivo attraverso il
quale frenare, controllare il dominio feudale e le relative ansie di espansione
del medesimo nelle terre del Mezzogiorno italiano59.
Queste communitates civium erano non solo capaci di esprimere
autogoverno, ma anche di essere titolari di beni e risorse proprie. Il tutto
venne difatti «largamente riconosciuto e ufficializzato», disponendo di
conseguenza che «i diritti di possesso individuale sulla terra, il demanio
regio, il demanio signorile, i possessi ecclesiastici coesist[essero] con gli
spazi patrimoniali fruibili dall’università e dal demanio universale»60.
Questo consolidamento dell’istituzione universitas, nonché le prerogative
comunali distribuite - seppur non equamente - tra i due ceti nobiliare e
popolare erano paradossalmente la strategia più consona a rafforzare il
potere regio, quando nel Comune centro settentrionale l’arte del governare
era ormai delegata al solo patriziato, frutto dell’unione e della mescolanza
precoce tra ricchi populares et antiqui cives nobiles61.
E. Papagna, Filippo Briganti Patrizio di Gallipoli, Roma 2006, p. 16
B. Salvemini, Un mondo “paradossale”? Poteri società e risorse nello spazio pugliese della lunga età moderna
in A. Giuffrida, F. D’Avenia, D. Palermo (a cura di), Studi storici dedicati a Orazio Cancila, Palermo
2011, pp. 821-861, p. 7 versione online.
61 E. Papagna, Filippo Briganti, cit., p. 16
59
60
18
1.4. Nobiles et Populares
Le discussioni e le conseguenti decisioni adottate nelle riunioni generali
o nei concili ristretti, rilevanti e opportune per l’universitas dovevano aver
sede in un altrettanto ambito architettonicamente definito, proprio e
ricorrente in tutti i centri del Regno, uno spazio aperto o semiaperto: sedili
o logge, come dir si volesse, o i cosiddetti «luoghi soliti», sovente citati nella
documentazione notarile al fine di pubblicare un provvedimento
dell’amministrazione locale o dell’autorità, lì dove si portavano a
compimento le aste pubbliche degli uffici e delle gabelle, dove si esercitava
il grado più basso della giustizia.
Ma il fulcro della dialettica politica universitaria risiedeva nel designare
coloro ai quali dovesse appartenere il privilegio di assidersi e discutere del
futuro dell’università, coloro che potessero essere definiti i cosiddetti «ceti
di governo»62. I popolari, che rappresentavano le forze mercantili e
manifatturiere, erano riusciti a organizzare meglio la propria presenza,
tanto nell’economia urbana quanto nelle campagne. Si pensi che a Molfetta,
nostro oggetto di studio, nel 1474 avevano raggiunto il numero di diciotto
rappresentanti su trentasei in perfetta equiparazione con gli ottimati 63. Non
si può non rilevare come dall’età angioina il ceto mediano, il cosiddetto
gruppo dei mercatores populares aveva costituito la cerniera tra i nobili e il
populus, descrivendo una linea di demarcazione con le arti meccaniche e gli
artifices, pur non escludendo le nobilitazioni e quindi l’ingresso nella nobiltà
civica64.
Già nella prima metà del XVI secolo si assisteva all’ indebolimento di
questi ceti medi urbani: i mercanti esterni ridussero l’iniziativa
A. Spagnoletti, Ceti dirigenti cittadini e costruzione dell’identità urbana nelle città pugliesi tra XVI e XVII
secolo, in A. Musi (a cura di), Le città del Mezzogiorno nell’Età Moderna, Napoli 2000, pp. 25 e ss.
63 L. Volpicella, Gli statuti dei secoli XV e XVI intorno al governo municipale della città di Molfetta, Napoli
1875, p. 27
64 G. Muto, Istituzioni dell’Universitas, cit., p. 28
62
19
imprenditoriale di quelli interni, intenti a valutare prospettive che li
portassero al di là del ristretto orizzonte del consiglio cittadino verso
l’agognato traguardo dell’elevazione a nobiles. Il tutto poteva avvenire
attraverso “utili” matrimoni, così come, nella migliore delle ipotesi,
ricorrendo all’acquisto di feudi, che sancissero l’ingresso a pieno titolo nella
sì tanto sospirata aristocrazia.
Questi diffusi desideri, questa necessità di essere definiti nobiles titolati,
non potevano non essere condivisi anche dal patriziato urbano,
contraddistinto da evidenti difficoltà nel dimostrare una forte identità
nobiliare tra autoreferenzialità non sempre probabile e circoscrizione della
sfera di influenza esclusivamente all’interno delle mura cittadine.
Appartenere alla feudalità, condizione dotata di prerogative non costrette
all’interno del semplice ambito universitario, costituiva perciò meta
comune sia per la nobiltà meramente di estrazione civica sia per i populares.
Forse anche a causa di questo comune denominatore, fino alla metà del XVI
secolo si era conservato una sorta di bilanciamento tra nobili e popolari, con
le dovute riserve del caso.
La rappresentanza paritetica della società dei due ceti, quella descrizione
statutaria di un tessuto cittadino di sudditi aventi pari opportunità e pari
diritti nell’universo civico e, in senso più lato, dinanzi al sovrano è un puro
«tentativo di codificazione formalmente equilibrata di una organizzazione
gerarchica della società di fatto squilibrata e squilibrante»65. Restando
sempre entro i confini strettamente locali, appariva chiaro che il formarsi di
gruppi distinti di cives si consumava all’interno dell’indispensabile
dialettica di alleanze e negoziazioni, da cui discende quello che Grendi ben
marchia come «il veicolo dell’influenza reciproca»66 tra le élite cittadine.
I microcosmi delle universitates meridionali andavano così delineandosi
come una sorta di costruzione, finanche fisica, di uno spazio avulso e
65
66
A. Musi, Mezzogiorno spagnolo, cit., p. 85
E. Grendi, Il Cervo e la Repubblica. Il modello ligure di antico regime, Torino 1993, p. VIII
20
differenziato da quello centrale capitolino. Diversi, infatti, ne erano i
linguaggi, diversi i territori, diverse le evoluzioni di “cerimoniali”, pur nello
stesso arco temporale. Il potere locale era generalmente e quasi
esclusivamente volto al controllo delle preziose cariche pubbliche, che,
com’era notorio anche al di fuori del territorio regnicolo, erano il primo
passo lungo l’impervio cammino la cui meta era costituita dal toccare o
quanto meno sfiorare gli ingranaggi del potere centrale67. Estremamente
variegato era il linguaggio della cittadinanza napoletana, del territorio in
genere; differenti erano gli statuti che definivano i singoli ordinamenti
cittadini, così come dissimili gli stati feudali che si formavano all’interno
della compagine del vicereame.
Ciò che emergeva in modo generalizzato era la mancata definizione di
popularis. Laddove appariva univoco e circostanziato il significato di nobilis
- seppur con le dovute sfumature - non altrettanto avveniva per popularis, il
cui significato era circoscritto a una negazione essenziale: non nobilis68.
Basando la nostra riflessione su una visione meramente semantica
popularis significava di matrice non nobiliare sin dai suoi primissimi usi e
nondimeno rivestiva l’ultroneo significato di cittadino, civis, con le
prerogative e i privilegi che afferivano a questo termine secondo i precetti
dell’antico diritto romano69. Tale definizione permane storiograficamente
ancor intatta. Piero Ventura, per esempio, fornisce anch’egli del seggio
popolare una definizione basata su una pura contrapposizione: «nella
capitale e nelle altre comunità, come l’organizzazione istituzionale che dava
rappresentanza alle sfere sociali non aristocratiche»70. Non ne si nega
l’importanza, ne si disconosce, però, la medesima valenza sociale all’interno
della communitas civium. Per quanta influenza i populares potessero
G. Delille, Famiglia e potere, cit., p. 154
G. Muto, Istituzioni dell’Universitas cit., p. 35
69 A. Spagnoletti, Classe dirigente e vita amministrativa a Molfetta nella seconda metà del XVIII secolo, in
«Archivio Storico Pugliese», XXIX (1976), p. 254
70 P. Ventura, La capitale e le élites urbane nel regno di Napoli tra XVI e XVIII secolo, in «Mélanges de
l'Ecole française de Rome. Italie et Méditerranée», tome 121, n°1, Roma 2009, p. 267
67
68
21
esercitare al pari dei nobili in molteplici circostanze, il prestigio, il lignaggio,
il nomen, il titolo costituivano sempre e comunque l’invalicabile discrepanza
tra i due gruppi sociali: i seggi pari non erano. Se lo fossero stati difatti,
«tutta la dinamica basata sui passaggi da un ceto all’altro, sulle scissioni
inugualitarie di lignaggio e sui raggruppamenti politici fazionari» non
avrebbero avuto ragion d’essere, definendo in questo modo un unico
gruppo dirigente come avveniva nell’Italia centro-settentrionale71.
In questo panorama, soprattutto dopo la chiusura oligarchica della
seconda metà del XVI secolo l’introduzione di regole cogenti e restrittive
che impedivano la mobilità sociale e l’aggregazione di famiglie “nuove” al
primo ceto minò considerevolmente l’avvicendarsi dei due gruppi
antagonisti al potere locale, rendendo i “non nobili” una sorta di
«appendice non necessaria» della prima piazza con scarso potere
contrattuale72.
Invero, pur in un contesto giuridico e istituzionale del tutto differente,
Italia centrosettentrionale e Mezzogiorno spagnolo avevano in comune «di
aver consegnato, salvo poche eccezioni, il potere comunale a patriziati
sempre più chiusi e detentori di privilegi trasmessi, di fatto o di diritto, in
modo ereditario, relegando nell’ombra, in condizione subalterna o
cancellandole del tutto, le rappresentazioni politiche dei popolari, cioè dei
ceti borghesi e artigiani»73.
1.4.1. Tra Nome e Virtù
Ma cosa voleva dire esser nobili?
Nel linguaggio storiografico i lemmi nobiltà, feudalità, aristocrazia
sembrano aver tutti lo stesso significato, privo di qualsivoglia sfumatura.
G. Delille, Famiglia e potere, cit., p. 105
A. Spagnoletti, L’incostanza delle umane cose, cit., pp. 22-23
73 G. Delille, Governo locale e identità urbana, cit., pp. 130-131
71
72
22
Eppure non è così: essi definiscono indubbiamente i membri di un gruppo
sociale privilegiato al cui interno si rinvengono differenze afferenti allo
status, al potere o alla mera ricchezza. Nondimeno, la stessa terminologia
che usiamo non aiuta a dissipare quelle che sono le incertezze nel definire
nettamente la pianificazione sociale, le sfumature che afferivano
all’aristocraziae e in particolare la nobiltà civica, considerata l’esiguità delle
fonti cui far riferimento.
Ogni definizione però va rapportata al comune nucleo sociale da cui
discendevano le distinzioni - cetuali e sociali in senso lato - e al quale esse
ineluttabilmente dovevano far riferimento: la famiglia. Scipione Mazzella
nel 1586 nel suo Descrittione del Regno di Napoli nel dare una definizione
appunto dell’asse attorno al quale si muoveva la società dell’epoca, si limitò
a darne una rappresentazione, oseremmo dire, antropologica e privata al
contempo: «Famiglia altro non è eccetto che un ordine di discendenza, la
quale trahendo da una persona principio, e nei figliuoli» e via discorrendo
per generazioni 74.
Antichità e splendore sono i criteri cui faceva dunque riferimento
Mazzella, onde definire nobile una famiglia, in modo da ben circoscrivere
le basi della distinzione dalla “comune plebe”. Per “antichità” si
intendevano le molte generazioni, «o ver molte età» attribuibili alla
famiglia; “splendore” significava invece
honore et dignità havute le quali vedendosi molte volte in famiglie
nuove per l’accozzamento d’alcuni huomini valorosi fanno che quella
famiglia habbia splendore e illustrezzza, ma non antichità, e benché
alcune siano antiche, diconsi nondimeno nuove nello splendore,
quando una famiglia havrà antichità e splendore assieme, questa
senza alcun dubbio potrà dirsi intieramente nobile famiglia 75.
A partire dal basso medioevo sino al XVI secolo nel Mezzogiorno le
grandi signorie territoriali come il Principato di Taranto - non a caso
S. Mazzella, Descrittione del Regno di Napoli, Napoli 1586, pp. 611-612, così come citato da Muto in
Istituzioni dell’Universitasi, cit., p. 33
75 Ibidem
74
23
agognato da Cesare Borgia unitamente alla mano di Carlotta d’Aragona rimasero il modello più alto di nobiltà, quello che era eccelsa
rappresentazione di «splendore et illustrezza», difficilmente raggiungibile,
difficilmente soggetto a mutazioni. La conservazione del potere e del
lignaggio era difatti il principale obiettivo della grande nobiltà.
La feudalità minore, invece, era più suscettibile di una – anche vivace –
mobilità sociale soprattutto nel tumultuoso avvicendamento delle dinastie
regnanti76. Non bisogna poi dimenticare che i processi di mobilità sociale
non erano necessariamente stanziali ma potevano seguire «un itinerario che
poteva essere anche geografico in base alle gerarchie territoriali» e teso
sempre a «raggiungere più alti livelli di nobiltà o ad attutire processi di
declassamento»77.
Il patriziato urbano all’interno di questo quadro appena delineato stava
assumendo anch’esso precise sembianze nel tempo: nel XVI secolo si era già
in grado di meglio descrivere questa oligarchia circoscritta dal periplo
dell’universitas. Del Treppo sottolinea efficacemente come nel Cinquecento
proprio nel momento in cui città come Bitonto, Bari, Monopoli, Salerno,
Cosenza si qualificavano come universitates nobilium ponendosi così in netto
contrasto col ceto dei populares78, ad Amalfi si utilizzava per la prima volta
il termine patritius79.
«La nobiltà di seggio è inserita con il popolo nel corpo della città che è
essa stessa nella sua unità nobile»80: questa la definizione più calzante della
superiorità e della distinzione del patriziato, degli ottimati rispetto al ceto
popolare. La nobiltà viene a essere
un habito elettivo che consiste nel mezzo intorno a quelle cose che
sono pertinenti a governare, che per giungervi è di bisogno confome
l’opinione di Seneca d’haver l’animo ben impiegato nelle morali
G. Muto, Istituzioni dell’Universitas, cit., p. 34
E. Papagna, Filippo Briganti, cit., p. 19
78 Ivi, p. 35
79 M. Del Treppo, A. Leone, Amalfi medievale, Napoli, 1972, p. 149
80 M.A. Visceglia, Identità sociali. La nobiltà napoletana nella prima età moderna, Milano 1998, p. 92
76
77
24
discipline e cioè esser giusto, dotto, temperato e prudente […] in
guisa che colui, che signoreggia le Virtù è nobile81.
Partendo da questi presupposti vennero progressivamente a definirsi i
dogmi cui non poteva sottrarsi il mos nobilium, l’aristocrazia “vera” iniziò a
riconoscersi soprattutto da una sorta di “purezza genetica” ante litteram: era
il sangue a definire chi era nobile e chi non poteva neppure aspirare a
esserlo, non v’era spazio per meriti o imprese di sorta.
In questo modo la nobiltà, come entità sociale ben definita si basava in
via del tutto teorica su alti principi morali, sulla “Virtù” di cui si riteneva
unica portatrice e che aveva il pregio di consolidare questo corpus sociale in
una, per quanto apparente, sorta di omogeneità che la distingueva dal
confuso e multiforme populus. Si disegnava in siffatta maniera un archetipo
quasi concreto sia per il signore feudale come per il patrizio napoletano: si
circoscrivevano meglio le discriminanti essenziali a stabilire l’appartenenza
a tale ambita sfera sociale in modo tale da impedire, o quanto meno
ostacolare l’ingresso di homines novi nella compagine aristocratica; si
configurava spiccatamente una questione genetica oltre il solo valore
militare, una sorta di innata superiorità di nascita che si trasmetteva di
padre in figlio: la nobiltà di sangue.
L’antichità e la virtù coincidevano “fatalmente” con la memoria storica,
documentabile con le fonti scritte, con gli inoppugnabili titoli feudali. Un
ricordo tangibile veniva ricostruito nei miti dell’autoreferenzialità di un
passato sì lontano da non poter essere verificabile82. E qui risiedeva la
peculiarità della nobiltà napoletana: nei rapporti tra gerarchie parallele
basate su un'unica cultura identitaria, che sebbene attraverso toni diversi
rinviava a «due modi di riproduzione sociale: l’autolegittimazione del
E’ un passo tratto da C. Tutini, Dell'origine e fvndatione de' Seggi di Napoli, del tempo in che furono
instituiti, e della separation de' Nobili dal Popolo; Del supplimento al Terminio, oue si aggiungono alcune
Famiglie tralasciate da esso alla sua Apologia, & Della Varietà della Fortuna confirmata con la Caduta di molte
famiglie del Regno, Napoli 1644, p. 186, citato in M.A. Visceglia, Identità sociali, cit., p. 91
82 Ivi, p. 105
81
25
gruppo stesso, con la formalizzazione dell’intervento sovrano solo dal 1559,
per la nobiltà di seggio, il titolo di investitura che precisa diritti, privilegi e
prerogative, per la nobiltà feudale»83.
Si introdussero dalla metà del Cinquecento i “Libri grandi”, i “Libri
d’Oro” il cui unico scopo era quello di tentar di impedire quella mobilità
che aveva invece contraddistinto la compagine sociale di età rinascimentale,
frenando l’aggregazione di nuove famiglie al fine di preservare l’egemonia
nobiliare, mutandola in un ceto di governo chiuso84. I decenni di metà
Cinquecento costituirono un emblematico punto di riferimento del dibattito
storiografico italiano sulla nobiltà in età moderna85, una vera svolta la cui
«principale nota distintiva fu una sempre più netta omogeneizzazione
ideologica di segno nobiliare delle diverse classi dominanti italiane»86.
Valori come l’onore, pratiche quali il duello, finanche forme di sapere che
tendevano non solo a conservare ma anche a creare la memoria familiare
dalle mere genealogie alle storie di famiglia, tutti questi furono i caratteri
uniformanti dell’aristocrazia87. Virtù che furono condivise, sia allorquando
si parlava di nobiltà feudale, titolata e non, o di piccola nobiltà provinciale,
formatasi dalla frammentazione di grandi signorie feudali sia di nobiltà di
spada inserita negli ordini cavallereschi, come quello di Malta88 sia del
patriziato cittadino e della nobiltà “fuori piazza”, cui appartenevano le
famiglie non ammesse al reggimento cittadino, escluse dal governo delle
università in quanto forestiere o provenienti da luoghi al di fuori del regno.
Ibidem
G. Muto, Problemi di stratificazione nobiliare nell’Italia spagnola, in A. Musi (a cura di), Dimenticare
Croce? Studi e orientamenti di storia del Mezzogiorno, Napoli 1991, pp. 73-111
85 Cfr. C. Donati, L’idea di nobiltà in Italia. Secoli XIV-XVIII, Roma-Bari 1988. L’autore analizza in
maniera puntuale la trattatistica sulla nobiltà dal XIV al XVIII secolo, ponendo in rilievo le peculiarità
delle strutture istituzionali dei diversi Stati (il richiamo a Otto Brunner nella premessa costituisce in
questo senso una precisa indicazione di un percorso storiografico).
86 Ivi, p. 93.
87 M. A. Visceglia (a cura di), Introduzione a Signori, patrizi, cavalieri nell’Età Moderna, Bari 1992, p.
XIII.
88 Cfr. A. Spagnoletti, Stato, aristocrazie e Ordine di Malta nell’Italia moderna, Roma - Bari 1988.
83
84
26
Senza contare quei nuclei familiari di incerta origine che ruotavano
attorno a questo gruppo “marginale” della nobiltà e che potevano essere
ascritti alla fascia più ricca della società urbana, basando le proprie fortune
sui traffici mercantili o sulle speculazioni finanziarie e adottando uno stile
di vita more nobilium89.
La questione spostò anche il baricentro dell’universitas: essa non
rimaneva ancorata esclusivamente alle proprie pretese di autonomia da
eventuali signori, ma si muoveva a definire il consolidarsi lento e
inesorabile della serrata oligarchica volta a concentrare il potere nelle mani
di coloro che potevano vantare l’iscrizione ai “salvifici” dorati tomi. E il
concetto stesso di famiglia in antico regime cominciò ad assumere contorni
diversi.
Come asserisce Elena Papagna, oltre alle palesi «differenze all’interno
della stessa compagine territoriale a seconda dei tempi considerati, nonché
tra stato e stato della penisola italiana, tra le diverse couches nobiliari, tra
uomini e donne, primogeniti e cadetti, vecchi e giovani, laici ed
ecclesiastici» non era
«ininfluente considerare contesti a modello
patrilineare forte, basato sulla primogenitura e su ruoli distinti per
primogeniti e cadetti, con ampio ricorso al celibato e alla trasmissione
vincolata del patrimonio, oppure ambiti a modello patrilineare debole,
incentrato sulla solidarietà agnatizia e sulla parità ereditaria dei maschi, con
un limitato ricorso all’istituto del fedecommesso»90. Si assisteva al
delinearsi, pertanto, di una società sempre più androcentrica.
Giovanni Battista de Luca nella sua opera più nota, Il Dottor Volgare, pur
non esitando a esprimersi in senso negativo sulla pratica delle sostituzioni
fedecommissarie, generatrici di liti e di questioni legali91, sottolineava la
M.A. Visceglia, Identità sociali, cit., pp. 104 e ss., 132-133
E. Papagna, Famiglie di Antico Regime Studi recenti sulle aristocrazie Meridionali in A. Carbone (a cura
di), Scritti in onore di Giovanna Da Molin Popolazione, famiglia e società in età moderna Tomo II, Bari 2017,
p. 478
91 G.B. de Luca, Il Dottor Volgare, III, libro X, cap. I, n. 6, Roma 1673, p. 11.
89
90
27
propria propensione per il modello patrilineare forte, oltre ad affermare che
l’uso delle primogeniture e dei maggioraschi «è più degno di lode che di
biasimo, e che più siano gli effetti buoni che i cattivi» in quanto «sebbene
pare cosa molto dura che tra i figli d’uno stesso padre, egualmente legittimi,
uno debba essere il padrone ed il regnante, ovvero uno il ricco, e gli altri
sudditi e poveri, […], molto maggiori sarebbero gli inconvenienti, che
nascerebbero dalla pluralità dei successori»92.
Era evidente la «tendenza della società napoletana a conservare alla
famiglia il patrimonio avito ed evitare altre occasioni di smembramento. Il
vincolo del sangue deve più che mai essere rispettato»93, ma sempre in
direzione maschile. La vicenda definì confini sempre più precisi nel
passaggio dal XVI al XVII secolo.
Questa situazione decisamente policroma che coinvolgeva poteri e ruoli
della nobiltà si pose a confronto con due fenomeni in pieno divenire: la
formazione dello Stato moderno e la Chiesa post-tridentina. Proprio
quest’ultima si propose come interlocutrice privilegiata delle élite che
cercavano di avviare i propri rampolli ultrogeniti verso una nuova
alternativa e prestigiosa carriera. Si preservava in quel modo sia il benessere
del cadetto che la continuità del nome e del patrimonio cui erano preposti
rispettivamente primogenitura e fedecommesso.
La nobiltà prendeva progressivamente i contorni di «un gruppo sociale
dotato di un particolare statuto giuridico che si rinnovava per via biologica
e che rinnovava lentamente i suoi ranghi»94, consentendo solo in via
eccezionale l’ingresso a nuove leve. La “simbologia del sangue” partoriva
però quell’irrigidimento delle pratiche matrimoniali e successorie,
configurando in questo modo la nobiltà secondo una struttura patriarcale
Ivi, III, libro X, cap. XII, n. 6, pp. 50 - 51
R.Trifone, Il diritto consuetudinario di Napoli e la sua genesi, Napoli 1910, pp. 20-21
94 E. Papagna, L’Universo nobiliare in B. Salvemini, A. Massafra (a cura di), Storia della Puglia. 1. Dalle
origini al Seicento, Bari 2005, p. 164
94 A. Carrino, La Città Aristocratica. Lignaggi e pratiche della politica a Monopoli tra Cinque e Seicento, Bari
1997, p. 12.
92
93
28
la cui miglior iconografia è quella dell’albero genealogico. L’appartenenza
cetuale si trasmetteva così di padre in figlio: dagli ascendenti si ereditava,
insieme alla ricchezza, la gloria del nome e la qualità della stirpe, poiché le
virtù “innate” restavano sempre all’interno delle stesse famiglie, le migliori,
quelle destinate naturaliter a gestire il restante corpo sociale.
Cionondimeno, «coloro che vantano una superiorità sul resto della
popolazione dovevano anche poter “apparire” ostentando beni lussuosi e
spendendo con prodigalità»”95. La ricchezza divenne perciò una
connotazione essenziale, un modus imprescindibile dell’esser nobile, per
quanto
ovviamente
non
annoverata
ufficialmente
tra
le
qualità
aristocratiche. Nonostante il possesso di beni allodiali e feudali oltre a
introiti che potevano attenere a rendite come ad attività anche di carattere
mercantile, la nobiltà sovente navigava nei debiti, non riuscendo in alcun
modo a sostenere lo stile di vita dispendioso e teso al culto dell’imago
sociale: si era nobili se si dimostrava di poter sfoggiare beni di lusso, opere
d’arte, oltre a condurre uno stile di vita degno del proprio lignaggio96.
Il palazzo, per mero esempio, sin dalla metà del Cinquecento divenne il
segno tangibile della propria schiatta, designando, evidenziando quello che
era il “bisogno di eternità”, oltre che quella innata convinzione, secondo cui
«la disuguaglianza era una necessità dell’organizzazione sociale»97. Come
il sovrano era tale per diritto divino, allo stesso modo si era nobili o semplici
popolani, perché così Dio aveva disposto e il palazzo era il tempio ove i
novelli dei dimoravano.
Il XVIII secolo dispose diversamente di queste “divinità sociali”. Dopo la
breve dominazione austriaca, dopo oltre due secoli di dipendenza dalla
Monarquìa, con l’ingresso dei Borboni di Spagna nella storia dei Regni di
Napoli e di Sicilia, con Carlo re «proprio e nazionale» cambiò
E. Papagna, L’universo nobiliare, cit., p. 189
Ivi, p. 190
97 Ivi, p. 192
95
96
29
sostanzialmente il concetto di nobiltà e anche quello di società.
L’aristocrazia
venne
rigorosamente
censita,
controllata
e
dovette
soprattutto prendere atto che lo Stato mirava a consolidare quelle
prerogative che avevano quasi perso contorni definiti durante i vicereami,
portando a favorire - dalla periferia sino alle magistrature centrali - l’ascesa
dei «togati, uomini di legge che si erano posti come i custodi della tradizione
giuridica e autonomistica del paese e si erano progressivamente
impadroniti dei gangli del potere a danno della nobiltà»98.
Si stabilì pertanto con il reale dispaccio del 1756 chi poteva esser definito
appartenente alla nobiltà generosa per legge. L’elenco era dettagliato e
preciso, l’interpretazione non era estensiva: vennero annoverati anche gli
ammessi ai consigli nobili delle città regie (cioè la cosiddetta nobiltà di
seggio o di piazza), oppure coloro che potevano dimostrare la discendenza
da un avo che «per la gloriosa carriera delle armi, della toga, della chiesa o
della corte avesse ottenuto qualche distinto e superiore impiego o dignità»
e in primis la continuità nella famiglia di un modo di vita nobile senza alcuna
caduta nell'esercizio di arti meccaniche e ignobili99.
Ma nel secolo dei lumi non vi fu solo una nuova concezione di nobiltà,
non di sangue, non di spada, ma di “servizio”; si assistette anche alla nascita
di una nuova realtà sociale: il cosiddetto terzo ceto, quello civile. Progressivo
e, al tempo stesso, inesorabile apparve l’avanzamento del nuovo ceto,
strisciante eppur senza requie l’inserirsi all’interno del seggio popolare.
Diverse tipologie sociali, artigiani, negozianti e massari, ma anche grandi
proprietari terrieri soppiantarono gli sparuti mercatores nella seconda metà
E. Papagna, La corte di Carlo di Borbone, il re «proprio e nazionale», Napoli 2011, p. 16
Il reale Dispaccio del 25 gennaio 1756 così prosegue: «La seconda detta di Privilegio, comprenda
tutti Coloro, che per meriti, e servizj personali prestati alla Corona e allo Stato, giungono ad essere
promossi a gradi maggiori, ed onorifici della Milizia, della Toga, e della Corte. E tutti coloro, che nelle
dette, ed altri Classi di real servizio, e dello Stato giungono ad ottenere decorosi impieghi, i quali
imprimono carattere.
La terza chiamata Legale, o sia Civile comprenda quelli, i quali facciano costare avere così essi, che il
loro Padre, ed Avo vissuto in Città demaniale, e regia, escluse le baronali, sempre civilmente con
decoro, e comodità, senza esercitare carica, e impiego basso, e popolare, e sono sempre stati riputati
dal Pubblico Uomini onorati, e dabbene».
98
99
30
del Settecento nella pressoché totalità dei reggimenti universitari. La chiusura
oligarchica aveva, pertanto, prodotto i suoi frutti: divenne palese il
depauperamento nelle fila delle élites, sino ad allora dominanti.
Conseguenza necessaria e ineluttabile fu l’indebolimento non solo
dell’antico ceto popolare propriamente detto, ma anche del patriziato
urbano ormai non più in grado - anche numericamente parlando - «di
contrastare
l’ascesa
dell’alta
borghesia
all’amministrazione
dell’Università»100. Cambiarono perciò «le regole per partecipare alla vita
pubblica e persero progressivamente valore l’appartenenza familiare e il
sangue a vantaggio del censo, del livello culturale e delle competenze
maturate dagli officiales»101. Non terminarono però le lotte cetuali, non si
pose
fine alla serrata
oligarchica, nonostante
questo mezzo di
conservazione della nobile schiatta ne avesse invece causato il graduale
rarefarsi; si preferì sempre evitare commistioni con i parvenus, ritenuti
indegni di far parte dello stesso “benedetto” gruppo sociale.
Diversi gradi di nobiltà, diversi piani di potere, diverse definizioni
all’interno della dialettica cetuale: la «scala nella vita politica» si evolveva102.
1.5. Logge, Sedili, Piazze: l’”agorà universitaria”
Quella
stessa
scala
nell’universitas
sia
architettonicamente
sia
praticamente era rappresentata dal sedile, espressione politica della città,
nonché luogo fisico ove solo chi aveva titolo poteva assidersi in uno spazio
privato nondimeno congegnato in modo tale da essere ben visibile al
pubblico.
Ancora una volta un ossimoro necessario è utile a delineare non solo lo
stretto legame con la comunità, ma il ruolo preminente in essa svolto, una
sorta di rappresentazione concreta e reale degli attori sociali dell’universitas.
A. Spagnoletti, Classe dirigente, cit., p. 261
E. Papagna, Famiglie di Antico Regime,cit., p. 503
102 A. Carrino, La città aristocratica, cit., pp. 12 e ss
100
101
31
Attraverso l’identità civica si configuravano infatti anche le élites territoriali
e da qui nascevano quelle palesi distinzioni dal meno scenograficamente
strutturato panorama del contado.
«Molte sono quelle cose che nobilitano una città, i seggi, le loggie, i theatri
e altri cosifatti luoghi pubblici; i bei palagi, le belle chiese, le ampie strade
diritte, che diano quasi forma e ordine alla città; la nobiltà la cavalleria la
frequentia di popolo, la civiltà, la politia del vivere». Queste le efficaci
parole usate da Giovanni Tarcagnota103 nel 1566 nel descrivere, illustrare
verbalmente il tessuto cittadino per antonomasia, l’archetipo napoletano,
cui si ispirarono le universitates periferiche.
