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L'Universitas e il Principe. Molfetta e gli Spinola

2020, L'Universitas e il Principe. Molfetta e gli Spinola

I rapporti tra l'Universitas di Molfetta e gli utili signori Spinola tra carteggi inediti e allegazioni

L’Universitas e il Principe. Molfetta e gli Spinola Indice Introduzione p. 3 Capitolo I p. 8 L’universo Universitas 1.1. Stat Universitas pristina nomine p. 9 1.2. Nascita e sviluppo delle universitates p. 13 1.3. Viaggio all’interno dell’universitas p. 15 1.3.1. Il reggimento p. 17 1.4. p. 19 Nobiles et Populares 1.4.1. Tra Nome e Virtù p. 23 1.5. Logge, Sedili, Piazze: l’”Agorà Universitaria” p. 32 Capitolo II p. 36 L’Universitas di Molfetta 2.1. Storia di “utili signori” e della città a loro infeudata p. 37 2.2. O felix patria, in qua nati fruimur libertate p. 39 2.3. Dai di Capua agli Spinola p. 42 Capitolo III p. 50 Gli excellentissimi Principi Spinola di Molfetta 3.1. Gli Spinola, Genova e la Monarquìa p. 51 3.2. Storia di ricchezze e di virtù p. 57 3.3. Vicari e luogotenenti. Tutti gli uomini del principe p. 61 3.3.1. Uno “straniero” a Molfetta: Francesco Benigassi 1 p. 63 3.3.2. Gli “indigeni” de Luca al servizio segreto della Principessa. Un carteggio inedito p. 65 Capitolo IV p. 72 Molfetta e gli Spinola tra pubblico e privato 4.1. L’annosa contesa per lo ius moliendi p. 73 4.1.1. «Gli Molfettesi sono teste malsane»: una lettera inedita del 1750 p. 78 4.2. L’eredità di donna Isabella Maria Spinola Marchesa del Fresno p. 90 4.2.1. Un padre amoroso e una controversa Primogenitura p. 91 4.2.2. La «desiderabilissima unione» p. 102 4.2.3. I diversi gradi di giudizio: La Gran Corte della Vicaria p. 103 4.2.4. Il Sacro Regio Consiglio delibera p. 105 4.2.5. L’ultima beffa: il sequestro in perpetuum della legittima p. 108 Conclusioni La fine degli Spinola di San Pietro. I Gallarati Scotti p. 112 Appendice documentale p. 119 Documentazione Archivio Privato Gallarati Scotti di Milano, Fondo Spinola p. 119 Documentazione fotografica di Molfetta da Via Piazza a Palazzo Dogana p. 127 Albero Genealogico degli Spinola di Molfetta p. 134 Bibliografia p. 134 Ringraziamenti p. 150 2 INTRODUZIONE Gli studi dedicati alle aristocrazie cittadine e, in generale, ai ceti dirigenti delle università meridionali nell’età moderna sono“«di gran lunga più modesti di quelli sinora accumulati per l’Italia centro-settentrionale». Il tutto si deve alla «perdurante […] concezione del Mezzogiorno come un indistinto “mare feudale” e il relativo corollario della centralità del rapporto baronaggio-Corona», nonché, «almeno a livello storiografico, il tradizionale rapporto, di subordinazione delle province alla capitale, di una “campagna” vista in modo eccessivamente indifferenziato rispetto a una “città” che sarebbe semplicistico identificare con la sola Napoli». Queste le emblematiche parole con cui esordisce Angelo Massafra nell’introdurre il volume di Spagnoletti L’incostanza delle umane cose1 in quello che possiamo definire il momento fondante dell’emancipazione storiografica dagli stereotipi e dai pregiudizi che avevano involto sino ad allora la storia del Regno di Napoli, dal centro alla periferia, da Napoli alle allora misconosciute Universitates. Questa tesi ha l’intento, semplice eppur complesso, di analizzare quanto ebbe peso, quanto peculiare fu nella forma e nei contenuti l’istituzione Universitas nel Regno di Napoli, quale fu il suo modo di rapportarsi ora al sovrano ora al barone. Adottando un metodo deduttivo, passeremo dalla disamina generale di quello che è spesso stato definito, superficialmente e in modo semplicistico, “Comune meridionale” sino a giungere alle particolari vicende di Molfetta e di coloro che furono insigniti del titolo di Principi di tale città dal XVII a tutto il XVIII secolo: gli Spinola. Ma procediamo con ordine partendo da una indagine semantica e giuridica del nostro campo d’osservazione principale: l’universitas e ciò che la rende tale. A. Massafra, Prefazione, in A. Spagnoletti, L’Incostanza delle umane cose. Il patriziato di Bari tra egemonia e crisi (XVI-XVIII secolo), Bari 1981, p. VII 1 3 Nel tentativo di definire – sia concessa una paronomasia - l’universo universitas potremmo in primis considerare come esso sia limitato ai meri confini della ricerca storica meridionale. Manca di una collocazione “italiana” così nell’Enciclopedia italiana, come nel Grande dizionario della lingua italiana di Salvatore Battaglia, che in ogni caso rimarca il significato ultroneo di “insieme delle persone che costituiscono una popolazione”2. Per il vocabolario Treccani è il «termine con cui, in Diritto Romano, viene indicata semplicemente una pluralità di cose, di persone o di rapporti giuridici»3: universitas personarum, la persona giuridica a struttura corporativa; universitas rerum o facti, una pluralità di cose, fisicamente separate ma tenute insieme da un’unica destinazione (caso tipico è quello del gregge o della biblioteca); universitas iuris, l’insieme di rapporti giuridici considerati unitariamente dalla legge anche prima che facciano capo a un solo soggetto (caso tipico è quello dell’eredità). L’origine di questa sorta di damnatio memoriae del termine Universitas, confluita in un sottogenere locale del Comune settentrionale, come fa rilevare Francesco Senatore, non si può che imputare al periodo postunitario, a quell’ansia di uniformare ciò che uniforme non era ovvero la storia e le istituzioni degli antichi Stati italiani4. Si è in questo modo assistito all’equiparazione del termine Universitas a quello di Comune, con relativa soccombenza del primo a favore del secondo. E così anche a livello accademico l’Universitas ha finito col rappresentare l’espressione del Comune in Italia meridionale, una sorta di mera denominazione locale. Ma non può l’adozione di un unico registro linguistico, e finanche storiografico, definire l’avvenuta Unità italiana, o “fare gli Italiani”. Le Grande dizionario della lingua italiana, XXI, UTET, Torino 2002, alla voce Università. Sono menzionati, in ogni caso, anche gli usi di “Università” come corporazione e come ente collettivo, di origine medievale. 3 Treccani, Vocabolario online, voce Universitas. 4 F. Senatore, Gli Archivi delle universitates meridionali: il caso di Capua ed alcune considerazioni generali in A. Bartoli Langeli, A. Giorgi e S. Moscadelli (a cura di), Archivi e comunità tra medioevo ed età moderna, Siena 2009, p. 448 2 4 diversità permangono al di là dell’elemento filologico derubricato. Come ribadisce Senatore «la ricerca sulle città meridionali è stata a lungo viziata da giudizi stereotipati»5. Invero si è focalizzata l’attenzione su monarchia e feudalità, il discrimen più netto tra Comune settentrionale e Universitas meridionale. Laddove il primo risulta autonomo tout court non dovendo far capo a nessuna autorità superiore, la seconda è legata ineluttabilmente alla presenza di queste due forze estranee alla realtà interna cittadina, che pongono il corpus universitatis in una sorta di necessaria convivenza e subordinazione rispetto a un governo centrale e a una sua rappresentanza locale. Ma, al di là della vicenda del lemma universitas, appare doveroso analizzare cosa essa significhi dal punto di vista giuridico - amministrativo. Nulla può meglio significare la valenza collettiva di questo ente come la glossa accursiana universitas nihil aliud est nisi singuli homines qui ibisunt, o il passo di Ulpiano si quid universitari debetur, singulis non debetur: nec quod debet universitas singuli debent 6. Si può pertanto parlare della persona giuridica Universitas. La dottrina meridionale di età moderna ha descritto il tutto come un vero e proprio corpo, un corpo mistico 7 o un corpus fictum una civilis hominum societas, quae neque familia, neque libera sit respublica, come asserisce Guarani 8. Ivi, p. 455 «Opera immane è la glossa accursiana, realizzata tra il 1230 e il 1240 dal glossatore civilista Accursio Essa attuò una selezione accurata e completa di tutto il materiale di glosse accumulatesi in oltre un secolo e mezzo sui testi giustinianei. Consta di 96.000 glosse, raccolte tra le migliori, conciliate e comunque presentate criticamente. Nell’uso pratico la glossa accursiana, detta anche Magna Glossa o Glossa Ordinaria, ottenne un enorme successo e dopo la sua apparizione il diritto romano giustinianeo poté diventare operativo soltanto attraverso l’apparato interpretativo da essa costituito. L’autorità della glossa fu talmente alta che in Germania, quando si operò la recezione del diritto comune, nacque l’adagio “chi non conosce la glossa non conosce la curia”. Il passo citato è di Ulpiano (Ulpianus, l. X ad edictum)» Voce Glossa in F. Del Giudice, Dizionario Giuridico Romano, Napoli 2017 7 F. Roggero, Il “corpo” e il “territorio” dell’universitas nel Regno di Napoli, in «Historia et ius- rivista di storia giuridica dell’età medievale e moderna», 11/2017, p. 15 8 Cfr. M. Guarani, Ius Regni Neapolitani novissimum (1774, con una seconda edizione molto accresciuta nel 1782 e una terza nel 1787-88), dedicato a Marcantonio Colonna principe di Stigliano, dal 1774 viceré di Sicilia. 5 6 5 Ma questa civilis societas non può prescindere dall’esser rappresentata da sindaci e da eletti, al fine di poter agire al di là della cinta muraria. Questo «corpo finto», questa «figurata persona, priva di sensi, di volontà, e di ogni altra potenza, che risulta dalla unione di quegli stessi uomini che la compongono, benché sia da quelli separata, e distinta», non può «da se stessa governarsi, esser in giudicio, e le sue ragioni proporre»9. Ed è qui che entrano in gioco coloro che operano per essa: «i decurioni, i consiglieri, i sindaci, i proccuratori, i diputati, gli eletti, gli anziani, i massari, e altri con altri nomi, che la rappresentano»10. Costoro possono e devono rapresentare l’universitas, quando, invece, non è dato farlo ai comuni cittadini, quia lis universitatis non est lis singulorum11. Al di là del discorso se vi siano analogie tra il concetto di universitas e quello di repubblica (ossia i comuni del Nord Italia del tutto autarchici e indipendenti da qualsivoglia potere superiore, a differenza delle Universitates del Mezzogiorno), è innegabile che entrambi poggino la loro - non così dissimile - autonomia giuridico-amministrativa sull’opera di magistrati e di propri rappresentanti. Difatti omnis recta gubernatio etiam in universitatibus subditis potest dici respublica largo modo, et omnes civitates sortiuntur nomen reipublicae12. Sin dal 1969 Giuseppe Galasso ha tentato di porre rimedio all’annosa questione, definendo Comune – sia esso la “città stato” settentrionale o l’università meridionale - come «il ricostituito potere municipale che, entro un ambito di competenze più o meno largo secondo i tempi e secondo i luoghi, torna dopo alcuni secoli a esprimere una certa misura di autonomia Roggero cita un passo di S. Di Stefano, La ragion pastorale, over comento su la pramatica LXXIX De officio Procuratoris Caesaris, I, Napoli 1731, p. 308 ne Il “corpo” e il “territorio”, cit., p. 13 10 Ibidem 11 C. de Jorio, Feracissimus tractatus de privilegiis universitatum, Napoli 1713, n. 3, p. 305 12 …ex eo, quod in earumgubernatione est quaedam forma reipublicae, ut quemadmodum in republicaadestdistinctiomagistratuum et officiorum, et alii imperant, et alii obediunt. Sic in recta universitate, quae recte gubernatur, adest quaedam forma reipublicae, ita, ut sit in ea distinctio variorum officiorum, et vario rum munerum, sicut est in republica, et quemadmodum respublica gubernatur ad instar unius corporis, ut diximus supra ita qualibet universitas, civitas, seu municipium, curia et societas in A.A. Caputo, De regimine reipublicae tractatus fertilis, Napoli 1622, nn. 11-12, p. 351 9 6 locale e a limitare, condizionare e affiancare in questo senso il potere centrale e sovrano dello stato (eventualmente anche dello stato comunale) o di coloro che ne sono in loco, come feudatari e grandi enti immunitari, delegati e rappresentanti»13. Pertanto, anche alla luce di una storiografia sempre più vasta, che esplora in modo approfondito anche i risvolti giuridici della questione, si erra inevitabilmente sia nel porre dei distinguo netti e invalicabili tra le due persone giuridiche in esame sia nel costruire un amalgama confuso delle medesime nel vano tentativo di unificare realtà che identiche non sono e tuttavia non appaiono neppur così diverse. 13 G. Galasso, Dal Comune medievale all’Unità. Linee di Storia Meridionale, Bari 1969, p. 9 7 Capitolo I L’universo Universitas 8 1.1. Stat Universitas pristina nomine L’universo delle universitates era il perno attorno al quale girava l’intero sistema amministrativo del Regno di Napoli. Le università erano ovvio riferimento per il territorio, loci vitae per la popolazione ove si evolvevano gli scambi nel passaggio da un’economia esclusivamente agraria a una più variegata e rivolta al commercio. Tutto ciò premesso, la riflessione di Calasso “la città è presente allo Stato sopra tutto coi suoi elementi materiali, come una circoscrizione territoriale e un insieme di uomini”14 ha attualmente, seppur senza far riferimento al termine Stato, ancora ragion d ’essere, in quanto per dirla con Roggero «coglie la reale dialettica che si venne instaurando, nel Mezzogiorno d’Italia, tra quell’ordinamento e le comunità»15. Ciò che marca ancor più la differenza tra il Comune settentrionale e l’Universitas meridionale è il concetto di territorium. Laddove il territorium del Comune comprende necessariamente il contado circostante, la città meridionale ne è priva: «può possedere casali fuori dalle sue mura (Cosenza, Teramo e sino alla prima metà del Seicento Napoli stessa), ma queste sono circondate quasi ovunque dalle giurisdizioni feudali»16. Appunto per questo «parlare del rapporto tra città e campagna significa formulare un problema che ha maggior peso per la storia dell’Italia centro settentrionale che non per quella del Mezzogiorno»17 in cui non sono contemplate per le universitates «la dimensione progettuale e pratica dell’espansione territoriale della città, il tentativo di sottomettere le aree feudali esterne alla città, una politica di alleanze tra città diverse, la conquista e la riduzione a contado di territori e comunità circonvicine»18. F. Calasso, La legislazione statutaria dell’Italia meridionale. Le basi storiche. Le libertà cittadine dalla fondazione del regno all’epoca degli statuti, Roma 1919, rist. anast. Roma 1971, p. 279 15 F. Roggero, Il “corpo” e il “territorio”, p. 30 16Ivi, p. 135 17 M. Berengo, Città italiana e città europea, ricerche storiche, Reggio Emilia 2010, p. 129 18 G.Muto, Comunità, governo centrale e poteri locali nel Regno di Napoli in età moderna. In «Mélanges de l'École française de Rome. Italie et Méditerranée», tome 116, n°2. 2004, p. 511 14 9 Il concetto di territorium descrive ancor meglio la natura dell’Universitas rispetto al Comune settentrionale. Il contado è infatti separato dalla città, quoad territorium. In altri termini, produce l’effetto della divisione dei due distretti fiscali, risolvendosi nella scomposizione dell’ambito tributario originario in due o più settori di ampiezza inferiore. L’Universitas, cioè, non era in senso proprio domina dell’intero suo territorio, perché esso apparteneva appunto a molti proprietari diversi, ma su questo essa esercitava un “diritto”, ossia un insieme di prerogative19. Questa natura del territorium e il suo legame necessario con l’universitas non sono contraddetti dai casi di quelle universitates che sembrano non avere territorio: Le università hanno il distretto del territorio, come si è mostrato […] ma può avvenire che alcuna non ne abbia affatto. Cessano allora tutti i diritti del territorio, perché non vi è dove esercitarli, e la società averà i suoi effetti solo nelle persone sociate che sono fra il recinto delle abitazioni20. In questi casi in realtà il “territorio” dell’universitas è quello interno alle mura21. Pertanto l’elemento territoriale si configura come una vera e propria circoscrizione fiscale, all’interno della quale la stessa università raccoglieva le imposte che essa, come “corpo”, pagava al fisco centrale. «Ogni università esigerà la bonatenenza22 per quei fondi che sono siti dentro il suo confine, Federico Roggero ne Il “corpo” e il “territorio” dell’universitas nel Regno di Napoli, in «Historia et ius» n. 11/2017, p.18, riporta un passo emblematico di Pecori: «La parola demanio, o domanio è corrotta da quella di dominio, e significa ciò che è in dominio del principe o del pubblico, per distinguere ciò che è in dominio de’ privati. Ha cominciato ad usarsi per dinotare anche ciò che è in dominio delle città ed uso de’ cittadini, perché essendo in uso di tutt’i cittadini, sembra, rispetto a loro, di fare una figura di pubblico uso, come a suo luogo ne faremo più chiara menzione. In tanto, per non recar confusione colla singolarità, ci serviremo delle parole demaniali, pubbliche, comuni, universali per significare i beni delle università soggette, tutto che, per propriamente parlare, loro non si converrebbero questi nomi» in R. Pecori, Del privato governo dell’università, I, Napoli 1770, p. 29. Si v., negli stessi termini, ma con maggiore dettaglio, pp. 286-289 20 Roggero si riferisce sempre alle discettazioni di Pecori, che nel 1770 era stato in grado di fornire una visione organica dell’Istituzione, F. Roggero, cit., p. 20 21 M. Guarani, Ius regni neapolitani novissimum, tom. I, Napoli 1787, p. 258 22 La bonatenenza era la principale imposta diretta dovuta su tutti quei beni cosiddetti burgensatici (non di carattere feudale) che erano raccolti all’interno dell’universitas. Relativa a proprietari indigeni e non, ciascuno nella misura di quanto detenuto. 19 10 apprezzati tutt’i beni tanto de’ cittadini, tanto de’ forastieri”, i cosiddetti bonatenti»23. Quest’ultima dimensione del territorio, quella appunto fiscale, condizionava tutte le altre, decidendo, in ultima analisi, dell’esistenza stessa della universitas24. La distinzione cardine tra universitates feudali facenti capo a un barone, e universitates demaniali direttamente subordinate alla Corona non si riferiva al territorio tuttavia, ma a chi esercitava su di esso la giurisdizione (quoad iurisdictionem). E neppure questa distinzione appariva netta e inequivocabile. Non è possibile nondimeno la costruzione di una mera dualità in materia giurisdizionale nella estrema varietà e peculiarità che caratterizza le universitates meridionali25, tanto che, come afferma Massafra, «nel modo in cui venne concretamente esercitata la giurisdizione vi erano più analogie fra i centri feudali più popolosi e più ricchi e le città regie […], che non tra i grandi centri feudali [tra i quali non ultimo Molfetta] e le piccole comunità infeudate del Subappennino dauno o dell’hinterland barese»26. A queste classificazioni di carattere prettamente amministrativo e fiscale si affiancava una serie di ripartizioni funzionali interne che introduceva una sostanziale gerarchia tra le diverse comunità, tra i diversi centri abitati, quasi alla stregua della distinzione dei ruoli di primogeniti e cadetti27. Un esempio calzante è quella che Giorgio Chittolini ben definisce la «quasi città», o per dirla con Giovanni Vitolo «altra città»28, quell’agglomerato urbano che era costretto in una sorta di limbo, privo di F. Roggero, Universitates, censi e imposte dirette nel Regno di Napoli (sec. XVII), Roma 2008, pp. 70-71 (l’autore cita il testo autorevole di Nicola Antonio Marotta, De collecta seu bonatenentia, edito a Napoli nel 1642) 24 F. Roggero, Il “corpo” e il “territorio” dell’universitas, cit., pp. 21-22 25 G.Muto, Istituzioni dell’Universitas e ceti dirigenti locali, in G. Galasso e R. Romeo (a cura di), Storia del Mezzogiorno, IX/2, Napoli 1993, pp. 19-24; id, Comunità, governo centrale, cit., pp. 511-514 26 A. Massafra, Una stagione degli studi sulla feudalità nel Regno di Napoli, in P. Macry e A. Massafra (a cura di), Fra Storia e Storiografia, Scritti in onore di Pasquale Villani, Torino 1994, p. 124 27 G. Delille, Famiglia e potere locale. Una prospettiva mediterranea, Bari 2011, pp. 149 e ss. 28 G. Vitolo, L’Italia delle altre città. Un’immagine del Mezzogiorno medievale, Napoli 2015 23 11 un nomen e sotto diretto controllo regio29, o come precisa Annastella Carrino che «presenta caratteri urbani “difettosi” ma che non hanno nulla a che vedere con il villaggio contadino dell’Europa preindustriale»30. Talune “altre città” potevano infatti raggiungere il rango di civitates vere e proprie, altre non ne avrebbero mai ottenuto lo status, rimanendo ferme nel loro ruolo di “quasi città”, potendo rivestire mansioni urbane, pur differenziandosi sia dalle città in senso stretto sia dalle restanti non città denominate nelle fonti loci demanii o “terre famose”31. Queste denominazioni però avevano una stretta attinenza con quella che era la fisionomia istituzionale di un centro che andava molto al di là del mero sviluppo materiale e fisico. La qualificazione di civitas era quasi sempre legata alle «istituzioni civili e religiose con relativi privilegi che ospitavano e per il potere che esercitavano su un più o meno ampio territorio circostante»32. L’onore del risiedervi di un’autorità ecclesiastica associata alla presenza di mura era, nella descrizione più diffusa, il requisito principale per assurgere al rango di città, cui seguivano altri fattori come la forma di governo o le strutture corporative in essa sviluppatisi, connessi a dati economici e demografici, oltre a quello banalmente geografico della dimensione degli spazi dominati33. E di regola «la geografia urbana coincideva con quella della circoscrizioni diocesane e confermava una volta di più che il primo elemento del rango cittadino era la sede vescovile»34, G. Chittolini, “Quasi-città”. Borghi e terre in area lombarda nel tardo Medioevo, «Società e Storia», n. 47, 1990 , pp. 3-26 e in Id., Città, comunità e feudi nell’Italia centrosettentrionale, secoli XIV-XVI, Milano 1996, pp. 85-104 30 A. Carrino, Quasi sint civitates. Società, poteri e rappresentazioni nella Puglia di età moderna, Roma 2017, p. 15 31 «Si distingueva tra i loci demanii, definiti tali per il numero di giudici e notai attivi in loco, sovente centri recentemente infeudati, su cui la corona era interessata a mantenere, se non un controllo diretto, almeno una stretta relazione, e le “terre famose”, aree di cui possiamo ricostruire indirettamente un elenco completo per tutto il Regno, permanendo tuttavia difficoltoso significare il connubio tra la fama guadagnata in una provincia e il riconoscimento (di terra famosa appunto) ottenuto dalla curia regia». G. Vitolo, L’Italia delle altre città, cit., pp. 1-102 32 G. Delille, Governo locale e identità urbana. Il caso italiano in una prospettiva europea, in M.A. Visceglia (a cura di), Spagna e Italia in età Moderna. Storiografie a confronto, Roma 2009, p. 121 33 A. Carrino, Quasi sint civitates, cit., p. 16 34 G.Muto, Comunità, governo centrale, cit., pp. 508 29 12 illustrando così «il ruolo, effettivo della Santa Sede fino alla fine del XVIII secolo, nell’attribuzione dei titoli urbani»35. Eppure, riportandoci ancora una volta alle parole di Carrino, la città è «un oggetto problematico e sfuggente a partire dalla sua stessa definizione» che «non appare scontata neanche per quelle realtà che soddisfano i principi classificatori al tempo più adoperati» 36. 