Ecco comporsi l’inesorabile tratteggio di quella che Muto definisce «la
geografia delle piccole patrie»104, ossia quella sorta di esplicitazione di senso
di appartenenza al territorio attraverso la configurazione composita e
architettonica dello stesso. Ecco «Loggie et seggi» accanto a «chiese e bei
palagi»: profano e sacro susseguirsi in un continuum quasi artistico, ma pur
sempre «oscura materia» della cui «origine poca certezza aver si può», come
asseriva Antonio Summonte105 quando si soffermava sui famosi sedili, o
tocchi, tutti sinonimi del medesimo loco, la cui etimologia si riferiva ai
banchi in legno o in pietra adagiati lungo le pareti, atti a ospitare coloro che
partecipavano alle assemblee106.
Pietro Ventura fornisce un’esaustiva definizione di seggio come «unione
in un corpo distinto di famiglie e lignaggi, secondo le modalità tipiche con
cui si strutturavano le società cittadine di antico regime, costituiva la vera e
più qualificante sanzione delle élites urbane»107. Il seggio, come locus e al
G. Tarcagnota, Del sito et lodi della città di Napoli […], Edizione anastatica a cura di F. Strazzullo,
Roma 1988, p. 15
104 G. Muto, Istituzioni dell’Universitas, cit., p. 23
105 A. Summonte, Historia della città e Regno di Napoli ove si trattano le cose più notabili accadute dalla sua
edificazione fin’a tempi nostri, Napoli 1748-1750, p. 235
106 Lenzo fa notare come il termine tocco abbia origini antiche, da Omero, onde indicare un sedile:
θωκος, appunto. Purtroppo lamenta altresì la mancanza di studi che giustifichino la presenza di questo
lemma nel linguaggio proprio delle Universitates; cfr. F. Lenzo, Memoria e Identità civica. L’Architettura
dei Seggi nel Regno di Napoli XII-XVIII secolo, Roma 2014, p. 51
107 P. Ventura, La capitale e le élites urbane, cit., p. 261
103
32
tempo stesso come simbolo, circoscriveva l’identità sociale di una élite
egemone e distinta dal resto della popolazione universitaria, a ogni modo,
rappresentava al contempo l’intera cittadinanza dal singolo, dai pochi alla
collettività intera.
Ed è ancora Summonte colui il quale ci fornisce una definizione, univoca
o quasi, della vicenda: «in Napoli et altrove, il luogho ove le persone
radunate sogliono sedere o passeggiare, portici vengono nominati. […] Col
tempo ciascuna delle circoscrizioni nobili di Napoli eresse il suo portico
chiamandolo poi sedile»108. Gli edifici erano costituiti da arcate come
principium et continuum del portico di Summonte, di solito associati a edifici
sacri come a significar un altro luogo di raccolta, passando da Dio agli
uomini. Erano comuni mortali, nobiles aut populares, ma pur sempre
reggitori delle sorti del territorio, di cui discutevano pressoché in pubblico,
non essendo difficile assistere a tali riunioni, anche attraverso piccoli
spiragli concessi dalla ricorrente configurazione di questi edifici pubblici
eppur privati.
L’ulteriore contraddizione: cancellate e balaustre, poste nella porzione
inferiore degli archi, fisicamente rappresentavano la divisione tra coloro che
costituivano il reggimento della città e la popolazione comune, che poteva
assistere,
ma
non
partecipare.
Un’altra
suddivisione
venne
architettonicamente stabilita: fu posto sempre un gradino più in alto il
sedile nobiliare rispetto a quello popolare, atteso che quest’ultimo
apparteneva a coloro che non potevano godere degli stessi titoli dei primi109.
Allo stesso modo sembrò imprescindibile la presenza di scalinate poste
innanzi l’ingresso dell’edificio, il cui fine simbolico e principale era quello
di rammentare che «quanto accadeva all’interno era su un piano differente
da quello della pubblica piazza»110. Ma, al di là della ricorrenza del porticato
G.A. Summonte, Dell’Istoria della città e del Regno di Napoli, Vol II, 1601, p. 190
F. Lenzo, cit., pp. 53-54.
110 «L’ingresso al seggio, almeno a Napoli, era infatti precluso a coloro che non ne facevano parte, i
quali ne sarebbero stati “spinti e descazziati de fuora”». Ivi, p. 55.
108
109
33
e dell’arco, al di là di quanto potesse significare visivamente il sedile
occupato dai nobiles o dai populares, nell’agorà delle universitates pugliesi il
tutto si doveva necessariamente raffrontare alla valenza del centro cittadino
preso in considerazione. Emblematici i casi di Foggia e Martina Franca dove
la nobiltà civica non aveva una collocazione ben delineata, così come i
privilegi annessi, contesti sfumati in perfetta contrapposizione con
l’universitas di Trani e la sua rigida ripartizione in quattro seggi chiusi.
Nel mezzo si trovava Molfetta, città in cui appariva meno netto
l’irrigidimento del primo ceto, meno refrattario dinanzi alle istanze di
apertura, considerate le altresì più malleabili regole che stabilivano
l’aggregazione per la quale era sufficiente un semplice diploma regio111. I
seggi erano anche qui però divisi distintamente secondo il criterio della
“perfetta separazione” e, anche se non chiusi come avveniva a Trani, non
permettevano in sede deliberativa alcuna commistione tra le piazze.
Ciononostante queste logge costituivano, non a caso anche dal punto di
vista della disposizione urbana, la vera e propria agorà della città, il cuore
pulsante della politica, aperte e chiuse al tempo stesso, accessibili e proibite,
come le vicende che al loro interno erano oggetto di discettazione.
111
E. Papagna, L’universo nobiliare, cit., p. 164
34
Capitolo II
L’Universitas di Molfetta
35
2.1. Storia di “utili signori” e della città a loro infeudata
Dal punto di vista meramente visivo, ma non per questo meno
sostanziale, i seggi costituivano anche una sorta di racconto della città
attraverso la narrazione della gloria dell’urbe e – quasi sempre- del ceto
nobiliare che la governava, attraverso iscrizioni affisse come fregi alla pietra
dell’edificio. Meri esempi ne possono essere l’epigramma scritto per il
restauro del Colosso di Barletta nel 1491, o l’iscrizione posta in prossimità
del Seggio dei nobili di Molfetta, per non esulare dal nostro tema di ricerca.
In via Piazza leggiamo infatti tra gli attuali civici 10 e 12:
VETUSTUM FASTIGIUM / NOBILIUM MELPHICTEN REGIS CAROLI P.
CERNUNT ADSCRIPTI / REGISTRO IN ARCHIV. R. SICLAE NEAPI / HIC
ERECTUM / ET EX AERE PUBLICO AD HONOREM PUBLICUM
CONSTRUCTUM / IAM DIRUTUM / INCLITA CIVITAS CLARITATIS
SUPERSTES UT POSTERIS / FULGEAT / RESTITUIT / SINDICORUM
SUB AUSPICIIS / SENATORIS D. IOSEPHI MARCI ANTONII DE LUCA /
ET POPULI IACOBI RADIVANO 112.
Spicca un cognome nobile che osserveremo in seguito occupare un posto di
rilievo nella storia di Molfetta: de Luca.
Abbiamo visto che i nobili molfettesi avevano ottenuto di congregarsi
separatamente dai popolari113. Perciò a Molfetta si poteva parlare di due
seggi di “perfetta separazione”114, al di là della configurazione
architettonica. Il primo ove si radunava il ceto nobiliare era in via Piazza e
a poca distanza eppur separato distintamente, girando l’angolo, la classica
arcata che indicava il sedile popolare in via Arco del Forno115.
Separazione, dunque, a soli due civici di distanza dal seggio nobiliare e
a meno di un metro dagli stemmi dei di Capua – del Balzo e dei Gonzaga
Si veda l’appendice documentale: foto n.2
A. Spagnoletti, L’incostanza delle umane cose, cit., p. 42 (fa riferimento alla questione citando in nota
P. A. Lanza nel suo De Civitatis Regimine allegatione, capitolo XIV, 1640 ca., mss. vari, Fondo DG, fuori
busta 12, Biblioteca Provinciale di Bari “De Gemmis”)
114 A.M. Rao, Antiche storie e autentiche scritture. Prove di nobiltà a Napoli nel Settecento in M.A. Visceglia
(a cura di), Signori, patrizi, cavalieri cit., pp. 300-301 ripreso in E. Papagna, Filippo Briganti, cit., p. 16
115 Cfr. documentazione fotografica nn. 3 e 4
112
113
36
precedenti “utili padroni” della città, v’è ancor oggi visibile una eloquente
iscrizione, che ringraziava la signora Veronica Spinola per aver ampliato il
luogo del sedile dei nobili con lo stesso slancio di un progenitore e con
altrettanto dispendio economico116. E su questa iscrizione campeggia lo
stemma degli Spinola, comune a tutti i rami della famiglia «d’oro alla fascia
scaccata d’argento e di rosso di tre file, sostenente una fila di botte di rosso
in palo»117.
È questa forse l’unica traccia urbana di coloro che si fregiavano dal 1640
del titolo di principi di Molfetta: la casata genovese degli Spinola, del ramo
di San Luca prima e di quello di San Pietro poi, succeduta, attraverso
regolare acquisto del feudo, ai precedenti signori della città, i Gonzaga di
Guastalla. Non v’è invero dimora o palazzo intestato ai nobili feudatari
genovesi, né v’è traccia di vie, strade ascrivibili ai medesimi. Gli utili signori
prediligevano, molto probabilmente, le proprie dimore principesche in città
come Genova, Milano o Madrid, limitandosi a riscuotere i proventi loro
dovuti attraverso un amministratore locale o un procuratore incaricato.
Talvolta si recavano per breve tempo nei loro feudi, soprattutto di
passaggio e nel caso veramente raro che giungessero in Molfetta erano
alloggiati presso il collegio dei Gesuiti, oppure in locali predisposti dal
governatore nel palazzo di città o in case nobiliari.
Ma l’assenza del signore non era una prerogativa del solo feudo di
Molfetta. Giancarlo Vallone sottolinea il verificarsi del medesimo
atteggiamento da parte degli Spinola nei confronti del feudo di Galatina,
che aveva fruttato loro anche il titolo di Grande di Spagna. «E’ indubbiamente
paradossale, e per più ragioni, che la stagione feudale degli Spinola a
Galatina abbia lasciato così scarne tracce di sé»; queste le parole di Giancarlo
Maiori animo qua dispendio mercium comodo exc D. Veronica Spinola ampliavit AD MDCLXXI,
iscrizione sita in Via Piazza 2 a Molfetta, cfr. documentazione fotografica al n.1
117 Fonti: Annuario della Nobiltà Italiana di Goffredo di Crollalanza, Bari 1898; Libro d'Oro Collegio Araldico,
Roma 2000; cfr. anche documentazione fotografica al n.1
116
37
Vallone, che ben potrebbero mutuarsi nella descrizione del periodo
spinolino a Molfetta118.
2.2. O felix patria, in qua nati fruimur libertate
Protagonisti della vita urbana, e delle dinamiche interne alla stessa, erano
quindi i cittadini e, ovviamente, i nobili.
Pirro Antonio Lanza nel suo De Civitatis Regimine allegatione riferiva che
Imo nostra Platea popularis fuit munita privilegio nobilitatis a rege Ferdinando in
anno 1464, ut in eodem libro …119. Il re in questione era Ferdinando I
d’Aragona il cui placet fece sì che
tucto il populo de Molfecta possa gaudere de tucti offitii, preorogative,
immunita et honori che gaudeno tutti li alt’gentilhomini de Molfecta.
actento si loro honorati portamenti hanno facto et fanno et sperano in
futurum di fare con li decti gentilhomini120.
Pertanto, anche i popolari godevano delle prerogative della nobiltà, anche
se veniva descritta avvenire in luoghi e tempi separati la riunione delle
piazze, nonché la partecipazione dell’Ufficiale di Giustizia che poteva
presiedere, naturalmente, a un’adunanza per volta.
Ma Molfetta era una “città nobile”. In questo modo la definì Carlo V nel
1520 quando ancora era sotto la giurisdizione regia
che, come Lanza
riferisce, confirmando privilegia nobilem hanc civitatem appellat, asserzione
contenuta anche nel Libro Rosso della città, ove si leggeva appunto: Nobilis
civitatis nostrae Melficti121.
G. Vallone, Gli Spinola a Galatina, dalla Lectio Magistralis tenuta presso l’Università Popolare “Aldo
Vallone” in Galatina il 30 settembre 2010
119 Biblioteca Provinciale di Bari ”De Gemmis”, mss. vari, Fondo DG, fuori busta 12, P. A. Lanza, cit.,
Cap. IV
120 D. Magrone, Libro rosso. Privilegi dell’Università di Molfetta. Vol. II: periodo aragonese. Trani 1902,
pp. 150-158.
121 D. Magrone, Libro rosso. Privilegi cit., Vol. III, pp. 134-137
118
38
Privilegiati erano, difatti, entrambi i ceti ma non per questo eguali: le
elezioni si tenevano in luoghi diversi, in tempi diversi, ma le modalità erano
identiche122. Quattro pallottae aureae designavano chi avrebbe avuto
l’opportunità di indicare, nominare magistrum iuratum, syndicum, cascerum,
aerarium et magistrum nundinarium123.
La procedura elettiva, allo scopo di esser equa e trasparente, proseguiva
per sorteggio e il voto era espresso dagli ultimi estratti. I quattro nomi
designati per ciascuna delle quattro cariche erano posti a una nuova
estrazione, strumento equo e in qualche modo democratico. Si giungeva
così alla elezione definitiva di coloro che dovevano ricoprire i ruoli più
importanti all’interno della communitas.
Secondo questa modalità erano anche eletti i Decurioni, o consiglieri nel
numero di dodici secondo lo statuto del 1574 per sedile, con la mera
differenza che le pallotte utilizzate erano argentee e non già dorate. Questa
equa distribuzione delle cariche faceva sì che ciascuna piazza avesse il
proprio sindaco e il proprio maestro di fiera124. Per quanto atteneva alle
cariche di mastro giurato, cassiere ed erario, essendo destinate a una sola
persona, e quindi a una sola piazza, prevedevano una turnazione annuale
tra i seggi.
Con grande entusiasmo si parlava di libertà da parte di Lanza, quando
esordiva nel capitolo IV del suo De Civitatis Regimine, esclamando: O Felix
Patria, in qua nati, fruimur libertate!125.
L’esser stata designata nel 1522 come feudo destinato a Ferrante de (o di)
Capua, duca di Termoli, perdendo così lo status di città demaniale, non
122
123
BPB “DG”, mss. vari, Fondo DG, fuori busta 12, P. A. Lanza, cit., Cap. IV
Ibidem
E. Pomes, “O Felix Patria, in qua nati, fruimur libertate”: Molfetta nel “De Civitatis Regimine”
di Pirro Antonio Lanza, estratto da «Studi Molfettesi» 6-8, 1998, pp. 146-147
124
125
Ibidem.
39
aveva mutato granché nelle dinamiche del reggimento cittadino. Fu, però,
loro imposto un signore126.
L’essere una universitas regia significava principalmente avere «una
propria nobiltà riconosciuta con un proprio Seggio»127. L’infeudazione per
un’universitas aveva come risultato principale la sottrazione della
«definizione legale del primo ceto», con la conseguenza per i suoi esponenti
di «essere declassati nella scala sociale del Regno, con conseguente perdita
delle possibilità di rendite che vi erano collegate»128. Questo contribuiva a
creare una gerarchia anche tra le civitates e i rispettivi ceti nobiliari, cosicché
«nel Regno di Napoli nessuna nobiltà era uguale a un’altra»129.
Ciò spiegava anche il perché i nobiles molfettesi si erano dimostrati
sempre oltremodo refrattari all’infeudazione ed erano disposti a riscattare
l’antica demanialità, anche indebitando irreversibilmente le finanze
cittadine a discapito della comunità. Al contempo, non destava alcuna
meraviglia la circostanza che il ceto popolare ravvisasse in questo evento
un modo per arginare il potere del patriziato e, soprattutto, ritenesse più
conveniente la soluzione feudale anche dal punto di vista economico.
Francesco Lombardi scrisse con enfasi di quanto la piazza popolare
desiderava che l’universitas fosse infeudata, al contrario dei nobili che,
attraverso un accorato discorso del decurione Monna, si opponevano
all’evento chiedendo di poter sopperire al pagamento dei ducati dovuti a
Carlo V, ricorrendo a una sorta di “liberalità” dei cives molfettesi onde
«redimer la patria dalla cattività destinata»130. Un «terribile populare» pose
mano alla spada e invocò il nome del Principe, seguito dal proprio
«numeroso partito» consentendo, così, che «Don Ferrante di Capua,
126 A.
Massafra, Terra di Bari tra 500 e 600. Le Università, ordinamenti amministrativi, ceti sociali e finanze
dall’ultimo periodo aragonese alla crisi del seicento, in G. Galasso e R. Romeo (a cura di), Storia del
Mezzogiorno, Vol. VII Le province, Roma 1986, p. 525; C. De Gioia Gadaleta, Isabella de Capua:
principessa di Molfetta, consorte di Ferrante Gonzaga, Molfetta 2005, p. 26.
127 G. Delille, Governo locale e identità urbana cit. p.122
128 Ibidem
129 G. Delille, Famiglia e potere locale cit., p. 154
130 Ivi, p. 121
40
trionfando la discordia delle generose risolutioni de’ nobili», fosse «dal
popolo» ammesso nel possesso del «nobilissimo feudo di Molfetta»131.
Molfetta non era più quindi nobilis civitas, ma un’universitas feudale,
situazione che perdurò per circa tre secoli ma ciononostante la libertas e i
privilegi della città permasero pressoché intatti. I Libri Rossi furono la
testimonianza codificata del tutto. Le dinamiche sociali furono interne alla
compagine cittadina ed esclusivamente cetuali. Se nel XV secolo il rapporto
era ancora sbilanciato a favore dell’élite nobiliare, non era altresì irrilevante
il peso politico dei popolari che, invero, non trascurarono affatto la cura dei
propri interessi.
Con l’introduzione dei Libri Rossi tra la fine del Quattrocento e l’inizio
del Cinquecento si era tentato di creare uno «strumento di un equilibrio, sia
pur precario, tra forze sociali antagoniste»132. Malgrado ciò, questi “statuti
cittadini” non erano riusciti nell’intento originario ma, per usare ancora una
volta le parole di Massafra, avevano semplicemente “coperto” le lotte
cetuali senza porre fine alle medesime, fungendo invece da mezzi codificati,
utili a ciascun gruppo al fine di perseguire i propri interessi133.
2.3. Dai di Capua agli Spinola
La politica di Carlo V e degli Austrias si fondò principalmente
sull’attenta selezione dei nobili a loro fedeli, attraverso mirate alleanze
dinastiche. In questa pratica ormai consolidata ricadde anche il
“casamento” di Isabella di Capua, principessa di Molfetta, con Ferrante
secondogenito di Isabella d’Este e Francesco Gonzaga, vantaggioso per i
nubendi, vantaggioso ancor più per l’imperatore 134.
Ivi, p. 122
A. Massafra, Terra di Bari tra 500 e 600, cit., p. 522
133 Ibidem
134 E. Papagna, La scelta del coniuge. Alleanze matrimoniali nel Mezzogiorno d’Italia tra fine Quattrocento e
prima metà del Cinquecento in (a cura di), C. Continisio e R. Tamalio, Donne Gonzaga a Corte Reti
istituzionali, pratiche culturali e affari di governo, Roma 2018, p. 146
131
132
41
Come asserisce Maria Antonietta Visceglia, «gli esponenti della nobiltà
internazionale legata al potere imperiale spagnolo rapidamente in una o
due generazioni, attraverso accorte scelte matrimoniali furono inglobati nel
nucleo della nobiltà regnicola più antica»135.
Ma la vicenda va raccontata per gradi.
Durante la guerra franco-asburgica la storia di Molfetta subì una svolta
nel momento in cui la fellonia di Giovanni III Caracciolo, principe di
Melfi136, rese poco vantaggioso il patto matrimoniale stretto nel 1525 tra
l’erede del principato di Molfetta, Isabella di Capua, con il di lui figlio
Troiano137.
Il
destino
condusse
“Sergianni”
Caracciolo
a
esser
successivamente proprio l’autore del sacco di Molfetta il 18 luglio del 1529,
quando si pose alla testa delle forze francesi e veneziane sotto la cui
protezione si è rifugiato gran parte del ceto dei nobili rifugiatisi a Barletta
e, ancor una volta, in aperta contrapposizione con i popolari rimasti in città.
Secondo Gérard Delille uno schema di lettura netto, così come imposto
nell’opera di Lombardi, non era plausibile nei primi decenni del XVI secolo,
nel momento in cui ancora non si era instaurata la chiusura oligarchica e
vivace era la mobilità sociale tra i gruppi dirigenti dell’universitas138. Se da
un lato, perciò, le lotte cetuali subirono un crescendo e molteplici
rappresaglie furono condotte da entrambe le parti, dall’altro non sempre fu
agevole definire la composizione delle fazioni, sovente frutto di un
amalgama confuso tra nobili e popolari139, accomunati da «alleanze
trasversali […], da legami parentali, da vincoli clientelari e infine da
relazioni interpersonali» 140.
M.A. Visceglia, Identità sociali, cit., p. 114
«Giovanni Caracciolo principe di Melfi, duca di Ascoli, marchese di Atella et conte della Forenza ,
la fortuna per brevissimo tempo gl' impartì un'altra dignità insolita che si fu collocare Isabella di
Capua herede del principato di Molfetta con Troiano terzo, suo primogenito, onde fu intitolato
principe di Molfetta […]»; cfr. M. D’ayala, Giovanni Caracciolo Principe di Melfi Duca di Ascoli, in
«Archivio Storico Italiano», Serie III, Vol. 15, No. 68 (1872), pp. 268-279
137 E. Papagna, La scelta del coniuge, cit., p. 148
138 G. Delille, Il potere locale, cit., pp. 112-113
139 «Durante l’assalto ai locali della dogana, i popolari sono in realtà comandati da nobili», Ibidem
140 E. Papagna, Filippo Briganti, cit., p. 18
135
136
42
L’intera popolazione di Molfetta subì perdite gravissime e con il trattato
di Cambrai il Caracciolo si vide confiscare Melfi, concessa poi ai Doria. Il
rampollo di Sergianni a causa dell’annullamento della promessa di
matrimonio con Isabella di Capua a opera della madre della nubenda,
Antonicca del Balzo, perse la possibilità di esser nomato Principe di
Molfetta141. Isabella fu libera di contrarre così matrimonio con Ferrante
Gonzaga nel 1530 consegnando il principato al consorte che sarebbe poi
diventato signore di Guastalla.
Dopo gli sfortunati eventi del 1529 e nel periodo dell’infeudazione della
città ai Gonzaga le lotte cetuali parvero osservare una tregua. Fu proprio
Cesare Gonzaga, figlio di Ferrante, a chiedere e ottenere dal viceré Gravela
nel 1574 che Orazio Granucio, Giudice di Barletta, ponesse mano al governo
della città, riformandolo sul modello statutario posto in essere a Bitonto. Fu
codificata la riduzione «de li XXXVI in consilio de lo iuramento et de li sey
priori»142 che passarono in tal maniera rispettivamente a ventiquattro e a
quattro, nonché, come già ribadito nel capitolo precedente, venne sancita
l’istituzione dei Libri d’Oro così da discernere in modo univoco e per scripta,
nobiles et populares143.
Al di là di questo episodio, piuttosto significativo dei produttivi rapporti
tra i principi Gonzaga e l’universitas, non si può non notare come a Molfetta
la presenza – fisica soprattutto - delle casate dei feudatari che vi si
avvicendarono fosse scarsa se non quasi nulla. Laddove Isabella di Capua
e Ferrante Gonzaga trovarono la propria dimora in quello che ora è
conosciuto come Palazzo Giovene, acquistato dalla principessa nel 1549 da
Giacoma Orsini in occasione di una visita ai propri possedimenti144, non vi
Cfr. G. Marinelli, Presa e sacco della Città di Molfetta successa nell'Anno del Signore M.D.XXIX del
Dottor Giuseppe Marinello da Molfetta in Raccolta di varie croniche, diarj, ed altri opuscoli così italiani come
latini appartenenti alla storia del Regno di Napoli. Tomo IV
142 L. Volpicella, Gli statuti de' secoli XV e XVI, cit., p. 29
143 Faraglia indica come nel registro delle famiglie nobili fossero ascritti 53 nominativi, mentre in
quello dei popolari 82. N. F. Faraglia, Il comune dell’Italia Meridionale, Napoli 1883, p. 205
144 C. Pisani, Palazzo Giovene, Già dei ''de Luca'' e poi Esperti in «L’altra Molfetta», settembre 2018, pp.
47-48
141
43
è traccia precedente né successiva di altre compravendite volte alla
costituzione di una sede fissa del signore della città. Tra l’altro Ferrante II
Gonzaga145 decise già il 13 febbraio del 1585, per atto di notar Grisante
Andrisanti, di ratificare la vendita fatta a favore di Francesco (Antonio) de
Luca dei palazzi di sua proprietà nella città pugliese146.
Le rare incursioni alla volta del feudo da parte delle casate avvicendatesi
al Principato di Molfetta ebbero invero vasta risonanza e si verificarono
quasi esclusivamente al momento dell’insediamento della dinastia. E anche
nel caso dell’insediamento non sempre la presenza fisica del principe si
tradusse in un evento inevitabile. Come racconta infatti Lombardi nelle sue
Notitie istoriche, i molfettesi nel 1522 «fur costretti, ancorchè con immenso
lor dispiacere, dare il possesso al Dottor Nicolò Mansulino di San Giuliano,
Procuratore sostituto di D. Antonicca del Balzo moglie, e procuratrice del
suddetto Duca di Termoli, come da mandato di procura, dato dai felicissimi
Campi Imperiali nel Milanese, dove per Cesare militava» 147.
La tanto paventata “cattività”, però, non fu poi sì deleteria, tutt’altro. I
populares ne trassero il desiderato beneficio, così avvenne anche per la prima
piazza, per quanto di ciò si ebbe contezza in un momento successivo.
Dopo un momento di eclissi della nobiltà scorata dagli eventi il suo
seggio diroccato, quasi fosse riflesso dell’animo degli ottimati molfettesi, fu
concretamente rinnovato. Nella circostanza fu inciso su pietra, al fin di
significare il momento in cui nuovamente l'élite cittadina tornava
protagonista senza remore della vita universitaria:
EX AERE AD HONOREM PUBLICUM CONSTRUCTUM ANNO
DOMINI MDXXIII 148.
Ferrante II Gonzaga figlio di Cesare era nato il 27 luglio 1563 a Mantova e sarebbe poi morto il 5
agosto 1630 a Reggiolo (indi molto lontano dal feudo molfettese).
146 Pisani raccoglie le informazioni relative all’atto presso l’Archivio di Stato di Parma, Fondo Archivio
del Duca di Guastalla, e le riporta accuratamente in C. Pisani, Il Palazzo del Principe, in «L’Altra
Molfetta», settembre 2012, pp. 52-53
147 F. Lombardi, Notitie Istoriche della città e vescovi di Molfetta, Napoli 1703, p. 122
148 Ivi, p. 123. Si tratta dell’iscrizione di cui si è già parlato sita in via Piazza fra i civici 10 e 12 in
corrispondenza del seggio dei Nobili.
145
44
Nondimeno i di Capua, i Gonzaga e infine gli Spinola pari furono per i
molfettesi: un mero ostacolo al godimento di una serena autonomia
amministrativa, e, nel caso degli ultimi - come avremo modo di osservare
nel capitolo successivo - un’indebita ingerenza anche in quella tributaria,
null’altro.149 Le vicende di Molfetta infeudata passarono ineluttabilmente
attraverso i nomi di queste nobili quanto lontane casate.
Ma ritorniamo ai primi signori di Molfetta: i di Capua. Abbiamo visto
come nel 1522 Carlo V con diploma del 5 aprile aveva venduto a Ferrante
(o Ferdinando) di Capua le città di Molfetta e Giovinazzo per 50.000 ducati,
indi il 3 ottobre dello stesso anno aveva decretato di elevare Molfetta a
Principato150. Ferrante non potette godere molto a lungo di cotanti titoli,
considerato che già nel 1523 morì nella campagna militare di Lombardia,
lasciando sua unica erede la figlia Isabella. Quest’ultima contrasse, dopo la
sfortunata parente con Troiano Caracciolo, come si è già descritto, nobile e
vantaggioso matrimonio con Ferrante Gonzaga nel 1530, ovviamente previo
assenso e benedizione da parte del sovrano. La vicenda si svolse in modo
piuttosto celere; Ferrante raccontava al suo agente presso l’Imperatore di
esser stato costretto dai parenti di Isabella a fornire parola e fede. Chiedeva
pertanto che la questione fosse comunicata con la dovuta accortezza a Carlo
V, che doveva acconsentire all’unione. Le intese principiate già dal 1529
ebbero il regal placet nell’ottobre del 1530. Artefice di tutto questo, vista e
considerata la scomparsa di Ferrante di Capua, fu esclusivamente
Antonicca del Balzo, colei che venne definita sostanzialmente una mulier
virilis nella più misogina delle tradizioni151. Una donna non poteva mostrare
pubblicamente capacità politiche e scaltrezza, doti non confacenti all’innata
ACM, ms. 124, Litigio tra la casa Spinola e l’Universitas di Molfetta
A. Salvemini, Storia di Molfetta, p. I, Napoli 1878, (ristampa anastatica Bologna 1977), p. 56
151 Bisanzio Lupis la definì «una donna alla quale non mancò altro eccetto l’essere uomo» e in modo
non dissimile avrebbe fatto Jacob Burkardt (notizie attinte da E. Papagna, La scelta del coniuge, cit.,
p.147)
149
150
45
imbecillitas sexus. Solo la lenitas feminea era l’unico mezzo concesso alle
donne “costrette” in una posizione di potere, la capacità di consigliare, di
mediare, giammai di porsi protagoniste dell’azione152.
La dinastia dei Gonzaga signoreggiò su Molfetta, ovviamente evitando
ingerenze dirette nel governo cittadino, ma avvalendosi di propri
rappresentanti delegati alla riscossione di quanto dovuto al feudatario in
quanto tale, l’ambita carica di agente generale del Principe153, sino a circa
tutto il 1635. In quel preciso anno, Ferrante III, sommerso dai debiti contratti
dai suoi ascendenti prima e da lui stesso successivamente, dovette, suo
malgrado, rinunciare al Principato, cedendolo per la somma di oltre 170.000
ducati ai suoi più indefessi prestatori di danari: Gio. Battista e Gio. Stefano
Doria e le rispettive consorti, le sorelle Vittoria e Ottavia Spinola154.
Prezioso è il contributo fornito da Corrado Pisani, giornalista e
impareggiabile esperto di storia molfettese, che si è potuto avvalere della
documentazione notarile custodita presso l’Archivio di Stato di Genova che
descrive ogni singolo passo dell’atto di vendita del feudo pugliese dai
Gonzaga ai Doria e contestualmente agli Spinola155. Il 17 marzo 1640, infatti,
a Milano, presso lo studio del notaio Joannes Ambrosius Castagnola filius [de]
quondam Francesco, il nobile Giacinto Piaggio, procuratore del Duca di
Gonzaga, promise ancora una volta a Gio. Stefano Doria, il «Creso della
Ammiano Marcellino nelle Res Gestae (14.1.8) attribuisce questa virtus muliebris a Eusebia, colei che
era stata l’artefice dell’ascesa di Giuliano l’Apostata, cfr. V. D’Amato, cit., p. 49
153 Si avvicendarono Toma Vulpicella (1550), Bisanzio Rufulo (1589-1592), Dionisio Bottoni (15971610), Teodosio Michielli (1612-agosto - 1624); Angelo fu Teodosio Michielli (15 settembre 1626) e
Cesare Monno (1629 - 1639). Dopo la vendita della città, nel primo quadrimestre del 1640, già in data
18 gennaio 1641, a Molfetta era presente il nobile genovese Francesco Benigassi, indicato come agente,
Vicario generale, Luogotenente dei signori Luca Spinola e Gian Stefano Doria e nonché Governatore generale
della città. Negli anni successivi anche fu anche Capitano della guerra. Cfr. C. Pisani, Pasqua 1647: i
principi Spinola entrano in Molfetta, in «L’Altra Molfetta» Anno XXXI n. 3, Molfetta, marzo 2015, p. 52
154 “La città di Molfetta dalla signoria de’ Gonzaghi [passò] per brevissimo tempo in casa d’Oria
genovese”, F. Lombardi, cit., p. 184
155 C. Pisani, Lunedì, 2 aprile 1640, il feudo di Molfetta passa dai Gonzaga agli Spinola.I documenti
dell’Archivio di Stato di Genova, in «L’Altra Molfetta», Anno XXXII, n.6, Giugno 2016, pp. 48-49
152
46
Liguria»156, di vendergli il feudo di Molfetta in virtù del contratto
preliminare stipulato il 7 febbraio dello stesso anno e rogato in Guastalla.
Contestualmente il Doria espresse la volontà in atti che nell’acquisizione
del feudo di Molfetta, che doveva compiersi definitivamente in Genova
attraverso un ulteriore successivo rogito, doveva subentrare il domino Luca
Spinola [de] q[uonda]m domino Gaspares157. La compravendita si perfezionò in
data 2 aprile 1640, questa volta in una sala del palazzo di Gio. Stefano Doria
ove il notaio Giovanni Francesco Poggio (Joannes Francescus Podium) di
Genova rogò il vero e proprio contratto, con il quale si stabilì che il quantum
dovuto fosse di 170.000 ducati e che acquirenti fossero appunto il Doria e il
nipote Luca Spinola, rappresentato dallo stesso notaio Poggio.
Vendidit, et alienavit, cessit et renunciavit,vendito et alienato,
co[n]dito et renuntiat seu quasi de consensu, et ordine, ac voluntate
d[ict]i Ill.mi Jo[ann]is Stephani sub reservatione tamen, et conditione
infr[ascrip]tis ut inferius dicetur Domino Luce Spinule q[uonda]m
Domini Gasparis Patritio Genuensi absenti et mihi notario pro eodem,
ac eius heredibus et successoribus stipulanti … dictam civitatem,
feudum, et Principatu[m] Melficti / existentem in regno Neapolis citra
farrum cum eius castro, seu fortellitio, domibus /et palatio, hominibus,
vassallis, vassallorumque redditibus, angarijs […]158.
Appar chiaro in questo stralcio della parte centrale dell’atto che beneficiario
dell’acquisto del feudo molfettese di Ferrante III fu perciò il nipote Luca
Spinola del ramo di San Luca, colui che sarebbe stato il primo principe
genovese di Molfetta159.
F. Lombardi, cit., p. 194
Pisani riporta fedelmente nel suo Lunedì, 2 aprile 1640, cit., la documentazione ricevuta
dall’Archivio di Stato di Genova, relativa al Fondo Notai Antichi filze 6777 e 6778 del notaio Giovanni
Francesco Poggio.
158 C. Pisani, Lunedì, 2 aprile 1640, cit., p. 49
159 Archivio privato Gallarati Scotti di Milano (d’ora in poi APGS), Fondo Spinola, «Vendita della città
di Molfetta dal Sig. Ferdinando Duca di Guastalla a Gio. Stefano Doria e mediante il suo assenso al
Sig. D. Luca Spinola, quondam Gaspare per ducati 170.000. Roga Notaro Gio. Francesco Poggio» (I
Appendice documentale)
156
157
47
Capitolo III
Gli excellentissimi Principi Spinola di Molfetta
48
3.1. Gli Spinola, Genova, la Monarquìa e il Regno di Napoli
I magnifici Spinola – così come i Doria, cui erano strettamente imparentati
attraverso vincoli di matrimonio - ben si potevano definire esempi di quella
che Francesco Salvatore Romano definisce «aristocrazia mercantile»,
espressione dell’evoluzione di un ceto borghese mercantile e bancario in
una élite di nobili proprietari160.
Gregorio Leti, storico e letterato milanese, approfondendo i dettagli della
questione nell’ambito genovese, ben definisce le casate liguri cui
maggiormente si addice il concetto di aristocrazia mercantile:
Vi sono famiglie che non trattano che di milioni di scudi di principale,
e in contanti, della quale specie sono li Doria, li Grimaldi, gli Spinola161.
Il patrimonio degli Spinola si aggirava, secondo quanto riportato nella
Relatione di tutti li prencipi, attorno alla non modica cifra di due milioni di
scudi, di gran lunga superiore alle entrate di Lucca, Modena, Parma e
Urbino, tutte fra i 100 e i 200 mila scudi l’anno162. La questione
dell’indebitamento dei Gonzaga di Guastalla, sfociata alfine nella vendita
del feudo molfettese, fu figlia di quel «processo di trasformazione» che
interessò non solo il Regno di Napoli, ma una fetta rilevante della nobiltà
feudale dell’Europa Mediterranea tra i secoli XVI e XVII.
La condizione di proprietari di grandi capitali in grado di mobilitare
cospicue risorse finanziarie faceva dei genovesi gli interlocutori privilegiati
sia della Monarquìa spagnola sia dei ceti feudali. Il baronaggio tentò invero
di ovviare in diversi modi alla crisi finanziaria, che solo raramente assunse
S. F. Romano, Le classi sociali in Italia. Dal Medioevo all’età contemporanea, Torino 1965, p. 127
G. Leti, cit., II, pp. 228-229
162 M. Folin, Il principe architetto e la ‘quasi città’: spunti per un’indagine comparativa sulle strategie ubane
nei piccoli stati italiani del Rinascimento in E. Svalduz (a cura di), L’ambizione di essere città: piccoli, grandi
centri nell’Italia rinascimentale, Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti, Venezia 2004 p. 50. Cfr.
Relatione di tutti li prencipi et republiche d’Italia, Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia, Ms It VII.877
[8651], c. 135v. Sugli Spinola, cfr. anche LÜNIG, II, 554-655.
160
161
49
i caratteri dell’irreversibilità: ci si appellò dunque al già citato
fedecommesso come ad altre strategie patrimoniali e matrimoniali che
spesso coincidevano perfettamente tra loro163. Tuttavia si fece ricorso anche
all’indebitamento,
la
cui
conseguenza
più
evidente
fu
appunto
l’integrazione dei banchieri genovesi nella vita feudale del Regno di
Napoli164.
Non proprio cristallino si poteva definire il rapporto tra la Corona di
Spagna e la Repubblica di S. Giorgio nel corso del XVII secolo. Se durante il
secolo precedente il ceto dirigente genovese era stato in linea di massima
concorde nel perseguire una politica economica allineata a quella spagnola,
lungo tutto l’arco del Seicento le posizioni dei magnifici non risultavano più
essere così uniformi. Era innegabile che gli hombres de negocios liguri
conducessero egregiamente i propri affari all’interno del periplo dei
possedimenti degli Absburgo, ma altresì indubbia era anche la crescente
riluttanza a subire inevitabilmente il controllo delle proprie reti finanziarie
e commerciali.
Tale sentimento venne espresso da uno dei più alti esponenti del
patriziato genovese e, non a caso, il suo nome era Andrea Spinola165. Egli
denunciò le forme invasive di controllo da parte dell’affezionato
“committente” spagnolo166 e parimenti “l’ingordigia” del ceto dirigente
repubblicano, che aveva consentito all’ingombrante alleato di approfittare
delle proprie abilità finanziarie, allettandoli con «le compere di tante entrate
che si son fatte ne’ suoi regni» oltre alle «compre de’ feudi, che fanno i nostri
cittadini invaniti d’apparenze e de’ titoli; ma fatte che sono, è difficilissima
A. Musi, Il feudalesimo in età moderna, Torino 2007, p. 191
«È da approfondire la tesi, sostenuta da qualche studioso, secondo cui l’indebitamento feudale
svolge una funzione politica positiva in paesi dell’area mediterranea come la Castiglia e il Regno di
Napoli: contribuisce cioè a subordinare maggiormente la grande nobiltà della Corona spagnola» in
A. Musi, Il feudalesimo, cit., p. 191
165 «fu gran filosofo sempre intento allo studio. Diede alla luce un discorso sulla guerra tra Genova e
il Duca di Savoia nel 1619» in S. Pellegrini, I Magnifici Spinola. Una famiglia che ha segnato la storia di
Genova, Genova 2010, p. 94
166 G. Muto, La presenza dei Genovesi nei domini spagnoli in Italia, in D. Puncuh (a cura di), Studi in
memoria di Giorgio Costamagna, Vol. II, Genova 2003 pp. 660-662
163
164
50
cosa ottener licenza de venderli»167. Si trattava quindi di un idillio minato
da diffidenza e opportunismo finanziario e soprattutto da quella che era la
parte politicamente più debole: la Repubblica genovese.
Lo Spinola partiva dall’assunto, quasi dal dogma, che il patrizio
genovese fosse in primo luogo mercante. Nell’essenza dell’esser mercator ac
magnificus risiedeva la floridezza non solo del ceto, ma anche e soprattutto
della Repubblica di Genova. D’altronde gli hombres de negocios della Superba
nelle relazioni intrattenute con gli Absburgo di Spagna non rivestivano i
panni di semplici uomini di commercio, ma anche di prestatori di danaro e,
non ultimo, di imprenditori168. Ne discendeva chiaramente che le
straordinarie fortune della Repubblica di San Giorgio, di quello che nella
storia delle finanze venne definito a giusta ragione el siglo de los Genoveses,
derivavano essenzialmente da quella che Carlo Bitossi indica con una
locuzione straordinariamente emblematica come la «conversione alla
finanza», tra alti profitti e altrettanti alti rischi considerata la notoria
propensione alla morosità dei sovrani spagnoli e dei loro viceré sul suolo
italiano169.
Ma erano le conseguenze a esser la parte più rischiosa di questa
“relazione pericolosa” e soprattutto l’ingombrante vincolo, anche
territoriale, derivante dal connubio con la Monarquìa, questione verso cui lo
Spinola mostrava la propria posizione contraria: gli investimenti dovevano
trovare una diversa e più cauta collocazione, lontana da quel quasi forzato
“matrimonio” spagnolo. La Repubblica di Venezia e i suoi debiti pubblici, i
monti istituiti dai Pontefici erano di gran lunga interlocutori più
affidabili170.
Cfr. C. Bitossi (a cura di), Scritti scelti di Andrea Spinola, Genova, 1981
La questione fu oggetto di studio a partire da Braudel. Cfr. F. Braudel, Civiltà materiale, economia,
capitalismo, Torino 1981-1982 [ed. or.1967-1979]
169 C. Bitossi, Andrea Spinola. Elaborazione di un “manuale” per la classe dirigente, Estratto da «Miscellanea
Storica Ligure», Periodico semestrale dell’Istituto di Storia Moderna e Contemporanea della Facoltà
di Lettere e Filosofia degli Studi di Genova, Anno VII, n.2, 1975, p. 171
170 C. Bitossi, Andrea Spinola. Elaborazione di un manuale, cit., pp. 132-133
167
168
51
Questo Spinola savio e critico, oltre a dedicare interi capitoli delle sue
Osservationi intorno al Governo di Genova al progressivo inserimento nel
mondo spagnolo, nel 1613 giunse persino a liberarsi delle proprie rendite
fondiarie, cedendo a Gio. Batta Cattaneo unitamente a tutto quanto di sua
proprietà nel Regno di Napoli in cambio di un congruo vitalizio171.
Pur condividendo, anche solo parzialmente, le perplessità e le riserve del
magnifico in questione, non si può non obiettare che quei feudi sì tanto
vituperati, poco convenienti e indubbiamente onerosi erano fonte non solo
di mera ricchezza e titoli172, ma anche e soprattutto di ultroneo guadagno e
sicuro impulso per gli scambi economici di coloro che ne giungevano in
possesso173.
E di questo furono ben consci sia gli altri Spinola sia coloro che con i
primi facevano parte delle quatuor gentes liguri: i Doria, i Fieschi e i
Grimaldi. Al principio del secolo XVII i Genovesi erano «anco essi già fatti
napolitani con matrimoni, con i titoli e baronaggi che posseggono in questo
regno»174. Una presenza pregnante che, nonostante fosse nata dalla
fortunosa coincidenza tra le ambizioni individuali e familiari di questi
nobili mercanti e banchieri ponentini e la crisi finanziaria spagnola del XVII
secolo, aveva così consentito quell’ingresso “trasversale” dei genovesi nei
centri di potere napoletani, giungendo a condizionarli in modo
estremamente incisivo175.
Ivi, pp. 134-136
Lo Spinola discetta dettagliatamente nella sua opera delle Arti de’ cittadini aggranditi dal Re di
Spagna, rintracciando nella compravendita dei titoli e nell’attribuzione del titolo di Grandi di Spagna,
il tentativo di annessione del piccolo stato ligure da parte del sovrano iberico: «in quanti modi li
Spagnuoli possono impadronirsi della nostra Republica» (cfr. Osservationi, cap. XVII); «Arti del Re di
Spagn a contro la nostra Republica» (cfr. Osservationi, cap. III)
173 G. Muto, La presenza dei Genovesi nei domini, cit., pp. 660-662
174 Questa l’incisiva, quanto sintetica ed esaustiva analisi, che Capaccio faceva della paventata
partecipazione di esponenti della Repubblica Genovese alla vita politica attiva nel Regno di Napoli,
in B. Capasso, Napoli descritta ne principi del secolo XVII da Giulio Cesare Capaccio, Siena 1985, p. 536,
così come riportato da Aurelio Musi in Mercanti genovesi nel Regno di Napoli, Napoli 1996, p. 95
175 A. Musi, Mercanti genovesi, cit., pp. 95 e ss.
171
172
52
L’esser semplicemente membri dell’élite che governava uno stato come
quello di San Giorgio, ricco sì, ma di dimensioni ridotte, essenzialmente
cittadino, l’esser nomati magnifici in una realtà limitata non aveva lo stesso
prestigio che conferiva l’universo della feudalità meridionale, che
consentiva loro di aver titolo per osservare di persona i centri di potere e
aver all’occorrenza anche voce in capitolo.
L’essere chiamato “Eccellenza” era infatti motivo di vanto e distinzione,
ma era principalmente anche una sorta di definizione filologica, un’ottima
sintesi linguistica delle manovre volte all’espansione della rete finanziaria e
mercantile: aveva valenza sociale indiscutibilmente, ma nondimeno una
chiara ed evidente commistione economica legata ai traffici finanziari così
come allo sfruttamento delle risorse annesse ai possedimenti feudali176. Il
cosiddetto sistema della red genovesa si era rivelato oltremodo efficace: la
«formula che permetteva di disporre di informazioni incentivava la
cooperazione e riduceva la necessità di supervisione»177. Ciò che era stato
frutto di menti commerciali come quelle di Gregorio e Bartolo Spinola – per
mero esempio ma non solo - tra il 1610 e il 1656 trovava ancor più senso per
la casata tutta (i rami di San Luca, Luccoli, San Pietro e i novelli discendenti
di Ambrogio Spinola: gli Spinola di Balbases) in quello che offrivano loro le
terre concesse dagli Austrias.
La fiducia che i sovrani spagnoli riponevano in questi abili finanzieri,
all’indomani della crisi della prima metà del Seicento culminata con la
rivolta di Masaniello, assumeva concretezza allorquando i genovesi, i più
notevoli tra loro e, non ultimi, i Doria178 e gli Spinola potevano fregiarsi
finanche del titolo di “Grande di Spagna” grazie anzitutto al conveniente
acquisto di terre e feudi nel Viceregno napoletano179.
A. Spagnoletti, Principi italiani e Spagna nell’età barocca, Milano 1996, p. 123
C. Á. Nogal, L. Lo Basso e C. Marsilio, La rete finanziaria della famiglia Spinola: Spagna, Genova e le
fiere dei cambi (1610-1656), in «Quaderni storici» 124 / a. XLII, n. 1, aprile 2006, p. 4
178 I Doria divengono tali con l’acquisizione del Principato di Melfi, grazie alla caduta in disgrazia di
Giovanni Caracciolo.
179 A. Spagnoletti, Principi italiani, cit., p. 123
176
177
53
Mirabile sintesi della grandezza transnazionale degli Spinola ci fornisce
Herrero Sanchez definendo «meteorica [la] ascension social de los màs
destacados miembros de la familia Spinola»180. Appare a questo punto
opportuno aprire una parentesi al fine di sottolineare l’“originale e
singolare” vicenda della genesi del ramo spagnolo degli Spinola di Balbases
nato dalle imprese di Ambrogio Spinola, che ebbe il pregio di dimostrare di
essere non solo uno dei tanti hombres de negocios genovesi, ma di poter
rivestire i panni di hombre de guerra con altrettanto e forse più grande
successo.
Egli infatti seppe coniugare valore bellico e arte delle finanze, ricoprendo
un ruolo decisivo durante la fase più turbolenta della guerra delle Fiandre
sino alla presa di Breda del 1625, nonché pochi anni dopo nella purtroppo
fatale partecipazione all’assedio di Casale nel 1630. Ottenne così nel 1621 il
titolo di marchese dei Balbases, oltre a quello di Grande di Spagna e alla
carica di Governatore di Milano, per la valentia e la fedeltà - anche
economica avendo sostenuto i costi del precedente assedio di Ostenda nel
1604 – dimostrate nel momento più determinante di un conflitto
estremamente oneroso per le casse e le risorse umane della Monarquìa181.
Ma tornando sul piano dell’”ordinaria amministrazione” dei magnifici
nel Regno di Napoli è bene rilevare come, a ogni buon conto, «i genovesi a
Napoli non costituirono una comunità sufficientemente coesa»182. In quella
che sovente è stata definita come una sorta di colonia ligure, la nazione
genovese, ecco farsi spazio la figura del console Cornelio Spinola, consigliere
economico del Viceré Medina de las Torres tra il 1640 e il 1642, anni in cui
M. Herrero Sanchez La red genovesa Spinola y en el entramado transnacional de los marqueses de los
Balbases al servicio de la Monarquía Hispánica in B. Yun Casalilla (a cura di), Las-redes del Imperio Elites
sociales en la articulación de la Monarquía Hispánica,-1492-1714, Oviedo, 2009, pp. 109-110.
181 M. Herrero Sánchez, La Finanza genovese e il sistema imperiale spagnolo, in in B.J. García, A. ÁlvarezOssorio Alvariño (a cura di), La monarquia de las naciones: patria, nacion y naturaleza en la Monarquia de
Espana, Madrid 2004, pp. 49-50
182 A. Musi, Mercanti genovesi, cit., p. 112
180
54
scrive una serie di pareri inerenti alla risoluzione della crisi finanziaria del
regno.
Spinola espose invero «un coerente progetto statalista in funzione
antifeudale e contro la nobiltà di seggio napoletana»183. Lungimiranza v’era
in quel prospetto che fu esposto al Medina: un ruolo più di rilievo per lo
stato nelle questioni economiche e finanziarie, di contro a una «iniziativa
regia spenta»184. Questa mancanza di una figura sovrana centrale, questa
presenza non presenza degli Austrias portarono nel 1647 al momento più
cruciale della storia del Regno di Napoli: la rivolta di Masaniello con tutti
gli eventi che ne susseguirono.
3.2. Storia di ricchezze e di virtù
Ma a cosa deve il proprio potere contrattuale questa famiglia genovese?
Quali sono le origini, qual è l’evoluzione di coloro che insieme ai Grimaldi,
ai Doria e ai Fieschi fanno parte delle famose quatuor gentes più titolate
dell’intellighèntsia ligure?
E’ necessario partire dal brocardo di Alberico da Rosciate: Familia id est
substantia185,
che
definiva
strettamente
interconnessi
tra
loro
e
imprescindibili gli uni dagli altri i rapporti interni alla famiglia, non solo di
carattere personale, ma anche di carattere patrimoniale.
La patrimonialità, il reddito prodotto da ciascun nucleo familiare
contraddistinguevano da sempre e in modo prevalente la sfera pubblica e
privata nonché di conseguenza la possibilità di ascesa sociale. La storia
degli Spinola, nobiles mercatores, argentarii, rappresentava la narrazione
concreta di questa massima.
Ivi, p. 114
G. Muto, Saggi sul governo, cit., p. 101
185 A. da Rosciate, Dictionarium iuris tam civilis quam canonici, Venetiis 1583, ristampa anastatica Torino
1971, sub voce “Familia”, 266b, così come annotato in S. Patti, M.G. Cubeddu (a cura di), Diritto della
Famiglia, Milano 2011, p. 4
183
184
55
«Siamo nondimeno costretti à confessare, che in tempi così remoti da’
nostri, troppo è difficile il dimostrare con evidenza le Origini delle Nobili
Famiglie, talora più recondite, che le fontane del Nilo»186: queste le parole
con cui Massimiliano Deza si dichiarava impotente a fornire notizie certe e
dettagliate sulla genealogia spinolina. Negli scritti che li riguardavano vi
erano riferimenti a un titolo di visconte, o viceconte che dir si voglia, la cui
attribuzione affondava le sue radici nell’alto medioevo, quindi poteva ben
esser frutto della tanta invalsa pratica dell’autoreferenzialità familiare che
spesso non abbisognava di prove, perché forse non ve ne erano, o perché
trattavasi di mera tradizione orale talvolta sin troppo romanzata.
Questo e quel Guido il quale insieme col fratello minore Oberto
pigliorono prima che niuno altro il nome di Spinola, & furono figlioli
di Belo viceconte, il quale fu figliolo di Oberto viceconte, il cui padre
fu Guido pur viceconte, che signoreggiava in la valle di Pocevera, &
habitava in la villa nominata Carmen o sia Carmadino, & in questo
Guido riferiscono i nobili Spinoli l’origine loro, & dicono che questo
nome Spinola e derivato & ha havuto principio dalla liberalita &
magnificentia di Guido, il qual era huomo molto liberale & magnifico,
& haveva in consuetudine per honorar i forestieri, che venivano ad
allogiar in casa sua in gran numero di far spinolare cioe di far trar varie
sorti di vino da piu botte per satisfar al gusto de gl’amici che venivano
ad albergar in casa sua, & per fargli honore, come che il vino precioso
& bono si ricerchi in li conviti piu ch’ognaltra cosa, & in lingua Genoese
tanto e a dir spinolare una botta,[…] frequentia di far tirar vino di novo
fu domandato Guido il Spinola, & da qui etiamdio dicono essere
venuto, che sopra i vinti quatro quadreti bianchi & vermigli che sono
l’arma o sia l’insegna della casa de i Spinoli si soprapone una spina cioe
uno instrumento per mezzo del quale si tira il vino dalle botti, ancor
che altri dicono che i Spinoli vi aggionsero l’instrumento della spina
per componer certa lite, che era tra Spinoli & Spinoli, & col Marchese
di Monferrato, il quale ne l’insegna sua porta una spina187.
M. Deza, Istoria della famiglia Spinola, descritta dalla sua origine fino al secolo 16. da Massimiliano Deza
della Congregazione della Madre di Dio, Piacenza, 1694, p. 15
187 A. Giustiniani, Annali della Repubblica di Genova, 1537, c. 32v. Oltre all’ipotesi che vorrebbe il nome
‘Spinola’ derivato dal Monte Spina, e quella (ricavata dal Giustiniani) relativa all’ospitalità di Guido,
il Deza suggerisce anche ch’esso possa rimandare alla pietà dei primi membri della famiglia verso
“la Sacra Spina della dolorosa Corona di Cristo, che si conserva in Genova, per esser da tempo
immemorabile riposta in Santa Maria delle Vigne, prima, e principal Chiesa della Famiglia Spinola“;
cfr. M. Deza, Istoria della famiglia Spinola, descritta dalla sua origine fino al secolo 16, Piacenza 1694, p. 20
186
56
In questo dettagliato passo di Agostino Giustiniani si rivela il significato
della cognominatio Spinola, anche se la tradizione più accreditata
riconduceva l’origine del nome al suo uso di “spinolare” il vino ai propri
ospiti, ragion per cui “nello stemma comune a tutte le branche familiari si
trova la spina di botte”188.
Quel che più ci interessa è quel titolo antico e tramandato di visconte ciò che Bizzocchi definirebbe una genealogia “incredibile”- che la famiglia
già nel X secolo poteva vantare, facendo derivare tale investitura da Ottone
I. Vi erano certamente degli interessi pratici dietro le innumerevoli storie
genealogiche che nella letteratura della prima età moderna attribuivano alle
famiglie nobili origini, troppo illustri e tanto remote nel tempo da apparirci
per l’appunto incredibili come questa189. Nondimeno, questo titolo, vero o
presunto che fosse, venne successivamente speso dagli Spinola allo scopo
di esser insigniti di onori e cariche cittadine partecipando a tutti gli effetti
alla vita politica ed economica, rendendosi diretti protagonisti delle vicende
genovesi.
Il capostipite, secondo le informazioni fornite da Roberto Santamaria
nella sua disamina dell’inventario del 1727 del Palazzo Doria Spinola, fu
pertanto Guido, sulla carta Visconte di Valpocevera una delle principali
vallate del Genovesato, padre di sette figli e, presumibilmente, al servizio
dell’Imperatore190. Il tratto distintivo propriamente “spinolino” era la
spiccata propensione verso l’attività mercantile che aveva garantito ai
membri di questa famiglia quell’affermazione economica e sociale e
l’ingresso sul palcoscenico internazionale in età moderna. Si erano altresì
avvalsi sin dall’età medievale del mezzo più diffuso e indispensabile per
una rapida ascesa sociale: le unioni matrimoniali. Furono queste ultime a
R. Santamaria, Palazzo Doria Spinola. Architettura e arredi di una dimora aristocratica genovese - da un
inventario del 1727, Genova 2011, p. 144
189 Cfr. R. Bizzocchi, Genealogie incredibili. Scritti di storia nell'Europa moderna, Bologna 2009
190 R. Santamaria (a cura di), Palazzo Doria Spinola, cit. p. 144
188
57
rafforzare le capacità di negoziazione politica, ma anche commerciale della
famiglia.
L’attività marinara fu ovviamente il trampolino di lancio delle fortune
degli Spinola191: dal XII secolo, periodo cui si fece risalire la divisione dei
due rami di Luccoli e San Luca, all’ottenimento delle terre di Oltregiogo,
essi cominciarono a definire la propria sfera di influenza tra alterne
fortune192 principiando la lenta quanto ineluttabile costituzione dello “Stato
spinolino” situato in posizione strategica tra il mare e la pianura padana.
Divennero così parte integrante dell’aristocrazia genovese muovendosi al
contempo tra terraferma e mare, pur nella perenne ricerca di diritti signorili
di lunga data, anche attraverso l’eterodossa - alquanto aliena ai mores
nobilium - via della mercatura.
L’arte del commercio e degli scambi era difatti l’attività principale
genovese e soprattutto la dote indefettibile del suo patriziato. Questa forma
mentis contribuì alla quasi identificazione tra l’esser mercatores e la libertà
repubblicana in età moderna, proprio in virtù dell’ammirazione nutrita per
un passato in cui tale gestione degli affari aveva letteralmente nobilitato
l’uomo senza ricorrere all’ethos della spada e al pathos del sangue. Fu un
modello di società conformata «por el predominio de los intereses
patrimoniales y corporativos en el que la familia, y no el interès particular
o meramente individual, era la base de la organizacion del poder»193.
In un sistema fondato sul privilegio i legami di parentela, la
configurazione delle reti di clientela, le relazioni matrimoniali erano le
trame che meglio potevano dipanarsi attorno ai membri della famiglia
genovese permeandone qualsivoglia aspetto della vita pubblica come di
quella privata, condizionandone il processo decisionale politico, le diverse
strategie economiche e le vicende personali strettamente interconnesse.
A. Musarra Gli Spinola a Genova nel XII secolo. Ascesa politica, economica e sociale di un casato urbano
in «Atti della società ligure di storia patria nuova» Serie LVII (CXXXI), Genova 2017, p. 53
192 Ivi, p. 56
193 Cfr. M. Herrero Sanchez, La red genovesa Spinola y , cit., p.103
191
58
3.3. Vicari e luogotenenti. Tutti gli uomini del principe
Ma riportiamoci a Molfetta.
Luca Spinola si era rivelato poco avvezzo nell’approcciarsi all’apparato
burocratico napoletano. Aveva infatti agito in modo poco avveduto nel
perfezionare il contratto di compravendita della città: non solo non aveva
avvisato il Viceré, ma neppure il Consiglio Collaterale, che aveva pertanto
deciso di sospenderlo dal possesso del feudo sino a tutto il biennio 1643 1644194, periodo in cui alfine venne definita la vicenda, grazie all’intervento
del sovrano e al conseguente exequatur del placet di quest’ultimo195. Filippo
IV aveva così concesso la sua benedizione e così apparentemente aveva fatto
anche l’universitas molfettese ancora una volta infeudata. La Felix Patria di
lanziana memoria aveva perciò accolto e festeggiato il suo nuovo signore e
“utile padrone”. Spettacoli pirotecnici, omaggi militari e musicanti furono
difatti apprestati allo scopo di ricevere con tutti gli onori lo Spinola e la
moglie Pellina la sera del 20 aprile 1647. La città non aveva assolutamente
badato a spese per i nuovi signori liguri196. Ma quella rimase la prima e
ultima visita – documentata quantomeno – del neoprincipe Luca.
Gli Spinola non si dimostrarono di fatto mai legati ai propri feudi
pugliesi da Molfetta a San Pietro in Galatina. Della famiglia non v’è traccia
alcuna nelle due città, che pure avevano loro portato il titolo di Grandi di
Spagna. Come sottolinea Giancarlo Vallone, «pur all’interno della nota
organizzazione consortile delle famiglie nobili genovesi, questo ramo era
tra i più solidi degli Spinola, e aveva comodità di seguire da Genova, ove
risiedeva stabilmente, i propri affari commerciali, i propri investimenti e
R. Colapietra, Genovesi in Puglia nel Cinque e Seicento, in «Archivio Storico Pugliese», XXXV, 1982,
pp. 51-52
195 APGS, Fondo Spinola, “Exexutio di Regio Privilegio per il quale S.M. Cattolica concede il suo
assenso alla vendita fatta per l’Ill.mo D. Ferrante Gonzaga Duca di Guastalla e Principe di Molfetta a
D. Luca Spinola per ducati 170.000” (I Appendice documentale); C. Pisani, Pasqua 1647: i principi
Spinola entrano in Molfetta, in «L’Altra Molfetta», Anno XXXI n. 3, Molfetta, marzo 2015, pp. 52-53
196 Il tutto è rinvenibile dal Fondo Contabilità Comunale dell'ACM (anno 1647), fonte primaria degli
studi condotti e riportati da Pisani nell’articolo sopracitato.