1.2. Nascita e sviluppo delle Universitates Come già ribadito, non v’è un’inequivocabile distinzione tra il Comune “politico” centrosettentrionale e quello “amministrativo” meridionale. La differenziazione in tal senso proposta da Pini è giusta e sbagliata al contempo, atteso che non è assolutamente possibile paragonare le due communitates civium, né definire l’Universitas come sì un ente collettivo al pari del Comune, ma, al contrario del secondo, del tutto privo di potere politico37. Analizziamo la questione dal principio. L’universitas cominciò ad acquisire i contorni che conosciamo nel Mezzogiorno al passaggio dalla dominazione sveva a quella angioina. Furon infatti una serie di provvedimenti emanati da Carlo I d’Angiò a precisare questo decentramento amministrativo ante litteram nel basso medioevo, trasformando le città da semplici terrae in universitas38, ossia in accordo con Manlio Bellomo, ne «l’istituzione cittadina che compendia e dirige la vita urbana»39. Fu lo Stato centrale a sostenere quello che possiamo definire con le parole di Aurelio Musi: «il Comune meridionale che si impiantava sugli antichi G. Delille, Famiglia e potere, cit., p. 149 Ivi, p. 15 37 A.I. Pini, Città, comuni e corporazioni nel medioevo italiano, Bologna 1986, pp. 61-63 38 Terrae sono i centri abitati che non hanno il rango di città né sono sedi vescovili. 39 M. Bellomo, Società e Istituzioni dal Medioevo all’Età Moderna, Roma 1993, p. 283 35 36 13 ducati, che erano andati caratterizzandosi attraverso la sostanza dinastica e assolutistica del potere»40, per cui non v’era «né anomalia, né analogia» con quello centrosettentrionale41. La dipendenza dal Regno, il non essere assimilabile a una polis di antica memoria, non impediva in alcun modo alle universitates di svilupparsi come comunità, né ne frenava il fermento politico neppur nelle città infeudate. Da Ferrante I d’Aragona in poi tutti i sovrani concessero a queste cellule periferiche del potere statale 42 prerogative che non erano attribuibili al semplice ius privatum, pur restando omnis iurisdictio et omnis districtio apud principem43. Furono la prassi e le consuetudini a formare le basi politicolegislative di questi enti, in virtù principalmente delle generose concessioni giurisdizionali dei sovrani stessi che preferivano preservare, addirittura favorire, i poteri locali. Quando si discetta di «normazione partecipata» nei privilegi e nelle capitolazioni, si scivola sovente in una sorta di esaltazione della vicenda, tralasciando di considerare come tale prerogativa aveva ragion d’essere solo ed esclusivamente attraverso il placet formale dello Stato centrale, indi del Re. L’universitas era, pertanto, seguendo e uniformando le definizioni fornite da Musi prima ed Elena Papagna poi, certamente un «luogo di un’ambivalenza strutturale»44: una sorta di «articolazione periferica del potere centrale»45, ma al contempo era «espressione istituzionalizzata del potere locale nel Mezzogiorno»46. Perciò non si erra e, al contempo, non si è neppur avveduti, quando si definisce l’universitas un’istituzione avulsa da poteri politici tout court: essi A. Musi, “Introduzione” in A. Musi (a cura di), Le città del Mezzogiorno, Napoli 2000, p. 7 A. Musi, Né anomalia né analogia, le città del Mezzogiorno in Età Moderna, in G. Vitolo (a cura di), Città e Contado tra Medioevo ed età Moderna, Salerno 2005, pp. 310-311 42 A. Musi, Mezzogiorno Spagnolo La via Napoletana allo Stato Moderno, Napoli 1991, pp. 76-77 43 V. Colorni, Le tre leggi perdute di Roncaglia, in Scritti in memoria di Antonino Giuffré, I, Milano 1967, p. 143. 44 A. Musi, Mezzogiorno Spagnolo, cit., p. 70 45 Ibidem 46 E. Papagna, Stato, Baroni e Università, in «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia di Bari» XXXVIIXVIII, 1994-1995, p. 375 40 41 14 vi erano, essa era sì autonoma, ma nei limiti e nelle forme del consenso regio. Quel potere locale, incompleto almeno formalmente47, permetteva tuttavia a chi lo deteneva di godere di immunità economiche e privilegi fiscali oltre ad avvalersi di una sorta di «discrezionalità su cose e persone»48. L’unico vero discrimen risiedeva infatti nella diversa funzione economica cui esse erano rivolte 49. La presenza di magistrature elette al loro interno o acclamate o semplicemente accettate, prescindendo da un intervento diretto del sovrano, ancorché rese legittime da un controllo o da una conferma della Corona stessa era perciò la prova provata, la manifestazione evidente della libertà goduta dalle universitates sul piano sostanziale 50. 1.3. Viaggio all’interno dell’Universitas Pur nella succitata diversificazione e non omogeneità della realtà delle universitates possiamo ben definire come organo costitutivo ricorrente e necessario l’Assemblea o, come dir si voglia, il Pubblico Parlamento formato da tutti gli individui maggiorenni - solitamente i capifamiglia appartenenti a qualsiasi ceto sociale purché di età superiore ai 18 anni. Quest’«organo deliberativo per eccellenza»51, procedeva all’elezione diretta o mediata (attraverso i Decurioni e gli Eletti) di 2 o 3 Sindaci: il cosiddetto Reggimento. Le riunioni avvenivano principalmente nella piazza principale «Contrariamente a quanto auspicavano i beneficiari dei privilegi, infatti, il re di Napoli si sentiva obbligato a rispettare il dettato delle richieste da lui placitate non perché esse lo impegnavano come un contratto privato, nell’ambito di un rapporto pattizio vero e proprio, ma semplicemente perché non voleva venir meno alla sua parola». I re di Napoli non giuravano di rispettare i capitoli che approvavano nei Parlamenti generali, i quali dunque, come tutti i capitoli placitati in favore di comunità e singoli, non avevano la qualità di una «lex pactata seu conventionata» con «vis et efficacia contractus». F. Senatore, Sistema documentario, archivi e identità cittadine nel Regno di Napoli durante l'antico regime da «Archivi», X/1 gennaio-giugno 2015, pp. 40-41 48 F. Senatore, Sistema documentario, cit., p. 76 49 G.Muto, Saggi sul Governo dell’Economia nel Mezzogiorno Spagnolo, Napoli 1992, p. 13 50 M.Bellomo, cit., pp. 120-123 51 V. Naymo, Gli “Stati” feudali nel Regno di Napoli. Economia società e governo del territorio in età moderna, Catanzaro 2013, p. 112 47 15 della città, ossia nel «luogo solito e consueto ove soglionsi fare i pubblici parlamenti»52. Il Reggimento, che durava in carica un anno, esercitava il potere esecutivo, principalmente tra i suoi compiti figuravano quelli di vigilare sulla «salute, conservazione e tranquillità del popolo»53. Ulteriori e precipue funzioni del Reggimento erano quelle di esercitare lo ius vigilandi su tutto quanto concerneva i beni alimentari e, in particolare, la raccolta del grano e il suo utilizzo successivo, ossia la panificazione, la cui licenza era appannaggio dei sindaci. Le cariche comuni alla totalità delle universitates, secondo Muto, si potevano così elencare e denominare: «1) Sindaco ed Eletti; 2) Cassiere (o Tesoriere ed Erario); 3) Razionali (e computanti addetti alla revisione dei conti e dell’Amministrazione); 4) Mastro Giurato; 5) Avvocato della città; 6) Giudice civile con il relativo Mastrodatti (se la città era infeudata la nomina spettava al barone); 7) Cancelliere; 8) il Capitano, di nomina regia»54 o feudale, a seconda che si parlasse rispettivamente di città demaniali o infeudate. Se la distinzione tra le universitates era basata sul valore politico – economico che queste avevano, non ci si può meravigliare di come protagonista di questo proscenio fosse nella quasi totalità dei frangenti il Cassiere, meglio definito come «l’esattore delli fiscali», ossia colui che era deputato alla raccolta dei tributi erogati dai singoli abitanti del territorio universitario e successivamente al versamento delle somme dovute al Regio Fisco. Le controversie di diritto tributario aventi primariamente a oggetto la diffusa pratica dell’abuso feudale55 sono quelle di cui maggiormente recano traccia gli archivi delle universitates, ma non fotografano in alcun I. Carli, Il Cancelliere istruito, Vol. I, Napoli 1803, p. 102 A. Bulgarelli Lucaks, Le universitates meridionali all’inizio del regno di Carlo di Borbone: la struttura amministrativa, «ClioXVIII» 1981, n.1, p. 10 54 G. Muto, Saggi sul Governo, cit., p. 13 55 Fenomeno noto di cui già discetta Davide Winspeare nel suo Storia degli abusi feudali, Napoli 1811, che trovò una risoluzione solo con l’operato della Commissione feudale, frutto delle leggi sull’eversione della feudalità nel 1806. 52 53 16 modo l’essenza di un’istituzione così complessa e poliedrica, non costituendone di certo il nucleo principale. Ciò che maggiormente interessa la storiografia attuale, e perciò le nostre ricerche, è quanto ricorre sovente nella dialettica sociale interna alle diverse universitates. Non si può parlare infatti di un linguaggio comune che giunga a unificare e omogeneizzare tutte le realtà locali del Regno di Napoli. Non è plausibile in alcun modo definire uniforme ciò che tale non era e non avrebbe mai potuto essere. 1.3.1. Il reggimento La complessità regnava sovrana nel reggimento universitario, che si diversificava, difatti, in base anche a taluni dettagli. Elemento comune a tutte le universitates era il sistema della separazione dei ceti. Nobili e popolari divisi nelle cosiddette piazze formavano un parlamento, ma non v’era alcuna uniformità tra i diversi statuti, i cosiddetti Libri Rossi che ne definivano il modus e i mores56. Queste distinzioni potremmo pertanto ascriverle con un ardito ossimoro a una sorta di diritto pubblico circoscritto a un’area territoriale ristretta ma anche e soprattutto a un gruppo ben definito di cittadini facenti capo comunque a una stessa entità statale. I ceti nei fatti non erano però “uguali", non a caso differenziato era l’accesso alle cariche pubbliche. Nella maggioranza delle città del Mezzogiorno erano “riservati ai nobili i posti di comando più importanti e meglio remunerati”57. I Libri Rossi, attraverso i quali si definivano diritti, spettanze ragioni e privilegi, riflettevano efficacemente e senza iperboli i “rapporti di forza” dei gruppi cetuali58. In altri casi si dà vita ad una sorta di corpo assembleare, al quale partecipano tutti i capifamiglia del loco. Quest’ultima soluzione, però, si riferisce principalmente alle Universitates meno popolose. Cfr. F. Carabellese, La Puglia nel secolo XV da fonti inedite, parte II, Bari 1907 57 G. Delille, Famiglia e potere, cit., pp. 105-106 58 Ivi, p. 111 56 17 La comunità eleggendo i propri rappresentanti e ufficiali aveva il potere di esigere imposte dirette e indirette per conto di altra autorità, regia o baronale che fosse, oltre che per sé stessa, avendo facoltà di concedere appalti, deliberare lavori pubblici e – questione non di poco conto – prendere decisioni politiche in situazioni di emergenza come rivolte, suppliche all’autorità e, non ultimi, eventi bellici. Era evidente che questa tutela dell’autonomia cittadina, questi privilegi di cui godevano le universitates, rappresentavano per il sovrano non già una graziosa quanto gratuita espressione di benevolenza, ma - molto più prosaicamente - un mezzo opportuno e oltremodo incisivo attraverso il quale frenare, controllare il dominio feudale e le relative ansie di espansione del medesimo nelle terre del Mezzogiorno italiano59. Queste communitates civium erano non solo capaci di esprimere autogoverno, ma anche di essere titolari di beni e risorse proprie. Il tutto venne difatti «largamente riconosciuto e ufficializzato», disponendo di conseguenza che «i diritti di possesso individuale sulla terra, il demanio regio, il demanio signorile, i possessi ecclesiastici coesist[essero] con gli spazi patrimoniali fruibili dall’università e dal demanio universale»60. Questo consolidamento dell’istituzione universitas, nonché le prerogative comunali distribuite - seppur non equamente - tra i due ceti nobiliare e popolare erano paradossalmente la strategia più consona a rafforzare il potere regio, quando nel Comune centro settentrionale l’arte del governare era ormai delegata al solo patriziato, frutto dell’unione e della mescolanza precoce tra ricchi populares et antiqui cives nobiles61. E. Papagna, Filippo Briganti Patrizio di Gallipoli, Roma 2006, p. 16 B. Salvemini, Un mondo “paradossale”? Poteri società e risorse nello spazio pugliese della lunga età moderna in A. Giuffrida, F. D’Avenia, D. Palermo (a cura di), Studi storici dedicati a Orazio Cancila, Palermo 2011, pp. 821-861, p. 7 versione online. 61 E. Papagna, Filippo Briganti, cit., p. 16 59 60 18 1.4. Nobiles et Populares Le discussioni e le conseguenti decisioni adottate nelle riunioni generali o nei concili ristretti, rilevanti e opportune per l’universitas dovevano aver sede in un altrettanto ambito architettonicamente definito, proprio e ricorrente in tutti i centri del Regno, uno spazio aperto o semiaperto: sedili o logge, come dir si volesse, o i cosiddetti «luoghi soliti», sovente citati nella documentazione notarile al fine di pubblicare un provvedimento dell’amministrazione locale o dell’autorità, lì dove si portavano a compimento le aste pubbliche degli uffici e delle gabelle, dove si esercitava il grado più basso della giustizia. Ma il fulcro della dialettica politica universitaria risiedeva nel designare coloro ai quali dovesse appartenere il privilegio di assidersi e discutere del futuro dell’università, coloro che potessero essere definiti i cosiddetti «ceti di governo»62. I popolari, che rappresentavano le forze mercantili e manifatturiere, erano riusciti a organizzare meglio la propria presenza, tanto nell’economia urbana quanto nelle campagne. Si pensi che a Molfetta, nostro oggetto di studio, nel 1474 avevano raggiunto il numero di diciotto rappresentanti su trentasei in perfetta equiparazione con gli ottimati 63. Non si può non rilevare come dall’età angioina il ceto mediano, il cosiddetto gruppo dei mercatores populares aveva costituito la cerniera tra i nobili e il populus, descrivendo una linea di demarcazione con le arti meccaniche e gli artifices, pur non escludendo le nobilitazioni e quindi l’ingresso nella nobiltà civica64. Già nella prima metà del XVI secolo si assisteva all’ indebolimento di questi ceti medi urbani: i mercanti esterni ridussero l’iniziativa A. Spagnoletti, Ceti dirigenti cittadini e costruzione dell’identità urbana nelle città pugliesi tra XVI e XVII secolo, in A. Musi (a cura di), Le città del Mezzogiorno nell’Età Moderna, Napoli 2000, pp. 25 e ss. 63 L. Volpicella, Gli statuti dei secoli XV e XVI intorno al governo municipale della città di Molfetta, Napoli 1875, p. 27 64 G. Muto, Istituzioni dell’Universitas, cit., p. 28 62 19 imprenditoriale di quelli interni, intenti a valutare prospettive che li portassero al di là del ristretto orizzonte del consiglio cittadino verso l’agognato traguardo dell’elevazione a nobiles. Il tutto poteva avvenire attraverso “utili” matrimoni, così come, nella migliore delle ipotesi, ricorrendo all’acquisto di feudi, che sancissero l’ingresso a pieno titolo nella sì tanto sospirata aristocrazia. Questi diffusi desideri, questa necessità di essere definiti nobiles titolati, non potevano non essere condivisi anche dal patriziato urbano, contraddistinto da evidenti difficoltà nel dimostrare una forte identità nobiliare tra autoreferenzialità non sempre probabile e circoscrizione della sfera di influenza esclusivamente all’interno delle mura cittadine. Appartenere alla feudalità, condizione dotata di prerogative non costrette all’interno del semplice ambito universitario, costituiva perciò meta comune sia per la nobiltà meramente di estrazione civica sia per i populares. Forse anche a causa di questo comune denominatore, fino alla metà del XVI secolo si era conservato una sorta di bilanciamento tra nobili e popolari, con le dovute riserve del caso. La rappresentanza paritetica della società dei due ceti, quella descrizione statutaria di un tessuto cittadino di sudditi aventi pari opportunità e pari diritti nell’universo civico e, in senso più lato, dinanzi al sovrano è un puro «tentativo di codificazione formalmente equilibrata di una organizzazione gerarchica della società di fatto squilibrata e squilibrante»65. Restando sempre entro i confini strettamente locali, appariva chiaro che il formarsi di gruppi distinti di cives si consumava all’interno dell’indispensabile dialettica di alleanze e negoziazioni, da cui discende quello che Grendi ben marchia come «il veicolo dell’influenza reciproca»66 tra le élite cittadine. I microcosmi delle universitates meridionali andavano così delineandosi come una sorta di costruzione, finanche fisica, di uno spazio avulso e 65 66 A. Musi, Mezzogiorno spagnolo, cit., p. 85 E. Grendi, Il Cervo e la Repubblica. Il modello ligure di antico regime, Torino 1993, p. VIII 20 differenziato da quello centrale capitolino. Diversi, infatti, ne erano i linguaggi, diversi i territori, diverse le evoluzioni di “cerimoniali”, pur nello stesso arco temporale. Il potere locale era generalmente e quasi esclusivamente volto al controllo delle preziose cariche pubbliche, che, com’era notorio anche al di fuori del territorio regnicolo, erano il primo passo lungo l’impervio cammino la cui meta era costituita dal toccare o quanto meno sfiorare gli ingranaggi del potere centrale67. Estremamente variegato era il linguaggio della cittadinanza napoletana, del territorio in genere; differenti erano gli statuti che definivano i singoli ordinamenti cittadini, così come dissimili gli stati feudali che si formavano all’interno della compagine del vicereame. Ciò che emergeva in modo generalizzato era la mancata definizione di popularis. Laddove appariva univoco e circostanziato il significato di nobilis - seppur con le dovute sfumature - non altrettanto avveniva per popularis, il cui significato era circoscritto a una negazione essenziale: non nobilis68. Basando la nostra riflessione su una visione meramente semantica popularis significava di matrice non nobiliare sin dai suoi primissimi usi e nondimeno rivestiva l’ultroneo significato di cittadino, civis, con le prerogative e i privilegi che afferivano a questo termine secondo i precetti dell’antico diritto romano69. Tale definizione permane storiograficamente ancor intatta. Piero Ventura, per esempio, fornisce anch’egli del seggio popolare una definizione basata su una pura contrapposizione: «nella capitale e nelle altre comunità, come l’organizzazione istituzionale che dava rappresentanza alle sfere sociali non aristocratiche»70. Non ne si nega l’importanza, ne si disconosce, però, la medesima valenza sociale all’interno della communitas civium. Per quanta influenza i populares potessero G. Delille, Famiglia e potere, cit., p. 154 G. Muto, Istituzioni dell’Universitas cit., p. 35 69 A. Spagnoletti, Classe dirigente e vita amministrativa a Molfetta nella seconda metà del XVIII secolo, in «Archivio Storico Pugliese», XXIX (1976), p. 254 70 P. Ventura, La capitale e le élites urbane nel regno di Napoli tra XVI e XVIII secolo, in «Mélanges de l'Ecole française de Rome. Italie et Méditerranée», tome 121, n°1, Roma 2009, p. 267 67 68 21 esercitare al pari dei nobili in molteplici circostanze, il prestigio, il lignaggio, il nomen, il titolo costituivano sempre e comunque l’invalicabile discrepanza tra i due gruppi sociali: i seggi pari non erano. Se lo fossero stati difatti, «tutta la dinamica basata sui passaggi da un ceto all’altro, sulle scissioni inugualitarie di lignaggio e sui raggruppamenti politici fazionari» non avrebbero avuto ragion d’essere, definendo in questo modo un unico gruppo dirigente come avveniva nell’Italia centro-settentrionale71. In questo panorama, soprattutto dopo la chiusura oligarchica della seconda metà del XVI secolo l’introduzione di regole cogenti e restrittive che impedivano la mobilità sociale e l’aggregazione di famiglie “nuove” al primo ceto minò considerevolmente l’avvicendarsi dei due gruppi antagonisti al potere locale, rendendo i “non nobili” una sorta di «appendice non necessaria» della prima piazza con scarso potere contrattuale72. Invero, pur in un contesto giuridico e istituzionale del tutto differente, Italia centrosettentrionale e Mezzogiorno spagnolo avevano in comune «di aver consegnato, salvo poche eccezioni, il potere comunale a patriziati sempre più chiusi e detentori di privilegi trasmessi, di fatto o di diritto, in modo ereditario, relegando nell’ombra, in condizione subalterna o cancellandole del tutto, le rappresentazioni politiche dei popolari, cioè dei ceti borghesi e artigiani»73. 1.4.1. Tra Nome e Virtù Ma cosa voleva dire esser nobili? Nel linguaggio storiografico i lemmi nobiltà, feudalità, aristocrazia sembrano aver tutti lo stesso significato, privo di qualsivoglia sfumatura. G. Delille, Famiglia e potere, cit., p. 105 A. Spagnoletti, L’incostanza delle umane cose, cit., pp. 22-23 73 G. Delille, Governo locale e identità urbana, cit., pp. 130-131 71 72 22 Eppure non è così: essi definiscono indubbiamente i membri di un gruppo sociale privilegiato al cui interno si rinvengono differenze afferenti allo status, al potere o alla mera ricchezza. Nondimeno, la stessa terminologia che usiamo non aiuta a dissipare quelle che sono le incertezze nel definire nettamente la pianificazione sociale, le sfumature che afferivano all’aristocraziae e in particolare la nobiltà civica, considerata l’esiguità delle fonti cui far riferimento. Ogni definizione però va rapportata al comune nucleo sociale da cui discendevano le distinzioni - cetuali e sociali in senso lato - e al quale esse ineluttabilmente dovevano far riferimento: la famiglia. Scipione Mazzella nel 1586 nel suo Descrittione del Regno di Napoli nel dare una definizione appunto dell’asse attorno al quale si muoveva la società dell’epoca, si limitò a darne una rappresentazione, oseremmo dire, antropologica e privata al contempo: «Famiglia altro non è eccetto che un ordine di discendenza, la quale trahendo da una persona principio, e nei figliuoli» e via discorrendo per generazioni 74. Antichità e splendore sono i criteri cui faceva dunque riferimento Mazzella, onde definire nobile una famiglia, in modo da ben circoscrivere le basi della distinzione dalla “comune plebe”. Per “antichità” si intendevano le molte generazioni, «o ver molte età» attribuibili alla famiglia; “splendore” significava invece honore et dignità havute le quali vedendosi molte volte in famiglie nuove per l’accozzamento d’alcuni huomini valorosi fanno che quella famiglia habbia splendore e illustrezzza, ma non antichità, e benché alcune siano antiche, diconsi nondimeno nuove nello splendore, quando una famiglia havrà antichità e splendore assieme, questa senza alcun dubbio potrà dirsi intieramente nobile famiglia 75. A partire dal basso medioevo sino al XVI secolo nel Mezzogiorno le grandi signorie territoriali come il Principato di Taranto - non a caso S. Mazzella, Descrittione del Regno di Napoli, Napoli 1586, pp. 611-612, così come citato da Muto in Istituzioni dell’Universitasi, cit., p. 33 75 Ibidem 74 23 agognato da Cesare Borgia unitamente alla mano di Carlotta d’Aragona rimasero il modello più alto di nobiltà, quello che era eccelsa rappresentazione di «splendore et illustrezza», difficilmente raggiungibile, difficilmente soggetto a mutazioni. La conservazione del potere e del lignaggio era difatti il principale obiettivo della grande nobiltà. La feudalità minore, invece, era più suscettibile di una – anche vivace – mobilità sociale soprattutto nel tumultuoso avvicendamento delle dinastie regnanti76. Non bisogna poi dimenticare che i processi di mobilità sociale non erano necessariamente stanziali ma potevano seguire «un itinerario che poteva essere anche geografico in base alle gerarchie territoriali» e teso sempre a «raggiungere più alti livelli di nobiltà o ad attutire processi di declassamento»77. Il patriziato urbano all’interno di questo quadro appena delineato stava assumendo anch’esso precise sembianze nel tempo: nel XVI secolo si era già in grado di meglio descrivere questa oligarchia circoscritta dal periplo dell’universitas. Del Treppo sottolinea efficacemente come nel Cinquecento proprio nel momento in cui città come Bitonto, Bari, Monopoli, Salerno, Cosenza si qualificavano come universitates nobilium ponendosi così in netto contrasto col ceto dei populares78, ad Amalfi si utilizzava per la prima volta il termine patritius79. «La nobiltà di seggio è inserita con il popolo nel corpo della città che è essa stessa nella sua unità nobile»80: questa la definizione più calzante della superiorità e della distinzione del patriziato, degli ottimati rispetto al ceto popolare. La nobiltà viene a essere un habito elettivo che consiste nel mezzo intorno a quelle cose che sono pertinenti a governare, che per giungervi è di bisogno confome l’opinione di Seneca d’haver l’animo ben impiegato nelle morali G. Muto, Istituzioni dell’Universitas, cit., p. 34 E. Papagna, Filippo Briganti, cit., p. 19 78 Ivi, p. 35 79 M. Del Treppo, A. Leone, Amalfi medievale, Napoli, 1972, p. 149 80 M.A. Visceglia, Identità sociali. La nobiltà napoletana nella prima età moderna, Milano 1998, p. 92 76 77 24 discipline e cioè esser giusto, dotto, temperato e prudente […] in guisa che colui, che signoreggia le Virtù è nobile81. Partendo da questi presupposti vennero progressivamente a definirsi i dogmi cui non poteva sottrarsi il mos nobilium, l’aristocrazia “vera” iniziò a riconoscersi soprattutto da una sorta di “purezza genetica” ante litteram: era il sangue a definire chi era nobile e chi non poteva neppure aspirare a esserlo, non v’era spazio per meriti o imprese di sorta. In questo modo la nobiltà, come entità sociale ben definita si basava in via del tutto teorica su alti principi morali, sulla “Virtù” di cui si riteneva unica portatrice e che aveva il pregio di consolidare questo corpus sociale in una, per quanto apparente, sorta di omogeneità che la distingueva dal confuso e multiforme populus. Si disegnava in siffatta maniera un archetipo quasi concreto sia per il signore feudale come per il patrizio napoletano: si circoscrivevano meglio le discriminanti essenziali a stabilire l’appartenenza a tale ambita sfera sociale in modo tale da impedire, o quanto meno ostacolare l’ingresso di homines novi nella compagine aristocratica; si configurava spiccatamente una questione genetica oltre il solo valore militare, una sorta di innata superiorità di nascita che si trasmetteva di padre in figlio: la nobiltà di sangue. L’antichità e la virtù coincidevano “fatalmente” con la memoria storica, documentabile con le fonti scritte, con gli inoppugnabili titoli feudali. Un ricordo tangibile veniva ricostruito nei miti dell’autoreferenzialità di un passato sì lontano da non poter essere verificabile82. E qui risiedeva la peculiarità della nobiltà napoletana: nei rapporti tra gerarchie parallele basate su un'unica cultura identitaria, che sebbene attraverso toni diversi rinviava a «due modi di riproduzione sociale: l’autolegittimazione del E’ un passo tratto da C. Tutini, Dell'origine e fvndatione de' Seggi di Napoli, del tempo in che furono instituiti, e della separation de' Nobili dal Popolo; Del supplimento al Terminio, oue si aggiungono alcune Famiglie tralasciate da esso alla sua Apologia, & Della Varietà della Fortuna confirmata con la Caduta di molte famiglie del Regno, Napoli 1644, p. 186, citato in M.A. Visceglia, Identità sociali, cit., p. 91 82 Ivi, p. 105 81 25 gruppo stesso, con la formalizzazione dell’intervento sovrano solo dal 1559, per la nobiltà di seggio, il titolo di investitura che precisa diritti, privilegi e prerogative, per la nobiltà feudale»83. Si introdussero dalla metà del Cinquecento i “Libri grandi”, i “Libri d’Oro” il cui unico scopo era quello di tentar di impedire quella mobilità che aveva invece contraddistinto la compagine sociale di età rinascimentale, frenando l’aggregazione di nuove famiglie al fine di preservare l’egemonia nobiliare, mutandola in un ceto di governo chiuso84. I decenni di metà Cinquecento costituirono un emblematico punto di riferimento del dibattito storiografico italiano sulla nobiltà in età moderna85, una vera svolta la cui «principale nota distintiva fu una sempre più netta omogeneizzazione ideologica di segno nobiliare delle diverse classi dominanti italiane»86. Valori come l’onore, pratiche quali il duello, finanche forme di sapere che tendevano non solo a conservare ma anche a creare la memoria familiare dalle mere genealogie alle storie di famiglia, tutti questi furono i caratteri uniformanti dell’aristocrazia87. Virtù che furono condivise, sia allorquando si parlava di nobiltà feudale, titolata e non, o di piccola nobiltà provinciale, formatasi dalla frammentazione di grandi signorie feudali sia di nobiltà di spada inserita negli ordini cavallereschi, come quello di Malta88 sia del patriziato cittadino e della nobiltà “fuori piazza”, cui appartenevano le famiglie non ammesse al reggimento cittadino, escluse dal governo delle università in quanto forestiere o provenienti da luoghi al di fuori del regno. Ibidem G. Muto, Problemi di stratificazione nobiliare nell’Italia spagnola, in A. Musi (a cura di), Dimenticare Croce? Studi e orientamenti di storia del Mezzogiorno, Napoli 1991, pp. 73-111 85 Cfr. C. Donati, L’idea di nobiltà in Italia. Secoli XIV-XVIII, Roma-Bari 1988. L’autore analizza in maniera puntuale la trattatistica sulla nobiltà dal XIV al XVIII secolo, ponendo in rilievo le peculiarità delle strutture istituzionali dei diversi Stati (il richiamo a Otto Brunner nella premessa costituisce in questo senso una precisa indicazione di un percorso storiografico). 86 Ivi, p. 93. 87 M. A. Visceglia (a cura di), Introduzione a Signori, patrizi, cavalieri nell’Età Moderna, Bari 1992, p. XIII. 88 Cfr. A. Spagnoletti, Stato, aristocrazie e Ordine di Malta nell’Italia moderna, Roma - Bari 1988. 83 84 26 Senza contare quei nuclei familiari di incerta origine che ruotavano attorno a questo gruppo “marginale” della nobiltà e che potevano essere ascritti alla fascia più ricca della società urbana, basando le proprie fortune sui traffici mercantili o sulle speculazioni finanziarie e adottando uno stile di vita more nobilium89. La questione spostò anche il baricentro dell’universitas: essa non rimaneva ancorata esclusivamente alle proprie pretese di autonomia da eventuali signori, ma si muoveva a definire il consolidarsi lento e inesorabile della serrata oligarchica volta a concentrare il potere nelle mani di coloro che potevano vantare l’iscrizione ai “salvifici” dorati tomi. E il concetto stesso di famiglia in antico regime cominciò ad assumere contorni diversi. Come asserisce Elena Papagna, oltre alle palesi «differenze all’interno della stessa compagine territoriale a seconda dei tempi considerati, nonché tra stato e stato della penisola italiana, tra le diverse couches nobiliari, tra uomini e donne, primogeniti e cadetti, vecchi e giovani, laici ed ecclesiastici» non era «ininfluente considerare contesti a modello patrilineare forte, basato sulla primogenitura e su ruoli distinti per primogeniti e cadetti, con ampio ricorso al celibato e alla trasmissione vincolata del patrimonio, oppure ambiti a modello patrilineare debole, incentrato sulla solidarietà agnatizia e sulla parità ereditaria dei maschi, con un limitato ricorso all’istituto del fedecommesso»90. Si assisteva al delinearsi, pertanto, di una società sempre più androcentrica. Giovanni Battista de Luca nella sua opera più nota, Il Dottor Volgare, pur non esitando a esprimersi in senso negativo sulla pratica delle sostituzioni fedecommissarie, generatrici di liti e di questioni legali91, sottolineava la M.A. Visceglia, Identità sociali, cit., pp. 104 e ss., 132-133 E. Papagna, Famiglie di Antico Regime Studi recenti sulle aristocrazie Meridionali in A. Carbone (a cura di), Scritti in onore di Giovanna Da Molin Popolazione, famiglia e società in età moderna Tomo II, Bari 2017, p. 478 91 G.B. de Luca, Il Dottor Volgare, III, libro X, cap. I, n. 6, Roma 1673, p. 11. 89 90 27 propria propensione per il modello patrilineare forte, oltre ad affermare che l’uso delle primogeniture e dei maggioraschi «è più degno di lode che di biasimo, e che più siano gli effetti buoni che i cattivi» in quanto «sebbene pare cosa molto dura che tra i figli d’uno stesso padre, egualmente legittimi, uno debba essere il padrone ed il regnante, ovvero uno il ricco, e gli altri sudditi e poveri, […], molto maggiori sarebbero gli inconvenienti, che nascerebbero dalla pluralità dei successori»92. Era evidente la «tendenza della società napoletana a conservare alla famiglia il patrimonio avito ed evitare altre occasioni di smembramento. Il vincolo del sangue deve più che mai essere rispettato»93, ma sempre in direzione maschile. La vicenda definì confini sempre più precisi nel passaggio dal XVI al XVII secolo. Questa situazione decisamente policroma che coinvolgeva poteri e ruoli della nobiltà si pose a confronto con due fenomeni in pieno divenire: la formazione dello Stato moderno e la Chiesa post-tridentina. Proprio quest’ultima si propose come interlocutrice privilegiata delle élite che cercavano di avviare i propri rampolli ultrogeniti verso una nuova alternativa e prestigiosa carriera. Si preservava in quel modo sia il benessere del cadetto che la continuità del nome e del patrimonio cui erano preposti rispettivamente primogenitura e fedecommesso. La nobiltà prendeva progressivamente i contorni di «un gruppo sociale dotato di un particolare statuto giuridico che si rinnovava per via biologica e che rinnovava lentamente i suoi ranghi»94, consentendo solo in via eccezionale l’ingresso a nuove leve. La “simbologia del sangue” partoriva però quell’irrigidimento delle pratiche matrimoniali e successorie, configurando in questo modo la nobiltà secondo una struttura patriarcale Ivi, III, libro X, cap. XII, n. 6, pp. 50 - 51 R.Trifone, Il diritto consuetudinario di Napoli e la sua genesi, Napoli 1910, pp. 20-21 94 E. Papagna, L’Universo nobiliare in B. Salvemini, A. Massafra (a cura di), Storia della Puglia. 1. Dalle origini al Seicento, Bari 2005, p. 164 94 A. Carrino, La Città Aristocratica. Lignaggi e pratiche della politica a Monopoli tra Cinque e Seicento, Bari 1997, p. 12. 92 93 28 la cui miglior iconografia è quella dell’albero genealogico. L’appartenenza cetuale si trasmetteva così di padre in figlio: dagli ascendenti si ereditava, insieme alla ricchezza, la gloria del nome e la qualità della stirpe, poiché le virtù “innate” restavano sempre all’interno delle stesse famiglie, le migliori, quelle destinate naturaliter a gestire il restante corpo sociale. Cionondimeno, «coloro che vantano una superiorità sul resto della popolazione dovevano anche poter “apparire” ostentando beni lussuosi e spendendo con prodigalità»”95. La ricchezza divenne perciò una connotazione essenziale, un modus imprescindibile dell’esser nobile, per quanto ovviamente non annoverata ufficialmente tra le qualità aristocratiche. Nonostante il possesso di beni allodiali e feudali oltre a introiti che potevano attenere a rendite come ad attività anche di carattere mercantile, la nobiltà sovente navigava nei debiti, non riuscendo in alcun modo a sostenere lo stile di vita dispendioso e teso al culto dell’imago sociale: si era nobili se si dimostrava di poter sfoggiare beni di lusso, opere d’arte, oltre a condurre uno stile di vita degno del proprio lignaggio96. Il palazzo, per mero esempio, sin dalla metà del Cinquecento divenne il segno tangibile della propria schiatta, designando, evidenziando quello che era il “bisogno di eternità”, oltre che quella innata convinzione, secondo cui «la disuguaglianza era una necessità dell’organizzazione sociale»97. Come il sovrano era tale per diritto divino, allo stesso modo si era nobili o semplici popolani, perché così Dio aveva disposto e il palazzo era il tempio ove i novelli dei dimoravano. Il XVIII secolo dispose diversamente di queste “divinità sociali”. Dopo la breve dominazione austriaca, dopo oltre due secoli di dipendenza dalla Monarquìa, con l’ingresso dei Borboni di Spagna nella storia dei Regni di Napoli e di Sicilia, con Carlo re «proprio e nazionale» cambiò E. Papagna, L’universo nobiliare, cit., p. 189 Ivi, p. 190 97 Ivi, p. 192 95 96 29 sostanzialmente il concetto di nobiltà e anche quello di società. L’aristocrazia venne rigorosamente censita, controllata e dovette soprattutto prendere atto che lo Stato mirava a consolidare quelle prerogative che avevano quasi perso contorni definiti durante i vicereami, portando a favorire - dalla periferia sino alle magistrature centrali - l’ascesa dei «togati, uomini di legge che si erano posti come i custodi della tradizione giuridica e autonomistica del paese e si erano progressivamente impadroniti dei gangli del potere a danno della nobiltà»98. Si stabilì pertanto con il reale dispaccio del 1756 chi poteva esser definito appartenente alla nobiltà generosa per legge. L’elenco era dettagliato e preciso, l’interpretazione non era estensiva: vennero annoverati anche gli ammessi ai consigli nobili delle città regie (cioè la cosiddetta nobiltà di seggio o di piazza), oppure coloro che potevano dimostrare la discendenza da un avo che «per la gloriosa carriera delle armi, della toga, della chiesa o della corte avesse ottenuto qualche distinto e superiore impiego o dignità» e in primis la continuità nella famiglia di un modo di vita nobile senza alcuna caduta nell'esercizio di arti meccaniche e ignobili99. Ma nel secolo dei lumi non vi fu solo una nuova concezione di nobiltà, non di sangue, non di spada, ma di “servizio”; si assistette anche alla nascita di una nuova realtà sociale: il cosiddetto terzo ceto, quello civile. Progressivo e, al tempo stesso, inesorabile apparve l’avanzamento del nuovo ceto, strisciante eppur senza requie l’inserirsi all’interno del seggio popolare. Diverse tipologie sociali, artigiani, negozianti e massari, ma anche grandi proprietari terrieri soppiantarono gli sparuti mercatores nella seconda metà E. Papagna, La corte di Carlo di Borbone, il re «proprio e nazionale», Napoli 2011, p. 16 Il reale Dispaccio del 25 gennaio 1756 così prosegue: «La seconda detta di Privilegio, comprenda tutti Coloro, che per meriti, e servizj personali prestati alla Corona e allo Stato, giungono ad essere promossi a gradi maggiori, ed onorifici della Milizia, della Toga, e della Corte. E tutti coloro, che nelle dette, ed altri Classi di real servizio, e dello Stato giungono ad ottenere decorosi impieghi, i quali imprimono carattere. La terza chiamata Legale, o sia Civile comprenda quelli, i quali facciano costare avere così essi, che il loro Padre, ed Avo vissuto in Città demaniale, e regia, escluse le baronali, sempre civilmente con decoro, e comodità, senza esercitare carica, e impiego basso, e popolare, e sono sempre stati riputati dal Pubblico Uomini onorati, e dabbene». 98 99 30 del Settecento nella pressoché totalità dei reggimenti universitari. La chiusura oligarchica aveva, pertanto, prodotto i suoi frutti: divenne palese il depauperamento nelle fila delle élites, sino ad allora dominanti. Conseguenza necessaria e ineluttabile fu l’indebolimento non solo dell’antico ceto popolare propriamente detto, ma anche del patriziato urbano ormai non più in grado - anche numericamente parlando - «di contrastare l’ascesa dell’alta borghesia all’amministrazione dell’Università»100. Cambiarono perciò «le regole per partecipare alla vita pubblica e persero progressivamente valore l’appartenenza familiare e il sangue a vantaggio del censo, del livello culturale e delle competenze maturate dagli officiales»101. Non terminarono però le lotte cetuali, non si pose fine alla serrata oligarchica, nonostante questo mezzo di conservazione della nobile schiatta ne avesse invece causato il graduale rarefarsi; si preferì sempre evitare commistioni con i parvenus, ritenuti indegni di far parte dello stesso “benedetto” gruppo sociale. Diversi gradi di nobiltà, diversi piani di potere, diverse definizioni all’interno della dialettica cetuale: la «scala nella vita politica» si evolveva102. 