194
59
interessi che irradiavano verso Venezia, verso Milano, verso la Spagna
oltreché verso il Regno»197.
L’assenza dal feudo non significava necessariamente che gli utili signori
si disinteressassero completamente dei propri possedimenti. Certamente, se
non reputavano necessario l’incremento delle produzioni agricole, che
presupponeva quantomeno una presenza costante del feudatario sul posto,
al contempo non disdegnavano in alcun modo la rendita feudale198 oltre
all’esazione delle imposte a questa connesse, che sovente conducevano a un
conflitto di interessi con l’universitas199.
Era dunque necessario che vi fosse una persona fidata, che la longa manus
principesca potesse essere degnamente rappresentata da un luogotenente.
Diversi sono gli appellativi con i quali furono designati questi uomini di
fiducia, quella di agens generalis fu quella maggiormente utilizzata. Accanto
al generalis gubernator, rappresentato solitamente da un cadetto della
famiglia con poteri ben più ampi come quello di nominare il Capitano, come
nel caso di Don Paolo Spinola, vi era la figura suggestiva di questo “agente
generale” fiduciario del feudatario, il quale spesso gli arrendava200
l’amministrazione dei propri feudi in modo tale da trarne il massimo
tornaconto, ben certo che giammai il “fortunato” luogotenente ne avrebbe
tradito le aspettative vista e considerata anche la comunione di intenti201.
Più frequentemente il ruolo fu rivestito da un genovese, ma non si disdegnò
la collaborazione di altrettanti affidabili patrizi del luogo.
G. Vallone, Feudi e Città, Studi di Storia Giuridica e Istituzionale Pugliese, Lecce 1993, pp. 232-233
Ivi, pp. 233 e ss.
199 Arcinota la dibattuta questione dello ius moliendi, che contrappose l’universitas agli Spinola per
oltre un secolo. ACM, Manoscritto n. 124 [6/VI] Litigio tra la casa Spinola e l’Universitas di Molfetta
200 Arrendare, per "appaltare", e arrendatore per "appaltatore" delle gabelle. Troviamo anche nella
finanza pontificia il vocabolo arrendatore, a proposito di una controversia sorta per l'appalto del dazio
sull'olio a Ferrara, e decisa dalla S. R. Rota in data 4 febbraio 1726. L. Nina, Enciclopedia Italiana, 1929
(Treccani online).
201 G. Vallone, Feudi e Città, cit, pp. 234-235.
197
198
60
Proprio da questa premessa parte la disamina di due figure che più delle
altre si distinsero nel ruolo di “uomo del Principe”: il genovese Francesco
Benigassi e il molfettese Marzio de Luca.
3.3.1. Uno “straniero” a Molfetta: Francesco Benigassi
La vicenda della mancata immediata investitura di Luca Spinola non
implicò che egli non potesse in ogni caso controllare e trarre profitto dalla
propria eredità.
Fu Francesco Benigassi (o Benegassi) a occuparsi del “nuovo acquisto di
famiglia”. Questi apparteneva a una famiglia originaria di Gavi
nell’Oltregiogo trasferitasi successivamente nella capitale alla fine del
Trecento202, presumibilmente facente parte dell’antica clientela degli
Spinola, considerando che i primi possedimenti fondiari della casata erano
estesi sin dal XIII secolo proprio in quella zona per poi lentamente giungere
a insediarsi nel 1364 come feudatari di Tassarolo203.
Il Benigassi, tra l’altro, aveva già ricoperto il ruolo di fidato luogotenente
e agente del I Duca di San Pietro in Galatina, Giovanni Battista di Giovanni
Maria Spinola, che gli «concesse in locazione i feudi di San Pietro in
Galatina, Soleto, Borgagne e Pasulo» il 27 settembre del 1625, per atto di
notar Giovanni Tomaso Poggi di Genova, per un periodo di sei anni (dal 1°
settembre passato sino al 1° settembre 1631) e un canone annuo fissato in
7.450 ducati di Napoli. Il 3 ottobre, il Duca costituì il Benigassi suo
Come riferisce Corrado Pisani nel suo Genovesi a Molfetta: i Bedonigassi, «L’altra Molfetta», anno
XXI, Molfetta, maggio 2015, p. 24: “A. Lercari, nell’aprire la scheda n. 52 (Repertorio di fonti sul patriziato
genovese) scrive: «Secondo le fonti erudite questa famiglia sarebbe stata originaria di Gavi, nell'Oltregiogo
genovese, e si sarebbe trasferita in Genova alla fine del Trecento con Antonio Benigassio di Gavi, il quale nel
1439 stabilì il proprio sepolcro nel chiostro di San Domenico»” Pertanto non è del tutto peregrina l’ipotesi
che i Benigassi fossero antichi protégées degli Spinola.
203 L. Tacchella, Tassarolo nella storia del monachesimo, degli Spinola, dei feudi imperiali liguri e dei cavalieri
di Malta, Milano 2001, p. 17
202
61
«procuratore, agente, luogotenente e vicario generale nello Stato di San
Pietro per sei anni, incominciati sempre dal I ° settembre»204.
Purtroppo al momento dell’improvvisa scomparsa del Duca il 13
dicembre dello stesso anno 1625 tale ruolo fu perduto dal Benigassi, che fu
immediatamente sostituito a opera di Giovanni Maria Spinola da un altro
oriundo genovese: Benedetto de Mari di Lecce.
A ogni modo la morte del suo “dante causa” non costituì la fine del cursus
honorum del Benigassi.
L’occasione giunse con l’ascesa al principato di Molfetta, seppur non
ancora ratificata, di Luca Spinola, che già nel 1641 incaricò il conterraneo di
controllare i propri novelli possedimenti, sino a conferirgli l’incarico di
generalis gubernator nel periodo 1646-1647, rinnovato poi nel 1649 -1650.
Nel 1651 Gio. Filippo Spinola dei duchi di San Pietro in Galatina, consorte
dell’«Olimpia della Liguria» Veronica Spinola205 e, grazie alla dote di
quest’ultima, futuro Principe di Molfetta, a causa della prolungata infermità
del suocero206 gestì, presumibilmente in sua vece, le questioni attinenti ai
feudi di famiglia.
Il 5 maggio 1651 Gio. Filippo concesse in locazione la città di Molfetta e i
suoi introiti di origine tributaria, ossia «di molini, nel ius moliendi, mastro
d’attia, scannaggio, portulania, censi diversi Dugana et annui d[ucati] 1.546
in circa fiscali», a Giacinto fu Josepho Platius, procuratore di Francesco
Benigassi, per il periodo tra il 1652 e il 1655 per il prezzo di ducati 4.400
d’oro annui.
La morte di Francesco Benigassi avvenuta in data imprecisata (ma,
presumibilmente, tra la fine del 1653 e l'inizio del 1654) portò alla
rescissione di questo contratto207.
C. Pisani, Genovesi a Molfetta, cit., p. 24
F. Lombardi, cit., p. 196
206 Ibidem
207 C. Pisani, Genovesi a Molfetta, cit, p. 25
204
205
62
I Benigassi però non abbandonarono Molfetta pensando bene di radicarsi
nell’universitas pugliese attraverso utili matrimoni con esponenti della
nobiltà locale, dai Coletta ai Filioli. Per mero esempio si riporta come
nell’anno finanziario 1665 – 1666208, Andrea Benigassi rivestisse l'incarico di
Governatore di Molfetta e come nel 1680 fosse ascritto al Liber Nobilitatis della
città di Genova209.
Pur continuando a esser legati agli Spinola e alla loro città di origine, al
cui patriziato in più di un’occasione avevano fatto richiesta di esser
aggregati, essi erano diventati a tutti gli effetti sudditi del Regno di Napoli,
esempio dell’integrazione ligure nel tessuto sociale del Mezzogiorno.
Diverse dimore furono donate e acquistate da questa famiglia, come a
significar la volontà di legarsi al territorio, indissolubilmente, cosa che
permase immutata sino al 1801, anno in cui con la morte di Giacinto, che
dispose di donare tutti i propri beni al Monte di Pietà e al Pubblico Ospedale
di Molfetta, si estinse il ramo molfettese dei Benigassi210.
3.3.2. Gli “indigeni” de Luca al servizio segreto della Principessa. Un
carteggio inedito
Marzio de Luca, vissuto tra il 1614 e il 1662, fece in modo che il
Reggimento di questa Università dipendeva dai suoi cenni e chi piaceva a
lui era eletto officiale, amico di Monsignor Pinelli tanto che tenne affittata
questa città dalla Signora Veronica Spinola senza che lo sapesse anima
vivente, se non loro duoi211.
L’anno finanziario decorreva dal 1° settembre al 31 agosto dell'anno successivo, Ibidem. Cfr. anche
A. Bulgarelli Lukacs L'imposta diretta nel regno di Napoli in età moderna, Milano 1993, p. 270
209 Ivi, p. 26
210 “Sua residenza, in via S. Lorenzo (ossia S. Orsola), era il palazzo situato a lato di Palazzo Gadaleta.
Chiese di essere sepolto a San Bernardino, nel sepolcro gentilizio del Monte Filioli dove erano stati
sepolti i suoi genitori”, a ulteriore riprova del vincolo della famiglia con il territorio della città
pugliese. Cfr. C. Pisani, Genovesi a Molfetta, cit., p. 26
211 ACM, ms 232, f.132 , G. Visaggio, Notizie storiche dei vescovi e dei canonici di Molfetta dal 1679 al 1720,
pp. 91 e ss.; «Marzio de Luca fu molto influente nel governo municipale molfettese e in combutta col
208
63
Una sorta di accordo tacito ma non troppo si era instaurato tra de Luca e
il vescovo Pinelli. Nondimeno, Marzio
hebbe vita breve, mentre morse di anni 48 incirca, hebbe per moglie
Porzia Caputo di Ruvo, bella Signora, e morsero ambeduoi nel mese di
Novembre 1662 lasciando duoi figli maschi, cioè Marcello primogenito
a che nel suo testamento rogato per mano di notar Angelo Valenti poco
prima di morire, lasciò un Maiorascato di trentamila ducati da
impiegarsi in feudo nobile, et il secondo chiamato Francese Antonio
herede universale, et a quattro femine (oltre un'altra mancata prima
della sua morte) ad una dote di Ducati duemila, et all’altre la dote del
Monastero 212.
Queste le parole emblematiche che il canonico molfettese don Geronimo
Visaggio usò per meglio definire le vicende dei de Luca, proteagonisti della
scena cittadina all’epoca di Veronica Spinola.
Era evidente che allo straniero Benigassi fosse ora succeduto un abile
esponente del primo ceto cittadino: Marzio de Luca, che nella sua breve
esistenza riuscì a costruire la fortuna della propria casata conquistando la
fiducia di Veronica Spinola. Fu in questo modo che la sua prole potè
successivamente investire ben trentamila ducati, comprando «la terra di
Lizzano, vicino la città di Taranto, sopra la quale esso Marcello Barone213
ottenne dalla Maestà di Carlo II il titolo di Marchese»214.
Ma chi erano questi de Luca?
Marzio discendeva dal ramo gentilizio di Ludovico de Luca che nel 1573
era annoverato tra i populares della città. Ludovico era colui il quale aveva
conferito uno stemma alla famiglia215 recante le effigi di un leone, un
vescovo Pinelli prese in affitto da Veronica Spinola, “utile signora” di Molfetta, la citta per le esazioni
daziarie, senza che lo sapesse anima viva, tranne loro due». Così riferisce anche Marco Ignazio de
Sanctis, Fra’ Giuseppe Maria de Luca, giovannita di Molfetta e patrizio di Trani (1753-1808), in «Studi
Melitensi», XXIV 2016, p. 175
L. Palumbo, Vescovi e preti a Molfetta nel tardo Seicento, in G. Poli (a cura di), Ricerche su Terra di Bari tra
Sei e Settecento, Molfetta 1986, p. 58
212 ACM, ms. 232, Visaggio, Notitie storiche dei Vescovi e dei Canonici di Molfetta dal 1679 al 1720,
pp. 90 e ss.
213 Il figlio primogenito già citato nell’opera di Visaggio
214 ACM, G. Visaggio, cit.
215 “Leon d’oro, che con la destra zampa sostiene una Croce bianca, traversata da una banda d’argento
con tre Rose rosse” in F. Lombardi, cit., p. 39
64
emblema diffuso non proprio originale: «chi non ha blasone porta un
leone»216.
Il pronipote di Ludovico, Giovan Pietro de Luca di Francesco Antonio di
Pietro, dopo essersi rivolto al Consiglio del Collaterale in data 27 novembre
1579 ottenne dal reggente don Francesco Reverterio217 una dichiarazione
che attestava che Ludovico e Francesco Antonio, rispettivamente fratello
del nonno e padre dello stesso Giovan Pietro, erano stati nobiles della città
di Molfetta in quanto discendenti in linea diretta da Gionata, conte della
città di Luco in Umbria, «vetustissimo stipite nobilis familiae de Luca»218,
cosa di cui non v’era prova provata ovviamente.
Anche
questo
era
un
segno
dell’altrettanto
diffuso
sistema
dell’autoreferenzialità delle famiglie patrizie, una sorta – adoprando un
termine contemporaneo - di “autocertificazione” delle proprie ascendenze
nobiliari219. Nobili natali a parte, non tutti i de Luca furono così fortunati
negli affari. Del ramo di famiglia meno favorito dalla sorte fece parte
Giovanni Maria, di cui in una scrittura privata, rinvenuta nel fondo Spinola
216
M.I. De Santis, cit., p. 154
217 All’epoca «regente della regia cancelleria
e del Consiglio Collaterale» in C. Calà, Pragmaticae, Edicta,
Decreta, Regiaeque Sanctiones Regni Neapolitani, pluribus additis, suisque locis, optima methodo, cum labore
collocatis.per V.I.D. blasium altimarum, advocatum neapolitanum, deputatum per supremum Regium
Collaterale Consiluim, cum superintendentia Illustris D. Caroli Calà Ducis Diani Collateralis Consiliarii,
Regiam cancelliariam regentis, &c., Tomus secundus, Neapoli 1682, p. 607
I reggenti di cancelleria potevano essere convocati in Collaterale dal viceré anche indipendentemente
dai consiglieri, costituendo il "Consiglio Collaterale ordinario" e beneficiando di voto tanto consultivo
quanto deliberativo e giudiziario. Questi reggenti avevano facoltà di decretare sui memoriali di grazia
e giustizia senza l'intervento del viceré; replicavano agli ordini vicereali quando questi non erano
conformi alle disposizioni del sovrano; spedivano i privilegi, con il potere di riformare le investiture
dei feudi, tenuto conto dei singoli casi e delle circostanze che richiedevano tali riforme; impartivano
ordini sui beni feudali delle università, dei luoghi pii e dei beni dotali; assegnavano i tutori ("balii")
ai figli minori dei feudatari; accordavano salvacondotti ai rei; visitavano i carcerati; ammettevano in
grado di appello le cause sulle quali avevano giurisdizione; decidevano su questioni inerenti ai
tribunali e, all'occorrenza, procedevano alla sospensione dei magistrati; rivedevano i decreti del Sacro
Regio Consiglio e dei ministri delegati; in esecuzione delle commissioni ricevute dal viceré,
effettuavano l'istruttoria dei processi per mezzo degli "scrivani di mandamento" ed emettevano i loro
provvedimenti e decreti; nei dubbi di competenza riferivano in Collaterale le cause dando avviso alle
parti. Cfr. A. Allocati, Lineamenti delle istituzioni pubbliche nell'Italia meridionale, Roma 1968, pp. 79-81
218 M.I. De Santis, cit., p.175
219 Ibidem: De Santis fa riferimento a L. Palumbo, Aspetti di vita economica a Molfetta nel 1535, in F. M.
De Robertis e M. Spagnoletti (a cura di), Atti del Congresso internazionale di studi sull’Età del Viceregno,
vol. II, Bari 1977, pp. 235-282: 257-259.
65
dell’Archivio Privato Gallarati Scotti di Milano, si enumeravano tutti i
debiti e la contabilità dei parziali saldi dei medesimi, oltre a riferire il nome
del nuovo Agente Generale per gli affari spinolini a Molfetta all’indomani
della morte di donna Veronica. Analizziamo il tutto con maggior precisione.
Alla dipartita della principessa contestuale peraltro a quella di Marcello
non saranno più i de Luca gli uomini fidati del Signore, ma un tal Giovan
Battista (Gio. Batta) Baguer, un genovese. Il figlio della Spinola, Francesco
Maria, aveva giudicato, a torto o ragione, poco proficua la precedente
collaborazione tra la madre e i molfettesi de Luca. Questi presupposti
trassero forza anche dalle vicende forse marginali e tuttavia non irrilevanti
di Giovanni Maria, più longevo di Marzio e meno oculato nel curare le
proprie finanze.
Alquanto curioso osservare come l’avvento degli Spinola produsse tra
due rami della stessa famiglia parallele e opposte vicende. Marzio e
Giovanni Maria (o Gian Maria) erano cugini220. Laddove il primo raggiunse
risultati ragguardevoli per sé e per la propria progenie, il secondo si ritrovò
per la medesima ragione, ossia l’intervento finanziario di Veronica Spinola,
indebitato sino al punto di vender la propria stessa abitazione.
Le premesse patrimoniali di Giammaria non erano insignificanti: Palazzo
Dogana, ch’egli aveva ricevuto in eredità221, era una delle case signorili più
fulgide di Molfetta e fu venduto nel 1655 a quello stesso Monsignor Pinelli
già citato da Visaggio e legato a doppio filo alla figura di Marzio. Che fosse
stato proprio quest’ultimo a suggerire la vendita al cugino?
Naturalmente non era e non è dato conoscere, almeno allo stato, se vi
fosse stata una consulenza parentale in merito tra Marzio e Gian Maria,
Marzio de Luca (1616-1662), era figlio di Marcello (moglie: Isabella Passari), figlio di Francesco
Antonio (moglie: Dianora ossia Eleonora de Bastardis di Barletta), figlio dei coniugi Joannes
Petrus (Giampietro) de Luca e Laura Brucula di Ruvo; Giovanni Maria de Luca (1617-1697), era figlio
di Giampietro (moglie: Antonia de Luca), figlio di Giulio (moglie: Virgilia Ruffoli), figlio dei
coniugi Joannes Petrus (Giampietro) de Luca e Laura Brucula di Ruvo. Cfr. C. Pisani, Storia genealogicocronologica della famiglia de Luca di Molfetta, Molfetta, 2019, (in corso di pubblicazione)
221 C. Pisani, La Fabbrica di Palazzo Dogana, in «L’Altra Molfetta», Molfetta, Ottobre 2019, p. 25
220
66
tuttavia questa mera ipotesi potrebbe non essere del tutto priva di
fondamento. Nondimeno l’egemonia di Marzio spirò con lui nel 1662, ma
non si estinse allo stesso modo il frutto di cotanta devozione a Donna
Veronica Spinola. Infatti Marcello, il figlio primogenito dell’antico Erario di
Molfetta, assurto a marchese di Lizzano e barone di Melpignano, divenne
affittuario delle entrate dell’utile Signora della città di origine dal 1684 al
1688222. Potrebbe essere un’illazione, ma il debito descritto nella distinzione
del 3 giugno 1690223 risaliva proprio alla data di insediamento del
primogenito di Marzio come curatore degli affari della Signora di Molfetta.
Anche qui il dubbio sorge spontaneo: che Marcello avesse ricoperto il ruolo
di intermediario tra il procugino e la principessa?
Certo fu che alla morte di quest’ultima e al subentrare di Gio. Batta
Baguer nel ruolo di Agente Generale delle risorse spinoline il credito
vantato dagli eredi di Veronica venne esatto con estrema premura dopo
aver posto in esecuzione le sentenze della Regia Udienza di Trani e della
Gran Corte della Vicaria. Dalla disamina della distinzione del 3 giugno 1690224
si evinceva che il debito doveva essere stato contratto in solidum
da Giovanni Maria (1617-1697) e dal sacerdote Giovanni Pietro (1653-1686),
rispettivamente, padre e figlio. Inoltre il successivo atto rogato in data 18
maggio 1690 da notar Gasparro Squadrilla di Modugno, che vedeva il
coinvolgimento degli altri due figli maschi di Gian Maria (ossia il clerico
Michele e Domenico), è dettato dal fatto che il canonico Giovanni Pietro era
deceduto senza alcun testamento225. La cifra era ingente: 2245 ducati, debito
cui il de Luca non riuscì a far fronte se non offrendo in cambio quanto natura
e patrimonio gli concedeva: «una [sua] possessione di olive e frutti di
C. Pisani, Storia genealogica-cronologica, cit., (in corso di pubblicazione)
APGS, Fondo Spinola, “1690 3 Giugno, Distinzione che dicesi avuta da Molfetta da Giambattista
Baguer relativa al debito di Gian Maria de Luca in ducati 2245: verso la Sig.ra Veronica Spinola” (II
Appendice documentale)
224 Ibidem
225 Ibidem
222
223
67
vigne»226. Era stato probabilmente questo considerevole debito a indurlo
successivamente Il 17 maggio 1697 a vendere al Capitolo per la costruzione
di un Seminario la propria dimora familiare, contigua al Palazzo
Vescovile227.
Al di là di questo parallelo endofamiliare, il ramo di Marzio de Luca fu
di certo più fortunato anche in seguito: vi furono glorie nella casata come
Pier Francesco de Luca che nel 1691 fu al servizio del duca di Savoia,
Vittorio Emanuele II o di Giuseppe Maria de Luca, cui fu concesso l’alto
onore di vestire l’abito di Malta nel 1789, primo tra i de Luca di Molfetta a
diventare cavaliere melitense, concedendosi quel tertium genus nobilitatis
«dando di riflesso lustro alla famiglia e alla sua città nel secondo
Settecento»228.
Alla luce di quanto esaminato, appare comunque palese che: se questa
evoluzione familiare ebbe luogo, se quel preciso ramo del lignaggio dei de
Luca ebbe la possibilità di acquistar feudi e titoli e di accedere a onori
dapprima insperati, fu solo grazie a quel rapporto di fiducia e a quella sorta
di strana e segreta relazione di patronage intercorsi con la Signora Veronica
Spinola, abilmente e fatalmente intrecciati alle capacità del de Luca più
influente e dinamico, Marzio.
Ibidem
C. Pisani, La Fabbrica di Palazzo Dogana, cit., p. 26
228 M.I. De Santis, cit., p. 179
226
227
68
Capitolo IV
Molfetta e gli Spinola tra pubblico e privato
69
4.1. L’ annosa contesa per lo ius moliendi
«Signori miei, sanno molto bene le signorie loro le cause strepitose fatte
da questa nostra Università coll’eccellentissima Casa Spinola in rapporto al
mantenimento delle giurisdizioni […]». E si seguita anche da altri nel
medesimo modo a protestare contro tale abuso, rievocando ricordi di
antenati «i quali si sono affaticati con sudori e dispendi grandissimi non
meno in recuperarle che in sostenerle che in quel decoro si conveniva»229.
Per quanto possa apparire enfatico, l’uso del termine antenati aveva la
propria ragion d’essere poiché le questioni del “mantenimento delle
giurisdizioni”, dei reiterati abusi feudali degli Spinola ai danni
dell’universitas di Molfetta avevano radici profonde e lontane, sin dal tempo
della vendita della città dal Gonzaga di Guastalla a Gio. Stefano Doria nel
1640.
La difficile situazione contabile in cui versava l’universitas di Molfetta in
quello stesso anno l’aveva portata a presentare una supplica al Viceré
affinché concedesse la licenza di «poter vendere o impiegare lo ius moliendi
della farina230, con patti e condizioni che meglio avrebbe potuto convenire
al compratore, ed eligere quattro deputati per fare le capitolazioni di
vendita»231.
Il Regio assenso giunse e la gabella fu posta in vendita, l’acquirente che
la comprò alla “modica” cifra di 7500 ducati fu una triade di nobili
personaggi locali che versarono ciascuno una quota congrua a raggiungere
l’intero ammontare. Don Carlo Tappia (o de Tapia), marchese di Belmonte,
Conclusione decurionale del 13 novembre 1785 così come riportata da D. Magrone, La fine del
dominio feudale in un Comune della Puglia, Molfetta 1900, pp. 9 e ss.
230 «Lo ius moliendi, ossia il diritto di far macinare grani e granaglie sia nella città sia nel suo distretto
ed esigere per la macinatura cavalli quattro dagli ecclesiastici e cavalli cinque dai laici; detto diritto,
unitamente ai suoi emolumenti, ai molini e le altre comodità per i bisogni dell’Università, fu venduto
nell’anno 1641, con il patto di ricomprare per interposte persone, all’Ill.mo Sig. Don Luca Spinola,
allora Principe di questa città, per ducati 7.500» in ACM, ms 124, Litigio tra la casa Spinola e l’Universitas
di Molfetta
231 C. Pisani, Lo Jus moliendi dell’Università, in «L’Altra Molfetta» Anno XXXIII, n.1, 2017, pp. 24 e ss.
229
70
Reggente del Consiglio Collaterale, convalidò detta compravendita. Il
seguente 25 luglio il Cassiere dell’universitas incamerò i 7.500 ducati in
monete d’argento versatigli, rispettivamente, da Ruggiero de Rossi, Mauro
Antonio Passari e Roberto Michielli. Si trattava di meri prestanome, poiché
il reale compratore era Luca Spinola signore ancor non riconosciuto della
città232.
Nonostante fosse enucleata la clausola con cui si contemplava che
l’imposta sarebbe stata riscattata dalla città entro un quinquennio233, le
vicissitudini finanziarie dell’universitas permasero inalterate e gli Spinola
lasciarono invariata l’obbligazione dovuta per lo ius moliendi, perché
l’universitas potesse ripagare il prestito iniziale ancora insoluto, facendo
definire il tutto dal fidato Benigassi all’epoca agente generale e arrendatore234
dei beni del signore di Molfetta235.
Questo rapporto debitorio dell’universitas nei confronti del principe
sopravvisse anche dopo la Prammatica XVIII del 1650 di Don Beltrano de
Guevara, Luogotenente e Capitano Generale del Regno di Napoli, con cui
si stabiliva che - pur impedendo ulteriori vendite di gabelle, imposte et
Ibidem
Cum pacto de retro vendendo post quinquennium. Le fonti di Pisani fanno riferimento alle Decisioni
Decurionali detenute nel fondo omonimo presso l’Archivio Comunale di Molfetta.
234 arrendatóre s. m. [dallo spagn. arrendador; v. la voce prec.]. – Appaltatore delle gabelle, nell’antica
finanza napoletana e in quella pontificia. (Vocabolario Treccani online)
235 «Un nuovo contratto con il quale il Principe Spinola faceva credito all’Universita di Ducati 5.426
grana 38 cavalli 1, somma che costituiva il debito dell’Universita nei confronti del Benegassi (e,
quindi, di Luca Spinola). Questo contratto prevedeva che il Principe avrebbe esatto oltre ai 200 Ducati
mensili dalla “gabella … nominata(m) la Gabella della Farina sopra la macina[tura] del grano” anche
un interesse del 7 per cento sull’intera somma che avrebbe dovuto percepire dall’Università. Il 5
settembre 1650 Don Beltrano de Guevara, Luogotenente e Capitan Generale del regno di Napoli,
promulgò la Prammatica XVIII riguardante la De Administratione Universitatum con la quale stabilì
“che a tutt’i creditori, cosi a quelli, che hanno comprato annue entrate con Regio Assenso, come a
quelli che hanno comprato entrate, e gabelle […] si corrisponda [un interesse] alla ragione di cinque
per cento”». Nel nostro caso, grazie a questa legge, l’interesse che l’Università doveva allo Spinola
venne ridotto al 5 per cento. La stessa normativa, inoltre, dispose che: «da oggi avanti, e per
1’avvenire per niuna, benché urgentissima causa, si possano alienare, o dare in pegno detti Corpi, e
Gabelle, né affittarsi ultra annum con pagamenti anticipati … Ordinando ancora, che tutte quelle
gabelle, bonatenenze, rendite, ed entrate di qualsivoglia maniera, che sieno, che si ritrovassero
alienate, o impegnate, si riducano in potere delle Università, annullando dette alienazioni, e pegni,
non ostante qualsivoglia decreto, o assenso, che tenessero; restando però i detentori di esse creditori
dell’Università». Cfr. C. Pisani, Lo Jus Moliendi, cit., p. 25
232
233
71
similia spettanti all’amministrazione cittadina - restavano comunque i
precedenti «detentori di esse creditori dell’Università»236. Quest’ultima
disposizione lasciava che il rapporto debitorio tra il principe e Molfetta,
assumesse il carattere dell’indeterminatezza temporale configurandosi così
come una sorta di eterna sanzione pecuniaria a carico della città e dei suoi
nobili esponenti.
Solo nel 1708 intervenne una breve tregua con la privazione dello status
di feudatario disposta da parte dell’Imperatore Carlo VI nei confronti di
Francesco Maria seniore, che nel conflitto franco-asburgico si era schierato
con Filippo V e aveva rifiutato di giurare fedeltà infra terminum agli
Absburgo237. Questa parentesi durò fino al 1725, anno in cui il principato fu
ripristinato e la casa Spinola ritornò nel possesso della città.
Nel 1729 alla luce del formarsi della Giunta del buon governo delle
Università del Regno238 gli allora sindaci e decurioni ritennero giusto
deliberare di opporsi a quello che veniva a configurarsi come un vero e
proprio “abuso feudale”239, esponendo dieci capi di gravami «che
asserirono inferisseli dal d[ett]o Ecc.mo Sig. Duca, Principe di essa città, e
primieramente, che fra gli beni di essa, vi era il ius moliendi»240. Si incardinò
il 10 marzo 1730 il noto “litigio Spinola”, un procedimento giudiziario che
attraversò un trentennio circa della storia della città241.
Ibidem
G. Vallone, Feudi e città, cit., p. 234
238 “L’imperatore Carlo VI d’Asburgo (salito sul trono del regno di Napoli il 7 luglio 1707 con il nome
di Carlo VI), per Prammatica XXII emessa in data 10 marzo 1729, “comandò di formarsi una Regia
Giunta, perché […] sia giovevole alle Università […] Gli Amministratori di ciascheduna Università
dichiarino […]le gabelle, jussi, ed altr’entrate, che possiede la loro Università: se alcuna d’esse si trova
ceduta, assegnata, pignorata, permutata, o distratta, a chi, quando, e per qual causa». In pratica, istituì
la Regia Giunta pro bono Regimine Universitatem huius Regni ossia Giunta del buon governo delle
Università del Regno” in Pisani, Lo Jus moliendi, cit., p. 25
239 espressione usata da Vallone anche per l’atteggiamento degli Spinola a Galatina. Cfr. G. Vallone,
Feudi e città, cit., p. 234
240 C. Pisani, Lo Jus moliendi, cit. p. 26
241 “per la parte di questa università furono nella medesima [causa] prodotti vari capi di aggravi che
riceveva dall’Ill.mo possessore e le principali domande furono di reintegrarsi a beneficio
dell’Università del Ius moliendi che fu alienato nell’anno 1641 all’ill. fu Don Luca Spinola per ducati
7500 con una lesione enormissima”. Seduta del giorno 11 giugno 1769, intervento del Nobile Don
236
237
72
Molteplici furono i rinvii e inevitabile fu l’arenarsi della causa242. Il 24
gennaio 1733 con un Dispaccio Reale si concretizzò l’abolizione (formale)
della Giunta del buon governo, circostanza che fermò totalmente il
dipanarsi della matassa giudiziaria. Il 15 giugno 1736 un ulteriore Dispaccio
specificò che «per le cause di gravami tra il Barone e il vassallo procede il
Sacro Consiglio; per le cause de’ Corpi Feudali procede la Sommaria»243.