1.5. Logge, Sedili, Piazze: l’”agorà universitaria” Quella stessa scala nell’universitas sia architettonicamente sia praticamente era rappresentata dal sedile, espressione politica della città, nonché luogo fisico ove solo chi aveva titolo poteva assidersi in uno spazio privato nondimeno congegnato in modo tale da essere ben visibile al pubblico. Ancora una volta un ossimoro necessario è utile a delineare non solo lo stretto legame con la comunità, ma il ruolo preminente in essa svolto, una sorta di rappresentazione concreta e reale degli attori sociali dell’universitas. A. Spagnoletti, Classe dirigente, cit., p. 261 E. Papagna, Famiglie di Antico Regime,cit., p. 503 102 A. Carrino, La città aristocratica, cit., pp. 12 e ss 100 101 31 Attraverso l’identità civica si configuravano infatti anche le élites territoriali e da qui nascevano quelle palesi distinzioni dal meno scenograficamente strutturato panorama del contado. «Molte sono quelle cose che nobilitano una città, i seggi, le loggie, i theatri e altri cosifatti luoghi pubblici; i bei palagi, le belle chiese, le ampie strade diritte, che diano quasi forma e ordine alla città; la nobiltà la cavalleria la frequentia di popolo, la civiltà, la politia del vivere». Queste le efficaci parole usate da Giovanni Tarcagnota103 nel 1566 nel descrivere, illustrare verbalmente il tessuto cittadino per antonomasia, l’archetipo napoletano, cui si ispirarono le universitates periferiche. Ecco comporsi l’inesorabile tratteggio di quella che Muto definisce «la geografia delle piccole patrie»104, ossia quella sorta di esplicitazione di senso di appartenenza al territorio attraverso la configurazione composita e architettonica dello stesso. Ecco «Loggie et seggi» accanto a «chiese e bei palagi»: profano e sacro susseguirsi in un continuum quasi artistico, ma pur sempre «oscura materia» della cui «origine poca certezza aver si può», come asseriva Antonio Summonte105 quando si soffermava sui famosi sedili, o tocchi, tutti sinonimi del medesimo loco, la cui etimologia si riferiva ai banchi in legno o in pietra adagiati lungo le pareti, atti a ospitare coloro che partecipavano alle assemblee106. Pietro Ventura fornisce un’esaustiva definizione di seggio come «unione in un corpo distinto di famiglie e lignaggi, secondo le modalità tipiche con cui si strutturavano le società cittadine di antico regime, costituiva la vera e più qualificante sanzione delle élites urbane»107. Il seggio, come locus e al G. Tarcagnota, Del sito et lodi della città di Napoli […], Edizione anastatica a cura di F. Strazzullo, Roma 1988, p. 15 104 G. Muto, Istituzioni dell’Universitas, cit., p. 23 105 A. Summonte, Historia della città e Regno di Napoli ove si trattano le cose più notabili accadute dalla sua edificazione fin’a tempi nostri, Napoli 1748-1750, p. 235 106 Lenzo fa notare come il termine tocco abbia origini antiche, da Omero, onde indicare un sedile: θωκος, appunto. Purtroppo lamenta altresì la mancanza di studi che giustifichino la presenza di questo lemma nel linguaggio proprio delle Universitates; cfr. F. Lenzo, Memoria e Identità civica. L’Architettura dei Seggi nel Regno di Napoli XII-XVIII secolo, Roma 2014, p. 51 107 P. Ventura, La capitale e le élites urbane, cit., p. 261 103 32 tempo stesso come simbolo, circoscriveva l’identità sociale di una élite egemone e distinta dal resto della popolazione universitaria, a ogni modo, rappresentava al contempo l’intera cittadinanza dal singolo, dai pochi alla collettività intera. Ed è ancora Summonte colui il quale ci fornisce una definizione, univoca o quasi, della vicenda: «in Napoli et altrove, il luogho ove le persone radunate sogliono sedere o passeggiare, portici vengono nominati. […] Col tempo ciascuna delle circoscrizioni nobili di Napoli eresse il suo portico chiamandolo poi sedile»108. Gli edifici erano costituiti da arcate come principium et continuum del portico di Summonte, di solito associati a edifici sacri come a significar un altro luogo di raccolta, passando da Dio agli uomini. Erano comuni mortali, nobiles aut populares, ma pur sempre reggitori delle sorti del territorio, di cui discutevano pressoché in pubblico, non essendo difficile assistere a tali riunioni, anche attraverso piccoli spiragli concessi dalla ricorrente configurazione di questi edifici pubblici eppur privati. L’ulteriore contraddizione: cancellate e balaustre, poste nella porzione inferiore degli archi, fisicamente rappresentavano la divisione tra coloro che costituivano il reggimento della città e la popolazione comune, che poteva assistere, ma non partecipare. Un’altra suddivisione venne architettonicamente stabilita: fu posto sempre un gradino più in alto il sedile nobiliare rispetto a quello popolare, atteso che quest’ultimo apparteneva a coloro che non potevano godere degli stessi titoli dei primi109. Allo stesso modo sembrò imprescindibile la presenza di scalinate poste innanzi l’ingresso dell’edificio, il cui fine simbolico e principale era quello di rammentare che «quanto accadeva all’interno era su un piano differente da quello della pubblica piazza»110. Ma, al di là della ricorrenza del porticato G.A. Summonte, Dell’Istoria della città e del Regno di Napoli, Vol II, 1601, p. 190 F. Lenzo, cit., pp. 53-54. 110 «L’ingresso al seggio, almeno a Napoli, era infatti precluso a coloro che non ne facevano parte, i quali ne sarebbero stati “spinti e descazziati de fuora”». Ivi, p. 55. 108 109 33 e dell’arco, al di là di quanto potesse significare visivamente il sedile occupato dai nobiles o dai populares, nell’agorà delle universitates pugliesi il tutto si doveva necessariamente raffrontare alla valenza del centro cittadino preso in considerazione. Emblematici i casi di Foggia e Martina Franca dove la nobiltà civica non aveva una collocazione ben delineata, così come i privilegi annessi, contesti sfumati in perfetta contrapposizione con l’universitas di Trani e la sua rigida ripartizione in quattro seggi chiusi. Nel mezzo si trovava Molfetta, città in cui appariva meno netto l’irrigidimento del primo ceto, meno refrattario dinanzi alle istanze di apertura, considerate le altresì più malleabili regole che stabilivano l’aggregazione per la quale era sufficiente un semplice diploma regio111. I seggi erano anche qui però divisi distintamente secondo il criterio della “perfetta separazione” e, anche se non chiusi come avveniva a Trani, non permettevano in sede deliberativa alcuna commistione tra le piazze. Ciononostante queste logge costituivano, non a caso anche dal punto di vista della disposizione urbana, la vera e propria agorà della città, il cuore pulsante della politica, aperte e chiuse al tempo stesso, accessibili e proibite, come le vicende che al loro interno erano oggetto di discettazione. 111 E. Papagna, L’universo nobiliare, cit., p. 164 34 Capitolo II L’Universitas di Molfetta 35 2.1. Storia di “utili signori” e della città a loro infeudata Dal punto di vista meramente visivo, ma non per questo meno sostanziale, i seggi costituivano anche una sorta di racconto della città attraverso la narrazione della gloria dell’urbe e – quasi sempre- del ceto nobiliare che la governava, attraverso iscrizioni affisse come fregi alla pietra dell’edificio. Meri esempi ne possono essere l’epigramma scritto per il restauro del Colosso di Barletta nel 1491, o l’iscrizione posta in prossimità del Seggio dei nobili di Molfetta, per non esulare dal nostro tema di ricerca. In via Piazza leggiamo infatti tra gli attuali civici 10 e 12: VETUSTUM FASTIGIUM / NOBILIUM MELPHICTEN REGIS CAROLI P. CERNUNT ADSCRIPTI / REGISTRO IN ARCHIV. R. SICLAE NEAPI / HIC ERECTUM / ET EX AERE PUBLICO AD HONOREM PUBLICUM CONSTRUCTUM / IAM DIRUTUM / INCLITA CIVITAS CLARITATIS SUPERSTES UT POSTERIS / FULGEAT / RESTITUIT / SINDICORUM SUB AUSPICIIS / SENATORIS D. IOSEPHI MARCI ANTONII DE LUCA / ET POPULI IACOBI RADIVANO 112. Spicca un cognome nobile che osserveremo in seguito occupare un posto di rilievo nella storia di Molfetta: de Luca. Abbiamo visto che i nobili molfettesi avevano ottenuto di congregarsi separatamente dai popolari113. Perciò a Molfetta si poteva parlare di due seggi di “perfetta separazione”114, al di là della configurazione architettonica. Il primo ove si radunava il ceto nobiliare era in via Piazza e a poca distanza eppur separato distintamente, girando l’angolo, la classica arcata che indicava il sedile popolare in via Arco del Forno115. Separazione, dunque, a soli due civici di distanza dal seggio nobiliare e a meno di un metro dagli stemmi dei di Capua – del Balzo e dei Gonzaga Si veda l’appendice documentale: foto n.2 A. Spagnoletti, L’incostanza delle umane cose, cit., p. 42 (fa riferimento alla questione citando in nota P. A. Lanza nel suo De Civitatis Regimine allegatione, capitolo XIV, 1640 ca., mss. vari, Fondo DG, fuori busta 12, Biblioteca Provinciale di Bari “De Gemmis”) 114 A.M. Rao, Antiche storie e autentiche scritture. Prove di nobiltà a Napoli nel Settecento in M.A. Visceglia (a cura di), Signori, patrizi, cavalieri cit., pp. 300-301 ripreso in E. Papagna, Filippo Briganti, cit., p. 16 115 Cfr. documentazione fotografica nn. 3 e 4 112 113 36 precedenti “utili padroni” della città, v’è ancor oggi visibile una eloquente iscrizione, che ringraziava la signora Veronica Spinola per aver ampliato il luogo del sedile dei nobili con lo stesso slancio di un progenitore e con altrettanto dispendio economico116. E su questa iscrizione campeggia lo stemma degli Spinola, comune a tutti i rami della famiglia «d’oro alla fascia scaccata d’argento e di rosso di tre file, sostenente una fila di botte di rosso in palo»117. È questa forse l’unica traccia urbana di coloro che si fregiavano dal 1640 del titolo di principi di Molfetta: la casata genovese degli Spinola, del ramo di San Luca prima e di quello di San Pietro poi, succeduta, attraverso regolare acquisto del feudo, ai precedenti signori della città, i Gonzaga di Guastalla. Non v’è invero dimora o palazzo intestato ai nobili feudatari genovesi, né v’è traccia di vie, strade ascrivibili ai medesimi. Gli utili signori prediligevano, molto probabilmente, le proprie dimore principesche in città come Genova, Milano o Madrid, limitandosi a riscuotere i proventi loro dovuti attraverso un amministratore locale o un procuratore incaricato. Talvolta si recavano per breve tempo nei loro feudi, soprattutto di passaggio e nel caso veramente raro che giungessero in Molfetta erano alloggiati presso il collegio dei Gesuiti, oppure in locali predisposti dal governatore nel palazzo di città o in case nobiliari. Ma l’assenza del signore non era una prerogativa del solo feudo di Molfetta. Giancarlo Vallone sottolinea il verificarsi del medesimo atteggiamento da parte degli Spinola nei confronti del feudo di Galatina, che aveva fruttato loro anche il titolo di Grande di Spagna. «E’ indubbiamente paradossale, e per più ragioni, che la stagione feudale degli Spinola a Galatina abbia lasciato così scarne tracce di sé»; queste le parole di Giancarlo Maiori animo qua dispendio mercium comodo exc D. Veronica Spinola ampliavit AD MDCLXXI, iscrizione sita in Via Piazza 2 a Molfetta, cfr. documentazione fotografica al n.1 117 Fonti: Annuario della Nobiltà Italiana di Goffredo di Crollalanza, Bari 1898; Libro d'Oro Collegio Araldico, Roma 2000; cfr. anche documentazione fotografica al n.1 116 37 Vallone, che ben potrebbero mutuarsi nella descrizione del periodo spinolino a Molfetta118. 2.2. O felix patria, in qua nati fruimur libertate Protagonisti della vita urbana, e delle dinamiche interne alla stessa, erano quindi i cittadini e, ovviamente, i nobili. Pirro Antonio Lanza nel suo De Civitatis Regimine allegatione riferiva che Imo nostra Platea popularis fuit munita privilegio nobilitatis a rege Ferdinando in anno 1464, ut in eodem libro …119. Il re in questione era Ferdinando I d’Aragona il cui placet fece sì che tucto il populo de Molfecta possa gaudere de tucti offitii, preorogative, immunita et honori che gaudeno tutti li alt’gentilhomini de Molfecta. actento si loro honorati portamenti hanno facto et fanno et sperano in futurum di fare con li decti gentilhomini120. Pertanto, anche i popolari godevano delle prerogative della nobiltà, anche se veniva descritta avvenire in luoghi e tempi separati la riunione delle piazze, nonché la partecipazione dell’Ufficiale di Giustizia che poteva presiedere, naturalmente, a un’adunanza per volta. Ma Molfetta era una “città nobile”. In questo modo la definì Carlo V nel 1520 quando ancora era sotto la giurisdizione regia che, come Lanza riferisce, confirmando privilegia nobilem hanc civitatem appellat, asserzione contenuta anche nel Libro Rosso della città, ove si leggeva appunto: Nobilis civitatis nostrae Melficti121. G. Vallone, Gli Spinola a Galatina, dalla Lectio Magistralis tenuta presso l’Università Popolare “Aldo Vallone” in Galatina il 30 settembre 2010 119 Biblioteca Provinciale di Bari ”De Gemmis”, mss. vari, Fondo DG, fuori busta 12, P. A. Lanza, cit., Cap. IV 120 D. Magrone, Libro rosso. Privilegi dell’Università di Molfetta. Vol. II: periodo aragonese. Trani 1902, pp. 150-158. 121 D. Magrone, Libro rosso. Privilegi cit., Vol. III, pp. 134-137 118 38 Privilegiati erano, difatti, entrambi i ceti ma non per questo eguali: le elezioni si tenevano in luoghi diversi, in tempi diversi, ma le modalità erano identiche122. Quattro pallottae aureae designavano chi avrebbe avuto l’opportunità di indicare, nominare magistrum iuratum, syndicum, cascerum, aerarium et magistrum nundinarium123. La procedura elettiva, allo scopo di esser equa e trasparente, proseguiva per sorteggio e il voto era espresso dagli ultimi estratti. I quattro nomi designati per ciascuna delle quattro cariche erano posti a una nuova estrazione, strumento equo e in qualche modo democratico. Si giungeva così alla elezione definitiva di coloro che dovevano ricoprire i ruoli più importanti all’interno della communitas. Secondo questa modalità erano anche eletti i Decurioni, o consiglieri nel numero di dodici secondo lo statuto del 1574 per sedile, con la mera differenza che le pallotte utilizzate erano argentee e non già dorate. Questa equa distribuzione delle cariche faceva sì che ciascuna piazza avesse il proprio sindaco e il proprio maestro di fiera124. Per quanto atteneva alle cariche di mastro giurato, cassiere ed erario, essendo destinate a una sola persona, e quindi a una sola piazza, prevedevano una turnazione annuale tra i seggi. Con grande entusiasmo si parlava di libertà da parte di Lanza, quando esordiva nel capitolo IV del suo De Civitatis Regimine, esclamando: O Felix Patria, in qua nati, fruimur libertate!125. L’esser stata designata nel 1522 come feudo destinato a Ferrante de (o di) Capua, duca di Termoli, perdendo così lo status di città demaniale, non 122 123 BPB “DG”, mss. vari, Fondo DG, fuori busta 12, P. A. Lanza, cit., Cap. IV Ibidem E. Pomes, “O Felix Patria, in qua nati, fruimur libertate”: Molfetta nel “De Civitatis Regimine” di Pirro Antonio Lanza, estratto da «Studi Molfettesi» 6-8, 1998, pp. 146-147 124 125 Ibidem. 39 aveva mutato granché nelle dinamiche del reggimento cittadino. Fu, però, loro imposto un signore126. L’essere una universitas regia significava principalmente avere «una propria nobiltà riconosciuta con un proprio Seggio»127. L’infeudazione per un’universitas aveva come risultato principale la sottrazione della «definizione legale del primo ceto», con la conseguenza per i suoi esponenti di «essere declassati nella scala sociale del Regno, con conseguente perdita delle possibilità di rendite che vi erano collegate»128. Questo contribuiva a creare una gerarchia anche tra le civitates e i rispettivi ceti nobiliari, cosicché «nel Regno di Napoli nessuna nobiltà era uguale a un’altra»129. Ciò spiegava anche il perché i nobiles molfettesi si erano dimostrati sempre oltremodo refrattari all’infeudazione ed erano disposti a riscattare l’antica demanialità, anche indebitando irreversibilmente le finanze cittadine a discapito della comunità. Al contempo, non destava alcuna meraviglia la circostanza che il ceto popolare ravvisasse in questo evento un modo per arginare il potere del patriziato e, soprattutto, ritenesse più conveniente la soluzione feudale anche dal punto di vista economico. Francesco Lombardi scrisse con enfasi di quanto la piazza popolare desiderava che l’universitas fosse infeudata, al contrario dei nobili che, attraverso un accorato discorso del decurione Monna, si opponevano all’evento chiedendo di poter sopperire al pagamento dei ducati dovuti a Carlo V, ricorrendo a una sorta di “liberalità” dei cives molfettesi onde «redimer la patria dalla cattività destinata»130. Un «terribile populare» pose mano alla spada e invocò il nome del Principe, seguito dal proprio «numeroso partito» consentendo, così, che «Don Ferrante di Capua, 126 A. Massafra, Terra di Bari tra 500 e 600. Le Università, ordinamenti amministrativi, ceti sociali e finanze dall’ultimo periodo aragonese alla crisi del seicento, in G. Galasso e R. Romeo (a cura di), Storia del Mezzogiorno, Vol. VII Le province, Roma 1986, p. 525; C. De Gioia Gadaleta, Isabella de Capua: principessa di Molfetta, consorte di Ferrante Gonzaga, Molfetta 2005, p. 26. 127 G. Delille, Governo locale e identità urbana cit. p.122 128 Ibidem 129 G. Delille, Famiglia e potere locale cit., p. 154 130 Ivi, p. 121 40 trionfando la discordia delle generose risolutioni de’ nobili», fosse «dal popolo» ammesso nel possesso del «nobilissimo feudo di Molfetta»131. Molfetta non era più quindi nobilis civitas, ma un’universitas feudale, situazione che perdurò per circa tre secoli ma ciononostante la libertas e i privilegi della città permasero pressoché intatti. I Libri Rossi furono la testimonianza codificata del tutto. Le dinamiche sociali furono interne alla compagine cittadina ed esclusivamente cetuali. Se nel XV secolo il rapporto era ancora sbilanciato a favore dell’élite nobiliare, non era altresì irrilevante il peso politico dei popolari che, invero, non trascurarono affatto la cura dei propri interessi. Con l’introduzione dei Libri Rossi tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento si era tentato di creare uno «strumento di un equilibrio, sia pur precario, tra forze sociali antagoniste»132. Malgrado ciò, questi “statuti cittadini” non erano riusciti nell’intento originario ma, per usare ancora una volta le parole di Massafra, avevano semplicemente “coperto” le lotte cetuali senza porre fine alle medesime, fungendo invece da mezzi codificati, utili a ciascun gruppo al fine di perseguire i propri interessi133. 2.3. Dai di Capua agli Spinola La politica di Carlo V e degli Austrias si fondò principalmente sull’attenta selezione dei nobili a loro fedeli, attraverso mirate alleanze dinastiche. In questa pratica ormai consolidata ricadde anche il “casamento” di Isabella di Capua, principessa di Molfetta, con Ferrante secondogenito di Isabella d’Este e Francesco Gonzaga, vantaggioso per i nubendi, vantaggioso ancor più per l’imperatore 134. Ivi, p. 122 A. Massafra, Terra di Bari tra 500 e 600, cit., p. 522 133 Ibidem 134 E. Papagna, La scelta del coniuge. Alleanze matrimoniali nel Mezzogiorno d’Italia tra fine Quattrocento e prima metà del Cinquecento in (a cura di), C. Continisio e R. Tamalio, Donne Gonzaga a Corte Reti istituzionali, pratiche culturali e affari di governo, Roma 2018, p. 146 131 132 41 Come asserisce Maria Antonietta Visceglia, «gli esponenti della nobiltà internazionale legata al potere imperiale spagnolo rapidamente in una o due generazioni, attraverso accorte scelte matrimoniali furono inglobati nel nucleo della nobiltà regnicola più antica»135. Ma la vicenda va raccontata per gradi. Durante la guerra franco-asburgica la storia di Molfetta subì una svolta nel momento in cui la fellonia di Giovanni III Caracciolo, principe di Melfi136, rese poco vantaggioso il patto matrimoniale stretto nel 1525 tra l’erede del principato di Molfetta, Isabella di Capua, con il di lui figlio Troiano137. Il destino condusse “Sergianni” Caracciolo a esser successivamente proprio l’autore del sacco di Molfetta il 18 luglio del 1529, quando si pose alla testa delle forze francesi e veneziane sotto la cui protezione si è rifugiato gran parte del ceto dei nobili rifugiatisi a Barletta e, ancor una volta, in aperta contrapposizione con i popolari rimasti in città. Secondo Gérard Delille uno schema di lettura netto, così come imposto nell’opera di Lombardi, non era plausibile nei primi decenni del XVI secolo, nel momento in cui ancora non si era instaurata la chiusura oligarchica e vivace era la mobilità sociale tra i gruppi dirigenti dell’universitas138. Se da un lato, perciò, le lotte cetuali subirono un crescendo e molteplici rappresaglie furono condotte da entrambe le parti, dall’altro non sempre fu agevole definire la composizione delle fazioni, sovente frutto di un amalgama confuso tra nobili e popolari139, accomunati da «alleanze trasversali […], da legami parentali, da vincoli clientelari e infine da relazioni interpersonali» 140. M.A. Visceglia, Identità sociali, cit., p. 114 «Giovanni Caracciolo principe di Melfi, duca di Ascoli, marchese di Atella et conte della Forenza , la fortuna per brevissimo tempo gl' impartì un'altra dignità insolita che si fu collocare Isabella di Capua herede del principato di Molfetta con Troiano terzo, suo primogenito, onde fu intitolato principe di Molfetta […]»; cfr. M. D’ayala, Giovanni Caracciolo Principe di Melfi Duca di Ascoli, in «Archivio Storico Italiano», Serie III, Vol. 15, No. 68 (1872), pp. 268-279 137 E. Papagna, La scelta del coniuge, cit., p. 148 138 G. Delille, Il potere locale, cit., pp. 112-113 139 «Durante l’assalto ai locali della dogana, i popolari sono in realtà comandati da nobili», Ibidem 140 E. Papagna, Filippo Briganti, cit., p. 18 135 136 42 L’intera popolazione di Molfetta subì perdite gravissime e con il trattato di Cambrai il Caracciolo si vide confiscare Melfi, concessa poi ai Doria. Il rampollo di Sergianni a causa dell’annullamento della promessa di matrimonio con Isabella di Capua a opera della madre della nubenda, Antonicca del Balzo, perse la possibilità di esser nomato Principe di Molfetta141. Isabella fu libera di contrarre così matrimonio con Ferrante Gonzaga nel 1530 consegnando il principato al consorte che sarebbe poi diventato signore di Guastalla. Dopo gli sfortunati eventi del 1529 e nel periodo dell’infeudazione della città ai Gonzaga le lotte cetuali parvero osservare una tregua. Fu proprio Cesare Gonzaga, figlio di Ferrante, a chiedere e ottenere dal viceré Gravela nel 1574 che Orazio Granucio, Giudice di Barletta, ponesse mano al governo della città, riformandolo sul modello statutario posto in essere a Bitonto. Fu codificata la riduzione «de li XXXVI in consilio de lo iuramento et de li sey priori»142 che passarono in tal maniera rispettivamente a ventiquattro e a quattro, nonché, come già ribadito nel capitolo precedente, venne sancita l’istituzione dei Libri d’Oro così da discernere in modo univoco e per scripta, nobiles et populares143. Al di là di questo episodio, piuttosto significativo dei produttivi rapporti tra i principi Gonzaga e l’universitas, non si può non notare come a Molfetta la presenza – fisica soprattutto - delle casate dei feudatari che vi si avvicendarono fosse scarsa se non quasi nulla. Laddove Isabella di Capua e Ferrante Gonzaga trovarono la propria dimora in quello che ora è conosciuto come Palazzo Giovene, acquistato dalla principessa nel 1549 da Giacoma Orsini in occasione di una visita ai propri possedimenti144, non vi Cfr. G. Marinelli, Presa e sacco della Città di Molfetta successa nell'Anno del Signore M.D.XXIX del Dottor Giuseppe Marinello da Molfetta in Raccolta di varie croniche, diarj, ed altri opuscoli così italiani come latini appartenenti alla storia del Regno di Napoli. Tomo IV 142 L. Volpicella, Gli statuti de' secoli XV e XVI, cit., p. 29 143 Faraglia indica come nel registro delle famiglie nobili fossero ascritti 53 nominativi, mentre in quello dei popolari 82. N. F. Faraglia, Il comune dell’Italia Meridionale, Napoli 1883, p. 205 144 C. Pisani, Palazzo Giovene, Già dei ''de Luca'' e poi Esperti in «L’altra Molfetta», settembre 2018, pp. 47-48 141 43 è traccia precedente né successiva di altre compravendite volte alla costituzione di una sede fissa del signore della città. Tra l’altro Ferrante II Gonzaga145 decise già il 13 febbraio del 1585, per atto di notar Grisante Andrisanti, di ratificare la vendita fatta a favore di Francesco (Antonio) de Luca dei palazzi di sua proprietà nella città pugliese146. Le rare incursioni alla volta del feudo da parte delle casate avvicendatesi al Principato di Molfetta ebbero invero vasta risonanza e si verificarono quasi esclusivamente al momento dell’insediamento della dinastia. E anche nel caso dell’insediamento non sempre la presenza fisica del principe si tradusse in un evento inevitabile. Come racconta infatti Lombardi nelle sue Notitie istoriche, i molfettesi nel 1522 «fur costretti, ancorchè con immenso lor dispiacere, dare il possesso al Dottor Nicolò Mansulino di San Giuliano, Procuratore sostituto di D. Antonicca del Balzo moglie, e procuratrice del suddetto Duca di Termoli, come da mandato di procura, dato dai felicissimi Campi Imperiali nel Milanese, dove per Cesare militava» 147. La tanto paventata “cattività”, però, non fu poi sì deleteria, tutt’altro. I populares ne trassero il desiderato beneficio, così avvenne anche per la prima piazza, per quanto di ciò si ebbe contezza in un momento successivo. Dopo un momento di eclissi della nobiltà scorata dagli eventi il suo seggio diroccato, quasi fosse riflesso dell’animo degli ottimati molfettesi, fu concretamente rinnovato. Nella circostanza fu inciso su pietra, al fin di significare il momento in cui nuovamente l'élite cittadina tornava protagonista senza remore della vita universitaria: EX AERE AD HONOREM PUBLICUM CONSTRUCTUM ANNO DOMINI MDXXIII 148. Ferrante II Gonzaga figlio di Cesare era nato il 27 luglio 1563 a Mantova e sarebbe poi morto il 5 agosto 1630 a Reggiolo (indi molto lontano dal feudo molfettese). 146 Pisani raccoglie le informazioni relative all’atto presso l’Archivio di Stato di Parma, Fondo Archivio del Duca di Guastalla, e le riporta accuratamente in C. Pisani, Il Palazzo del Principe, in «L’Altra Molfetta», settembre 2012, pp. 52-53 147 F. Lombardi, Notitie Istoriche della città e vescovi di Molfetta, Napoli 1703, p. 122 148 Ivi, p. 123. Si tratta dell’iscrizione di cui si è già parlato sita in via Piazza fra i civici 10 e 12 in corrispondenza del seggio dei Nobili. 145 44 Nondimeno i di Capua, i Gonzaga e infine gli Spinola pari furono per i molfettesi: un mero ostacolo al godimento di una serena autonomia amministrativa, e, nel caso degli ultimi - come avremo modo di osservare nel capitolo successivo - un’indebita ingerenza anche in quella tributaria, null’altro.149 Le vicende di Molfetta infeudata passarono ineluttabilmente attraverso i nomi di queste nobili quanto lontane casate. Ma ritorniamo ai primi signori di Molfetta: i di Capua. Abbiamo visto come nel 1522 Carlo V con diploma del 5 aprile aveva venduto a Ferrante (o Ferdinando) di Capua le città di Molfetta e Giovinazzo per 50.000 ducati, indi il 3 ottobre dello stesso anno aveva decretato di elevare Molfetta a Principato150. Ferrante non potette godere molto a lungo di cotanti titoli, considerato che già nel 1523 morì nella campagna militare di Lombardia, lasciando sua unica erede la figlia Isabella. Quest’ultima contrasse, dopo la sfortunata parente con Troiano Caracciolo, come si è già descritto, nobile e vantaggioso matrimonio con Ferrante Gonzaga nel 1530, ovviamente previo assenso e benedizione da parte del sovrano. La vicenda si svolse in modo piuttosto celere; Ferrante raccontava al suo agente presso l’Imperatore di esser stato costretto dai parenti di Isabella a fornire parola e fede. Chiedeva pertanto che la questione fosse comunicata con la dovuta accortezza a Carlo V, che doveva acconsentire all’unione. Le intese principiate già dal 1529 ebbero il regal placet nell’ottobre del 1530. Artefice di tutto questo, vista e considerata la scomparsa di Ferrante di Capua, fu esclusivamente Antonicca del Balzo, colei che venne definita sostanzialmente una mulier virilis nella più misogina delle tradizioni151. Una donna non poteva mostrare pubblicamente capacità politiche e scaltrezza, doti non confacenti all’innata ACM, ms. 124, Litigio tra la casa Spinola e l’Universitas di Molfetta A. Salvemini, Storia di Molfetta, p. I, Napoli 1878, (ristampa anastatica Bologna 1977), p. 56 151 Bisanzio Lupis la definì «una donna alla quale non mancò altro eccetto l’essere uomo» e in modo non dissimile avrebbe fatto Jacob Burkardt (notizie attinte da E. Papagna, La scelta del coniuge, cit., p.147) 149 150 45 imbecillitas sexus. Solo la lenitas feminea era l’unico mezzo concesso alle donne “costrette” in una posizione di potere, la capacità di consigliare, di mediare, giammai di porsi protagoniste dell’azione152. La dinastia dei Gonzaga signoreggiò su Molfetta, ovviamente evitando ingerenze dirette nel governo cittadino, ma avvalendosi di propri rappresentanti delegati alla riscossione di quanto dovuto al feudatario in quanto tale, l’ambita carica di agente generale del Principe153, sino a circa tutto il 1635. In quel preciso anno, Ferrante III, sommerso dai debiti contratti dai suoi ascendenti prima e da lui stesso successivamente, dovette, suo malgrado, rinunciare al Principato, cedendolo per la somma di oltre 170.000 ducati ai suoi più indefessi prestatori di danari: Gio. Battista e Gio. Stefano Doria e le rispettive consorti, le sorelle Vittoria e Ottavia Spinola154. Prezioso è il contributo fornito da Corrado Pisani, giornalista e impareggiabile esperto di storia molfettese, che si è potuto avvalere della documentazione notarile custodita presso l’Archivio di Stato di Genova che descrive ogni singolo passo dell’atto di vendita del feudo pugliese dai Gonzaga ai Doria e contestualmente agli Spinola155. Il 17 marzo 1640, infatti, a Milano, presso lo studio del notaio Joannes Ambrosius Castagnola filius [de] quondam Francesco, il nobile Giacinto Piaggio, procuratore del Duca di Gonzaga, promise ancora una volta a Gio. Stefano Doria, il «Creso della Ammiano Marcellino nelle Res Gestae (14.1.8) attribuisce questa virtus muliebris a Eusebia, colei che era stata l’artefice dell’ascesa di Giuliano l’Apostata, cfr. V. D’Amato, cit., p. 49 153 Si avvicendarono Toma Vulpicella (1550), Bisanzio Rufulo (1589-1592), Dionisio Bottoni (15971610), Teodosio Michielli (1612-agosto - 1624); Angelo fu Teodosio Michielli (15 settembre 1626) e Cesare Monno (1629 - 1639). Dopo la vendita della città, nel primo quadrimestre del 1640, già in data 18 gennaio 1641, a Molfetta era presente il nobile genovese Francesco Benigassi, indicato come agente, Vicario generale, Luogotenente dei signori Luca Spinola e Gian Stefano Doria e nonché Governatore generale della città. Negli anni successivi anche fu anche Capitano della guerra. Cfr. C. Pisani, Pasqua 1647: i principi Spinola entrano in Molfetta, in «L’Altra Molfetta» Anno XXXI n. 3, Molfetta, marzo 2015, p. 52 154 “La città di Molfetta dalla signoria de’ Gonzaghi [passò] per brevissimo tempo in casa d’Oria genovese”, F. Lombardi, cit., p. 184 155 C. Pisani, Lunedì, 2 aprile 1640, il feudo di Molfetta passa dai Gonzaga agli Spinola.I documenti dell’Archivio di Stato di Genova, in «L’Altra Molfetta», Anno XXXII, n.6, Giugno 2016, pp. 48-49 152 46 Liguria»156, di vendergli il feudo di Molfetta in virtù del contratto preliminare stipulato il 7 febbraio dello stesso anno e rogato in Guastalla. Contestualmente il Doria espresse la volontà in atti che nell’acquisizione del feudo di Molfetta, che doveva compiersi definitivamente in Genova attraverso un ulteriore successivo rogito, doveva subentrare il domino Luca Spinola [de] q[uonda]m domino Gaspares157. La compravendita si perfezionò in data 2 aprile 1640, questa volta in una sala del palazzo di Gio. Stefano Doria ove il notaio Giovanni Francesco Poggio (Joannes Francescus Podium) di Genova rogò il vero e proprio contratto, con il quale si stabilì che il quantum dovuto fosse di 170.000 ducati e che acquirenti fossero appunto il Doria e il nipote Luca Spinola, rappresentato dallo stesso notaio Poggio. Vendidit, et alienavit, cessit et renunciavit,vendito et alienato, co[n]dito et renuntiat seu quasi de consensu, et ordine, ac voluntate d[ict]i Ill.mi Jo[ann]is Stephani sub reservatione tamen, et conditione infr[ascrip]tis ut inferius dicetur Domino Luce Spinule q[uonda]m Domini Gasparis Patritio Genuensi absenti et mihi notario pro eodem, ac eius heredibus et successoribus stipulanti … dictam civitatem, feudum, et Principatu[m] Melficti / existentem in regno Neapolis citra farrum cum eius castro, seu fortellitio, domibus /et palatio, hominibus, vassallis, vassallorumque redditibus, angarijs […]158. Appar chiaro in questo stralcio della parte centrale dell’atto che beneficiario dell’acquisto del feudo molfettese di Ferrante III fu perciò il nipote Luca Spinola del ramo di San Luca, colui che sarebbe stato il primo principe genovese di Molfetta159. F. Lombardi, cit., p. 194 Pisani riporta fedelmente nel suo Lunedì, 2 aprile 1640, cit., la documentazione ricevuta dall’Archivio di Stato di Genova, relativa al Fondo Notai Antichi filze 6777 e 6778 del notaio Giovanni Francesco Poggio. 158 C. Pisani, Lunedì, 2 aprile 1640, cit., p. 49 159 Archivio privato Gallarati Scotti di Milano (d’ora in poi APGS), Fondo Spinola, «Vendita della città di Molfetta dal Sig. Ferdinando Duca di Guastalla a Gio. Stefano Doria e mediante il suo assenso al Sig. D. Luca Spinola, quondam Gaspare per ducati 170.000. Roga Notaro Gio. Francesco Poggio» (I Appendice documentale) 156 157 47 Capitolo III Gli excellentissimi Principi Spinola di Molfetta 48 3.1. Gli Spinola, Genova, la Monarquìa e il Regno di Napoli I magnifici Spinola – così come i Doria, cui erano strettamente imparentati attraverso vincoli di matrimonio - ben si potevano definire esempi di quella che Francesco Salvatore Romano definisce «aristocrazia mercantile», espressione dell’evoluzione di un ceto borghese mercantile e bancario in una élite di nobili proprietari160. Gregorio Leti, storico e letterato milanese, approfondendo i dettagli della questione nell’ambito genovese, ben definisce le casate liguri cui maggiormente si addice il concetto di aristocrazia mercantile: Vi sono famiglie che non trattano che di milioni di scudi di principale, e in contanti, della quale specie sono li Doria, li Grimaldi, gli Spinola161. Il patrimonio degli Spinola si aggirava, secondo quanto riportato nella Relatione di tutti li prencipi, attorno alla non modica cifra di due milioni di scudi, di gran lunga superiore alle entrate di Lucca, Modena, Parma e Urbino, tutte fra i 100 e i 200 mila scudi l’anno162. La questione dell’indebitamento dei Gonzaga di Guastalla, sfociata alfine nella vendita del feudo molfettese, fu figlia di quel «processo di trasformazione» che interessò non solo il Regno di Napoli, ma una fetta rilevante della nobiltà feudale dell’Europa Mediterranea tra i secoli XVI e XVII. La condizione di proprietari di grandi capitali in grado di mobilitare cospicue risorse finanziarie faceva dei genovesi gli interlocutori privilegiati sia della Monarquìa spagnola sia dei ceti feudali. Il baronaggio tentò invero di ovviare in diversi modi alla crisi finanziaria, che solo raramente assunse S. F. Romano, Le classi sociali in Italia. Dal Medioevo all’età contemporanea, Torino 1965, p. 127 G. Leti, cit., II, pp. 228-229 162 M. Folin, Il principe architetto e la ‘quasi città’: spunti per un’indagine comparativa sulle strategie ubane nei piccoli stati italiani del Rinascimento in E. Svalduz (a cura di), L’ambizione di essere città: piccoli, grandi centri nell’Italia rinascimentale, Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti, Venezia 2004 p. 50. Cfr. Relatione di tutti li prencipi et republiche d’Italia, Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia, Ms It VII.877 [8651], c. 135v. Sugli Spinola, cfr. anche LÜNIG, II, 554-655. 160 161 49 i caratteri dell’irreversibilità: ci si appellò dunque al già citato fedecommesso come ad altre strategie patrimoniali e matrimoniali che spesso coincidevano perfettamente tra loro163. Tuttavia si fece ricorso anche all’indebitamento, la cui conseguenza più evidente fu appunto l’integrazione dei banchieri genovesi nella vita feudale del Regno di Napoli164. Non proprio cristallino si poteva definire il rapporto tra la Corona di Spagna e la Repubblica di S. Giorgio nel corso del XVII secolo. Se durante il secolo precedente il ceto dirigente genovese era stato in linea di massima concorde nel perseguire una politica economica allineata a quella spagnola, lungo tutto l’arco del Seicento le posizioni dei magnifici non risultavano più essere così uniformi. Era innegabile che gli hombres de negocios liguri conducessero egregiamente i propri affari all’interno del periplo dei possedimenti degli Absburgo, ma altresì indubbia era anche la crescente riluttanza a subire inevitabilmente il controllo delle proprie reti finanziarie e commerciali. Tale sentimento venne espresso da uno dei più alti esponenti del patriziato genovese e, non a caso, il suo nome era Andrea Spinola165. Egli denunciò le forme invasive di controllo da parte dell’affezionato “committente” spagnolo166 e parimenti “l’ingordigia” del ceto dirigente repubblicano, che aveva consentito all’ingombrante alleato di approfittare delle proprie abilità finanziarie, allettandoli con «le compere di tante entrate che si son fatte ne’ suoi regni» oltre alle «compre de’ feudi, che fanno i nostri cittadini invaniti d’apparenze e de’ titoli; ma fatte che sono, è difficilissima A. Musi, Il feudalesimo in età moderna, Torino 2007, p. 191 «È da approfondire la tesi, sostenuta da qualche studioso, secondo cui l’indebitamento feudale svolge una funzione politica positiva in paesi dell’area mediterranea come la Castiglia e il Regno di Napoli: contribuisce cioè a subordinare maggiormente la grande nobiltà della Corona spagnola» in A. Musi, Il feudalesimo, cit., p. 191 165 «fu gran filosofo sempre intento allo studio. Diede alla luce un discorso sulla guerra tra Genova e il Duca di Savoia nel 1619» in S. Pellegrini, I Magnifici Spinola. Una famiglia che ha segnato la storia di Genova, Genova 2010, p. 94 166 G. Muto, La presenza dei Genovesi nei domini spagnoli in Italia, in D. Puncuh (a cura di), Studi in memoria di Giorgio Costamagna, Vol. II, Genova 2003 pp. 660-662 163 164 50 cosa ottener licenza de venderli»167. Si trattava quindi di un idillio minato da diffidenza e opportunismo finanziario e soprattutto da quella che era la parte politicamente più debole: la Repubblica genovese. Lo Spinola partiva dall’assunto, quasi dal dogma, che il patrizio genovese fosse in primo luogo mercante. Nell’essenza dell’esser mercator ac magnificus risiedeva la floridezza non solo del ceto, ma anche e soprattutto della Repubblica di Genova. D’altronde gli hombres de negocios della Superba nelle relazioni intrattenute con gli Absburgo di Spagna non rivestivano i panni di semplici uomini di commercio, ma anche di prestatori di danaro e, non ultimo, di imprenditori168. Ne discendeva chiaramente che le straordinarie fortune della Repubblica di San Giorgio, di quello che nella storia delle finanze venne definito a giusta ragione el siglo de los Genoveses, derivavano essenzialmente da quella che Carlo Bitossi indica con una locuzione straordinariamente emblematica come la «conversione alla finanza», tra alti profitti e altrettanti alti rischi considerata la notoria propensione alla morosità dei sovrani spagnoli e dei loro viceré sul suolo italiano169. Ma erano le conseguenze a esser la parte più rischiosa di questa “relazione pericolosa” e soprattutto l’ingombrante vincolo, anche territoriale, derivante dal connubio con la Monarquìa, questione verso cui lo Spinola mostrava la propria posizione contraria: gli investimenti dovevano trovare una diversa e più cauta collocazione, lontana da quel quasi forzato “matrimonio” spagnolo. La Repubblica di Venezia e i suoi debiti pubblici, i monti istituiti dai Pontefici erano di gran lunga interlocutori più affidabili170. Cfr. C. Bitossi (a cura di), Scritti scelti di Andrea Spinola, Genova, 1981 La questione fu oggetto di studio a partire da Braudel. Cfr. F. Braudel, Civiltà materiale, economia, capitalismo, Torino 1981-1982 [ed. or.1967-1979] 169 C. Bitossi, Andrea Spinola. Elaborazione di un “manuale” per la classe dirigente, Estratto da «Miscellanea Storica Ligure», Periodico semestrale dell’Istituto di Storia Moderna e Contemporanea della Facoltà di Lettere e Filosofia degli Studi di Genova, Anno VII, n.2, 1975, p. 171 170 C. Bitossi, Andrea Spinola. Elaborazione di un manuale, cit., pp. 132-133 167 168 51 Questo Spinola savio e critico, oltre a dedicare interi capitoli delle sue Osservationi intorno al Governo di Genova al progressivo inserimento nel mondo spagnolo, nel 1613 giunse persino a liberarsi delle proprie rendite fondiarie, cedendo a Gio. Batta Cattaneo unitamente a tutto quanto di sua proprietà nel Regno di Napoli in cambio di un congruo vitalizio171. Pur condividendo, anche solo parzialmente, le perplessità e le riserve del magnifico in questione, non si può non obiettare che quei feudi