Questa divisione delle competenze delle diverse corti non si confaceva
affatto all’ibrida materia del contendere portando così la causa a
incancrenirsi in una sorta di limbo giudiziario per circa un decennio. La
vicenda ritornò in auge nel 1746, anno in cui anche il Capitolo Cattedrale di
Molfetta fece ricorso al Re spiegando
che si trovavano da molto tempo alienati in potere del Barone li corpi
più speciosi, e fruttiferi della medesima, per cui ella si trovava in
angustie, e perché li cittadini avviliti dalla potenza del Barone non
ardivano dimandarne la reintegrazione, la quale volea far seguire;
perciò, implorava la Real clemenza di ordinare al Sagro Consiglio, che,
comparendo, facesse pronta, e spedita giustizia244.
Come vedremo, il Capitolo intendeva impedire qualsiasi “concordia” o
“accomodo” tra l’universitas e gli Spinola. Una transazione infatti pareva
essere in corso tra le parti e si riteneva che, se fosse andata a buon fine, si
sarebbe rivelata lesiva degli interessi della città.
Dopo l’associarsi e l’uniformarsi alle ragioni del Capitolo dei sindaci Ciro
Saverio de Luca per i nobili e Salvatore Fraggiacomo per i populares, dopo
diversi passaggi dalla Real Camera di Santa Chiara al Sacro Regio
Consiglio, la causa giunse alfine a esser decisa il 16 giugno 1749 a opera
della Regia Camera della Sommaria, che il 25 settembre emanò un nuovo
Michele Colaianni riportato da D. Magrone La fine del dominio feudale in un Comune della Puglia,
Molfetta 1900, pp. 11 e ss.
242 «quei medesimi [i nostri avvocati in Napoli] si sono ristuccati vedendosi che si tira avanti in dette
cause senza riflesso alcuno». Ibidem
243 C. Pisani, Lo Jus Moliendi, cit, p. 24
244 Ibidem
73
decreto con il quale si stabiliva che l’universitas fosse reintegrata nello ius
moliendi e nel possesso dei molini.
Il Principe rimaneva però creditore dei primigeni 7.500 ducati, il quantum
della citata vendita, che la città avrebbe dovuto restituire con un pagamento
annuale di 350 ducati245. Ma il contenzioso non cessò neppure allora,
proseguendo per oltre un lustro tra eccezioni e impugnazioni246. Si può dire
che la materia del contendere ebbe finalmente termine quando la città
potette nuovamente riacquisire l’appellativo di regia, ossia nel 1798.
Ciò che di fatto Molfetta da sempre anelava, oltre alla piena autonomia
nell’esigere e riscuotere in toto i tributi dovuti, era l’assenso regio che
sancisse lo spasimato ritorno dell’universitas al demanio, perdendo in
questo modo definitivamente la denominazione di infeudata, acquisendo un
grado maggiore di nobiltà per i propri ottimati e tornando anche de iure a
esser avulsa da qualsivoglia figura baronale. Questo desiderio venne infine
soddisfatto attraverso la Gratia concessa da Ferdinando IV il 14 maggio 1798
con la quale Molfetta riconquistò l’agognata condizione di città demaniale,
per quanto questa definizione avrebbe avuto senso ancora per pochi
lustri247.
4.1.1. «Gli Molfettesi sono teste malsane»: una lettera inedita del 1750
Questo l’antefatto che precede una lettera inedita a firma di Paolo Spinola
e indirizzata al fratello Luca, il primo vicario generale del padre Francesco
Ivi, p. 25 (notizie tratte da ACM, ms 124, Litigio tra la casa Spinola e l’Universitas di Molfetta)
ACM, ms 124, Litigio tra la casa Spinola e l’Universitas di Molfetta
247 “che il feudo di Molfetta sia intestato alla stessa Università per essere ella reintegrata nei suoi
antichi privilegi, e quindi godere di un perpetuo demanio” in Lettera di Giuseppe Poli, Tommaso Filioli
Effrem, Giuseppe Arciprete Giovene al Vescovo di Molfetta, Gennaro Antonucci, “datata 1 fbre 1798, in cui
si annunzia la concessione della Gratia regia della riconquistata demanialità” in ACM , ms 124, Litigio
tra la casa Spinola e l’Universitas di Molfetta
245
246
74
Maria seniore prima e del fratello Gian (o Gio.) Filippo poi, il secondo Conte
di Siruela ben inserito nella nobiltà madrilena248.
Naturalmente i tempi necessari affinché le missive potessero giungere a
destinazione erano tutt’altro che celeri e determinate distanze venivano
coperte in un lasso di tempo piuttosto considerevole. Di tali difficoltà
troviamo riferimento anche in una lettera antecedente sempre inviata a Don
Luca da Marco Imbonati nel 1736:
la lettera fortunatissima che da V.E. solo ieri ho ricevuto in data delli 4
novembre dello scorso anno indica che non ne ho ricevuto verun altra
prima e che lo sbaglio proceda apporto o dalla Posta o dalla grande
lontananza del Paese in cui Vostra Ecc.za si ritrova; che se io prima
d’ora han così avuto il gran contento di ricevere sue lettere, può ben
ella immaginare quanto sarei statto sollecito nel rispondere, sì per la
stima, sì per l’affetto che anche io grande le professo.249
La risposta di Luca Spinola all’Imbonati (che presumibilmente aveva col
medesimo un rapporto di patronage) era giunta dopo circa cinque mesi.
Paolo Spinola, del tutto ignaro che il fratello fosse deceduto il 3 luglio 1750,
gli scrisse il 24 di quello stesso mese in risposta a una missiva di Luca del 7
giugno, rappresentandogli in modo semplice eppure esaustivo i rapporti
tra la famiglia e Molfetta.
L’uomo aveva infatti redatto il resoconto della recente evoluzione di
quelle annose vicissitudini giudiziarie che avevano come protagonisti il
Principe e l’universitas. V’è in questa lettera la perfetta fusione di pubblico e
privato degli Spinola in una narrazione dal tono intimo e confidenziale di
un evento tutt’altro che tale: una delle eccezionali circostanze in cui l’utile
padrone si era portato fisicamente a Molfetta.
L’eloquio distaccato e formale con il quale la lettera è scritta era proprio
delle famiglie aristocratiche, in seno alle quali sovente fedecommesso e
“è stata occasione di grande allegrezza per il contento che V.E. ne haveva ricavato da un
collocamento sì Nobile: solo temo che coll’essersi accasato costì in Madrid, Dio sa quando più averò
il contento di vederla e di darle un stretto abbraccio” APGS, Fondo Spinola,”Lettera di Marco Imbonati
a Don Luca Spinola, Milano marzo 1736”, (III Appendice documentale)
249 APGS, Fondo Spinola, “Lettera di Marco Imbonati a Don Luca Spinola, Milano marzo 1736” (III
Appendice documentale)
248
75
primogenitura rendevano diversa la posizione dei figli anche nella rete di
relazioni parentali250. Nel caso di specie si rinvengono anche posizioni
gerarchiche all’interno dello stesso contesto familiare, come quella rivestita
da Gio. Filippo, che il cadetto Paolo indicava con un deferente «Sig.
Principe». I titoli vantati dal fratello maggiore ponevano infatti i cadetti in
«un tal qual sentimento di figli verso il primogenito»251 e, pertanto, in
evidente stato di subordinazione verso quest’ultimo.
Tra pari come erano Paolo e Luca il pronome allocutivo «voi» e l’uso di
«caro fratello» erano invece propri del rapporto fraterno tout court e quindi
finanche confidenziali252. Nell’ambito di questa relazione sullo stesso piano
il racconto di Paolo presentava toni quasi ingenui, dai quali si evinceva ciò
che era ormai evidente e insanabile: il conflitto tra la nobiltà cittadina e il
principe. La presenza del minore degli Spinola, che a Molfetta dimorava
quasi stabilmente essendosi dotato anche di un palazzo, era diventata
oltremodo ingombrante sia per l’universitas sia per il Capitolo di Molfetta.
Ma per meglio comprendere tale stato di cose è necessario fare un piccolo
salto temporale. Il 18 marzo 1726 venne emanato l‘editto con cui Fabrizio
Antonio Salerni, vescovo di Molfetta dichiarava la convocazione del Sinodo
diocesano per la domenica del 28 aprile successivo nella Chiesa
Cattedrale253. La celebrazione subì ripetuti rinvii sino al 15 settembre e in
quella circostanza, consapevole della portata dell’evento, il figlio cadetto di
Francesco Maria seniore pensò bene di significare la partecipazione degli
M. Barbagli, Sotto lo stesso tetto. Mutamenti della famiglia in Italia dal XV al XX secolo, Bologna 1984,
pp. 283-284
251 Così descrive Cesare Balbo la relazione tra il figlio cadetto e il primogenito nella sua opera postuma
Pensieri ed esempi, Torino 1854, p. 133, citato sempre da Barbagli, cit., pp. 284 e ss.
252 Ivi, pp. 282 -284
253 Palese cita come fonte Synodus ab illustriss. et reverendiss. domino D. Fabrizio Antonio Salerni episcopo
melphicten S. Sedi immediate subiecto celebrata in Cathedrali Ecclesia Melphicten die XV septembris
MDCCXXVI praesulatus sui anno duodecimo Benedicto XIII pontifice maximo, Romae ex typographia Rev.
Cam. Apostolicae 1726. Cfr. S. Palese, Controversie giurisdizionali e problemi pastorali nella Molfetta del
Settecento. Il Sinodo del 1726, in G.Bellifemine (a cura di), Molfetta nei secoli, studi storici, Molfetta 1976,
pp. 65 e ss.
250
76
Spinola alla vita della città attraverso l’apposizione del tronetto baronale
nella Cattedrale254.
Il tutto suscitò la prevedibile costernazione dei presenti e la repentina
reazione del vescovo, che provvide nell’immediato a emettere un editto
contro chiunque «si facesse apparecchiare in chiesa, dentro o fuori il
Presbiterio lo strato ne sedia elevata con gradini e suppedaneo, ne si serva
di quelle per genuflettere ne di questa per sedere»255. Tra l’altro vi era già
stato un precedente diniego alla stessa richiesta di Paolo pervenuta nel
luglio dello stesso anno, «non più contento dei segni di riguardo che aveva
ricevuto dal momento della sua venuta in città» 256.
Il tronetto faceva però bella mostra di sé in tutte le chiese della città,
ragion per cui pareva opportuno al giovane Spinola godere della stessa
privilegiata posizione anche nella cattedrale, a dispetto dei precedenti editti
del vescovo in materia257.
Si tratta dello stesso tronetto reclamato poi nel 1729 anche dal sindaco
dei nobili, richiesta manovrata da quel Filioli di cui parla Paolo nel
resoconto che fa al fratello258. In quel frangente dinanzi agli ordini impartiti
direttamente da Gio. Filippo in visita alla città e appena insediatosi come
principe259, che, come primogenito, rivestiva il ruolo di pater familias260, il
cadetto pose fine suo malgrado alla «contesa» e «senza altre pretese accettò
il trattamento riservatogli dal vescovo nella cattedrale»261.
Ci si riporta per l’episodio a una minuta del 1739 del Vescovo Salerni in S. Palese, Controversie
giurisdizionali, cit., p. 83
255 L’Editto proibitivo in chiesa di sedia elevata viene riportato in S. Palese, Controversie giurisdizionali,
cit., p. 83, traendolo dal compendio di editti vescovili, Editti e disposizioni di Mons. Antonio Fabrizio
Salerni in ACM, Fondo Curia, ff nn post 54 .
256 Notizie ricavate da una lettera del vescovo Salerni a una congregazione, in S. Palese, Controversie
giurisdizionali, cit., p. 81
257 Ivi, p. 82
258 Ivi, p. 103
259 Si può ipotizzare che oltre al primo insediamento del principe, Gio. Filippo stesse tentando come
primo atto di risolvere in via bonaria la questione dello ius moliendi.
260 M. Barbagli, cit., pp. 284 e ss.
261 S. Palese, Controversie giurisdizionali, cit., p. 84. La notizia è raccolta da una minuta del vescovo
Salerni del 1739 in Editti e disposizioni, cit., f 83r, ACM Fondo Curia
254
77
Questa ricorrente rivendicazione del medesimo oggetto, simbolo di
potere da parte sia di chi rappresentava l’universitas sia di chi era vicario del
principe – contrasto di cui vi fu notizia anche nel 1738262 - rifletteva quella
dualità, quella equiparazione che si voleva imporre a Molfetta tra la
posizione di feudatario e quella di guida della città263. Era ormai chiaro che
infeudata non volesse dire soggetta ineluttabilmente ai voleri dell’utile
signore, considerato puro simulacro di se stesso, giammai tangibile e
presente nell’immaginario dei molfettesi.
Il valore emblematico di quello che non era un mero elemento
dell’arredamento della Cattedrale è possibile ricavarlo attraverso il
parallelo con le vicende di Andria, ove l’introduzione del tronetto baronale
era stata disposta dal vescovo stesso, dapprima con Beatrice d’Angiò264 e
successivamente anche con i Carafa265. La presenza costante del signore
della città aveva quasi reso necessario che questi avesse il proprio scranno
di fronte a quello del vescovo266. Potere sacro e profano erano così
visivamente posti l’uno di fronte all’altro su un piano di parità.
Ivi, p.103. Si fa riferimento a una relazione ad limina datata 12 maggio 1742 del vescovo Salerni,
ACM ff 106r ff 106v.
263 “L’Università rivendicava il “tronetto” per il sindaco nelle chiese e contestava lo ius moliendi al
principe Spinola”. Palese si riporta alla Lettera della Giurisdizione, Libro Rosso, ff. 308 v, 309 r, in
Controversie giurisdizionali, cit., p. 101. Sulla mancata subordinazione dell’universitas al feudatario cfr.
G. Vallone, Feudi e Città, cit., pp. 236-237
264 “Il Capitolo della Cattedrale ringraziò per tale dono permettendo l'introduzione di un Tronetto
Baronale, all'interno della Cattedrale, di fronte a quello del Vescovo. A questo Tronetto, che rimase a
disposizione delle famiglie Ducali per i secoli a venire, si accedeva dal Palazzo Ducale attraverso una
porta, oggi murata, che si apriva all'interno di un ambiente indicato nei documenti come ‘stanza del
Tronetto’” in G.M. Roberto Palazzo Ducale di Andria, Bari 2001 p. 10
265 “L'uso di questo Tronetto Baronale fu ereditato anche dalla famiglia Carafa”, Ivi, p. 17
266 “1691, anno in cui, in seguito alle dispute tra Fabrizio V Carafa, allora Duca, ed il Vescovo Vecchia,
(il tronetto) fu portato via dalla Cattedrale e bruciato dai cittadini andriesi in Piazza La Corte.
L'avvenimento portò ad un cambiamento importante: il Tronetto non fu più portato nella Cattedrale,
interrompendo così i rapporti tra la Famiglia Ducale e la Chiesa, ed inoltre imponendo la chiusura
della porta che collegava il Palazzo con la Cattedrale. Solo nel 1744, con il Vescovo Mons. De Anellis,
il quale fece costruire un magnifico trono episcopale, si ripristinò il Tronetto Baronale e
contestualmente la riapertura della porta che collegava il Palazzo alla Cattedrale; di certo la sua
attuale chiusura non è documentata ed è sicuramente successiva all'arrivo della famiglia Spagnoletti
al Palazzo” Ivi, pp. 17-18
262
78
La vicenda non era mai stata oggetto di discussione all’interno della
compagine cittadina, eccezion fatta per la parentesi intercorsa dal 1690 al
1744 a seguito di una disputa tra il duca e il vescovo, che aveva poi portato
a una rivolta popolare e a svellere fisicamente l’oggetto, come a cancellare
l’esistenza stessa del feudatario. A questo era poi seguita la chiusura anche
di quel passaggio diretto tra il palazzo ducale e la cattedrale267, segnale
inequivocabile della perduta armonia tra il Capitolo e il duca.
Grazie all’intervento del vescovo de Anellis che ripristinò il tronetto e il
collegamento al Palazzo, i Carafa riassunsero anche visibilmente il proprio
ruolo nella vita cittadina e, a maggior ragione, rendendolo ancor più
tangibile durante il principale momento di aggregazione sociale: la
celebrazione della messa. Amico di Casa Carafa, Mons. De Anellis fece
rinascere nella Chiesa Cattedrale il Trono Baronale, fatto costruire di fronte
a quello Episcopale, dal quale non differiva per la eleganza della forma, per
la ricchezza degl’intagli e degli ornati, decorati egualmente ad oro
zecchino268.
Se Andria ritornava a contemplare nitidamente la figura del proprio
signore al pari di quella del vescovo nella cattedrale, lo stesso evento non
poteva consumarsi placidamente a Molfetta. Il cadetto Paolo non possedeva
certo la stessa aura che circondava un feudatario investito del titolo; pur
rivestendo la posizione di generalis gubernator non poteva sopperire a quello
scollamento che si era già ineluttabilmente consumato tra la casata cui
apparteneva e l’universitas.
Il distacco della città dalla famiglia Spinola era evidente anche nel
reiterato rifiuto di una risoluzione stragiudiziale di quella vicenda che viene
identificata – nonostante i ben dieci punti di gravame - come il “litigio per
lo ius moliendi”269.
Ivi, p. 10
M. Agresti, Il Capitolo Cattedrale di Andria ed i suoi tempi, Andria 1912, vol.I, cap. XIV, p. 306
269 ACM, ms..124, Litigio tra la casa Spinola e l’Universitas di Molfetta
267
268
79
I molfettesi non vollero recedere dalle proprie rivendicazioni neppur
dinanzi all’avvento del principe, che aveva impugnato il provvedimento
del 1749 opponendo eccezioni di nullità presso la Regia Camera della
Sommaria e che era tuttavia intenzionato a risolvere in via conciliativa il
tutto270.
Prima si vedrà che può conseguire il Sig. Principe da Sua Maestà,
giaché la di lui andata a Molfetta è stata inutile, non avendo gli
Molfettesi voluto accettare partito alcuno, anziche il Canonico Lupis,
ch’anni sono in Voghera fu’ tanto favorito dal Duca, ebbe ardire di dirli
in faccia:”Sig. Principe, non occorre ch’ella si lusinghi, non si vuole
accomodo”271.
Fiero diniego si manifestava alla richiesta di accomodo dunque,
malgrado il principe avesse adottato un atteggiamento meno spavaldo
rispetto a quello del cadetto. Gio. Filippo non volendo «dar ombra a
Molfettesi d’intelligenza»272 non desiderava invero esser accomunato a
Paolo nella cui casa pertanto non alloggiò. Egli preferì così la sobrietà di
ospiti super partes, i padri gesuiti, pur lasciando che il resto della famiglia si
sistemasse comunque nel palazzo del fratello, che aveva appositamente
allontanato durante lo svolgersi della propria visita alla città.
Paolo se ne dolse infatti nella lettera indirizzata a Luca.
In Molfetta io non mi portai con il Sig. Principe, mentre esso
espressamente lo vietò, dicendo che voleva andar solo, anzi che non
volle ne pure accettare l’alloggio in mia casa, come io lo pregai,
adducendo motivo che non voleva dar ombra ai Molfettesi
d’intelligenza, onde io mi sono intieramente uniformato ai suoi voleri,
e solo ho eseguito il suo dettame; e, quindi, alloggiò dai Padri Gesuiti,
e la di lui famiglia nella mia casa.
«Avverso del qual decreto si presentarono dal Procuratore dell’Ecc.mo Sig. Duca alcuni capi di
nullità, e nello stesso tempo domandò che, qualora quello avesse dovuto confermarsi dallo stesso
Tribunale della Regia Camera, si fosse ordinata l’abolizione della ragione proibitiva, che si impose in
detto anno 1641, e che fosse permessa ad ogni anno la libertà di tenere centimoli e macinar grani, ove
li fosse piaciuto, e che esse Ecc.mo Sig. Duca si fosse assoluto dalla pretenzione dell’Università
relativamente ai frutti e sopra quello che essersi riserbato la provvidenza nell’antecedente decreto»
(ACM, ms..124, Litigio tra la casa Spinola e l’Universitas di Molfetta)
271 APGS, Fondo Spinola, Lettera di Don Paolo Spinola al suo Sig. fratello Don Luca Spinola (IV
Appendice documentale).
272 Ibidem
270
80
Tutto ciò non scalfì minimamente l’unità d’intenti familiare che la presenza
di Gio. Filippo a Molfetta aveva il mero scopo di consolidare. Vi era un
profondo spirito di collaborazione273 che la gerarchia di poteri intrafamiliari
non era riuscita a destabilizzare, poiché quel divario tra primogenito e
cadetto «non era percepito generalmente come ingiusto o inopportuno»274.
Io prego il cielo che il Sig. Principe ottenga qualcosa avvantagiosa da
Sua Maestà, il che si vedrà dimani nel presentarsi il memoriale, giaché
il Popolo, che è stato a me sempre favorevole e dalla mia parte, ha
firmato, in numero di 600 e più, una procura e un memoriale diretto a
Sua Maestà, richiedendo di volere l’accomodo.
Dovrebbero queste scritture firmate da tanto numero di gente fare
nello animo del Sovrano qualche impressione, ma pure io non so
animarmi a sperarlo. Dio e la Vergine Santissima siano però quelli che
ci aiutino275.
Le speranze riposte dal minore degli Spinola nel più autorevole fratello non
trovarono però esaudimento. La città si oppose ancora una volta a risolvere
in via transattiva ciò che riteneva fosse stato un reiterato ed evidente abuso
perpetrato ai propri danni per oltre un secolo276.
Nella parte conclusiva della missiva Paolo scrive: «Il Duca e nostro fratello sta di tutto inteso e mi
sollecita per il suo affare, onde, in questa mia breve absenza, mi rimetto a quanto vi ragguaglierà il
Principe, con il quale ho fissato andar dimani dal Marchese Ferrante, per averlo sempre più propitio».
Non sappiamo se il «Duca nostro fratello» sia Ambrogio o si parli sempre di Gio. Filippo, visto che
dei titoli del primo non abbiamo traccia; in ogni caso l’unità familiare rimane preservata nel fare
visita congiuntamente, primogenito e cadetto, al Marchese de Ferrante, Commissario della Real
Camera della Sommaria, probabilmente, sempre per agevolare le questioni giudiziarie di cui sopra,
visto che pendevano le eccezioni di nullità proposte dal Principe avverso il provvedimento del 16
giugno 1749 (vedi Appendice documentale IV, nonché ACM, ms. 124, Litigio tra la casa Spinola e
l’Universitas di Molfetta).
274 E. Papagna, Sogni e bisogni di una famiglia aristocratica. I Caracciolo di Martina in età Moderna, Milano
2000, p. 10
275 APGS, Fondo Spinola, Lettera di Don Paolo, cit.
276 «Contro questo Decreto il Procuratore del Duca di S. Pietro presentò alcuni capi di nullità.
Riproposta nuovamente la causa nella stessa Regia Camera della Sommaria, il Presidente, Signor
Conte Don Cesare Coppola, Patrizio della città di Scala e Ravello, il 25 settembre 1750, emanò un
nuovo decreto con il quale, in maniera definitiva, si sentenziò che la richiesta di nullità avanzata non
sussisteva e, pertanto, quanto deliberato in precedenza restava confermato. Trascorso il tempo per
presentare un eventuale ricorso, la Regia Camera della Sommaria, su istanza dell’Università, il 2
ottobre 1750 spedì alla Regia Udienza Provinciale e all’Avvocato Fiscale le provisioni per l’esecuzione
del decreto del 25 settembre. I relativi provvedimenti giudiziali furono eseguiti il 10 ottobre (sabato).
Quel giorno a Molfetta giunsero un Tenente di compagnia, sette soldati a cavallo e l’Avvocato Fiscale
della Sacra Regia Audienza (con sede in Trani) per dare all’Universita il possesso del ius moliendi. E
così, dopo cento nove anni, seppur la causa ebbe un ulteriore seguito, Molfetta fu reintegrata nel suo
antico diritto chiamato ius moliendi» C. Pisani, Lo ius moliendi, cit., p. 25
273
81
Il Sig. Principe ha fatto quanto poteva et ha pensato quanto era
possibile, ma vi sono cinque o sei capi, che non hanno che perdere, e
mettono sotto sopra tutto il pubblico, e due di essi sono l’Arcidiacono
Filioli e Ciro De Luca277.
Cognomi noti e ricorrenti a Molfetta. Ciro Saverio de Luca sindaco del
seggio dei Nobili unitamente all’Arcidiacono Filioli scombussolarono i
piani del principe278. Ma chi era quest’alto dignitario del capitolo cattedrale,
“compagno d’armi” del de Luca?279
A far data dal 1727 circa sul proscenio molfettese apparve e «cominciò a
diventar sempre più presente nella vita cittadina l’arcidiacono Nicolò Filioli
che rientrato da Napoli era stato lasciato in ombra durante la celebrazione
277
Ibidem
278“Standosi
adunque in questa risoluzione, essendosi avuta apertura di determinarsi tutte le liti
suddette amichevolmente e con amichevole composizione con esso Ecc.mo Sig. Duca, per ciò
pensando all’utile e vantaggio che verrebbe al pubblico dalla concordia, la quale pure per parte di
esso Ecc.mo Signore si promuoveva e desiderava per darsi fine a quei inconvenienti, che seco
portavano le liti, per ciò, sotto il 3 agosto del presente anno, legittimamente congregati et parimenti
conchiuso e determinato che si eligessero due deputati, e furono eletti essi don Ciro Saverio De Luca
e don Leonardo Fragiacomo, li quali, col savio parere del Sig. Avvocato Nicolò Filioli, dovessero
trattare e ridurre a capo di quiete le consapute controversie, come da detta conclusione, copia di cui
s’è inserito à piedi del presente istrumento” in ACM, ms. 124, Litigio tra la casa Spinola e l’Universitas
di Molfetta.
279 «Arcidiacono (dal gr. ἀρχιδιάκονος "primo dei diaconi, dei ministri"; fr. archidiacre; sp. arcediacono;
ted. Archidiakonus; ingl. archdeacon). Questo titolo comparisce nel sec. IV, e dapprima non volle
indicare che l'anziano per età fra i diaconi, ma ben presto furono affidati a lui dal vescovo speciali e
delicati uffici, e Così, più che all'età, si badò alle qualità; talora era scelto ed eletto dai diaconi stessi,
talora dal vescovo. Oltre il diritto di cantare il vangelo nella messa pontificale, ebbe anche la carica di
capocantore, e a lui spettava il canto dell'Alleluia, l'amministrazione dei beni della Chiesa, e autorità
disciplinare sul clero; quindi (in Occidente, verso la fine del sec. VIII) ebbe anche giurisdizione, prima
solo sui chierici inferiori, poi anche sui laici, specie in materia contenziosa, onde a poco a poco
divenne il vicario generale del vescovo, alla morte del quale teneva il governo temporaneo della
diocesi. Cresciuta così l'importanza di tale dignità, gli arcidiaconi non vollero più essere promossi al
sacerdozio, perché allora passavano in un rango inferiore. Verso il sec. IX si cominciò a distinguere le
mansioni dell'arcidiacono dall'ordine diaconale; si ebbero perciò sacerdoti con titolo e uffici di
arcidiacono, e furono loro riconosciuti dal diritto canonico le prerogative e i privilegi del vicario
generale del vescovo. Nello stesso tempo, l'arcidiaconato divenne la prima delle dignità canonicali
delle cattedrali, come ancor oggi si osserva in moltissimi capitoli. Dal sec. XIII però l'arcidiacono ha
cessato di essere per diritto vicario generale, e il concilio di Trento ha quasi annullato, riducendola a
poco più di un titolo, la giurisdizione dell'arcidiacono; essa rimane, fra i protestanti, all'arcidiacono
anglicano.
L'arcidiacono della chiesa romana, o cardinale protodiacono, ha il privilegio di pubblicare l'elezione
del papa, e d'imporgli la tiara nell'incoronazione, e di dare il pallio agli arcivescovi». Cfr.: voce
Arcidiacono di Leone Mattei Cerasoli, Enciclopedia Italiana, 1929; Bibl.: Schröder, Die
Entwicklung des Archidiaconats bis zum XI Jahrhundert, Monaco 1890.
82
del Sinodo»280. Il suo nome non era infatti annoverato tra gli eletti del
Sinodo del 1726281. Ciononostante, egli riuscì successivamente a consolidare
il proprio prestigio all’interno della vita cittadina, anche attraverso azioni
fraudolente282 e «non ce lo sapremmo immaginare estraneo all’iniziativa
dell’università per il sindaco nelle chiese e che contestava lo ius moliendi al
principe Spinola»283. L’opposizione del Filioli al potere feudale fu tale che
nel 1738 Paolo Spinola decise per la sua carcerazione284. Questo non impedì
all’uomo nel 1744 di farsi paladino della ripresa dell’azione giudiziaria
dell’università contro il vicario.
Non pago, l’arcidiacono riuscì poi nel 1746 a far intervenire il Capitolo
«per raddrizzare le cose di questa università già decadute senza speranza
di soccorso de secolari per varie caggioni impediti a poterlo prestare» e per
far rimuovere «dal suo esercizio l’attual sindaco del popolo come quello che
contribuisse molto per la presente oppressione»285. Il Filioli fu accusato di
essere di «siffatta indole torbida e litigiosa, che non potendo vivere senza
eccitar controversie, metteva sossopra quel pubblico, avviluppandolo in
continui litigi», come riportato dal suo stesso difensore286. Era indubbio
quindi che potesse davvero mettere «sotto sopra» anche le intenzioni del
Principe, d’altra parte faceva parte del collegio difensivo dell’universitas e
fors’anche con una dose eccessiva di veemenza ne tutelava i diritti.
Il nome del Filioli non si trova tra i componenti del sinodo, Palese cita come fonte Synodus ab
illustriss. et reverendiss. domino D. Fabrizio Antonio Salerni episcopo melphicten S. Sedi immediate subiecto
celebrata in Cathedrali Ecclesia Melphicten die XV septembris MDCCXXVI praesulatus sui anno duodecimo
Benedicto XIII pontifice maximo, Romae ex typographia Rev. Cam. Apostolicae 1726, pp. 9-10, 121-122,
154 e ss. in S. Palese, Controversie giurisdizionali, cit., p. 100
281 “Singolare ecclesiastico molfettese divenuto arcidiacono in giovane età, solo per essere nipote del
precedente arcidiacono”. S. Palese, Controversie giurisdizionali, cit., p. 100
282 “non ebbe scrupoli a falsificare documenti […] forse sostenne l’Università che andava a muoversi
contro il Capitolo per la questione della Porta della Città […] Avvocato del Capitolo si dimostrava
negligente a concludere”, Ivi, pp.100-101
283 ACM, “Decisioni decurionali 1 gennaio 1749”
284 S. Palese, Controversie giurisdizionali, cit., p. 103
285 ACM, Libro delle Conclusioni Capitolari 1738/1746, “Dichiarazione di 4 canonici”
286 Palese trae le sue informazioni dallo scritto difensivo Per l’Archidiacono d. Nicola Filioli, Napoli 1747,
p. 5
280
83
I populares erano, come già era avvenuto al momento dell’infeudazione
di Molfetta ai di Capua287, più vicini alle posizioni del feudatario e di chi lo
rappresentava piuttosto che a quelle dei concittadini della prima piazza.