sì tanto vituperati, poco convenienti e indubbiamente onerosi erano fonte non solo di mera ricchezza e titoli172, ma anche e soprattutto di ultroneo guadagno e sicuro impulso per gli scambi economici di coloro che ne giungevano in possesso173. E di questo furono ben consci sia gli altri Spinola sia coloro che con i primi facevano parte delle quatuor gentes liguri: i Doria, i Fieschi e i Grimaldi. Al principio del secolo XVII i Genovesi erano «anco essi già fatti napolitani con matrimoni, con i titoli e baronaggi che posseggono in questo regno»174. Una presenza pregnante che, nonostante fosse nata dalla fortunosa coincidenza tra le ambizioni individuali e familiari di questi nobili mercanti e banchieri ponentini e la crisi finanziaria spagnola del XVII secolo, aveva così consentito quell’ingresso “trasversale” dei genovesi nei centri di potere napoletani, giungendo a condizionarli in modo estremamente incisivo175. Ivi, pp. 134-136 Lo Spinola discetta dettagliatamente nella sua opera delle Arti de’ cittadini aggranditi dal Re di Spagna, rintracciando nella compravendita dei titoli e nell’attribuzione del titolo di Grandi di Spagna, il tentativo di annessione del piccolo stato ligure da parte del sovrano iberico: «in quanti modi li Spagnuoli possono impadronirsi della nostra Republica» (cfr. Osservationi, cap. XVII); «Arti del Re di Spagn a contro la nostra Republica» (cfr. Osservationi, cap. III) 173 G. Muto, La presenza dei Genovesi nei domini, cit., pp. 660-662 174 Questa l’incisiva, quanto sintetica ed esaustiva analisi, che Capaccio faceva della paventata partecipazione di esponenti della Repubblica Genovese alla vita politica attiva nel Regno di Napoli, in B. Capasso, Napoli descritta ne principi del secolo XVII da Giulio Cesare Capaccio, Siena 1985, p. 536, così come riportato da Aurelio Musi in Mercanti genovesi nel Regno di Napoli, Napoli 1996, p. 95 175 A. Musi, Mercanti genovesi, cit., pp. 95 e ss. 171 172 52 L’esser semplicemente membri dell’élite che governava uno stato come quello di San Giorgio, ricco sì, ma di dimensioni ridotte, essenzialmente cittadino, l’esser nomati magnifici in una realtà limitata non aveva lo stesso prestigio che conferiva l’universo della feudalità meridionale, che consentiva loro di aver titolo per osservare di persona i centri di potere e aver all’occorrenza anche voce in capitolo. L’essere chiamato “Eccellenza” era infatti motivo di vanto e distinzione, ma era principalmente anche una sorta di definizione filologica, un’ottima sintesi linguistica delle manovre volte all’espansione della rete finanziaria e mercantile: aveva valenza sociale indiscutibilmente, ma nondimeno una chiara ed evidente commistione economica legata ai traffici finanziari così come allo sfruttamento delle risorse annesse ai possedimenti feudali176. Il cosiddetto sistema della red genovesa si era rivelato oltremodo efficace: la «formula che permetteva di disporre di informazioni incentivava la cooperazione e riduceva la necessità di supervisione»177. Ciò che era stato frutto di menti commerciali come quelle di Gregorio e Bartolo Spinola – per mero esempio ma non solo - tra il 1610 e il 1656 trovava ancor più senso per la casata tutta (i rami di San Luca, Luccoli, San Pietro e i novelli discendenti di Ambrogio Spinola: gli Spinola di Balbases) in quello che offrivano loro le terre concesse dagli Austrias. La fiducia che i sovrani spagnoli riponevano in questi abili finanzieri, all’indomani della crisi della prima metà del Seicento culminata con la rivolta di Masaniello, assumeva concretezza allorquando i genovesi, i più notevoli tra loro e, non ultimi, i Doria178 e gli Spinola potevano fregiarsi finanche del titolo di “Grande di Spagna” grazie anzitutto al conveniente acquisto di terre e feudi nel Viceregno napoletano179. A. Spagnoletti, Principi italiani e Spagna nell’età barocca, Milano 1996, p. 123 C. Á. Nogal, L. Lo Basso e C. Marsilio, La rete finanziaria della famiglia Spinola: Spagna, Genova e le fiere dei cambi (1610-1656), in «Quaderni storici» 124 / a. XLII, n. 1, aprile 2006, p. 4 178 I Doria divengono tali con l’acquisizione del Principato di Melfi, grazie alla caduta in disgrazia di Giovanni Caracciolo. 179 A. Spagnoletti, Principi italiani, cit., p. 123 176 177 53 Mirabile sintesi della grandezza transnazionale degli Spinola ci fornisce Herrero Sanchez definendo «meteorica [la] ascension social de los màs destacados miembros de la familia Spinola»180. Appare a questo punto opportuno aprire una parentesi al fine di sottolineare l’“originale e singolare” vicenda della genesi del ramo spagnolo degli Spinola di Balbases nato dalle imprese di Ambrogio Spinola, che ebbe il pregio di dimostrare di essere non solo uno dei tanti hombres de negocios genovesi, ma di poter rivestire i panni di hombre de guerra con altrettanto e forse più grande successo. Egli infatti seppe coniugare valore bellico e arte delle finanze, ricoprendo un ruolo decisivo durante la fase più turbolenta della guerra delle Fiandre sino alla presa di Breda del 1625, nonché pochi anni dopo nella purtroppo fatale partecipazione all’assedio di Casale nel 1630. Ottenne così nel 1621 il titolo di marchese dei Balbases, oltre a quello di Grande di Spagna e alla carica di Governatore di Milano, per la valentia e la fedeltà - anche economica avendo sostenuto i costi del precedente assedio di Ostenda nel 1604 – dimostrate nel momento più determinante di un conflitto estremamente oneroso per le casse e le risorse umane della Monarquìa181. Ma tornando sul piano dell’”ordinaria amministrazione” dei magnifici nel Regno di Napoli è bene rilevare come, a ogni buon conto, «i genovesi a Napoli non costituirono una comunità sufficientemente coesa»182. In quella che sovente è stata definita come una sorta di colonia ligure, la nazione genovese, ecco farsi spazio la figura del console Cornelio Spinola, consigliere economico del Viceré Medina de las Torres tra il 1640 e il 1642, anni in cui M. Herrero Sanchez La red genovesa Spinola y en el entramado transnacional de los marqueses de los Balbases al servicio de la Monarquía Hispánica in B. Yun Casalilla (a cura di), Las-redes del Imperio Elites sociales en la articulación de la Monarquía Hispánica,-1492-1714, Oviedo, 2009, pp. 109-110. 181 M. Herrero Sánchez, La Finanza genovese e il sistema imperiale spagnolo, in in B.J. García, A. ÁlvarezOssorio Alvariño (a cura di), La monarquia de las naciones: patria, nacion y naturaleza en la Monarquia de Espana, Madrid 2004, pp. 49-50 182 A. Musi, Mercanti genovesi, cit., p. 112 180 54 scrive una serie di pareri inerenti alla risoluzione della crisi finanziaria del regno. Spinola espose invero «un coerente progetto statalista in funzione antifeudale e contro la nobiltà di seggio napoletana»183. Lungimiranza v’era in quel prospetto che fu esposto al Medina: un ruolo più di rilievo per lo stato nelle questioni economiche e finanziarie, di contro a una «iniziativa regia spenta»184. Questa mancanza di una figura sovrana centrale, questa presenza non presenza degli Austrias portarono nel 1647 al momento più cruciale della storia del Regno di Napoli: la rivolta di Masaniello con tutti gli eventi che ne susseguirono. 3.2. Storia di ricchezze e di virtù Ma a cosa deve il proprio potere contrattuale questa famiglia genovese? Quali sono le origini, qual è l’evoluzione di coloro che insieme ai Grimaldi, ai Doria e ai Fieschi fanno parte delle famose quatuor gentes più titolate dell’intellighèntsia ligure? E’ necessario partire dal brocardo di Alberico da Rosciate: Familia id est substantia185, che definiva strettamente interconnessi tra loro e imprescindibili gli uni dagli altri i rapporti interni alla famiglia, non solo di carattere personale, ma anche di carattere patrimoniale. La patrimonialità, il reddito prodotto da ciascun nucleo familiare contraddistinguevano da sempre e in modo prevalente la sfera pubblica e privata nonché di conseguenza la possibilità di ascesa sociale. La storia degli Spinola, nobiles mercatores, argentarii, rappresentava la narrazione concreta di questa massima. Ivi, p. 114 G. Muto, Saggi sul governo, cit., p. 101 185 A. da Rosciate, Dictionarium iuris tam civilis quam canonici, Venetiis 1583, ristampa anastatica Torino 1971, sub voce “Familia”, 266b, così come annotato in S. Patti, M.G. Cubeddu (a cura di), Diritto della Famiglia, Milano 2011, p. 4 183 184 55 «Siamo nondimeno costretti à confessare, che in tempi così remoti da’ nostri, troppo è difficile il dimostrare con evidenza le Origini delle Nobili Famiglie, talora più recondite, che le fontane del Nilo»186: queste le parole con cui Massimiliano Deza si dichiarava impotente a fornire notizie certe e dettagliate sulla genealogia spinolina. Negli scritti che li riguardavano vi erano riferimenti a un titolo di visconte, o viceconte che dir si voglia, la cui attribuzione affondava le sue radici nell’alto medioevo, quindi poteva ben esser frutto della tanta invalsa pratica dell’autoreferenzialità familiare che spesso non abbisognava di prove, perché forse non ve ne erano, o perché trattavasi di mera tradizione orale talvolta sin troppo romanzata. Questo e quel Guido il quale insieme col fratello minore Oberto pigliorono prima che niuno altro il nome di Spinola, & furono figlioli di Belo viceconte, il quale fu figliolo di Oberto viceconte, il cui padre fu Guido pur viceconte, che signoreggiava in la valle di Pocevera, & habitava in la villa nominata Carmen o sia Carmadino, & in questo Guido riferiscono i nobili Spinoli l’origine loro, & dicono che questo nome Spinola e derivato & ha havuto principio dalla liberalita & magnificentia di Guido, il qual era huomo molto liberale & magnifico, & haveva in consuetudine per honorar i forestieri, che venivano ad allogiar in casa sua in gran numero di far spinolare cioe di far trar varie sorti di vino da piu botte per satisfar al gusto de gl’amici che venivano ad albergar in casa sua, & per fargli honore, come che il vino precioso & bono si ricerchi in li conviti piu ch’ognaltra cosa, & in lingua Genoese tanto e a dir spinolare una botta,[…] frequentia di far tirar vino di novo fu domandato Guido il Spinola, & da qui etiamdio dicono essere venuto, che sopra i vinti quatro quadreti bianchi & vermigli che sono l’arma o sia l’insegna della casa de i Spinoli si soprapone una spina cioe uno instrumento per mezzo del quale si tira il vino dalle botti, ancor che altri dicono che i Spinoli vi aggionsero l’instrumento della spina per componer certa lite, che era tra Spinoli & Spinoli, & col Marchese di Monferrato, il quale ne l’insegna sua porta una spina187. M. Deza, Istoria della famiglia Spinola, descritta dalla sua origine fino al secolo 16. da Massimiliano Deza della Congregazione della Madre di Dio, Piacenza, 1694, p. 15 187 A. Giustiniani, Annali della Repubblica di Genova, 1537, c. 32v. Oltre all’ipotesi che vorrebbe il nome ‘Spinola’ derivato dal Monte Spina, e quella (ricavata dal Giustiniani) relativa all’ospitalità di Guido, il Deza suggerisce anche ch’esso possa rimandare alla pietà dei primi membri della famiglia verso “la Sacra Spina della dolorosa Corona di Cristo, che si conserva in Genova, per esser da tempo immemorabile riposta in Santa Maria delle Vigne, prima, e principal Chiesa della Famiglia Spinola“; cfr. M. Deza, Istoria della famiglia Spinola, descritta dalla sua origine fino al secolo 16, Piacenza 1694, p. 20 186 56 In questo dettagliato passo di Agostino Giustiniani si rivela il significato della cognominatio Spinola, anche se la tradizione più accreditata riconduceva l’origine del nome al suo uso di “spinolare” il vino ai propri ospiti, ragion per cui “nello stemma comune a tutte le branche familiari si trova la spina di botte”188. Quel che più ci interessa è quel titolo antico e tramandato di visconte ciò che Bizzocchi definirebbe una genealogia “incredibile”- che la famiglia già nel X secolo poteva vantare, facendo derivare tale investitura da Ottone I. Vi erano certamente degli interessi pratici dietro le innumerevoli storie genealogiche che nella letteratura della prima età moderna attribuivano alle famiglie nobili origini, troppo illustri e tanto remote nel tempo da apparirci per l’appunto incredibili come questa189. Nondimeno, questo titolo, vero o presunto che fosse, venne successivamente speso dagli Spinola allo scopo di esser insigniti di onori e cariche cittadine partecipando a tutti gli effetti alla vita politica ed economica, rendendosi diretti protagonisti delle vicende genovesi. Il capostipite, secondo le informazioni fornite da Roberto Santamaria nella sua disamina dell’inventario del 1727 del Palazzo Doria Spinola, fu pertanto Guido, sulla carta Visconte di Valpocevera una delle principali vallate del Genovesato, padre di sette figli e, presumibilmente, al servizio dell’Imperatore190. Il tratto distintivo propriamente “spinolino” era la spiccata propensione verso l’attività mercantile che aveva garantito ai membri di questa famiglia quell’affermazione economica e sociale e l’ingresso sul palcoscenico internazionale in età moderna. Si erano altresì avvalsi sin dall’età medievale del mezzo più diffuso e indispensabile per una rapida ascesa sociale: le unioni matrimoniali. Furono queste ultime a R. Santamaria, Palazzo Doria Spinola. Architettura e arredi di una dimora aristocratica genovese - da un inventario del 1727, Genova 2011, p. 144 189 Cfr. R. Bizzocchi, Genealogie incredibili. Scritti di storia nell'Europa moderna, Bologna 2009 190 R. Santamaria (a cura di), Palazzo Doria Spinola, cit. p. 144 188 57 rafforzare le capacità di negoziazione politica, ma anche commerciale della famiglia. L’attività marinara fu ovviamente il trampolino di lancio delle fortune degli Spinola191: dal XII secolo, periodo cui si fece risalire la divisione dei due rami di Luccoli e San Luca, all’ottenimento delle terre di Oltregiogo, essi cominciarono a definire la propria sfera di influenza tra alterne fortune192 principiando la lenta quanto ineluttabile costituzione dello “Stato spinolino” situato in posizione strategica tra il mare e la pianura padana. Divennero così parte integrante dell’aristocrazia genovese muovendosi al contempo tra terraferma e mare, pur nella perenne ricerca di diritti signorili di lunga data, anche attraverso l’eterodossa - alquanto aliena ai mores nobilium - via della mercatura. L’arte del commercio e degli scambi era difatti l’attività principale genovese e soprattutto la dote indefettibile del suo patriziato. Questa forma mentis contribuì alla quasi identificazione tra l’esser mercatores e la libertà repubblicana in età moderna, proprio in virtù dell’ammirazione nutrita per un passato in cui tale gestione degli affari aveva letteralmente nobilitato l’uomo senza ricorrere all’ethos della spada e al pathos del sangue. Fu un modello di società conformata «por el predominio de los intereses patrimoniales y corporativos en el que la familia, y no el interès particular o meramente individual, era la base de la organizacion del poder»193. In un sistema fondato sul privilegio i legami di parentela, la configurazione delle reti di clientela, le relazioni matrimoniali erano le trame che meglio potevano dipanarsi attorno ai membri della famiglia genovese permeandone qualsivoglia aspetto della vita pubblica come di quella privata, condizionandone il processo decisionale politico, le diverse strategie economiche e le vicende personali strettamente interconnesse. A. Musarra Gli Spinola a Genova nel XII secolo. Ascesa politica, economica e sociale di un casato urbano in «Atti della società ligure di storia patria nuova» Serie LVII (CXXXI), Genova 2017, p. 53 192 Ivi, p. 56 193 Cfr. M. Herrero Sanchez, La red genovesa Spinola y , cit., p.103 191 58 3.3. Vicari e luogotenenti. Tutti gli uomini del principe Ma riportiamoci a Molfetta. Luca Spinola si era rivelato poco avvezzo nell’approcciarsi all’apparato burocratico napoletano. Aveva infatti agito in modo poco avveduto nel perfezionare il contratto di compravendita della città: non solo non aveva avvisato il Viceré, ma neppure il Consiglio Collaterale, che aveva pertanto deciso di sospenderlo dal possesso del feudo sino a tutto il biennio 1643 1644194, periodo in cui alfine venne definita la vicenda, grazie all’intervento del sovrano e al conseguente exequatur del placet di quest’ultimo195. Filippo IV aveva così concesso la sua benedizione e così apparentemente aveva fatto anche l’universitas molfettese ancora una volta infeudata. La Felix Patria di lanziana memoria aveva perciò accolto e festeggiato il suo nuovo signore e “utile padrone”. Spettacoli pirotecnici, omaggi militari e musicanti furono difatti apprestati allo scopo di ricevere con tutti gli onori lo Spinola e la moglie Pellina la sera del 20 aprile 1647. La città non aveva assolutamente badato a spese per i nuovi signori liguri196. Ma quella rimase la prima e ultima visita – documentata quantomeno – del neoprincipe Luca. Gli Spinola non si dimostrarono di fatto mai legati ai propri feudi pugliesi da Molfetta a San Pietro in Galatina. Della famiglia non v’è traccia alcuna nelle due città, che pure avevano loro portato il titolo di Grandi di Spagna. Come sottolinea Giancarlo Vallone, «pur all’interno della nota organizzazione consortile delle famiglie nobili genovesi, questo ramo era tra i più solidi degli Spinola, e aveva comodità di seguire da Genova, ove risiedeva stabilmente, i propri affari commerciali, i propri investimenti e R. Colapietra, Genovesi in Puglia nel Cinque e Seicento, in «Archivio Storico Pugliese», XXXV, 1982, pp. 51-52 195 APGS, Fondo Spinola, “Exexutio di Regio Privilegio per il quale S.M. Cattolica concede il suo assenso alla vendita fatta per l’Ill.mo D. Ferrante Gonzaga Duca di Guastalla e Principe di Molfetta a D. Luca Spinola per ducati 170.000” (I Appendice documentale); C. Pisani, Pasqua 1647: i principi Spinola entrano in Molfetta, in «L’Altra Molfetta», Anno XXXI n. 3, Molfetta, marzo 2015, pp. 52-53 196 Il tutto è rinvenibile dal Fondo Contabilità Comunale dell'ACM (anno 1647), fonte primaria degli studi condotti e riportati da Pisani nell’articolo sopracitato. 194 59 interessi che irradiavano verso Venezia, verso Milano, verso la Spagna oltreché verso il Regno»197. L’assenza dal feudo non significava necessariamente che gli utili signori si disinteressassero completamente dei propri possedimenti. Certamente, se non reputavano necessario l’incremento delle produzioni agricole, che presupponeva quantomeno una presenza costante del feudatario sul posto, al contempo non disdegnavano in alcun modo la rendita feudale198 oltre all’esazione delle imposte a questa connesse, che sovente conducevano a un conflitto di interessi con l’universitas199. Era dunque necessario che vi fosse una persona fidata, che la longa manus principesca potesse essere degnamente rappresentata da un luogotenente. Diversi sono gli appellativi con i quali furono designati questi uomini di fiducia, quella di agens generalis fu quella maggiormente utilizzata. Accanto al generalis gubernator, rappresentato solitamente da un cadetto della famiglia con poteri ben più ampi come quello di nominare il Capitano, come nel caso di Don Paolo Spinola, vi era la figura suggestiva di questo “agente generale” fiduciario del feudatario, il quale spesso gli arrendava200 l’amministrazione dei propri feudi in modo tale da trarne il massimo tornaconto, ben certo che giammai il “fortunato” luogotenente ne avrebbe tradito le aspettative vista e considerata anche la comunione di intenti201. Più frequentemente il ruolo fu rivestito da un genovese, ma non si disdegnò la collaborazione di altrettanti affidabili patrizi del luogo. G. Vallone, Feudi e Città, Studi di Storia Giuridica e Istituzionale Pugliese, Lecce 1993, pp. 232-233 Ivi, pp. 233 e ss. 199 Arcinota la dibattuta questione dello ius moliendi, che contrappose l’universitas agli Spinola per oltre un secolo. ACM, Manoscritto n. 124 [6/VI] Litigio tra la casa Spinola e l’Universitas di Molfetta 200 Arrendare, per "appaltare", e arrendatore per "appaltatore" delle gabelle. Troviamo anche nella finanza pontificia il vocabolo arrendatore, a proposito di una controversia sorta per l'appalto del dazio sull'olio a Ferrara, e decisa dalla S. R. Rota in data 4 febbraio 1726. L. Nina, Enciclopedia Italiana, 1929 (Treccani online). 201 G. Vallone, Feudi e Città, cit, pp. 234-235. 