Don Paolo nella lettera al fratello Luca asseriva convinto: «il Popolo, che è
stato a me sempre favorevole e dalla mia parte»288. Si presuppone che fosse
la mera prima piazza a non tollerarne l’”oppressiva” presenza. Egli
destinava perciò un giudizio inequivocabile ai cittadini dell’universitas:
Gli molfettesi sono teste malsane e hanno fatto andare in disperazione
gli Ministri della casa, come è seguito a Cavagnaro Baguer et altri, che
poi hanno le liti portato grandissimi dispendi alla Casa, e l’abbate
Massa richiesto dalla felicità medesima di nostro Padre che ritornasse
nel 1725 a riprendersi la coministrazione di Molfetta senza gl’altri
Feudi, ne pure volle accettarla289.
Non v’è tema di equivoco nell’interpretare letteralmente il giudizio di Don
Paolo nei confronti dei molfettesi, per quanto egli si riferisse molto
probabilmente, e per coerenza con le proprie precedenti asserzioni, ai soli
nobiles della città.
La circostanza che Gio. Filippo preferisse che il fratello non fosse sul
posto al momento della sua eccezionale comparsa in Molfetta faceva
comprendere quanto malvista fosse la figura dell’orgoglioso cadetto
Spinola. La posizione di figlio secondogenito non era di certo comoda, la
possibilità di esser riconosciuto signore di un feudo, seppur per interposta
persona, rappresentava una sorta di riscatto sociale. Don Paolo si era di fatto
comportato come padrone della città con le luci e le ombre del caso e anche
con una certa presunzione delle proprie prerogative, così come nella
vicenda dell’imposizione del tronetto baronale a dispetto delle disposizioni
capitolari.
Vi è una strana suggestiva coincidenza tra i tempi della diatriba
giudiziaria e il periodo in cui il cadetto Spinola si insediava all’interno delle
F. Lombardi, cit., p. 122
APGS, Fondo Spinola, “Lettera 1750” cit. (IV Appendice documentale)
289 Ibidem
287
288
84
mura cittadine, finanche con una dimora fissa e riconoscibile. E’ forse il suo
esser troppo presente il reale motivo di cotanta avversione alla famiglia, i
cui membri sino ad allora erano sempre stati confinati nei loro palazzi a
Genova, a Milano e a Madrid cum summo gaudio et libertate soprattutto della
prima piazza molfettese?
Non a caso tra i motivi di gravame vi sono chiari riferimenti alla gestione
“disinvolta” dei privilegi feudali, da parte del giovane vicario, sin dalla sua
comparsa.
Nel nono motivo di gravame dedusse che dalla venuta in Molfetta
dell’illustre Vicario Generale nell’anno 1726, si esige dall’Università, a
titolo di dono gratuito, ducati 500, che furono donati ai luoghi pii;
nell’anno 1728, a titolo di nuovo possesso dato all’odierno Sig. Duca,
succeduto a suo padre, si prese 900 ducati e, nel 1729, essendosi portato
il Sig. Duca in Molfetta, si prese, a titolo di donazione da detta
Università, altri ducati 1250, per le quali somme fece istanza obbligarsi
il Sig. Duca e Vicario alla restituzione di tutte le somme esatte per la
causa suddetta290.
L’assenza dei feudatari genovesi era stata sino a quel momento certamente
funzionale all’autonomia del potere locale gestita prevalentemente dai
nobiles. La lontananza dell’utile signore valeva bene persino il vulnus
economico dovuto dalla mancata piena riscossione della gabella dello ius
moliendi.
Don Paolo aveva rotto gli equilibri: il princeps si palesava sotto le mentite
spoglie del generalis gubernator e pretendeva finanche di perpetrare ulteriori
abusi feudali. Le “teste malsane” dovevano rispondere a questa
inaccettabile invasione: rivendicare la restituzione dell’antica imposta dello
ius moliendi era uno dei modi - forse l’unico - per circoscrivere
definitivamente l’autonomia della sfera giurisdizionale dell’universitas,
evitando in tal modo future indebite ingerenze feudali291.
ACM, ms. 124, Litigio tra la casa Spinola e l’Universitas di Molfetta.
Non a caso il nono non era il solo punto di gravame a interessare la condotta di Paolo e le ingerenze
baronali dirette o per interposta persona come nel caso di specie. “Nel settimo punto di gravame si
dedusse che, possedendo detta città la Bagliva, con l’ampia giurisdizione e con la facoltà di procedere
anche nelle cause di furti che si commettono in campagna di ogni genere di frutta e vettovaglie, ed
290
291
85
4.2.
L’eredità di Donna Isabella Maria Spinola Marchesa del
Fresno
Un’ulteriore e ingarbugliata vicenda giudiziaria coinvolse e divise per
decenni gli Spinola di San Pietro. La lunga lite prescindeva in qualche modo
dai protagonisti, trovando le sue premesse nella falsa convinzione che gli
interessi delle donne non potessero non coincidere con quelli dei loro padri,
dei loro fratelli e dei loro mariti e che pertanto un essere privo di autonomia
non poteva detenere il potere pubblico e neppur quello privato 292.
Entrata in società al tempo in cui ero ancora ragazza, ero votata per
condizione al silenzio e alla passività, ne ho saputo approfittare per
osservare e riflettere. Mentre mi ritenevano sciocca e distratta, a dire il
vero ascoltavo poco i discorsi che si affannavano a tenermi,
raccogliendo con cura quelli che cercavano di nascondermi [Madame
de Merteuil al Visconte di Valmont]293.
Silenzio e passività erano le virtù che si richiedevano dunque secondo
l’autore de Le relazioni pericolose a una nobildonna di Antico Regime.
Sciocchezza e distrazione ne rappresentavano i dovuti corollari.
Ma come nel famoso romanzo di Laclos le donne sapevano essere ben
più scaltre di come la misogina vulgata le dipingeva e le dipinge ancor oggi.
Isabella Maria Spinola Marchesa del Fresno non era affatto sciocca, né
tantomeno distratta, ella aveva solo un grave difetto: era un’indomita
creatura fuori dagli schemi del suo tempo.
Quegli stessi ricorrenti e consolidati schemi tuttavia la sconfissero.
La donna dovette affrontare l’invalicabile muro delle tradizioni feudali e
soccombere pur lottando, dimostrando che una femina aveva la forza e il
ancora la Portulania di Terra, la Zecca di pesi e misure, la Cattapania, nel qual quasi possesso
dall’illustre vicario era turbata; fece perciò istanza ordinarsi che l’Università non fosse turbata in
quello e che la Corte Baronale, l’illustre Principe e suo Vicario non s’ingerissero nelle cause
appartenenti alla stessa per il titolo suddetto” in ACM, ms. 124, Litigio tra la casa Spinola e l’Universitas
di Molfetta.
292 N. Zemon Davis, Donne e politica, in Duby e Perrot (a cura di), Storia delle donne dal Rinascimento
all’Età Moderna, Roma – Bari 1991, pp. 201 e ss.
293 P. Choderlos de Laclos, Le relazioni pericolose, trad. e introduzione Bruno Nacci, Firenze 2006,
Lettera LXXXI, p. 228
86
diritto di non soggiacere passivamente a quella notoria condizione di
infirmitas sexus, che non già la natura ma le leggi degli uomini le avevano a
torto attribuito.
4.2.1. Un padre amoroso e una controversa Primogenitura
E nel rimanente resterà erede di tutti i miei beni mobili, stabili, rendite,
diritti, e azioni, che tengo e possederò, e mi appartengono, e possono
appartenere per qualsivoglia titolo o ragione, che sia, fo, e nomino per
mia UNICA E UNIVERSALE EREDE L’Eccellentissima Signora Donna
Isabella Maria Spinola mia figlia294.
Queste le parole contenute nel testamento di Francesco Maria Spinola del
1753: egli non aveva seguito la consuetudine invalsa del fedecommesso, non
aveva escluso la figlia dalla successione nei beni feudali.
Tra il «rimanente» v’era il Feudo di Molfetta destinato a Isabella,
seguendo lo ius commune, che non opponeva alcuna differenza per sesso
nella successione dei Feudi.295
Si assisteva alla nomina di una donna come erede universale seguendo i
dettami non già del diritto feudale ma di «tutte dunque le Leggi di Natura».
Così asseriva nei propri atti il più famoso tra i difensori della Spinola296, e
da queste ultime volontà sin troppo inconsuete sorse una lite che sembrò
“infinita” e parve terminare solo apparentemente nel 1757, anno in cui
venne emessa una sentenza del Sacro Regio Consiglio favorevole alle
pretese del fratello del defunto a discapito della sua diretta discendente.
Le grandi ricchezze che avevano all’interno cespiti di natura feudale non
soggiacevano infatti al diritto comune ma a quello feudale297. Le
C. Franchi, Esamina di Ragioni delle nullità proposte a nome della Signora Marchesa del Fresno, Donna
Isabella Spinola avverso la sentenza interposta dal S.R.C. a’ 9. Luglio del 1757. A favore del Signor D. Giuseppe
Spinola, Biblioteca Nazionale di Napoli Vittorio Emanuele III (d’ora in poi BNN), 1758, p. IV
295 Ivi, p. VI
296 “Ma in quegli ultimi momenti di sua vita in vece di nodrire quei sentimenti di fasto, di gloria, e di
ambizione, che sogliono regolarmente allignare negli animi de Grandi, gli si risvegliarono le leggi
della Natura, e del Sangue : e si ricordò soltanto di essere padre amoroso”. C. Franchi, cit., p. V
297 A. Berrino, L’eredità contesa, Bari 1999, p. 108
294
87
costituzioni federiciane di Melfi del 1231 erano state il primo tentativo di
unificare le coutumes feudali e di imporre un modello di successione fondato
sui principi prevalentemente patrilineari alla base di quel corpus feudale che
si era formato e consolidato nel Mezzogiorno sin dal XIII secolo 298.
La progressiva trasformazione delle pratiche successorie modellate sul
diritto feudale avvenne in modo lento e graduale. Si assistette a un primo
periodo tra il XIV e il XV secolo in cui la nobiltà dispose in materia
successoria il mero frazionamento del possesso feudale, affinché ciascun
ramo della famiglia potesse godere di diritti signorili. Successivamente, a
partire dalla metà del XVI secolo, si giunse alla indefettibile necessità di una
serrata oligarchica in virtù dell’eccessiva liberalizzazione del mercato
feudale oltre al dilagante fenomeno dell’indebitamento baronale. Si
ripristinò così la primogenitura: «la pratica che prevede[va] a ciascuna
generazione un unico erede, sostenuta e realizzata mediante testamenti
arricchiti di fedecommessi, rinunce e sostituzioni»299.
Anche questa vicenda doveva rientrare in questo modo “nella norma”
pur in presenza di un – per quanto misero - riferimento nelle volontà
dispositive di Francesco Maria a favore di Giuseppe Spinola: un altrettanto
controverso legato.
A favore di D. Giuseppe non leggeansi, che queste semplicissime
parole: «E in quanto al Ducato di S. Pietro , succeda in esso il mio
Fratello a cui spetta»300.
La Gran Corte della Vicaria prima, il Sacro Regio Consiglio poi si espressero
in diverso modo sulla vicenda, ma l’esito fu sempre difforme da quanto
disposto dal testatore.
La Marchesa del Fresno tuttavia non si arrese: proseguì a dispiegare
eccezioni di nullità, logicamente e giuridicamente fondate, che però non
M.A. Visceglia, Linee per uno studio unitario dei testamenti e dei contratti matrimoniali dell'aristocrazia
feudale napoletana tra fine Quattrocento e Settecento, in «Mélanges de l'école française de Rome», Année
1983 95-1, p. 395
299 Ivi, p. 109
300 C. Franchi, Esamina di ragioni, cit., p. V
298
88
furono prese in considerazione alcuna, nonostante l'acume e l’abilità di
esperto giurista del suo difensore, Carlo Franchi, che le diede anche alle
stampe. Purtroppo la questione sottesa a quanto era stato deliberato, la
condizione necessaria e sufficiente che rendeva solo Giuseppe degno erede
di casa Spinola, risiedeva nel genere “difettoso” della discendenza diretta
di Francesco Maria, prima ragione di impugnabilità di quel testamento.
Nondimeno, non v’era un netto e inequivocabile riferimento legislativo
in materia. Nello ius commune non si riscontrava alcuna distinzione di
genere per le successioni ereditarie301. Il diritto feudale «nel segno
dell’agnazione e con assoluto vantaggio mascolino»302 «permetteva di
privilegiare un erede a discapito degli altri e serviva da fondamento a
fedecommessi, rinunce e sostituzioni, che si generalizzarono tra le famiglie
aristocratiche e feudali a partire dalla seconda metà del Cinquecento»303.
Il “sogno di immortalità” espresso con questo istituto, quella
emblematica formula in perpetuum o in inifinitum talvolta potevano anche
adattarsi alla semplice logica della discendenza diretta per quanto
femminile, visto e considerato che con la prammatica 34 del 1655 con cui
Filippo IV concedeva la libertà - non il dovere o l’automatismo - di ricorrere
ai fedecommessi con le dovute già citate limitazioni e lasciando sempre
individuo, intatto, il patrimonio feudale304.
Non esistevano solo feudi mascolini ma anche feminini. Non mancò infatti
Franchi di sottolineare che:
potea, ciò dirsi ne' Feudi Mascolini, e non già in quei Femminini, come
sono appunto i Feudi nel nostro Regno, che hanno per fondamento la
Successione Giustinianea, e l'amore del Sangue ...305
Il diritto romano, cui fece riferimento la difesa di Isabella, pur presupponendo la levitas animi e
l’infirmitas sexus propria delle feminae come ragione essenziale dell’istituto della tutela mulieris, ai cui
parametri dapprima stringenti aveva opposto deroghe, configurava l’istituzione come superata e
meramente formale; cfr. V. D’Amato, Femina callida, cit., pp. 12-17.
302 A. Berrino, cit., p. 111
303 G. Delille, Prefazione, in A. Berrino, cit., pp. 9-12
304 G. Delille, Famiglia e proprietà nel Regno di Napoli, Torino 1988, pp. 64-68
305 C. Franchi, Difesa a favore della signora duchessa di S.Pietro in Galatina, e principessa di Molfetta d.
Isabella Spinola contra il signor d. Giuseppe Spinola, Biblioteca Nazionale di Napoli Vittorio Emanuele
III, p. VI
301
89
I diritti di Isabella fondati sull’«amore del sangue» non si limitavano perciò
al mero principato di Molfetta, ma coinvolgevano anche San Pietro in
Galatina, considerando la presenza del riferimento alla spettanza di
quest’ultimo allo zio Giuseppe come frutto in realtà di una errata
interpretazione della situazione successoria da parte del testatore, che
aveva così diviso ciò che non poteva essere soggetto a divisioni di alcun
tipo: il patrimonio feudale. Perciò erede unica e universale non poteva che
significare ciò che letteralmente si evinceva.
Pretende la Marchesa del Fresno esser a se dovuta l’intera successione
feudale e burgensatica: ed incerta ancora di sua ragione, non sa, se in
vigore nel testamento paterno, o della legge dell’investitura 306.
Le pretese della donna riguardavano diritti trasmessi in forma scritta
eppure bellamente ignorati perché contra legem, o meglio contra
consuetudinem.
L’eccezione dianzi descritta non poteva prevaricare la regola consolidata
della primogenitura maschile. Dal diritto feudale applicato soprattutto in
tema di rapporti coniugali e successioni era derivata dunque una
progressiva
contrazione
“dell’autonomia
dispositiva”
in
campo
testamentario, in spregio soprattutto della discendenza femminile. Per
quanto lo stesso fedecommesso fosse un istituto mutuato dal diritto
romano, esso doveva applicarsi “regolarmente”, attenendosi strettamente
ai dettami feudali che privilegiavano un unico erede e la linea maschile. La
femina doveva rassegnarsi a essere solo uno strumento di trasmissione di
beni dotali e di utili alleanze matrimoniali, null’altro 307.
Fedecommesso e primogenitura tuttavia erano istituti a se stanti, non
necessariamente connessi poiché non sempre il primo era posto in essere a
tutela di beni di carattere esclusivamente feudale, almeno non prima della
306O.
Guidotti, Per lo duca di S. Pietro d. Giuseppe Spinola contra la marchesa del Fresno d. Isabella Spinola.
BNN, p. III
307 M.A. Visceglia, Linee di studio, cit., p. 436
90
prammatica 33. Anno cruciale fu il 1655: con l’introduzione della
prammatica 34 de feudis che contemplava la possibilità di istituire
maggioraschi sui feudi sino al quarto grado308 «per quei feudatari […] cui
dasse fastidio la successione delle femmine nel feudale»309. Si può dire che
l’epilogo di questa vicenda fosse perciò già ampiamente scritto 310.
Gli Spinola si erano sempre attenuti alla tradizione feudale, esempi ne
erano il testamento redatto da Luca Spinola nel 1741, nonché, seppur con le
dovute riserve e ambiguità, il testamento redatto da Francesco Maria
seniore nel 1727. Proprio nella primogenitura istituita da quest’ultimo vi
erano evidenti vuoti di definizione dei successori, per cui non era chiaro il
genere, i gradi, le linee e l’età nella descrizione di erede universàl nel
testamento.
Il Duca di S. Pietro D. Francesco-Maria Spinola il vecchio, ritrovandosi
nelle Spagne coll'onorevole carattere ed impiego di primo Ajo del Re
N. S. , agli 11 di Maggio 1727 fece nel Real Posto di Aranques il suo
ultimo testamento . Lasciò egli a ciascheduno de' ſuoi figli e figlie la
legittima nella somma, che loro spettava, secondo le leggi e gli statuti
della Serenissima Repubblica di Genova. Passò indi a dichiarare suo
erede universale il Principe di Molfetta D. Gian Filippo Spinola suo
figlio primogenito, e chi avesse causa dal medesimo colla qualità di
primogenito. Eccone le parole: Declaro por mi beredero uniberſal a mi hiyo
D.Juan Phelipe de Spinola Principe de Molfeta, o qui en tubiere causa de el de
primogenito in primogenito 311.
Si parlava di successione «de primogenito in primogenito», ma senza
fornire spiegazioni o ulteriori dettagli relativamente a una necessaria
mascolinità dell’erede.
I difensori di Giuseppe interpretarono, ovviamente, non esservi stata
istituita una primogenitura in perpetuum, fors’anche in virtù di questa
vaghezza di riferimenti.
Ivi, p. 425
G. Grippa, La scienza della legislazione sindacata ovvero Riflessioni critiche sulla Scienza della legislazione
del sig. cav. d. Gaetano Filangieri, Napoli 1784, BNN, p. 131
310 M.A. Visceglia, Linee di studio, cit., p. 427
311 O. Guidotti, cit., p. VII
308
309
91
Non vi sono argomenti, né presunzioni, per le quali si possa
imprendere, che abbia egli voluto fondare una Primogenitura
perpetua, discensiva: primogenitura per altro, con cui lungi di
conservare la sua nobilissima famiglia, l'avrebbe piuttosto
annientita312.
La famiglia sarebbe stata, come asserisce Guidotti, “annientita” da un tal
genere di primogenitura. Il ridondante lemma “conservare” – in netto
contrasto con il paventato “annientimento” - era infatti il principale
argomento attorno a cui ruotava la difesa di Giuseppe. La famiglia intesa
come nomen et sanguis e il suo patrimonio si conservavano ovviamente
attraverso
la
trasmissione
esclusivamente
maschile.
Pertanto,
nell’affrontare il capitolo del testamento di Francesco Maria Seniore,
dinanzi alle lacune su «gradi, linee e chiamate» si ribadiva che non poteva
trattarsi di un istituto volto alla conservazione e degno del crisma in infinitum
poiché redatto «senza affatto pensare al decoro della sua famiglia»313.
Il «decoro» era un corollario del più ampio lemma conservare, consisteva
nella salvaguardia della cognominatio e di conseguenza del genere del
successore. Una donna erede universale non poteva non costituire una
minaccia al decoro della famiglia non avendo i mezzi atti alla sua
prosecuzione. Al tempo stesso la primogenitura di Francesco Maria il
Vecchio, essendo oltremodo anomala, era stata per questo disposta respectu
tantum vulgaris substitutionis314. Fu questa anche la statuizione definitiva
della Magistratura Genovese, nonché della Gran Corte della Vicaria: si
trattava di una sostituzione volgare «giacché il Duca D. Gian-Filippo fu
dichiarato erede universale del Duca D. Francesco-Maria suo padre in
vigore della riferita disposizione senza alcun vincolo di fedecommesso»315.
Ivi, p. XIV
Ivi, p. XIV
314 Ibidem
315 Ibidem
312
313
92
Era il fedecommesso a rendere cogente e a lungo termine una
disposizione, sia essa un maggiorascato o una primogenitura316 e, per
completezza, esso doveva essere “individuo”317. Nondimeno, come
asseriva Adam Smith, «a quale di loro [figli] debba essere data una
preferenza così importante deve essere determinato da qualche norma
generale, fondata non sulle dubbie distinzioni del merito personale, ma su
una qualche semplice e chiara differenza che non consenta discussioni. Tra
i figli di una stessa famiglia non ci può essere differenza più indistruttibile
di quella del sesso e dell’età. Il sesso maschile viene universalmente
preferito a quello femminile; e a parità di ogni altra circostanza, il maggiore
di età è preferito al più giovane. Da ciò l’origine del diritto di primogenitura
e della cosiddetta successione lineare»318. Parafrasando l’economista inglese
ciascun feudatario era un piccolo sovrano e un sovrano, la cui terra era
mezzo non solo di potere ma anche di protezione del proprio lignaggio, non
poteva e non doveva lasciare che quest’ultimo subisse divisioni.
Alla luce di quanto descritto, risultavano di gran lunga più in linea col
costume del tempo e della famiglia le parole e le volontà espresse da Luca
Spinola che ben si attennero alle regole acquisite della conservazione e del
patrimonio e del decoro.
Volle il famoso Capitan generale Ecc.mo D. Luca Spinola I contribuire
anche da sua parte al giustissimo pattuito intendimento, che la Casa
primogenita dei Duchi di S. Pietro col maggior lustro e splendore nei
maschi della famiglia si conservasse. Era egli per mezzo delle armi e
del suo valore e scienza nell' arte militare asceso nelle Spagne al
sommo delle grandezze e degli onori. Dal matrimonio colla Contessa
di Siruela, figlia del Conte di Sifuentes, altra prole non avea che D.
Marianna-Francesca, che fu sollecito di dare in moglie al suo nipote D.
Francesco-Maria Spinola, allora Principe di Molfetta 319.
“E nelle controverſie insorte nel 1732 tra il Duca D. Gian Filippo e i di lui fratelli secondogeniti
sull'assegnamento della vita e milizia, che costoro pretendevano sopra tutti i feudi e i beni feudali del
Regno; questo sognato fedecommesso non fu affatto opposto. Se si avesse avuta idea di
fedecommesso, in quelle circostanze il Duca D. Gian-Filippo non avrebbe certamente lasciato di farne
uso, per escludere i fratelli dalla vita e milizia, che pretendevano su de feudi”. O. Guidotti, cit., p. XV
317 R.Trifone, Enciclopedia Italiana, Voce Fedecommesso, 1932
318 A. Smith, La ricchezza delle nazioni, (ristampa) Novara 2013, pp. 117-118
319 O. Guidotti, cit., p. XXXVIII
316
93
Luca assicurò in questo modo la discendenza pura della cognominatio di
Casa Spinola, accertandosi che il giovane Francesco Maria Spinola sposasse
la sua unica figlia femmina, Francisca Maria.
Il «giustissimo pattuito intendimento» di casa Spinola affinché si
conservasse maggior lustro e splendore tramite la successione mascolina
era così stato, sino al momento del testamento di Francesco Maria juniore,
sempre rispettato. Anche Gio. Filippo Spinola nel 1751 aveva stabilito con
forza nel proprio testamento il principio della primogenitura universale
maschile.
In questa Primogenitura chiamò in primo luogo il Principe di Molfetta
Francesco Maria suo Figliuolo Primogenito, ed i suoi Discendenti
Maschi per linea Mascolina sempre da Maschio a Maschio, e da
Primogenito in Primogenito in infinitum. Estinguendosi, o evacuandosi
la Linea Maschile del Principe di Molfetta, chiamò il Signor G.
Giuseppe, ed i suoi Figli, e Discendenti Maschi, pure da Maschio in
Maschio in infinitum, o chi avrebbe nella sua Discendenza Mascolina la
qualità, e prerogativa di Primogenito legittimo, e naturale, e di Linea
sempre Maschile da Maschio in Maschio. E mancando la detta linea
mascolina, chiamò la Contessa Donna Teresa Scotti sua Figlia, ed i suoi
Maschi come appunto avea fatto in quella del Principe di Molfetta 320.
Mascolino, maschio, maschile: aggettivi e sostantivi aventi tutti la stessa
radice e lo stesso significato in tutta questa produzione documentale dei
difensori di D. Giuseppe.
Tuttavia nell’età dei lumi erano state avvertite «spinte individualistiche
tese a contrapporsi alla famiglia-corpo». Possiamo parlare, sposando la tesi
di Daniela Lombardi, di una vera e propria “crisi settecentesca” i cui segnali
principali erano dati dall’aumento delle controversie giudiziarie in tema
successorio sino a giungere finanche a tangere il diritto matrimoniale321.
Nel Settecento il paradigma della famiglia patrilineare,
primogeniturale e patriarcale cominciava a manifestare segni di
C. Franchi, Esamina di ragioni, cit., p. VI
D. Lombardi, Donne famiglia e genere, in M.A. Visceglia, F.Chacòn, G. Murgia, F. Tore (a cura di),
Spagna e Italia in Età Moderna. Storiografie a confronto, Roma 2009, p. 76.
320
321
94
cedimento”, per quanto “il modello familiare aristocratico non era
stato perfettamente coerente neanche nei secoli precedenti322.
Le liti erano già ben presenti all’interno della compagine familiare
aristocratica molto prima del XVIII secolo. Probabilmente Francesco Maria
juniore si era ribellato unicamente alle stringenti convenzioni sociali e aveva
accolto di buon grado i mutamenti della propria epoca, ma al contempo
aveva trovato un’immarcescibile resistenza da parte di una dottrina
giuridica e una prassi familiare ancor “non illuminate”, volte alla
conservazione e non già al sovvertimento del patrilignaggio.
Quel che si trae da quanto accaduto non è il mero ripetersi di eventi
ritualizzati delle famiglie di Antico Regime ma ciò che Elena Papagna
definisce come «la valorizzazione dell’individuo». Nella narrazione delle
vicissitudini giudiziarie di Isabella del Fresno si intravedono «le alternative,
le possibilità di scelta aperte a uomini e donne del passato, riconoscendo
loro la facoltà di sottrarsi alle regole di comportamento sociale, al loro
determinismo e alla loro ripetitività» 323.
Francesco Maria juniore si era distinto dal gruppo famiglia, da quelli che
erano i dettami, quasi corporativistici, della casata Spinola324: non aveva
voluto di fatto prendere in considerazione né le parole paterne, forse perché
non lette, quanto meno non con la dovuta attenzione poiché accettate per
procura - cosa che in più occasioni viene ripetuta - così come vien ribadito
che non poteva però non conoscerne il contenuto vincolante325.
Non si può neppure asserire con Guidotti, che tutte le clausole contenute
nelle disposizioni testamentarie di Gio. Filippo fossero state accettate in toto
E. Papagna, Sogni e bisogni, cit., p. 10
E. Papagna, Il potere e le sue manifestazioni: famiglie, lignaggi e parentele, in ll Potere e le sue
manifestazioni. Secondo Incontro Internazionale di Storia Moderna. Identità Mediterranee: La Spagna e l’Italia
in una prospettiva comparata (secoli XVI-XVIII), Madrid 2016, p. 107
324 Ibidem
325 Solo la Gratia l’avrebbe reso vincolante erga omnes. O. Guidotti, cit., p. LXXIX e ss.
322
323
95
quasi fosse un automatismo dovuto come nel diritto germanico326, proprio
perché chi accettò e accolse tali statuizioni non le pose mai in essere
discostandosene totalmente. In presenza di queste evidenti contraddizioni
tra volontà espressa del padre e consuetudine familiare si rese sempre più
affannosa la causa di Isabella.
Il tutto si consumava anche dinanzi al dato incontrovertibile che il
cambiamento delle regole della politica e delle alleanze matrimoniali, a
causa del prevalere della primogenitura e del modello patrilineare forte
aveva prodotto inesorabilmente «l’assottigliarsi, o l’estinguersi, delle
famiglie»327. E quello sarebbe stato purtroppo il destino degli Spinola di San
Pietro, a prescindere dal vincitore della contesa in atto.
Francesco Maria juniore aveva – e in questo caso dubbi non ve n’erano accettato il decreto di preambolo che precedeva l’eredità paterna328, e in
quel preciso istante l’amoroso padre aveva segnato il destino dell’amata figlia.
Su tali premesse a Giuseppe spettavano il ducato di San Pietro in Galatina
e tutti i beni feudali, e si ebbe pure cura di andar oltre, ritenendo che fosse
beneficiario anche di quelli burgensatici che rientravano nella categoria di
beni non legati a un feudo, ma privati «alla stregua dei borghesi», detenuti
iuxto titulo e quindi nella piena disponibilità del proprietario329.
Al di là di questa forzatura giuridica sui beni allodiali che non avevano
vincoli di alcun tipo, i beni feudali era indubbio che fossero appannaggio
Il modello romano contemplava la scelta del testatore e la voluntas di accettare da parte dell’erede,
la cosiddetta adizione, quello germanico prevedeva una successione esclusivamente legittima con
una relativa immissione nei beni ipso iure in virtù del diritto naturale. A. Berrino, cit., pp. 20-21
327 E. Papagna, Famiglie di Antico Regime, cit., p. 499
328 «A partire dal XVI secolo presso la Gran Corte della Vicaria si ottiene, previo un processetto di
accertamento, un decreto che riconosce coloro che hanno diritto a succedere a un de cuius. I decreti
di preambolo non vanno definiti come atti di accettazione dell’eredità ma come decreti di
riconoscimento della qualità ereditaria, in quanto nella richiesta di riconoscimento della qualità
ereditaria l’accettazione è implicita». A. Berrino, l’Eredità contesa, Roma 1999, p. 23
329 Giuseppe Maria Galanti nelle sue Memorie storiche del mio tempo e altri scritti di natura autobiografica
(1761-1806), Cava de’ Tirreni (ristampa) 1996, definiva burgensatico sinonimo di allodiale, «ma con
riferimento a quelle proprietà che i feudatari avessero a pieno titolo, al pari dei borghesi (donde il
termine), senza potervi vantare diritti di sorta, senza obblighi di prestazioni verso il sovrano e senza
obblighi di riconoscimento di diritti verso i cittadini».
326
96
esclusivamente maschile. La questione era finanche così banale che Orazio
Guidotti scrisse stigmatizzando l’annosa vicenda in un modo eloquente ed
emblematico:
È un punto nella ragion feudale e nel nostro Regno incontrastabile, che
per fermezza della chiamata del Duca D. Giuseppe, in seguela del
convenuto, debba esser tenuta la Marchesa del Fresno o impetrare, o
dare il consenso per l'impetrazione del Regio assenso, quante volte il
bisogno lo richiedesse: Ed intanto far valere la disposizione del Duca
D. Gian Filippo, figlia della promessa e patto correspettivo coi fratelli,
sull'intero prezzo di tutti i feudi e beni feudali330.
Pertanto si chiedeva, o meglio la ragion feudale pretendeva che “fosse
tenuta” la stessa Isabella a impetrare anch’ella, unitamente a colui che
reclamava di usurparne il ruolo, quel Regio assenso, quella Gratia, che il
testamento di Gio. Filippo non aveva ancor ottenuto, e «intanto far valere la
disposizione» di quest’ultimo.
Si dava per acquisito che una donna non doveva, non poteva detener
alcun bene se non in concomitanza del matrimonio, di conseguenza come
“moglie di”, o per benevolenza dei parenti di genere maschile più
meritevoli di esser menzionati in una primogenitura o in un fedecommesso.
4.2.2. La «desiderabilissima unione»
Isabella avrebbe potuto evitare questa infinita controversia nello stesso
modo che era stato previsto per sua madre da Luca Spinola: un utile
esempio dell’endogamia genovese331. Ciò non era avvenuto: la donna aveva
dovuto sposare il marchese del Fresno nonché duca di Frias Martin
Fernàndez de Velasco, piuttosto che lo zio Don Giuseppe, il quale a sua
volta si era coniugato successivamente a una Sanseverino332. Le alleanze
matrimoniali erano orchestrate dai membri più autorevoli della famiglia
O. Guidotti, op cit., p. LIV
A. Musi, Mercanti genovesi, cit. p. 63 e ss.
332 R. Santamaria (a cura di), Palazzo Doria Spinola, cit., p. 64
330
331
97
con la cura dovuta e valutandone l’opportunità politica ed economica. Non
v’era possibilità di scelta da parte dei nubendi, l’unica decisione plausibile
era obbedire ai voleri paterni o anche materni. Infatti perfino le donne
potevano fungere da abili sensali, purché ogni accordo coniugale si
risolvesse in un’alleanza vantaggiosa per il proprio lignaggio333.
Fu ritenuto più conveniente che Isabella sposasse il Marchese del Fresno
che vantava tra i diversi titoli anche quello di Conestabile di Spagna,
sancendo così un’alleanza con la grande nobiltà spagnola, pur esulando
dalla tradizionale “endogamia genovesa”
334
col senno di poi scelta più
adeguata perché
per mezzo di questa desiderabilissima unione, cessando ogni litigio, si
dasse compenso alla gravissima perdita, e ſi rinnovasse con prosperi, e
fausti avvenimenti l'antico splendore d'una sì Illustre Famiglia, che è
stata fin oggi la gloria della nostra Italia
Questo era l’incipit delle difese a favore della Marchesa del Fresno335.
Le alleanze endogamiche per i maschi ed eterogamiche per le femmine
erano la prassi matrimoniale seguita dalle élite genovesi, una sorta di
panacea per conservare intatti i rapporti tra “colonia-patria” oscillanti tra
Napoli e Genova336. Nel caso che ci occupa, per una figlia unica erede
sarebbe stata logicamente auspicabile la soluzione di un matrimonio
endogamico337: una sorta di rimedio stragiudiziale della vicenda. In
mancanza della «desiderabilissima unione» il sorgere della controversia
aveva assunto definitivamente il crisma dell’ineluttabilità 338.
E. Papagna, La scelta del coniuge, cit., p. 145
R. M. Girón Pascual, Exogamia, endogamia e ilegitimidad: estrategias familiares de los mercaderes
genoveses de Granada durante la edad moderna (ss. XVI-XVIII), «Historia y Genealogía» Nº3 2013, pp. 8398
335 C. Franchi, Difesa a favore della signora duchessa, cit, p. II
336 G. Brancaccio, Nazione genovese, consoli e colonia nella Napoli moderna, p.61
A. Musi, Mercanti genovesi, cit. p.63 e ss.
337 “figlie uniche eredi, ciò che favorisce la scelta dell’endogamia” in G. Delille, Famiglia e potere, cit.,
p. 285
338 C. Franchi, Difesa a favore della signora duchessa, cit., p. III
333
334
98
4.2.3. I diversi gradi di giudizio: La Gran Corte della Vicaria
La battaglia legale non parve invero conoscere tregua: Isabella e
Giuseppe pretesero entrambi il medesimo petitum, ossia l’intero patrimonio
del caro estinto Francesco Maria. Una prima pronuncia della Gran Corte
della Vicaria339 aveva alfine stabilito una sorta di divisione salomonica tra
i due contendenti:
Interponatur Decretum praeambuli qu. Illuſtris Ducis S. Petri D. Francisci
Maria Spinola in beneficium Illustris D.Iſabella Spinola eius filia ex
Teſtamento dicti quond. Illuſtris Ducis D. Francisci Maria Spinola in scriptis
condito in Civitate Matriti sub die 27. Martii 1754, et aperto, et publicato
sub die 28. eiusdem mensis, et anni in Bonis Burgenſaticis. Et in Ducatu S.
Petri, aliisque Feudis et bonis Feudalibus antiquis in benefi cium Illustris D.
Josephi Spinola tam ex Testamento pradito, quam Jure unitatis et
Individuitatis, cum oneribus, legatis, et declarationibus in praecitato
Testamento contentis, et in omnibus servata forma eiusdem cum benefic. L. &
Inv. Et reſpectu praetensorum per dićtam Illustrem D. Isabellam infra
quatuor dies audiantur Partes. Verum praefatus Illustris D. Joseph non
alienet, et se obliget respectu fructuum, et de praesenti Decreto non
consignetur fides , neque copia inconsulto S.R.C. sive Domino Causa
Commissario 340.
Occorre specificare che il succitato Decretum praeambuli era una
statuizione di competenza della Gran Corte della Vicaria, che stabiliva e
riconosceva chi era legittimato a succedere al testatore341. In virtù di tal
La Gran Corte della Vicaria era divisa in quattro ruote, due civili e due criminali. La Regia
Camera della Sommaria era competente per le cause finanziarie e fiscali: il patrimonio Reale, l'erario
pubblico, le liti tra feudatari e quelle tra i baroni e i lori sudditi. Il Tribunale della Zecca provvedeva
al bollo delle unità di misura; il Tribunale della Bagliva trattava le cause minori civili di risarcimento
danni.
339
La Vicaria criminale giudicava in primo grado i delitti commessi a Napoli e nei suoi Casali e in
appello le cause già decise nei tribunali delle provincie del Regno chiamati "Udienze".
La Vicaria civile trattava le cause sino ad un certo valore, di eredità e quelle su prove documentali
(polizze bancarie, atti pubblici, ecc.). Il Capo della Vicaria (Reggente) era un uomo d'armi (vedi il
Gran Camerlengo) e non di legge, non aveva diritto di voto anche se poteva presiedere
una Ruota (oggi si direbbe Collegio).
La Regia Camera della Sommaria redigeva i bilanci del Regno che veniva sottoposto al
voto favorevole del Collaterale (l'organo di governo che affiancava il vicerè), al visto dei Seggi di
Napoli (l'amministrazione cittadina) e del Parlamento(sino al 1642). cfr.M.R. Di Simone, Istituzioni e
fonti normative in Italia dall’Antico Regime al fascismo, Torino, 2007, pp. 82-83
340
341
C. Franchi, Esamina di ragioni, cit., p. V
A. Berrino, cit., p. 25
99
decreto si riconoscevano alla discendente diretta, definita dal testatore
erede Unica e universale, i beni burgensatici sulla cui disponibilità non v’era
vincolo, mentre all’agnato Don Giuseppe, capace di tramandare il nome
della casata, i beni feudali. In parte la volontà di Francesco Maria juniore
trovava la giusta considerazione con questo decreto, avente però il carattere
della provvisiorietà (non consignetur fides, neque copia inconsulto S.R.C. sive
Domino Causa Commissario). E infatti:
Si richiamò di questo Decreto di Preambolo D. Isabella nel S.R.C., dove
crediamo, che si fosse riconosciuto intollerabile il Gravame, che si era
inferito alla Figlia del Testatore, istituita Erede Universale ed Unica.
Avocò la causa dalla Vicaria, e la ritenne sotto la sua ricognizione 342.
La causa proseguiva innanzi al Sacro Regio Consiglio343 poiché intollerabile
era il gravame. Era difatti evidente che la posta in gioco aveva assunto un
ben più ampio spessore che travalicava la questione meramente ereditaria,
ma giungeva a sottolineare quel che era – con un necessario ossimoro palesemente implicito nel sovrabbondante uso di “maschio” e “femmina”:
il potere politico o economico non può e non deve aver tratti femminili.
4.2.4. Il Sacro Regio Consiglio delibera
«Il testamento, anche se non autografo e più o meno lungo come di solito
tra aristocratici, rispecchia[va] assai più autenticamente la volontà e perciò
la personalità dell’individuo, anche quando essa [era] condizionata da
consuetudini infrangibili quali il maggiorasco e il fedecommesso»344.
Potea il Duca D. Francesco, avvalendosi della Grazia conceduta al
Baronaggio di questo Regno contenuta nella Prammatica 33 de Feudis,
Ibidem
Sacro Regio Consiglio: istituito nel XV secolo dagli Aragonesi con funzioni consultive verso il
Governo, divenne in seguito tribunale di appello sulle decisioni delle Regia Camera della Sommaria;
sostituendosi alla Gran Corte della Vicaria, la quale non fu abolita, divenne Corte Suprema del Regno
di Napoli. Nel XVII secolo divenne l’unica corte competente per le liti inerenti ai feudi e i feudatari,
sia di carattere civile che penale. Su queste liti giudicava in via definitiva e inappellabile anche se le
sentenze potevano essere successivamente riformulate dallo stesso organo; cfr. I. Del Bagno, Saggi di
Storia del Diritto Moderno, Salerno 2007, pp. 79 e ss.
344 R. Colapietra, Baronaggio, umanesimo e territorio nel Rinascimento meridionale, Napoli 1999, p. 451
342
343
100
e più chiaramente spiegata nella notissima Grazia del 1720. istituire
erede nel Principato di Molfetta, nel Ducato di S. Pietro in Galatina, e
negli altri suoi Beni Feudali D. Giuseppe suo Fratello; senza, che gli
fosse di ostacolo D. Isabella sua Figliuola. Ma in quegli ultimi momenti
di sua vita in vece di nodrire quei sentimenti di fasto, di gloria, e di
ambizione, ei si ricordò soltanto di essere Padre amoroso345.
Questa premessa, usata nel primo atto introduttivo in difesa di Donna
Isabella allo scopo di giustificare le decisioni di Francesco Maria, per quanto
altamente toccante, non tenne in conto che non si discettava di sentimenti,
ma di regole ferree di una famiglia la cui discendenza e il cui nome
andavano garantiti senza indugiare o incespicare in un erede dal sesso
sbagliato. La sentenza emessa dal Sacro Regio Consiglio è così a favore di
Don Giuseppe.
La sentenza del S. C. profferita a’ 9. Luglio del passato anno 1757.
dichiara , che spetti al Signor D. Giuseppe Spinola tutta la Roba
Feudale, e burgensatica rimasta nell’eredità del Duca Gio: Filippo suo
Padre in virtù della Primogenitura eretta da costui : anche attenta la
Dichiarazione fatta dal Duca Francesco Maria il giovane nell'ultimo
suo Testamento. Ordina in seguela di ciò, che s'immetta il Sig. D.
Giuseppe nel possesso dell'una, e dell' altra sorta de Beni per due delle
tre parti: e che per la terza parte rimanente se ne faccia sequestro, e
rimanga sequestrata fino a che sia liquidata con Termine, e sentenza
la Legittima sui medesimi Beni spettanti alla Signora D. Isabella ex
persona del Defunto suo Padre. Tutte le altre Controversie si
sottopongono a Termine. Ed ecco quali sono tali controversie: La
validità del Testamento di Francesco Maria il giovane, e data la validità
la Dichiarazione dell'Erede in Feudalibus: Il Maggiorato, che D.
Isabella pretende istituito dal Duca Francesco Maria Spinola il vecchio
fin dal 1727: Il valore del Feudi preteso dal Signor D. Giuseppe nel caso
di non essere valida la Primogenitura sul corpo de Feudi medesimi: Il
valore del Ducato di S. Pietro per la Convenzione passata nel 1735. tra
il Duca Gio: Filippo, ed i suoi Fratelli Secondogeniti: Il dritto di
costringere l' Erede , e l' Erede dell'Erede in Feudalibus del medesimo
Duca Gio: Filippo ad impetrare su quella Convenzione l'Assenso346.
Dalla lettura di questa sentenza non ci è dato scorgere come unica
motivazione null’altro se non la primogenitura istituita da Gio. Filippo,
345
346
C. Franchi, Difesa a favore della signora duchessa, cit., p. V
C. Franchi, Esamina di ragioni, cit., p. VIII
101
nessun accenno perciò alla volontà del testatore ultimo347. Pertanto, il
dubbio che le argomentazioni del difensore di Isabella sulla nullità della
sentenza fossero fondate era ed è giustificabile. Franchi non a caso
affermava:
Non può esservi dunque più dubbio, se questa Grazia dell'esclusione
delle Femmine per Fedicommesso si fosse o no conceduta da Filippo
IV. Egli è manifesto, che fu rotondamente negata. Quindi allorchè si
spedi su questa Grazia di Filippo IV, quel Privilegio, che è inserito nella
Pramm. 34 de Feudis, rimasero tuttavia i Baroni esclusi di potere PER
MODUM SUBSTITUTIONIS rimuovere le Femmine tanto
Discendenti, quanto Collaterali dalla Successione de'Feudi. E non
sembrava, che potesse più promuoversi questo dubbio dopo la Grazia
del 1720, allorché l'Imperadore Carlo VI negò alla Città e Baronaggio il
permesso di escludere le Femmine per via di Sostituzione
Fedecommessaria348.
Non era un meccanicismo giuridico ineludibile, quindi, l’esclusione del
genere femminile attraverso il fedecommesso, al di là dei casi enumerati
negli scritti difensivi di Orazio Guidotti, come abilmente si faceva notare
nell’eccepire la nullità della sentenza del Sacro Regio Consiglio, che invece
aveva accolto in toto le ragioni di Giuseppe. Questo anche in aperta
contraddizione con quanto gli stessi sovrani Filippo IV prima e Carlo VI poi
avevano concesso, non avallando, o meglio non rispondendo alle richieste
di Gratia, concedendosi il tempo necessario a esaminarle con estrema calma,
e a volte lasciando il tutto privo di un giudizio, in una sorta di silenzio –
diniego ante litteram349.
L’appigliarsi quasi ampolloso nelle difese di Giuseppe alle precedenti
prammatiche 33 e 34 de feudis e alle Gratiae non poteva assurgere ad
argomentazione univoca atta a giustificare di per sé sola quanto statuito
nella sentenza del Sacro Regio Consiglio, che non solo disponeva che il
Sia Guidotti che Franchi fanno riferimento alla “famigerata” accettazione del testamento e degli
atti prodromici dello stesso, come appunto la primogenitura universale, avvenuta non già
personalmente da parte di Francesco Maria, ma attraverso un procuratore, un plenipotenziario o Illustre
personaggio come lo definisce Guidotti più e più volte istituito tale in Madrid il 21 di Aprile 1753
Cfr. O. Guidotti, cit. p. LXXIX e ss.; C. Franchi, Esamina di ragioni, cit., p. IX
348 Ivi, p. XXXVII
349 Ibidem: Suae Majestati res melius perpendi digna visa fuit, et perpendenda respondit.
347
102
diritto mascolino dell’agnato Giuseppe avesse la precedenza su quello della
discendente diretta Isabella, ma, nella divisione del patrimonio in tre parti,
lasciava ancor sottoposta a sequestro e, di conseguenza, indisponibile la
quota di legittima spettante a quest’ultima, per quanto esigua rispetto al
resto del patrimonio ereditato.
Guidotti nell’atto introduttivo di questa controversia, visto e considerato
che quelle argomentazioni sarebbero state accolte in toto, ben affermava:
E tutto ciò qualora nel caso nostro s'incontrasse dubbio, il che non va,
nei termini delle Grazie del nostro Regno sulla disposizione del Duca
D. Gian-Filippo a pro del suo figlio secondogenito. E quando ancora,
come a suo luogo si vedrà, non concorresse in benefizio del Duca D.
Giuseppe la testamentaria disposizione del defunto Duca suo fratello,
valida incontrastabilmente per la prammatica 33 de feudis. Senza di che,
prescindendo ancora dal patto ed obbligo, che in persona della
Marchesa del Fresno nasce dall' istrumento di concordia stipulato tra
'l Duca P. Gian-Filippo e i suoi fratelli , e da tutto l'altro, che in appresso
si dimostrerà ; per vie più stabilire la ragione del Duca D. Giuseppe in
una causa tanto giusta e tanto favorevole, si tratterà anche qui
l'articolo, se sottoposto a fedecommesso il feudo, se ne debba il valore,
ove precisamente concorra la buona fede , sia lontana la fraude , e si
tratti della conservazione della famiglia350.
La «conservazione della famiglia» aveva così ottenuto la sua effimera
vittoria. Giuseppe non avrebbe avuto discendenza alcuna.
4.2.5. L’ultima beffa: il sequestro in perpetuum della legittima
Ciò però nonostante non possiamo mancare di aggiungere, che per
manifesto abbaglio di fatto si ordinò colla stessa sentenza, che
precedente nuovo Termine dovea liquidarsi la Legittima spettante per
la Terza parte de Feudi ereditari del Duca Gio: Filippo alla Signora D.
Isabella ex persona del Duca Francesco Maria di lei Genitore: e che
frattanto questa Terza parte rimanesse sottoposta a sequestro: con
essersi però conceduta l'Immissione al Sig. D. Giuseppe per le altre due
Terze parti de Feudi. Come dunque si ordina colla Sentenza , che
rimanga in sequestro la Terza parte de Feudi, e si dà al Signor D.
Giuseppe l'Immissione per le altre due Terze Parti?351
350
351
O. Guidotti, cit., p. LIV
C. Franchi, Esamina di ragioni delle nullità, cit., p. XXXVIII
103
Ecco l’ulteriore vulnus che derivava da questa iniqua sentenza: Isabella non
poteva disporre neppure di quella terza parte del patrimonio paterno che
era stato deliberato le spettasse. Carlo Franchi si limitava ad adombrare
l’ingiustizia posta in essere dal Sacro Regio Consiglio. Egli si appellò
nuovamente alla presunta primogenitura, o vulgaris substitutio di Francesco
Maria seniore, presupposto delle disposizioni di Gio. Filippo mai eseguita
dalla Sommaria352, si convenne anche sull’ammontare della legittima a
176.000 ducati 353.
La vicenda si concluse “naturalmente” nel 1784 alla morte dello zio:
Isabella prese così possesso degli agognati beni paterni ma non poteva a sua
volta trasmetterli ad alcun genere di discendenza diretta. La Marchesa del
Fresno poté esclusivamente godere di una passeggera soddisfazione.
Il 3 aprile 1787 Maria Teresa Spinola, già contessa Gallarati Scotti, contò
titolo anche di principessa di Molfetta lasciando alla nipote il titolo di
duchessa di San Pietro in Galatina354 in una sorta di pacifica spartizione dei
beni feudali, questa volta dividui. E nuovamente le volontà di Francesco
Maria juniore furono disattese, decisamente stravolte. Le traversie
giudiziarie avevano minato finanche il privato dell’ultima duchessa Spinola
di San Pietro in Galatina: il nipote, novello Marchese del Fresno e Duca di
«Regia Camera della Sommaria (1444-1806): esaminava i conti del regio tesoro, dei ricevitori
provinciali e di tutti gli altri funzionari ai quali erano affidati il denaro pubblico, i rendiconti dei
pubblici amministratori, i conti relativi alle imposizioni fiscali delle universitates. Fu proclamata da re
Ferrante (Ferdinando I di Napoli) Tribunale Supremo, con competenza a giudicare in materia fiscale.
Trattava sia gli affari amministrativi sia le cause giudiziarie concernenti il fisco. Esercitava mansioni
consultive per il Governo in materia finanziaria. Svolgeva attività giurisdizionale di primo grado in
tutte le cause che avessero un purchessia interesse fiscale. Nei primi tempi, contro le sue decisioni,
era ammesso ricorso al Sacro Regio Consiglio, ma nel 1482 Ferdinando I d’Aragona ne fece un
Tribunale Supremo le cui decisioni non erano appellabili ad altri tribunali. Essa trattava tutte le cause
in cui fosse coinvolto il regio fisco e che avessero implicazione con la materia fiscale». I. Del Bagno,
Saggi, cit., pp. 79 ss.
353 G. Vallone, Feudi e Città, Studi di Storia Giuridica e Istituzionale Pugliese, Lecce 1993, pp. 236
354 Per Nobilem Caesarem Utriusque Siciliae, visis actis fuit provisum et decretatum quod stante obitu Illustris
Comitis et Principis Melphicti D. Theresiae Spinola e Ducibus S. Petri in Galatina; Maria Teresa viene qui
definita ufficialmente principessa di Molfetta in APGS, Fondo Spinola, Molfetta 1795, Decreto Regio
che riconosce Carlo Gallarati Scotti contare titolo di principe di Molfetta (V Appendice documentale)
C. Pisani, La gabella dello scannaggio di Molfetta, in «L’Altra Molfetta», gennaio 2018, p. 29
352
104
Frias, Diego Fernández de Velasco355 meditava e prometteva di tagliarle gli
alimenti vedovili per via di un matrimonio segreto contratto nel Regno di
Napoli, dove aveva stabilito la propria residenza per meglio seguire il corso
della sua battaglia legale. L’ultima Spinola ereditò ben 126.000 ducati di
debiti dallo zio rivale, oltre alla responsabilità del mantenimento della di lui
vedova Sanseverino. Giuseppe rimaneva utile padrone delle risorse della
nipote anche post mortem 356.
In tutta questa vicenda, che ebbe a confondere in diversi tratti il pubblico
e il privato della famiglia, anche l’universitas di Molfetta, a dispetto di quella
rappresentazione, più letteraria che storiografica, che vorrebbe questa
istituzione totalmente alla mercé del baronaggio, in uno scontro
decisamente tra eguali357 si contrappose vivamente anche al solo conferire
a una donna, a un essere “fragile”, il titolo di principessa della città.
Domenico Magrone riferisce infatti che nella Conclusione Decurionale
del 12 giugno 1786, nel momento in cui un giudice inviato da Isabella
pretese di prender alfine possesso della città agli Spinola infeudata, un
Decurione evidenziò che non poteva attribuirsi, così come stabilito nella
patente, il titolo di principessa di Molfetta bensì solo ed esclusivamente
quello di utile signora della Città, affinché «non debba un tal titolo col tratto
successivo pregiudicare il diritto di questa Università, la quale sempre e
signanter nell’atto di possesso di questa Signora formalmente si protestò
contro il titolo suddetto»358.
Anche i molfettesi, quelli che Don Paolo Spinola aveva stigmatizzato
come «teste malsane»359, consideravano evidentemente degno del titolo di
M.Manrique de Lara y Velasco, Los modernos Condestables, in «Hidalguía: la revista de genealogía,
nobleza y armas» (298-299), Salazar y Castro 2003, p.361
356 G. Vallone, Feudi e città, cit., pp. 235-236
357Ivi, pp. 236-237
358 D. Magrone, La fine del dominio feudale in un Comune della Puglia, Molfetta 1900, p. 7
359 Nel carteggio intercorso tra Luca e Paolo Spinola in APGS, Fondo Spinola “Lettera di Don Paolo”,
cit. ( IV Appendice doc.) a proposito della infinita lite, Paolo parla degli abitanti dell’universitas come
“gente malsana”, poiché in diverse occasioni si era mostrato restio il Reggimento della città a
raggiungere un accordo, un “accomodo” in relazione alla controversia.
355
105
princeps solo un uomo. Gli esponenti del Reggimento della città
rappresentarono in questo modo una sorta di inconsapevole consenso a
quanto profuso nel testamento di Gio. Filippo. L’universitas e il suo antico
signore avevano trovato finalmente un punto di incontro.
106
CONCLUSIONI
La fine degli Spinola di San Pietro. I Gallarati Scotti
Avendo esposto i Deputati della città di Molfetta ed i Proccuratori del
Principe di Molfetta Conte Scotti e della Duchessa di San Pietro in
Galatina Donna Isabella Spinola di aver conchiuso, che quella
Università comprì il feudo di Molfetta per il prezzo di ducati
213.730,52, a condizione che una tal vendita sia sovranamente
approvata, e resti abolita una denuncia pendente nel Tribunale della
Camera con la quale si pretese anni sono dalla medesima città di esser
nulla una transazione fatta nel 1679 tra il Regio Fisco e Veronica
Spinola […] S.M., uniformandosi al sentimento manifestato dal
Marchese Vivenzio si è degnata di ordinare, che venga abdita la
predetta denuncia, come l’Università, ed il Possessore di Molfetta
hanno domandato ed hanno approvato benanche che resti nella sua
piena fermezza e validità la vendita della città di Molfetta conchiusa
tra le mentovate due parti, onde quella Università ritorni al Regio
Demanio360.
Il 1798 fu un anno cruciale per la storia dell’universitas molfettese che
riconquistò la sospirata demanialità. Non più utili padroni bensì, almeno in
teoria, quella vera Felix patria in qua fruimur libertate361. Il principato di
Molfetta rimase un titolo formale legato al possesso di terre e rendite ancor
di carattere feudale, ma estraneo alle mura cittadine.
Nel testo in cui si dispose il regio assenso a questa transizione non si può
non notare che Isabella era nomata appunto solo come duchessa di San
Pietro in Galatina e che invece Carlo Gallarati Scotti veniva definito Principe
di Molfetta. L’abiatico di Maria Teresa Spinola, ultima secondo la linea di
primogenitura stabilita da Gio. Filippo, alla morte dell’ava avvenuta nel
1794, aveva chiesto e ottenuto l’anno successivo il regio assenso da parte di
Ferdinando IV a «contare titolo di Principe di Molfetta»362.
Il regio decreto si limitava a questo singolo titolo non menzionando
quello di duca di San Pietro in Galatina, che così rimaneva ancora in capo a
ACM, ms 124, Litigio tra la Casa Spinola e l’Universitas di Molfetta
E. Pomes, cit., p. 146
362 APGS, Fondo Spinola, “Molfetta 1795, Decreto Regio che riconosce Carlo Gallarati Scotti contare
titolo di principe di Molfetta” (V Appendice documentale)
360
361
107
Isabella363. La Marchesa del Fresno forse si era rassegnata a non opporsi, a
dividere l’individuo patrimonio feudale probabilmente nel momento in cui
aveva ricevuto il rifiuto di riconoscere l’agognato titolo da parte dei
molfettesi nel 1786, lasciando che esso fosse attribuito a Maria Teresa
Spinola prima e alla sua discendenza maschile poi, in ossequio ancora una
volta ai voleri di Gio. Filippo.
Al godimento della eretta universale Primogenitura chiamò in primo
luogo D. Francesco-Maria Principe di Molfetta suo figlio primogenito,
e dopo di esso i di lui discendenti maschi legittimi e naturali, per linea
mascolina, di primogenito in primogenito in infinitum more Regio.
Nel caso di estinguersi la linea mascolina del primogenito Principe di
Molfetta D. Francesco Maria volle, che nell' ordinata universale
Primogenito succedesse p. Giuseppe altro suo figlivo legittimo e
naturale, e dopo di lui i suoi figli e discendenti legittimi e naturali, di
maschio in maschio, di primogenito in primogenito, e nella stessa
guisa, che disposto avea per la discendenza del primogenito Principe
di Molfetta D.Francesco-Maria. […]
- Passò poi, nel caso di estinzione di tutti i maschi discendenti dai
menzionati suoi figli, con capitoli separati alle chiamate de discendenti
maschi di D. Teresa Spinola Contessa Scotti sua figlia, ed indi de
maschi delle femmine discendenti di cennati due suoi figli maschi
coll'istesso ordine e qualità di primogenitura364.
Nel 1801, alla morte di Isabella, ultima della sua cognominatio, Carlo
Gallarati Scotti successe definitivamente in tutti i beni feudali spinolini365.
Non v’era più nessuno che potesse opporsi: i San Pietro si erano estinti.
In quell’Italia scossa e rinnovata da Napoleone, il nipote ex filio di Donna
Maria Teresa366 potè accedere ufficialmente a tutti i diritti feudali di erede
maschio della famiglia367. Non vi fu più il nome Spinola, ma Gallarati Scotti,
Per Sacrum Regium Consilium iunctis aulis et subiecto fideicommisso, ac primogeniturae institutae a quo
illustri Duca S. Petri in Galatina D. Joa. Philippo Spinola Spectavisse et spectare in beneficium Illustris Comitis
D. Caroli Scotti Gallarati et Principis Melphicti neptis ex filio primogenito praemortuo in APGS, Fondo
Spinola, Regio Decreto di Ferdinando IV 1795
364 Ivi, p. XLIV
365 O. Guidotti, cit., p. XLV
366 Marito di Maria Teresa fu Giambattista Gallarati erede dal patrigno Giovan Battista Scotti con
l’obbligo di assumerne il cognome, acquisendo così i feudi di Vedano e Colturano con il titolo
comitale. Cfr. R. Santamaria (a cura di), Palazzo Doria Spinola, cit., p. 60
367 V. Spreti, Enciclopedia storico-nobiliare italiana: famiglie nobili e titolate viventi riconosciute dal R. governo
d'Italia compresi: città, comunità, mense vescovili, abazie, parrocchie ed enti nobili e titolati riconosciuti,
Vol.III, Bologna 1930, p. 323
363
108
non più Genova, ma Milano a indicare il principato di Molfetta e il ducato
di San Pietro in Galatina.
Eppure non fu questo l’unico mutamento che interessò l’universitas e il
regno di Napoli in quel sì delicato periodo storico. I napoleonidi avevano
sancito l’eversione della feudalità con la legge del 2 agosto 1806 firmata da
Giuseppe Bonaparte. In questo modo erano state soppresse le giurisdizioni
e i diritti feudali, e passati al regio demanio. Era ormai abolito il diritto
feudale, lo ius commune era l’unico ordinamento cui fare riferimento per le
terre del Regno. Tuttavia all’art. 3 di quella legge rivoluzionaria si leggeva:
La nobiltà ereditaria è conservata. I titoli di principe, di duca, di conte
e di marchese, legittimamente conceduti, rimangono agli attuali
possessori, trasmessibili ai discendenti in perpetuo, con ordine di
primogenitura, e nella linea collaterale sino al quarto grado.
Occorre che tutto cambi perché nulla cambi? Ciò che è certo è che i salvifici
titoli erano conservati e così anche le pratiche successorie basate sulla
primogenitura. Le leggi sull’eversione della feudalità furono quindi quel
«tonfo senza rumore» descritto da Giulio Sodano368?
Il tonfo si udì in modo ben distinto e destabilizzante per coloro che sino
ad allora avevano goduto di benefici e privilegi fiscali consolidati da prassi
e consuetudini centenarie. Musi definisce il tratto principale del
feudalesimo mediterraneo «il binomio possesso terriero-giurisdizione».
Premessa fondamentale di questa equazione è che l’insieme dei “diritti” di
cui i signori godono sul territorio configura uno status che, «per tutta l’Età
moderna, assegna[va] loro un valore aggiunto rilevantissimo rispetto alla
posizione di semplice proprietario terriero»369. L’eversione «abolì
comunque la feudalità come ordine della società titolare di giurisdizioni,
G. Sodano, L'aristocrazia napoletana e l'eversione della feudalità: un tonfo senza rumore? in R. De
Lorenzo (a cura di), Ordine e disordine. Amministrazione e mondo militare nel Decennio francese, Napoli
2012, pp. 137-157.