197 198 60 Proprio da questa premessa parte la disamina di due figure che più delle altre si distinsero nel ruolo di “uomo del Principe”: il genovese Francesco Benigassi e il molfettese Marzio de Luca. 3.3.1. Uno “straniero” a Molfetta: Francesco Benigassi La vicenda della mancata immediata investitura di Luca Spinola non implicò che egli non potesse in ogni caso controllare e trarre profitto dalla propria eredità. Fu Francesco Benigassi (o Benegassi) a occuparsi del “nuovo acquisto di famiglia”. Questi apparteneva a una famiglia originaria di Gavi nell’Oltregiogo trasferitasi successivamente nella capitale alla fine del Trecento202, presumibilmente facente parte dell’antica clientela degli Spinola, considerando che i primi possedimenti fondiari della casata erano estesi sin dal XIII secolo proprio in quella zona per poi lentamente giungere a insediarsi nel 1364 come feudatari di Tassarolo203. Il Benigassi, tra l’altro, aveva già ricoperto il ruolo di fidato luogotenente e agente del I Duca di San Pietro in Galatina, Giovanni Battista di Giovanni Maria Spinola, che gli «concesse in locazione i feudi di San Pietro in Galatina, Soleto, Borgagne e Pasulo» il 27 settembre del 1625, per atto di notar Giovanni Tomaso Poggi di Genova, per un periodo di sei anni (dal 1° settembre passato sino al 1° settembre 1631) e un canone annuo fissato in 7.450 ducati di Napoli. Il 3 ottobre, il Duca costituì il Benigassi suo Come riferisce Corrado Pisani nel suo Genovesi a Molfetta: i Bedonigassi, «L’altra Molfetta», anno XXI, Molfetta, maggio 2015, p. 24: “A. Lercari, nell’aprire la scheda n. 52 (Repertorio di fonti sul patriziato genovese) scrive: «Secondo le fonti erudite questa famiglia sarebbe stata originaria di Gavi, nell'Oltregiogo genovese, e si sarebbe trasferita in Genova alla fine del Trecento con Antonio Benigassio di Gavi, il quale nel 1439 stabilì il proprio sepolcro nel chiostro di San Domenico»” Pertanto non è del tutto peregrina l’ipotesi che i Benigassi fossero antichi protégées degli Spinola. 203 L. Tacchella, Tassarolo nella storia del monachesimo, degli Spinola, dei feudi imperiali liguri e dei cavalieri di Malta, Milano 2001, p. 17 202 61 «procuratore, agente, luogotenente e vicario generale nello Stato di San Pietro per sei anni, incominciati sempre dal I ° settembre»204. Purtroppo al momento dell’improvvisa scomparsa del Duca il 13 dicembre dello stesso anno 1625 tale ruolo fu perduto dal Benigassi, che fu immediatamente sostituito a opera di Giovanni Maria Spinola da un altro oriundo genovese: Benedetto de Mari di Lecce. A ogni modo la morte del suo “dante causa” non costituì la fine del cursus honorum del Benigassi. L’occasione giunse con l’ascesa al principato di Molfetta, seppur non ancora ratificata, di Luca Spinola, che già nel 1641 incaricò il conterraneo di controllare i propri novelli possedimenti, sino a conferirgli l’incarico di generalis gubernator nel periodo 1646-1647, rinnovato poi nel 1649 -1650. Nel 1651 Gio. Filippo Spinola dei duchi di San Pietro in Galatina, consorte dell’«Olimpia della Liguria» Veronica Spinola205 e, grazie alla dote di quest’ultima, futuro Principe di Molfetta, a causa della prolungata infermità del suocero206 gestì, presumibilmente in sua vece, le questioni attinenti ai feudi di famiglia. Il 5 maggio 1651 Gio. Filippo concesse in locazione la città di Molfetta e i suoi introiti di origine tributaria, ossia «di molini, nel ius moliendi, mastro d’attia, scannaggio, portulania, censi diversi Dugana et annui d[ucati] 1.546 in circa fiscali», a Giacinto fu Josepho Platius, procuratore di Francesco Benigassi, per il periodo tra il 1652 e il 1655 per il prezzo di ducati 4.400 d’oro annui. La morte di Francesco Benigassi avvenuta in data imprecisata (ma, presumibilmente, tra la fine del 1653 e l'inizio del 1654) portò alla rescissione di questo contratto207. C. Pisani, Genovesi a Molfetta, cit., p. 24 F. Lombardi, cit., p. 196 206 Ibidem 207 C. Pisani, Genovesi a Molfetta, cit, p. 25 204 205 62 I Benigassi però non abbandonarono Molfetta pensando bene di radicarsi nell’universitas pugliese attraverso utili matrimoni con esponenti della nobiltà locale, dai Coletta ai Filioli. Per mero esempio si riporta come nell’anno finanziario 1665 – 1666208, Andrea Benigassi rivestisse l'incarico di Governatore di Molfetta e come nel 1680 fosse ascritto al Liber Nobilitatis della città di Genova209. Pur continuando a esser legati agli Spinola e alla loro città di origine, al cui patriziato in più di un’occasione avevano fatto richiesta di esser aggregati, essi erano diventati a tutti gli effetti sudditi del Regno di Napoli, esempio dell’integrazione ligure nel tessuto sociale del Mezzogiorno. Diverse dimore furono donate e acquistate da questa famiglia, come a significar la volontà di legarsi al territorio, indissolubilmente, cosa che permase immutata sino al 1801, anno in cui con la morte di Giacinto, che dispose di donare tutti i propri beni al Monte di Pietà e al Pubblico Ospedale di Molfetta, si estinse il ramo molfettese dei Benigassi210. 3.3.2. Gli “indigeni” de Luca al servizio segreto della Principessa. Un carteggio inedito Marzio de Luca, vissuto tra il 1614 e il 1662, fece in modo che il Reggimento di questa Università dipendeva dai suoi cenni e chi piaceva a lui era eletto officiale, amico di Monsignor Pinelli tanto che tenne affittata questa città dalla Signora Veronica Spinola senza che lo sapesse anima vivente, se non loro duoi211. L’anno finanziario decorreva dal 1° settembre al 31 agosto dell'anno successivo, Ibidem. Cfr. anche A. Bulgarelli Lukacs L'imposta diretta nel regno di Napoli in età moderna, Milano 1993, p. 270 209 Ivi, p. 26 210 “Sua residenza, in via S. Lorenzo (ossia S. Orsola), era il palazzo situato a lato di Palazzo Gadaleta. Chiese di essere sepolto a San Bernardino, nel sepolcro gentilizio del Monte Filioli dove erano stati sepolti i suoi genitori”, a ulteriore riprova del vincolo della famiglia con il territorio della città pugliese. Cfr. C. Pisani, Genovesi a Molfetta, cit., p. 26 211 ACM, ms 232, f.132 , G. Visaggio, Notizie storiche dei vescovi e dei canonici di Molfetta dal 1679 al 1720, pp. 91 e ss.; «Marzio de Luca fu molto influente nel governo municipale molfettese e in combutta col 208 63 Una sorta di accordo tacito ma non troppo si era instaurato tra de Luca e il vescovo Pinelli. Nondimeno, Marzio hebbe vita breve, mentre morse di anni 48 incirca, hebbe per moglie Porzia Caputo di Ruvo, bella Signora, e morsero ambeduoi nel mese di Novembre 1662 lasciando duoi figli maschi, cioè Marcello primogenito a che nel suo testamento rogato per mano di notar Angelo Valenti poco prima di morire, lasciò un Maiorascato di trentamila ducati da impiegarsi in feudo nobile, et il secondo chiamato Francese Antonio herede universale, et a quattro femine (oltre un'altra mancata prima della sua morte) ad una dote di Ducati duemila, et all’altre la dote del Monastero 212. Queste le parole emblematiche che il canonico molfettese don Geronimo Visaggio usò per meglio definire le vicende dei de Luca, proteagonisti della scena cittadina all’epoca di Veronica Spinola. Era evidente che allo straniero Benigassi fosse ora succeduto un abile esponente del primo ceto cittadino: Marzio de Luca, che nella sua breve esistenza riuscì a costruire la fortuna della propria casata conquistando la fiducia di Veronica Spinola. Fu in questo modo che la sua prole potè successivamente investire ben trentamila ducati, comprando «la terra di Lizzano, vicino la città di Taranto, sopra la quale esso Marcello Barone213 ottenne dalla Maestà di Carlo II il titolo di Marchese»214. Ma chi erano questi de Luca? Marzio discendeva dal ramo gentilizio di Ludovico de Luca che nel 1573 era annoverato tra i populares della città. Ludovico era colui il quale aveva conferito uno stemma alla famiglia215 recante le effigi di un leone, un vescovo Pinelli prese in affitto da Veronica Spinola, “utile signora” di Molfetta, la citta per le esazioni daziarie, senza che lo sapesse anima viva, tranne loro due». Così riferisce anche Marco Ignazio de Sanctis, Fra’ Giuseppe Maria de Luca, giovannita di Molfetta e patrizio di Trani (1753-1808), in «Studi Melitensi», XXIV 2016, p. 175 L. Palumbo, Vescovi e preti a Molfetta nel tardo Seicento, in G. Poli (a cura di), Ricerche su Terra di Bari tra Sei e Settecento, Molfetta 1986, p. 58 212 ACM, ms. 232, Visaggio, Notitie storiche dei Vescovi e dei Canonici di Molfetta dal 1679 al 1720, pp. 90 e ss. 213 Il figlio primogenito già citato nell’opera di Visaggio 214 ACM, G. Visaggio, cit. 215 “Leon d’oro, che con la destra zampa sostiene una Croce bianca, traversata da una banda d’argento con tre Rose rosse” in F. Lombardi, cit., p. 39 64 emblema diffuso non proprio originale: «chi non ha blasone porta un leone»216. Il pronipote di Ludovico, Giovan Pietro de Luca di Francesco Antonio di Pietro, dopo essersi rivolto al Consiglio del Collaterale in data 27 novembre 1579 ottenne dal reggente don Francesco Reverterio217 una dichiarazione che attestava che Ludovico e Francesco Antonio, rispettivamente fratello del nonno e padre dello stesso Giovan Pietro, erano stati nobiles della città di Molfetta in quanto discendenti in linea diretta da Gionata, conte della città di Luco in Umbria, «vetustissimo stipite nobilis familiae de Luca»218, cosa di cui non v’era prova provata ovviamente. Anche questo era un segno dell’altrettanto diffuso sistema dell’autoreferenzialità delle famiglie patrizie, una sorta – adoprando un termine contemporaneo - di “autocertificazione” delle proprie ascendenze nobiliari219. Nobili natali a parte, non tutti i de Luca furono così fortunati negli affari. Del ramo di famiglia meno favorito dalla sorte fece parte Giovanni Maria, di cui in una scrittura privata, rinvenuta nel fondo Spinola 216 M.I. De Santis, cit., p. 154 217 All’epoca «regente della regia cancelleria e del Consiglio Collaterale» in C. Calà, Pragmaticae, Edicta, Decreta, Regiaeque Sanctiones Regni Neapolitani, pluribus additis, suisque locis, optima methodo, cum labore collocatis.per V.I.D. blasium altimarum, advocatum neapolitanum, deputatum per supremum Regium Collaterale Consiluim, cum superintendentia Illustris D. Caroli Calà Ducis Diani Collateralis Consiliarii, Regiam cancelliariam regentis, &c., Tomus secundus, Neapoli 1682, p. 607 I reggenti di cancelleria potevano essere convocati in Collaterale dal viceré anche indipendentemente dai consiglieri, costituendo il "Consiglio Collaterale ordinario" e beneficiando di voto tanto consultivo quanto deliberativo e giudiziario. Questi reggenti avevano facoltà di decretare sui memoriali di grazia e giustizia senza l'intervento del viceré; replicavano agli ordini vicereali quando questi non erano conformi alle disposizioni del sovrano; spedivano i privilegi, con il potere di riformare le investiture dei feudi, tenuto conto dei singoli casi e delle circostanze che richiedevano tali riforme; impartivano ordini sui beni feudali delle università, dei luoghi pii e dei beni dotali; assegnavano i tutori ("balii") ai figli minori dei feudatari; accordavano salvacondotti ai rei; visitavano i carcerati; ammettevano in grado di appello le cause sulle quali avevano giurisdizione; decidevano su questioni inerenti ai tribunali e, all'occorrenza, procedevano alla sospensione dei magistrati; rivedevano i decreti del Sacro Regio Consiglio e dei ministri delegati; in esecuzione delle commissioni ricevute dal viceré, effettuavano l'istruttoria dei processi per mezzo degli "scrivani di mandamento" ed emettevano i loro provvedimenti e decreti; nei dubbi di competenza riferivano in Collaterale le cause dando avviso alle parti. Cfr. A. Allocati, Lineamenti delle istituzioni pubbliche nell'Italia meridionale, Roma 1968, pp. 79-81 218 M.I. De Santis, cit., p.175 219 Ibidem: De Santis fa riferimento a L. Palumbo, Aspetti di vita economica a Molfetta nel 1535, in F. M. De Robertis e M. Spagnoletti (a cura di), Atti del Congresso internazionale di studi sull’Età del Viceregno, vol. II, Bari 1977, pp. 235-282: 257-259. 65 dell’Archivio Privato Gallarati Scotti di Milano, si enumeravano tutti i debiti e la contabilità dei parziali saldi dei medesimi, oltre a riferire il nome del nuovo Agente Generale per gli affari spinolini a Molfetta all’indomani della morte di donna Veronica. Analizziamo il tutto con maggior precisione. Alla dipartita della principessa contestuale peraltro a quella di Marcello non saranno più i de Luca gli uomini fidati del Signore, ma un tal Giovan Battista (Gio. Batta) Baguer, un genovese. Il figlio della Spinola, Francesco Maria, aveva giudicato, a torto o ragione, poco proficua la precedente collaborazione tra la madre e i molfettesi de Luca. Questi presupposti trassero forza anche dalle vicende forse marginali e tuttavia non irrilevanti di Giovanni Maria, più longevo di Marzio e meno oculato nel curare le proprie finanze. Alquanto curioso osservare come l’avvento degli Spinola produsse tra due rami della stessa famiglia parallele e opposte vicende. Marzio e Giovanni Maria (o Gian Maria) erano cugini220. Laddove il primo raggiunse risultati ragguardevoli per sé e per la propria progenie, il secondo si ritrovò per la medesima ragione, ossia l’intervento finanziario di Veronica Spinola, indebitato sino al punto di vender la propria stessa abitazione. Le premesse patrimoniali di Giammaria non erano insignificanti: Palazzo Dogana, ch’egli aveva ricevuto in eredità221, era una delle case signorili più fulgide di Molfetta e fu venduto nel 1655 a quello stesso Monsignor Pinelli già citato da Visaggio e legato a doppio filo alla figura di Marzio. Che fosse stato proprio quest’ultimo a suggerire la vendita al cugino? Naturalmente non era e non è dato conoscere, almeno allo stato, se vi fosse stata una consulenza parentale in merito tra Marzio e Gian Maria, Marzio de Luca (1616-1662), era figlio di Marcello (moglie: Isabella Passari), figlio di Francesco Antonio (moglie: Dianora ossia Eleonora de Bastardis di Barletta), figlio dei coniugi Joannes Petrus (Giampietro) de Luca e Laura Brucula di Ruvo; Giovanni Maria de Luca (1617-1697), era figlio di Giampietro (moglie: Antonia de Luca), figlio di Giulio (moglie: Virgilia Ruffoli), figlio dei coniugi Joannes Petrus (Giampietro) de Luca e Laura Brucula di Ruvo. Cfr. C. Pisani, Storia genealogicocronologica della famiglia de Luca di Molfetta, Molfetta, 2019, (in corso di pubblicazione) 221 C. Pisani, La Fabbrica di Palazzo Dogana, in «L’Altra Molfetta», Molfetta, Ottobre 2019, p. 25 220 66 tuttavia questa mera ipotesi potrebbe non essere del tutto priva di fondamento. Nondimeno l’egemonia di Marzio spirò con lui nel 1662, ma non si estinse allo stesso modo il frutto di cotanta devozione a Donna Veronica Spinola. Infatti Marcello, il figlio primogenito dell’antico Erario di Molfetta, assurto a marchese di Lizzano e barone di Melpignano, divenne affittuario delle entrate dell’utile Signora della città di origine dal 1684 al 1688222. Potrebbe essere un’illazione, ma il debito descritto nella distinzione del 3 giugno 1690223 risaliva proprio alla data di insediamento del primogenito di Marzio come curatore degli affari della Signora di Molfetta. Anche qui il dubbio sorge spontaneo: che Marcello avesse ricoperto il ruolo di intermediario tra il procugino e la principessa? Certo fu che alla morte di quest’ultima e al subentrare di Gio. Batta Baguer nel ruolo di Agente Generale delle risorse spinoline il credito vantato dagli eredi di Veronica venne esatto con estrema premura dopo aver posto in esecuzione le sentenze della Regia Udienza di Trani e della Gran Corte della Vicaria. Dalla disamina della distinzione del 3 giugno 1690224 si evinceva che il debito doveva essere stato contratto in solidum da Giovanni Maria (1617-1697) e dal sacerdote Giovanni Pietro (1653-1686), rispettivamente, padre e figlio. Inoltre il successivo atto rogato in data 18 maggio 1690 da notar Gasparro Squadrilla di Modugno, che vedeva il coinvolgimento degli altri due figli maschi di Gian Maria (ossia il clerico Michele e Domenico), è dettato dal fatto che il canonico Giovanni Pietro era deceduto senza alcun testamento225. La cifra era ingente: 2245 ducati, debito cui il de Luca non riuscì a far fronte se non offrendo in cambio quanto natura e patrimonio gli concedeva: «una [sua] possessione di olive e frutti di C. Pisani, Storia genealogica-cronologica, cit., (in corso di pubblicazione) APGS, Fondo Spinola, “1690 3 Giugno, Distinzione che dicesi avuta da Molfetta da Giambattista Baguer relativa al debito di Gian Maria de Luca in ducati 2245: verso la Sig.ra Veronica Spinola” (II Appendice documentale) 224 Ibidem 225 Ibidem 222 223 67 vigne»226. Era stato probabilmente questo considerevole debito a indurlo successivamente Il 17 maggio 1697 a vendere al Capitolo per la costruzione di un Seminario la propria dimora familiare, contigua al Palazzo Vescovile227. Al di là di questo parallelo endofamiliare, il ramo di Marzio de Luca fu di certo più fortunato anche in seguito: vi furono glorie nella casata come Pier Francesco de Luca che nel 1691 fu al servizio del duca di Savoia, Vittorio Emanuele II o di Giuseppe Maria de Luca, cui fu concesso l’alto onore di vestire l’abito di Malta nel 1789, primo tra i de Luca di Molfetta a diventare cavaliere melitense, concedendosi quel tertium genus nobilitatis «dando di riflesso lustro alla famiglia e alla sua città nel secondo Settecento»228. Alla luce di quanto esaminato, appare comunque palese che: se questa evoluzione familiare ebbe luogo, se quel preciso ramo del lignaggio dei de Luca ebbe la possibilità di acquistar feudi e titoli e di accedere a onori dapprima insperati, fu solo grazie a quel rapporto di fiducia e a quella sorta di strana e segreta relazione di patronage intercorsi con la Signora Veronica Spinola, abilmente e fatalmente intrecciati alle capacità del de Luca più influente e dinamico, Marzio. Ibidem C. Pisani, La Fabbrica di Palazzo Dogana, cit., p. 26 228 M.I. De Santis, cit., p. 179 226 227 68 Capitolo IV Molfetta e gli Spinola tra pubblico e privato 69 4.1. L’ annosa contesa per lo ius moliendi «Signori miei, sanno molto bene le signorie loro le cause strepitose fatte da questa nostra Università coll’eccellentissima Casa Spinola in rapporto al mantenimento delle giurisdizioni […]». E si seguita anche da altri nel medesimo modo a protestare contro tale abuso, rievocando ricordi di antenati «i quali si sono affaticati con sudori e dispendi grandissimi non meno in recuperarle che in sostenerle che in quel decoro si conveniva»229. Per quanto possa apparire enfatico, l’uso del termine antenati aveva la propria ragion d’essere poiché le questioni del “mantenimento delle giurisdizioni”, dei reiterati abusi feudali degli Spinola ai danni dell’universitas di Molfetta avevano radici profonde e lontane, sin dal tempo della vendita della città dal Gonzaga di Guastalla a Gio. Stefano Doria nel 1640. La difficile situazione contabile in cui versava l’universitas di Molfetta in quello stesso anno l’aveva portata a presentare una supplica al Viceré affinché concedesse la licenza di «poter vendere o impiegare lo ius moliendi della farina230, con patti e condizioni che meglio avrebbe potuto convenire al compratore, ed eligere quattro deputati per fare le capitolazioni di vendita»231. Il Regio assenso giunse e la gabella fu posta in vendita, l’acquirente che la comprò alla “modica” cifra di 7500 ducati fu una triade di nobili personaggi locali che versarono ciascuno una quota congrua a raggiungere l’intero ammontare. Don Carlo Tappia (o de Tapia), marchese di Belmonte, Conclusione decurionale del 13 novembre 1785 così come riportata da D. Magrone, La fine del dominio feudale in un Comune della Puglia, Molfetta 1900, pp. 9 e ss. 230 «Lo ius moliendi, ossia il diritto di far macinare grani e granaglie sia nella città sia nel suo distretto ed esigere per la macinatura cavalli quattro dagli ecclesiastici e cavalli cinque dai laici; detto diritto, unitamente ai suoi emolumenti, ai molini e le altre comodità per i bisogni dell’Università, fu venduto nell’anno 1641, con il patto di ricomprare per interposte persone, all’Ill.mo Sig. Don Luca Spinola, allora Principe di questa città, per ducati 7.500» in ACM, ms 124, Litigio tra la casa Spinola e l’Universitas di Molfetta 231 C. Pisani, Lo Jus moliendi dell’Università, in «L’Altra Molfetta» Anno XXXIII, n.1, 2017, pp. 24 e ss. 229 70 Reggente del Consiglio Collaterale, convalidò detta compravendita. Il seguente 25 luglio il Cassiere dell’universitas incamerò i 7.500 ducati in monete d’argento versatigli, rispettivamente, da Ruggiero de Rossi, Mauro Antonio Passari e Roberto Michielli. Si trattava di meri prestanome, poiché il reale compratore era Luca Spinola signore ancor non riconosciuto della città232. Nonostante fosse enucleata la clausola con cui si contemplava che l’imposta sarebbe stata riscattata dalla città entro un quinquennio233, le vicissitudini finanziarie dell’universitas permasero inalterate e gli Spinola lasciarono invariata l’obbligazione dovuta per lo ius moliendi, perché l’universitas potesse ripagare il prestito iniziale ancora insoluto, facendo definire il tutto dal fidato Benigassi all’epoca agente generale e arrendatore234 dei beni del signore di Molfetta235. Questo rapporto debitorio dell’universitas nei confronti del principe sopravvisse anche dopo la Prammatica XVIII del 1650 di Don Beltrano de Guevara, Luogotenente e Capitano Generale del Regno di Napoli, con cui si stabiliva che - pur impedendo ulteriori vendite di gabelle, imposte et Ibidem Cum pacto de retro vendendo post quinquennium. Le fonti di Pisani fanno riferimento alle Decisioni Decurionali detenute nel fondo omonimo presso l’Archivio Comunale di Molfetta. 