369 A. Musi, Feudalesimo mediterraneo ed Europa moderna: un problema di storia sociale del potere,
«Mediterranea»
n. 24, 2012, pp. 14-15
368
109
cioè di privilegi»370, non si tradusse nel mero ridimensionamento delle
rendite a causa del nuovo sistema tributario che assoggettava alla
bonatenenza non solo i beni allodiali, ma anche e soprattutto quelli che prima
erano feudali con una perdita economica non irrilevante per i baroni, che
come asseriva Pasquale Villani, subirono «un colpo dal quale non avrebbero
più potuto riaversi»371.
Quella che si preservava intatta era la nobiltà ereditaria, almeno nella
trasmissione dei titoli e del patrimonio, preservata era infatti la
primogenitura, lasciando sostanzialmente invariato il maggiorascato
previsto nel Codice Napoleonico in conformità con quanto sancito nelle
famose prammatiche 33 e 34 de feudis, ma non già il fedecommesso, abolito
con un provvedimento del 1807. Cadevano le antiche prestazioni personali,
cadevano gli antichi diritti giurisdizionali.
Una palese lacuna invece, secondo la letteratura storico-giuridica di fine
Ottocento, era rappresentata dalla mancata riforma economica, quella tanto
sospirata riforma agraria che avrebbe davvero colpito la patrimonialità e il
potere feudale372. È stigmatizzato come conservativo questo «carattere non
profondamente innovativo della legge»373 e pertanto l’abolizione non si era
fattualmente perfezionata,
non intaccando
efficacemente la forza
economica del baronaggio374. Non si considera però l’aspetto più pregnante
della legge del 1806: l’abolizione dei privilegi e di quel sistema di
giurisdizioni troppo spesso prono agli abusi375.
Angela Valente parla di una «passiva rassegnazione»376 da parte
dell’antico ceto feudale, circostanza che non ha, invero, riscontri univoci.
Anche Elvira Chiosi insiste su questo concetto: i novelli grandi proprietari
A. Musi, Il feudalesimo nell’Europa moderna, Bologna, Il Mulino, 2007, p. 277
P. Villani, Il decennio francese, in R. Romeo e G. Galasso (a cura di), Storia del Mezzogiorno, vol. IV,
t.2, Roma 1986, pp. 609-610
372 A.Musi, Il feudalesimo nell’Europa, cit., p. 281
373 Ivi, p. 280
374 Ivi, pp. 277-280
375 Ibidem
376 A. Valente, Gioacchino Murat e l’Italia meridionale, Torino 1965, p. 18.
370
371
110
titolati non si sarebbero mostrati colpiti da questa repentina trasformazione
nonostante ciò comportasse una contrazione economica delle rendite
feudali, ma anche la ben più devastante decadenza politica dopo
l’affermarsi della dinastia borbonica377.
La condizione di semplice proprietario terriero comportava comunque
l’assunzione di oneri mai sostenuti dal baronaggio, che il diritto feudale
aveva sino a quel momento preservato. L’ipotesi che tale gruppo sociale
poteva aver ritenuto allettante - ma che non fu mai posta in essere - era stata
«semmai quella di diventare nobili proprietari», continuando cioè a
conservare gli antichi privilegi, primo fra tutti l’esenzione dai tributi. E
invece dovettero rapportarsi con la triste realtà di esser sì possidenti, ma
con obblighi di “cittadini”378. Questo nuovo habitus li pose peraltro di fronte
alla soppressione di retaggi di antico regime, che colpirono quegli elementi
che attenevano non solo alla sfera sociale delle famiglie, ma in particolare a
quella economica.
Al di là della perdita dei privilegi feudali, non si può non convenire con
Maria Antonietta Visceglia che le leggi eversive attraverso l’abolizione di
istituti consolidati e caratterizzanti le costumanze aristocratiche, come ad
esempio il fedecommesso, attraverso eventi destabilizzanti come la
soppressione di un gran numero di monasteri, utili luoghi «dove riversare
le eccedenze femminili […] ed educare le fanciulle non destinate al
chiostro»379, ebbero in ogni caso un effetto disgregante sulle ricchezze
nobiliari e sul mos nobilium, minando irreversibilmente i pilastri e le certezze
sui quali sino ad allora essi si erano poggiati380.
La Restaurazione – come ribadito – accolse integramente quanto posto in
essere da Giuseppe Bonaparte prima, e da Gioacchino Murat poi.
377
E. Chiosi, Il Regno dal 1734 al 1799, in G. Galasso e R. Romeo (a cura di), Storia del Mezzogiorno, vol.
IV/2, Napoli 1986, p. 441.
378 G. Sodano, L'aristocrazia napoletana, cit., p. 145
379 Ivi, p.149
380 M. A. Visceglia, Il bisogno di eternità, p. 255
111
Ferdinando IV di Borbone confermò la linea adottata nel breve periodo
franco - napoleonico in tema di feudalità, e intese dare una sistemazione
razionale alle amministrazioni locali381, attenendosi sostanzialmente al
modello del Decennio francese, e dunque riprendendo a grandi linee le
leggi promulgate nel 1806 da Bonaparte.
Si scardinò così, definitivamente o quasi, un retaggio istituzionale «che
aveva del tutto perso la funzione per cui fu originariamente istituito»382.
Tramontarono progressivamente anche le universitates, i sedili e i loro
reggimenti. L’ancora per poco Regno di Napoli fu suddiviso in province,
distretti
e
comuni,
affidandone
la
responsabilità
governativa
rispettivamente all'intendente, al sottointendente e al sindaco. Nel dicembre
1816, spenti gli echi rivoluzionari e sancite le determinazioni del Congresso
di Vienna, l'Italia meridionale e la Sicilia costituivano il Regno delle Due
Sicilie.
Cambiati
erano,
all'opposto,
gli
assetti
cittadini
nel
decennio
napoleonico, con i suoi 15000 abitanti Molfetta assurgeva alla prima classe
dei centri urbani, conformandosi al nuovo corso. L’antica universitas si
accordò al “decoro borghese”383, nel 1806 si diede di conseguenza una
definizione codificata del terzo ceto,
che comprende il resto del popolo ma da questo possono eligersi a
Decurioni e altri Uffici, i soli comodi Massari e accreditati Artieri384.
La borghesia cominciò ad assumere concrete connotazioni, attraverso la
promozione di «un clima culturale con chiaro orientamento di impegno
Legge del 12 dicembre 1816 sull’amministrazione civile e Legge del 21 marzo 1817 sul contenzioso
amministrativo
382 A. Mele, La legge sulla feudalità del 1806 nelle carte Marulli, in S. Russo (a cura di), All’ombra di Murat.
Studi e ricerche sul Decennio francese, Bari 2007, p. 104
383 P. Conte, Recensioni: A. Spagnoletti (a cura di), Il governo della città, il governo nella città. Le città
meridionali nel decennio francese, in Atti del Convegno di Studi, Bari 2009, in «Bollettino storico della
Basilicata», n. 26 (2010), pp. 398-399
384“Nella lista degli eleggibili a cariche pubbliche del Comune di Molfetta nel 1806, si desumeva lo
status prettamente borghese della maggioranza degli aspiranti” in P. Modugno, L. La Forgia, Storia di
Molfetta. Uomini e vicende di un Comune della Terra di Bari. Volume I (dalle origini all’Ottocento),
Molfetta 2019, pp. 120-121
381
112
civico, morale e politico» ponendo le basi per una modernizzazione nel
lungo periodo385.
L’appellativo di principe di Molfetta, Spinola o Gallarati Scotti che fosse,
rimase invece inalterato: un prezioso e prestigioso recipiente del tutto privo
di tangibili contenuti al di fuori di quelli prettamente patrimoniali.
385
Ivi, p. 129
113
APPENDICE DOCUMENTALE
Documentazione Archivio Gallarati Scotti Milano, Fondo Spinola
I
Vendita della città di Molfetta da Ferdinando Gonzaga a Gio.
Stefano Doria e mediante il suo assenso a Luca Spinola
1640 2 Aprile
Vendita della città di Molfetta dal Sig. Ferdinando Duca di Guastalla a
Gio. Stefano Doria e mediante il suo assenso al Sig. D. Luca Spinola,
quondam Gaspare per ducati 170.000. Roga Notaro Gio. Francesco Poggio
1640 4 Maggio
Ratifica del medesimo contratto Notaro Gio. Villani di Guastalla
Ratifica fatta da Ferdinando Gonzaga giuniore, Duca di Guastalla
dell’instrumento di vendita della città di Molfetta 2 aprile 1640 a Notaro
Giovanni Francesco Poggio al Signor Luca Spinola, quondam Gaspare di
consenso del Signor Giovanni Stefano Doria quondam Nicolò per il prezzo
di scudi 170.000.
Melphictae
1640 2 Aprile
Instrumento con cui Gian Stefano Doria trasmette a Luca Spinola la città
di Molfetta nel caso che esso Doria in sua vita non avesse nominato altro
successore in Notaro Giovanni Francesco Poggio di Genova
Instrumento scripto dal Notaro Gian Francesco Poggio di Genova con cui
il fu don Gian Stefano Doria in sua vita non avesse nomato altro successore
come di fatto non lo nominò
Executio di Regio Privilegio per il quale S.M. Cattolica concede il suo
assenso alla vendita fatta per l’Ill.mo D. Ferrante Gonzaga Duca di
Guastalla e Principe di Molfetta a D. Luca Spinola per ducati 170.000.
II
114
3 giugno 1690
Distinzione che dicesi avuta da Molfetta da Giambattista Baguer
relativa al debito di Gian Maria De Luca di ducati 2245 verso la Sig.ra
Veronica Spinola in conto del quale si vedono assegnati alla medesima
vari stabili ivi distinti situati in Molfetta risultando la stessa signora
creditrice anche di ducati 71, oltre l’ammontare di varie spese. Molfetta a
suo tempo
======================
(parte non leggibile)
Rogato per mano del Notaro Giuseppe Grazioso di Bari habitante in
Giovinazzo sotto li 7 marzo 1687 quali obligò pagare in diverse tande. In
grazia del qual debito il Sig. Gio. Maria de Luca e Francesca Passari sua
moglie assignarono al Sig. D. Gio. Batta de Baguer Agente Generale
dell’Ecc.mo Signor Duca di San Pietro, Principe di Molfetta infradetti beni
stabili: una possessione d’arbori di olive et altri frutti di vigne otto, ordini
quattordeci, et viti nove secondo la pubblica general misura della corda di
Molfetta posta nel tenimento di detta città in loco detto Piscina Stamita,
apprezzata a ducati sessanta la vigna sì che detto prezzo ascenda a ducati
501:330 ¾
Una possessione d’olive et altri frutti di vigne quindecim, ordini due e
viti 23 posta nel detto tenimento in loco detto il Piano di Mizzo, chiamato
Li Canali Grandi, apprezzata a ducati cinquantanove la vigna sì che
dall’intiero prezzo ascende a 888:79 ¼
Una pezzogna d’olive di vigne cinque volte poste nel medesimo
tenimento in loco detto Torri Moscati apprezzata a ducati cinquantacinque
la vigna, sì che l’intiero prezzo di essa ascende a ducati 275
Et un’altra pezzogna similmente d’olive di vigne nove, ordini quattro, e
viti 32 apprezzata ducati cinquantasette la vigna; sì che l’intiero prezzo
ascende a ducati 519:80/22187:93
115
Da li quali si defalca ducati 25 per il capitale d’annui carlini* dodeci e
mezzo si devono al reverendo capitolo la possessione delli Canali ducati
25/2159:93 sì che il prezzo di dette robbe resta netto.
Alli retroscritti ducati 2159,93, s’aggiongono ducati 13,95 per le culture
fatte in dette robbe nel presente anno, quali culture non stanno incluse in
detti prezzi; sì che uniti ducati 13,95 con detti ducati 2159,93, fanno ducati
2173:88.
Quali defalcati dalli detti ducati 2245, credito di Nobile Eccellentissima
Signora Donna Veronica Spinola, restò debitore detto Giovanni Maria in
ducati 71,12. Detti coniugi si obbligarono insieme ai loro figli, Michele e
Domenico de Luca a pagare a’ debito Ecc.mo Illustrissimo Sig. Duca per
tutte.
Li 20 maggio 1692.
Inoltre si obbligarono a pagare all’Ill.mo Sig.Agente Generale infra il
medesimo termine di due anni l’interesse si pretende dallo Illustre Agente
nella misura che dovrà dichiararsi dall’Illustre Celentano, Giudice della
Gran Corte della Vicaria una colle spese fatte dall’ill.mo don Giovanni
Battista tanto intimatio quanto nell’udienza di Trani spese per
la
stipulazione di instrumenta di detti apprezzatori e delli Agrimenzori,
quale spese anco si dichiarvano dall’illustre don Marcello Celentano.
Come tutto chiaramente si legge dall’istrumento stipulato dal Notabilis
Gasparro Squadrella di Modugno sotto li 18 maggio 1690.
116
III
Trascrizioni lettere varie indirizzate a don Luca Spinola 1736-1750
Lettera di don Marco Imbonati al Duca Luca Spinola
Milano marzo 1736
Carissimo amico,
la lettera fortunatissima che da V.E. solo ieri ho ricevuto in data delli 4
novembre dello scorso anno indica che non ne ho ricevuto verun altra prima
e che lo sbaglio proceda apporto o dalla Posta o dalla grande lontananza del
Paese in cui Vostra Ecc.za si ritrova; che se io prima d’ora han così avuto il
gran contento di ricevere sue lettere, può ben ella immaginare quanto sarei
statto sollecito nel rispondere, sì per la stima, sì per l’affetto che anche io
grande le professo.
Se mi è riuscita nuova la notizia ch’ella mi ha data del suo felice
matrimonio, mi è stata occasione di grande allegrezza per il contento che
V.E. ne haveva ricavato da un collocamento sì Nobile: solo temo che
coll’essersi accasato costì in Madrid, Dio sa quando più averò il contento di
vederla e di darle un stretto abbraccio; anzi se costì vi fosse qualche nichia
propria del mio Grado e stato, quanto volentieri verrei ad abitare in questo
Paese e così poter stare assieme e finire costì i miei giorni ove mio Padre ebbe
li suoi natali, molto più se in casa di sua ecc.za avessi ad avere in qualche suo
quarto la mia abitazione; io credo che piantaressimo costì una buona
Accademia da divertirsi. Costì pure è quella città nella quale per cinque anni
vi hà dimorato in qualità di Paggio della Regina e poi Capitano del
Regimento all’or del Padre stesso di V.E. mio fratello che costì pure è morto.
Resti pure certo che non lasciarò di adunare ouverture e di violino e di
flauto in quantità per servire V.E. e le consegnerò al portiere di sua casa in
Milano, ma bisogna poi che ella raccomandi al suo signor padre che dia
ordine che gli rimettino subito costì tutto ciò che farò avere al detto portiere,
acciò io non sia considerato dimentico del mio obligo di servirla.
117
Sappia pure che tante volte mi ero ricordato di V. E. e avere mandato delle
musiche, ma non sapevo mai ove far capo e ove diriger le mie lettere; ove
dunque si degni di tenere corrispondenza di me con sue lettere che mi
saranno molto care.
Procurerò nelle mie orazioni di pregare per V.E., e che Dio gli conceda di
vivere sempre
in santa pace ed allegrezza colla sua sposa mia nuova
padrona, mentre ai tempi nostri li affetti dei mariti verso le proprie spose oh
quanto presto si raffreddano.
Pensi un po’ seriamente come si potrebbe effettuare il venire costì anch’io
e viver assieme in buona e santa compagnia con V.E., a cui profferire tutta la
mia servitù et il mio affetto.
Speravo, poi, che mi darà a suo tempo la felice nuova della gravidanza
della Sig.ra Duchessa sua consorte a cui desidero un felice e maschile parto.
Mi raccomando poi anch’io con tutta libertà a V.E., giaché è in cotesta città,
di mandarmi un po’ di buon tabacco nero di Siviglia à suo genio e con di
nuovo pregarla dei suoi preziosissimi commandamenti, siccome anche della
continuazione del suo buon affetto che stimo molto e con pregarla di pormi
ai piedi della futura sua consorte e cugina con tutto l’ossequio e affetto mi
protesto di V.E..
Per meglio servire sua ecc.za sarebbe bene che la mi mandasse una carta
in cui fossero scritti tutti li motivi e principii delle sue ouverture e suonate,
per non avere a duplicare invano le coppie che di volta in volta le manderò.
Mio nipote le invia li suoi rispetti e saluti.
Devotissimo, obligatissimo et affezionatissimo servo et amico don Marco
Imbonati.
118
IV
Lettera di Don Paolo Spinola al suo Sig. fratello Don Luca Spinola
Carissimo Fratello
non ho che suggerire in risposta al Vostro amatissimo foglio del 7 giugno,
poiché altro non contiene che gentili espressioni di affetto, di cui porgo
distinte grazie. Venendo alla causa dello ius moliendi, come vi scrissi nella
passata, sta appuntata per il 24 entrante, però prima si vedrà che può
conseguire Vostro Sig. Principe da Sua Maestà, dopo che la di lui andata a
Molfetta è stata inutile, non avendo i Molfettesi voluto accettare partito
alcuno, anziché il canonico Lupis, che anni sono in Voghera fu tanto favorito
dal Duca, ebbe ardire di dirgli in faccia:”Sig. Principe, non occorre ch’ella si
lusinghi, non si vuole accomodo”.
Tutto ciò fu da me previsto, come con l’antecedente mia vi denotai,
allorché vi motivai che, nonostante buone speranze che il Sig. Principe dava
con la sua lettera da Molfetta per l’accomodo, io nulla ne vedevo.
Gli molfettesi sono teste malsane et hanno fatto andare in disperatione gli
Ministri della casa, come e seguito a Cavagnaro Bagner et altri, che poi hanno
le liti portato grandissimi dispendi alla Casa, e l’abbate Massa richiesto dalla
felicità medesima di nostro Padre che ritornasse nel 1725 a riprendersi la
coministrazione di Molfetta senza gl’altri Feudi, ne pure volle accettarla.
Io prego il cielo che il Sig. Principe ottenga qualcosa avvantagiosa da Sua
Maestà, il che si vedrà dimani nel presentarci il memoriale, giachè il Popolo,
che è stato a me sempre favorevole e dalla mia parte, ha firmato, in numero
di 600 e più, una procura e un memoriale diretto a Sua Maestà, richiedendo
di volere l’accomodo.
Dovrebbero queste scritture firmate da tanto numero di gente fare nello
animo del Sovrano qualche impressione, ma pure io non so animarmi a
sperarlo. Iddio e la Vergine Santissima siano però quelli che ci aiutino.
Il Sig. Principe ha fatto quanto mai poteva et ha pensato quanto era
possibile, ma vi sono cinque o sei capi, che non hanno che perdere, e mettono
119
sotto sopra tutto il pubblico, e due d’essi sono l’Arcidiacono Figlioli e Ciro
De Luca.
In Molfetta io non mi portai con il Sig. Principe, mentre esso
espressamente lo vietò, dicendo che voleva andar solo, anzi che non volle ne
pure accettare l’alloggio in mia casa, come io lo pregai, adducendo motivo
che non voleva dar ombra ai Molfettesi d’intelligenza, onde io mi sono
intieramente uniformato ai suoi voleri, e solo ho eseguito il suo dettame; e,
quindi, alloggiò dai Padri Gesuiti, e la di lui famiglia nella mia casa.
Nell’entrante settimana spero passare all’Isola d’Ischia a prendere quelli
bagni, et al ritorno immediatamente portarmi a Molfetta per tirare gli conti
di questi due anni, il che non si è potuto fare nell’anno passato per causa di
non essermi potuto di qua amovere, però, prima di partirmi, sentirò che
disposizione da Sua Maestà ebbe nostre suppliche.
Nell’entrante settimana spero passare all’Isola d’Ischia a prendere quelli
bagni, et al ritorno immediatamente portarmi a Molfetta per tirare gli conti
di questi due anni, il che non si è potuto fare nell’anno passato per causa di
non essermi potuto di qua amovere, però, prima di partirmi, sentirò che
disposizione da Sua Maestà ebbe nostre suppliche.
Il Duca e nostro fratello sta di tutto inteso e mi sollecita per il suo affare,
onde, in questa mia breve absenza, mi rimetto a quanto vi ragguaglierà il
Principe, con il quale ho fissato andar dimani dal Marchese Ferrante, per
averlo sempre più propitio.
Conservatemi il Vostro affetto e, pronto a Vostri comandi, mi confermo
Vostro affezionatissimo fratello che v’ama.
Napoli 24 luglio 1750.
Don Paolo Spinola
120
V
Molfetta 1795, Decreto Regio che riconosce Carlo Gallarati Scotti contare
titolo di principe di Molfetta
Ferdinandus IV Dei Gratia utriusque Siciliae et Hyerusalem, Infans Hispaniarum,
Dux Parmae, Placentiae, et Castri, ac Magnificus Princeps hereditarius Hetruriae
In causa decreti pertinentis petiti per Illustrem Comitem Don Carolum Scotti
Gallarati, ut ex actis die 24 mensis Aprili 1795 Neapoli
Per Nobilem Caesarem Utriusque Siciliae, visis actis fuit provisum et decretatum
quod stante obitu Illustris Comitis et Principis Melphicti D. Theresiae Spinola e
Ducibus S. Petri in Galatina, bona, jura, et actionis in eius haereditate remansa
eidemque obventa virtute Instrumenti conventionis et transactionis initi die 8 aprili
1783 per Notarium Nicolaum Ranieri Tenti a Neapoli et adprobati per Sacrum
Regium Consilium iunctis aulis et subiecto fideicommisso, ac primogeniturae
institutae a quo illustri Duca S. Petri in Galatina D. Joa. Philippo Spinola
Spectavisse et spectare in beneficium Illustris Comitis D. Caroli Scotti Gallarati et
Principis Melphicti neptis ex filio primogenito praemortuo Magnificae Illustris
Comitis Theresiae etiam attenta renunciatione facta per Illustrem Archiepiscopum
Sida, et Nuntium Apostolicum D. Joannem Scotti Gallarati instrumento dici 12
Aprilis 1769 per Notarium Franciscum Lambertenghi Civitatis Mediolani folio
cum
iisdem
vinculis
conditionibus,
majoratu,
primogenitura
oneribus,
declarationibus ceterisque contentis tam in instrumento dicti quondam illustris
Ducis Sancti Petri in Galatina, D. Joanni Philippi Spinola quam in dicto
instrumento conventionis et transactionis et in omnibus servata forma eorumdem;
verum praesentem decretum non exequatur nisi prius registratum in Regio Archivio.
hoc juramentum Sava- Migliorini – Pisani […]
Neapoli, die primo mensis junii 1795
[firme illeggibili in calce]
121
Documentazione fotografica
1. Molfetta Via Piazza 8, iscrizione Veronica Spinola
122
2. Molfetta Seggio dei Nobili 1500, Via Piazza 10 – 12
123
3. Molfetta Via Forno Seggio dei Populares
124
4. Molfetta particolare Via Forno
125
5. Palazzo Filioli
126
6. Palazzo Giovene
127
7. Palazzo de Luca
128
8. Palazzo Dogana
129
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Doria e mediante il suo assenso a Luca Spinola”
II. “1690 3: Giugno, Distinzione che dicesi avuta da Molfetta da
Giambattista Baguer relativa al debito di Gian Maria de Luca in ducati
2245: verso la Sig.ra Veronica Spinola”
III. “Marzo 1736. Lettera di Marco Imbonati a Don Luca Spinola”
143
IV. “Luglio 1750. Lettera di Don Paolo Spinola al fratello don Luca Spinola”
V. “Molfetta 1795, Decreto Regio che riconosce Carlo Gallarati Scotti contare
titolo di principe di Molfetta”
Biblioteca Comunale di Molfetta, Manoscritto n. 232, Visaggio “Notizie
storiche dei vescovi e dei canonici di Molfetta dal 1679 al 1720”
Biblioteca Comunale di Molfetta, Manoscritto n. 124[6/VI], Litigio tra la casa
Spinola e l’Universitas di Molfetta (1753)
Biblioteca Nazionale di Napoli Vittorio Emanuele III, C. Franchi, Difesa a
favore della signora duchessa di S.Pietro in Galatina, e principessa di Molfetta d.
Isabella Spinola contra il signor d. Giuseppe Spinola, 1754
Biblioteca Nazionale di Napoli Vittorio Emanuele III, O. Guidotti, Per lo duca
di S. Pietro d. Giuseppe Spinola contra la marchesa del Fresno d. Isabella Spinola,
1754
Biblioteca Nazionale di Napoli, Vittorio Emanuele III, C. Franchi, Esamina di
Ragioni delle nullità proposte a nome della Signora Marchesa del Fresno, Donna
Isabella Spinola avverso la sentenza interposta dal S.R.C. a’ 9. Luglio del 1757. A
favore del Signor D. Giuseppe Spinola, 1758
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Treccani, Vocabolario online
Treccani, Dizionario di Storia, 2010, versione online
144
RINGRAZIAMENTI
Mi è doveroso dedicare questo spazio del mio elaborato alle persone che
hanno contribuito, con il loro instancabile supporto, alla realizzazione dello
stesso.
In primis, un ringraziamento speciale alla Professoressa Elena Papagna, mio
relatore e mentore, per la sua immensa pazienza, per i suoi indispensabili
consigli, per le conoscenze trasmesse durante tutto il percorso di stesura
dell’elaborato.
Ringrazio infinitamente mio padre e mia zia Maddalena che mi hanno
sempre sostenuto appoggiando ogni mia decisione di proseguire “oltre il
dovuto” il mio percorso di studi.
Un grazie di cuore va al Professore Pasquale Cordasco che mi ha indicato la
via per muovermi nel dedalo degli archivi pubblici e privati.
La mia personale riconoscenza va infine al Cavalier Corrado Pisani per la
grande disponibilità nei miei riguardi e per i consigli e gli aiuti preziosi
derivanti dai suoi studi e scritti.
145
Gli Spinola di
San Pietro
PELLINA
1599 ca.
∞ 18.06.1615
Luca Spinola di
Gaspare
principe di
Molfetta
POLISSENA (Suor
Maria Deodata)
03.06.1600
SUOR ANGELA
SERAFINA DI S.
SILVESTRO
MARIA CAMILLA
(Suor Maria
Giovanna in San
Sebastiano)
01.02.1608
GIO. MARIA
VERONICA
18.06.1601
∞ David Imperiale
marchese d’Oria
GIOVANNI BATTISTA
GIO. FILIPPO
1575 - † 13.12.1625
† I Duca di San Pietro
GIO. CARLO
∞ 01.01.1596 Maria di Filippo
Spinola di Ambrogio
(Fra’ Gio. Battista Maria di
Santa Teresa, carmelitano
scalzo) 15.03.1611
† 16.08.1642
GIO. PIETRO
VIOLANTE
GIO.
DOMENICO
23.12.1620 - † 1660
13.09.1602 - † 09.04.1666
II Duca di San Pietro
∞ 1629 Paola Maria di Gio.
Filippo Saluzzo
19.03.1619
∞ 12.04.1638 Lorenzo
Sauli di Ottavio Maria
∞ 22.01.1643 Carlo
Centurione di Luigi
San Pietro in Galatina,
05.07.1616 - †
10.04.1675
∞ 25.04.1644 Maria
Brigida Franzone di
Agostino
GIO.
AMBROGIO
21.09.1614 Napoli, †
14.10.1646
07.09.1609 - † 04.10.1660
Principe di Molfetta
∞ 21.11.1650 Veronica
Spinola di Luca
(† 14.02.1688)
LUCA
SPINOLA
di S.Luca
†1657
I Principe di
Molfetta
VERONICA
SPINOLA
di S.Luca
1625† 14.02.1688
AURELIA
PELLINA
SPINOLA di
S.Pietro
1599 ca. ∞ 18.06.1615
GIO. FILIPPO
SENIORE
SPINOLA di
S.Pietro
07.09.1609 - † 04.10.1660
II Principe di Molfetta
∞ 21.11.1650 Veronica
∞ Ercole
Grimaldi
marchese di
Campagna,
(poi Principi
di Monaco)
GIO. FILIPPO
JUNIORE
Ratisbona, 27.04.1677 - †
Milano, 10.02. 1753
IV Duca di San Pietro
IV Principe di Molfetta
FRANCESCO
MARIA
SENIORE
LUCA Conte di Siruela
Madrid, 06.12.1679 - † Madrid, 03.07.1750∞ Maria Luisa de Silva
Velasco de la Cueva Ruiz de Alarcón y Caballos, contessa de
Valverde, marchesa de Santa Clara e de Siruela e grande di
Spagna
25.02.1659-† Aranjuez,
15.05.1727
III Duca di San Pietro
III Principe di Molfetta
AMBROGIO
Milano, 09.03.1687
∞ Teresa Aulingeren
ISABELLA SPINOLA
di Paolo marchese
de Los Balbases
(† 04.10.1700)
∞ 05.01.1704
MARGUERITETHÉRÈSE COLBERT
Gli Spinola di San Luca si
uniscono al ramo dei San
Pietro
∞ MARIA
TORQUATA
CONTRERES
GUZMAN Y TOLEDO
figlia
di don Giuseppe
Conte d’Alcudia
GIOVANNI BATTISTA
24.02.1688 - † Roma, 1753
Cardinale, Vescovo di Albano
PAOLO
Vicario generale di Molfetta dal 1726 sino al 1753?
Milano 1700 -?
∞ Vittoria Spinola fu Luca, Marchesa di Lerma
PROGENIE DI GIO. FILIPPO JUNIORE
(IV PRINCIPE DI MOLFETTA)
FRANCESCO MARIA Juniore
Pamplona, 13.09.1712 - † Madrid, 27.03.1754
V Duca di San Pietro
Principe di Molfetta
GIO. GIUSEPPE MARIA
06.03.1714 - † Napoli, 08.01.1784
VI Duca di San Pietro
Principe di Molfetta
∞ 1735 MARIA
ANNA
FRANCESCA
SPINOLA di Luca
contessa de Valverde e
de Siruela
ISABELLA MARIA
Spinola Marchesa
del Fresno
† 09.01.1801
∞ MARTIN
FERNÀNDEZ
DE VELASCO, duca di Frias
MARIA
FRANCESCA
SANSEVERINO
∞ 04.09.1758
NICOLÒ ANTONIO MARIA
27.03.1716 - † 28.01.1801
Vescovo di Lepanto
MARIA TERESA Casalnoceto 19-5-1721
+ Milano 18-10-1794
∞ GIO. BATTISTA GALLARATI SCOTTI
Patrizio Milanese, Signore di Vedano per
successione Scotti (con l’inquartamento
dell’arma e l’aggiunta del cognome Scotti) del
15-1-1729, Conte di Colturano
GIUSEPPE GALLARATI
SCOTTI
Milano 5-3-1750 + Parigi 10-6-1786
SIGNORE di Vedano dal 1777, Patrizio
Milanese, 5° Marchese di Cerano, ∞
COSTANZA ORSOLA BELLONI, figlia di
Luigi Ignazio Conte di Montù Beccaria
e di Vittoria Cuttica dei Marchesi di
Cassine
Dagli Spinola di San Pietro ai Gallarati Scotti
CARLO GALLARATI SCOTTI
3 febbraio 1775- 3 febbraio 1840
Marchese di Cerano, VII Duca di San
Pietro in Galatina (1801, - 3 febbraio
1840), Principe di Molfetta (18 ottobre
1794 - 3 febbraio 1840)
∞ 1814 FRANCESCA
GONZAGA
GUERRIERI