234 arrendatóre s. m. [dallo spagn. arrendador; v. la voce prec.]. – Appaltatore delle gabelle, nell’antica finanza napoletana e in quella pontificia. (Vocabolario Treccani online) 235 «Un nuovo contratto con il quale il Principe Spinola faceva credito all’Universita di Ducati 5.426 grana 38 cavalli 1, somma che costituiva il debito dell’Universita nei confronti del Benegassi (e, quindi, di Luca Spinola). Questo contratto prevedeva che il Principe avrebbe esatto oltre ai 200 Ducati mensili dalla “gabella … nominata(m) la Gabella della Farina sopra la macina[tura] del grano” anche un interesse del 7 per cento sull’intera somma che avrebbe dovuto percepire dall’Università. Il 5 settembre 1650 Don Beltrano de Guevara, Luogotenente e Capitan Generale del regno di Napoli, promulgò la Prammatica XVIII riguardante la De Administratione Universitatum con la quale stabilì “che a tutt’i creditori, cosi a quelli, che hanno comprato annue entrate con Regio Assenso, come a quelli che hanno comprato entrate, e gabelle […] si corrisponda [un interesse] alla ragione di cinque per cento”». Nel nostro caso, grazie a questa legge, l’interesse che l’Università doveva allo Spinola venne ridotto al 5 per cento. La stessa normativa, inoltre, dispose che: «da oggi avanti, e per 1’avvenire per niuna, benché urgentissima causa, si possano alienare, o dare in pegno detti Corpi, e Gabelle, né affittarsi ultra annum con pagamenti anticipati … Ordinando ancora, che tutte quelle gabelle, bonatenenze, rendite, ed entrate di qualsivoglia maniera, che sieno, che si ritrovassero alienate, o impegnate, si riducano in potere delle Università, annullando dette alienazioni, e pegni, non ostante qualsivoglia decreto, o assenso, che tenessero; restando però i detentori di esse creditori dell’Università». Cfr. C. Pisani, Lo Jus Moliendi, cit., p. 25 232 233 71 similia spettanti all’amministrazione cittadina - restavano comunque i precedenti «detentori di esse creditori dell’Università»236. Quest’ultima disposizione lasciava che il rapporto debitorio tra il principe e Molfetta, assumesse il carattere dell’indeterminatezza temporale configurandosi così come una sorta di eterna sanzione pecuniaria a carico della città e dei suoi nobili esponenti. Solo nel 1708 intervenne una breve tregua con la privazione dello status di feudatario disposta da parte dell’Imperatore Carlo VI nei confronti di Francesco Maria seniore, che nel conflitto franco-asburgico si era schierato con Filippo V e aveva rifiutato di giurare fedeltà infra terminum agli Absburgo237. Questa parentesi durò fino al 1725, anno in cui il principato fu ripristinato e la casa Spinola ritornò nel possesso della città. Nel 1729 alla luce del formarsi della Giunta del buon governo delle Università del Regno238 gli allora sindaci e decurioni ritennero giusto deliberare di opporsi a quello che veniva a configurarsi come un vero e proprio “abuso feudale”239, esponendo dieci capi di gravami «che asserirono inferisseli dal d[ett]o Ecc.mo Sig. Duca, Principe di essa città, e primieramente, che fra gli beni di essa, vi era il ius moliendi»240. Si incardinò il 10 marzo 1730 il noto “litigio Spinola”, un procedimento giudiziario che attraversò un trentennio circa della storia della città241. Ibidem G. Vallone, Feudi e città, cit., p. 234 238 “L’imperatore Carlo VI d’Asburgo (salito sul trono del regno di Napoli il 7 luglio 1707 con il nome di Carlo VI), per Prammatica XXII emessa in data 10 marzo 1729, “comandò di formarsi una Regia Giunta, perché […] sia giovevole alle Università […] Gli Amministratori di ciascheduna Università dichiarino […]le gabelle, jussi, ed altr’entrate, che possiede la loro Università: se alcuna d’esse si trova ceduta, assegnata, pignorata, permutata, o distratta, a chi, quando, e per qual causa». In pratica, istituì la Regia Giunta pro bono Regimine Universitatem huius Regni ossia Giunta del buon governo delle Università del Regno” in Pisani, Lo Jus moliendi, cit., p. 25 239 espressione usata da Vallone anche per l’atteggiamento degli Spinola a Galatina. Cfr. G. Vallone, Feudi e città, cit., p. 234 240 C. Pisani, Lo Jus moliendi, cit. p. 26 241 “per la parte di questa università furono nella medesima [causa] prodotti vari capi di aggravi che riceveva dall’Ill.mo possessore e le principali domande furono di reintegrarsi a beneficio dell’Università del Ius moliendi che fu alienato nell’anno 1641 all’ill. fu Don Luca Spinola per ducati 7500 con una lesione enormissima”. Seduta del giorno 11 giugno 1769, intervento del Nobile Don 236 237 72 Molteplici furono i rinvii e inevitabile fu l’arenarsi della causa242. Il 24 gennaio 1733 con un Dispaccio Reale si concretizzò l’abolizione (formale) della Giunta del buon governo, circostanza che fermò totalmente il dipanarsi della matassa giudiziaria. Il 15 giugno 1736 un ulteriore Dispaccio specificò che «per le cause di gravami tra il Barone e il vassallo procede il Sacro Consiglio; per le cause de’ Corpi Feudali procede la Sommaria»243. Questa divisione delle competenze delle diverse corti non si confaceva affatto all’ibrida materia del contendere portando così la causa a incancrenirsi in una sorta di limbo giudiziario per circa un decennio. La vicenda ritornò in auge nel 1746, anno in cui anche il Capitolo Cattedrale di Molfetta fece ricorso al Re spiegando che si trovavano da molto tempo alienati in potere del Barone li corpi più speciosi, e fruttiferi della medesima, per cui ella si trovava in angustie, e perché li cittadini avviliti dalla potenza del Barone non ardivano dimandarne la reintegrazione, la quale volea far seguire; perciò, implorava la Real clemenza di ordinare al Sagro Consiglio, che, comparendo, facesse pronta, e spedita giustizia244. Come vedremo, il Capitolo intendeva impedire qualsiasi “concordia” o “accomodo” tra l’universitas e gli Spinola. Una transazione infatti pareva essere in corso tra le parti e si riteneva che, se fosse andata a buon fine, si sarebbe rivelata lesiva degli interessi della città. Dopo l’associarsi e l’uniformarsi alle ragioni del Capitolo dei sindaci Ciro Saverio de Luca per i nobili e Salvatore Fraggiacomo per i populares, dopo diversi passaggi dalla Real Camera di Santa Chiara al Sacro Regio Consiglio, la causa giunse alfine a esser decisa il 16 giugno 1749 a opera della Regia Camera della Sommaria, che il 25 settembre emanò un nuovo Michele Colaianni riportato da D. Magrone La fine del dominio feudale in un Comune della Puglia, Molfetta 1900, pp. 11 e ss. 242 «quei medesimi [i nostri avvocati in Napoli] si sono ristuccati vedendosi che si tira avanti in dette cause senza riflesso alcuno». Ibidem 243 C. Pisani, Lo Jus Moliendi, cit, p. 24 244 Ibidem 73 decreto con il quale si stabiliva che l’universitas fosse reintegrata nello ius moliendi e nel possesso dei molini. Il Principe rimaneva però creditore dei primigeni 7.500 ducati, il quantum della citata vendita, che la città avrebbe dovuto restituire con un pagamento annuale di 350 ducati245. Ma il contenzioso non cessò neppure allora, proseguendo per oltre un lustro tra eccezioni e impugnazioni246. Si può dire che la materia del contendere ebbe finalmente termine quando la città potette nuovamente riacquisire l’appellativo di regia, ossia nel 1798. Ciò che di fatto Molfetta da sempre anelava, oltre alla piena autonomia nell’esigere e riscuotere in toto i tributi dovuti, era l’assenso regio che sancisse lo spasimato ritorno dell’universitas al demanio, perdendo in questo modo definitivamente la denominazione di infeudata, acquisendo un grado maggiore di nobiltà per i propri ottimati e tornando anche de iure a esser avulsa da qualsivoglia figura baronale. Questo desiderio venne infine soddisfatto attraverso la Gratia concessa da Ferdinando IV il 14 maggio 1798 con la quale Molfetta riconquistò l’agognata condizione di città demaniale, per quanto questa definizione avrebbe avuto senso ancora per pochi lustri247. 4.1.1. «Gli Molfettesi sono teste malsane»: una lettera inedita del 1750 Questo l’antefatto che precede una lettera inedita a firma di Paolo Spinola e indirizzata al fratello Luca, il primo vicario generale del padre Francesco Ivi, p. 25 (notizie tratte da ACM, ms 124, Litigio tra la casa Spinola e l’Universitas di Molfetta) ACM, ms 124, Litigio tra la casa Spinola e l’Universitas di Molfetta 247 “che il feudo di Molfetta sia intestato alla stessa Università per essere ella reintegrata nei suoi antichi privilegi, e quindi godere di un perpetuo demanio” in Lettera di Giuseppe Poli, Tommaso Filioli Effrem, Giuseppe Arciprete Giovene al Vescovo di Molfetta, Gennaro Antonucci, “datata 1 fbre 1798, in cui si annunzia la concessione della Gratia regia della riconquistata demanialità” in ACM , ms 124, Litigio tra la casa Spinola e l’Universitas di Molfetta 245 246 74 Maria seniore prima e del fratello Gian (o Gio.) Filippo poi, il secondo Conte di Siruela ben inserito nella nobiltà madrilena248. Naturalmente i tempi necessari affinché le missive potessero giungere a destinazione erano tutt’altro che celeri e determinate distanze venivano coperte in un lasso di tempo piuttosto considerevole. Di tali difficoltà troviamo riferimento anche in una lettera antecedente sempre inviata a Don Luca da Marco Imbonati nel 1736: la lettera fortunatissima che da V.E. solo ieri ho ricevuto in data delli 4 novembre dello scorso anno indica che non ne ho ricevuto verun altra prima e che lo sbaglio proceda apporto o dalla Posta o dalla grande lontananza del Paese in cui Vostra Ecc.za si ritrova; che se io prima d’ora han così avuto il gran contento di ricevere sue lettere, può ben ella immaginare quanto sarei statto sollecito nel rispondere, sì per la stima, sì per l’affetto che anche io grande le professo.249 La risposta di Luca Spinola all’Imbonati (che presumibilmente aveva col medesimo un rapporto di patronage) era giunta dopo circa cinque mesi. Paolo Spinola, del tutto ignaro che il fratello fosse deceduto il 3 luglio 1750, gli scrisse il 24 di quello stesso mese in risposta a una missiva di Luca del 7 giugno, rappresentandogli in modo semplice eppure esaustivo i rapporti tra la famiglia e Molfetta. L’uomo aveva infatti redatto il resoconto della recente evoluzione di quelle annose vicissitudini giudiziarie che avevano come protagonisti il Principe e l’universitas. V’è in questa lettera la perfetta fusione di pubblico e privato degli Spinola in una narrazione dal tono intimo e confidenziale di un evento tutt’altro che tale: una delle eccezionali circostanze in cui l’utile padrone si era portato fisicamente a Molfetta. L’eloquio distaccato e formale con il quale la lettera è scritta era proprio delle famiglie aristocratiche, in seno alle quali sovente fedecommesso e “è stata occasione di grande allegrezza per il contento che V.E. ne haveva ricavato da un collocamento sì Nobile: solo temo che coll’essersi accasato costì in Madrid, Dio sa quando più averò il contento di vederla e di darle un stretto abbraccio” APGS, Fondo Spinola,”Lettera di Marco Imbonati a Don Luca Spinola, Milano marzo 1736”, (III Appendice documentale) 249 APGS, Fondo Spinola, “Lettera di Marco Imbonati a Don Luca Spinola, Milano marzo 1736” (III Appendice documentale) 248 75 primogenitura rendevano diversa la posizione dei figli anche nella rete di relazioni parentali250. Nel caso di specie si rinvengono anche posizioni gerarchiche all’interno dello stesso contesto familiare, come quella rivestita da Gio. Filippo, che il cadetto Paolo indicava con un deferente «Sig. Principe». I titoli vantati dal fratello maggiore ponevano infatti i cadetti in «un tal qual sentimento di figli verso il primogenito»251 e, pertanto, in evidente stato di subordinazione verso quest’ultimo. Tra pari come erano Paolo e Luca il pronome allocutivo «voi» e l’uso di «caro fratello» erano invece propri del rapporto fraterno tout court e quindi finanche confidenziali252. Nell’ambito di questa relazione sullo stesso piano il racconto di Paolo presentava toni quasi ingenui, dai quali si evinceva ciò che era ormai evidente e insanabile: il conflitto tra la nobiltà cittadina e il principe. La presenza del minore degli Spinola, che a Molfetta dimorava quasi stabilmente essendosi dotato anche di un palazzo, era diventata oltremodo ingombrante sia per l’universitas sia per il Capitolo di Molfetta. Ma per meglio comprendere tale stato di cose è necessario fare un piccolo salto temporale. Il 18 marzo 1726 venne emanato l‘editto con cui Fabrizio Antonio Salerni, vescovo di Molfetta dichiarava la convocazione del Sinodo diocesano per la domenica del 28 aprile successivo nella Chiesa Cattedrale253. La celebrazione subì ripetuti rinvii sino al 15 settembre e in quella circostanza, consapevole della portata dell’evento, il figlio cadetto di Francesco Maria seniore pensò bene di significare la partecipazione degli M. Barbagli, Sotto lo stesso tetto. Mutamenti della famiglia in Italia dal XV al XX secolo, Bologna 1984, pp. 283-284 251 Così descrive Cesare Balbo la relazione tra il figlio cadetto e il primogenito nella sua opera postuma Pensieri ed esempi, Torino 1854, p. 133, citato sempre da Barbagli, cit., pp. 284 e ss. 252 Ivi, pp. 282 -284 253 Palese cita come fonte Synodus ab illustriss. et reverendiss. domino D. Fabrizio Antonio Salerni episcopo melphicten S. Sedi immediate subiecto celebrata in Cathedrali Ecclesia Melphicten die XV septembris MDCCXXVI praesulatus sui anno duodecimo Benedicto XIII pontifice maximo, Romae ex typographia Rev. Cam. Apostolicae 1726. Cfr. S. Palese, Controversie giurisdizionali e problemi pastorali nella Molfetta del Settecento. Il Sinodo del 1726, in G.Bellifemine (a cura di), Molfetta nei secoli, studi storici, Molfetta 1976, pp. 65 e ss. 250 76 Spinola alla vita della città attraverso l’apposizione del tronetto baronale nella Cattedrale254. Il tutto suscitò la prevedibile costernazione dei presenti e la repentina reazione del vescovo, che provvide nell’immediato a emettere un editto contro chiunque «si facesse apparecchiare in chiesa, dentro o fuori il Presbiterio lo strato ne sedia elevata con gradini e suppedaneo, ne si serva di quelle per genuflettere ne di questa per sedere»255. Tra l’altro vi era già stato un precedente diniego alla stessa richiesta di Paolo pervenuta nel luglio dello stesso anno, «non più contento dei segni di riguardo che aveva ricevuto dal momento della sua venuta in città» 256. Il tronetto faceva però bella mostra di sé in tutte le chiese della città, ragion per cui pareva opportuno al giovane Spinola godere della stessa privilegiata posizione anche nella cattedrale, a dispetto dei precedenti editti del vescovo in materia257. Si tratta dello stesso tronetto reclamato poi nel 1729 anche dal sindaco dei nobili, richiesta manovrata da quel Filioli di cui parla Paolo nel resoconto che fa al fratello258. In quel frangente dinanzi agli ordini impartiti direttamente da Gio. Filippo in visita alla città e appena insediatosi come principe259, che, come primogenito, rivestiva il ruolo di pater familias260, il cadetto pose fine suo malgrado alla «contesa» e «senza altre pretese accettò il trattamento riservatogli dal vescovo nella cattedrale»261. Ci si riporta per l’episodio a una minuta del 1739 del Vescovo Salerni in S. Palese, Controversie giurisdizionali, cit., p. 83 255 L’Editto proibitivo in chiesa di sedia elevata viene riportato in S. Palese, Controversie giurisdizionali, cit., p. 83, traendolo dal compendio di editti vescovili, Editti e disposizioni di Mons. Antonio Fabrizio Salerni in ACM, Fondo Curia, ff nn post 54 . 256 Notizie ricavate da una lettera del vescovo Salerni a una congregazione, in S. Palese, Controversie giurisdizionali, cit., p. 81 257 Ivi, p. 82 258 Ivi, p. 103 259 Si può ipotizzare che oltre al primo insediamento del principe, Gio. Filippo stesse tentando come primo atto di risolvere in via bonaria la questione dello ius moliendi. 260 M. Barbagli, cit., pp. 284 e ss. 261 S. Palese, Controversie giurisdizionali, cit., p. 84. La notizia è raccolta da una minuta del vescovo Salerni del 1739 in Editti e disposizioni, cit., f 83r, ACM Fondo Curia 254 77 Questa ricorrente rivendicazione del medesimo oggetto, simbolo di potere da parte sia di chi rappresentava l’universitas sia di chi era vicario del principe – contrasto di cui vi fu notizia anche nel 1738262 - rifletteva quella dualità, quella equiparazione che si voleva imporre a Molfetta tra la posizione di feudatario e quella di guida della città263. Era ormai chiaro che infeudata non volesse dire soggetta ineluttabilmente ai voleri dell’utile signore, considerato puro simulacro di se stesso, giammai tangibile e presente nell’immaginario dei molfettesi. Il valore emblematico di quello che non era un mero elemento dell’arredamento della Cattedrale è possibile ricavarlo attraverso il parallelo con le vicende di Andria, ove l’introduzione del tronetto baronale era stata disposta dal vescovo stesso, dapprima con Beatrice d’Angiò264 e successivamente anche con i Carafa265. La presenza costante del signore della città aveva quasi reso necessario che questi avesse il proprio scranno di fronte a quello del vescovo266. Potere sacro e profano erano così visivamente posti l’uno di fronte all’altro su un piano di parità. Ivi, p.103. Si fa riferimento a una relazione ad limina datata 12 maggio 1742 del vescovo Salerni, ACM ff 106r ff 106v. 263 “L’Università rivendicava il “tronetto” per il sindaco nelle chiese e contestava lo ius moliendi al principe Spinola”. Palese si riporta alla Lettera della Giurisdizione, Libro Rosso, ff. 308 v, 309 r, in Controversie giurisdizionali, cit., p. 101. Sulla mancata subordinazione dell’universitas al feudatario cfr. G. Vallone, Feudi e Città, cit., pp. 236-237 264 “Il Capitolo della Cattedrale ringraziò per tale dono permettendo l'introduzione di un Tronetto Baronale, all'interno della Cattedrale, di fronte a quello del Vescovo. A questo Tronetto, che rimase a disposizione delle famiglie Ducali per i secoli a venire, si accedeva dal Palazzo Ducale attraverso una porta, oggi murata, che si apriva all'interno di un ambiente indicato nei documenti come ‘stanza del Tronetto’” in G.M. Roberto Palazzo Ducale di Andria, Bari 2001 p. 10 265 “L'uso di questo Tronetto Baronale fu ereditato anche dalla famiglia Carafa”, Ivi, p. 17 266 “1691, anno in cui, in seguito alle dispute tra Fabrizio V Carafa, allora Duca, ed il Vescovo Vecchia, (il tronetto) fu portato via dalla Cattedrale e bruciato dai cittadini andriesi in Piazza La Corte. L'avvenimento portò ad un cambiamento importante: il Tronetto non fu più portato nella Cattedrale, interrompendo così i rapporti tra la Famiglia Ducale e la Chiesa, ed inoltre imponendo la chiusura della porta che collegava il Palazzo con la Cattedrale. Solo nel 1744, con il Vescovo Mons. De Anellis, il quale fece costruire un magnifico trono episcopale, si ripristinò il Tronetto Baronale e contestualmente la riapertura della porta che collegava il Palazzo alla Cattedrale; di certo la sua attuale chiusura non è documentata ed è sicuramente successiva all'arrivo della famiglia Spagnoletti al Palazzo” Ivi, pp. 17-18 262 78 La vicenda non era mai stata oggetto di discussione all’interno della compagine cittadina, eccezion fatta per la parentesi intercorsa dal 1690 al 1744 a seguito di una disputa tra il duca e il vescovo, che aveva poi portato a una rivolta popolare e a svellere fisicamente l’oggetto, come a cancellare l’esistenza stessa del feudatario. A questo era poi seguita la chiusura anche di quel passaggio diretto tra il palazzo ducale e la cattedrale267, segnale inequivocabile della perduta armonia tra il Capitolo e il duca. Grazie all’intervento del vescovo de Anellis che ripristinò il tronetto e il collegamento al Palazzo, i Carafa riassunsero anche visibilmente il proprio ruolo nella vita cittadina e, a maggior ragione, rendendolo ancor più tangibile durante il principale momento di aggregazione sociale: la celebrazione della messa. Amico di Casa Carafa, Mons. De Anellis fece rinascere nella Chiesa Cattedrale il Trono Baronale, fatto costruire di fronte a quello Episcopale, dal quale non differiva per la eleganza della forma, per la ricchezza degl’intagli e degli ornati, decorati egualmente ad oro zecchino268. Se Andria ritornava a contemplare nitidamente la figura del proprio signore al pari di quella del vescovo nella cattedrale, lo stesso evento non poteva consumarsi placidamente a Molfetta. Il cadetto Paolo non possedeva certo la stessa aura che circondava un feudatario investito del titolo; pur rivestendo la posizione di generalis gubernator non poteva sopperire a quello scollamento che si era già ineluttabilmente consumato tra la casata cui apparteneva e l’universitas. Il distacco della città dalla famiglia Spinola era evidente anche nel reiterato rifiuto di una risoluzione stragiudiziale di quella vicenda che viene identificata – nonostante i ben dieci punti di gravame - come il “litigio per lo ius moliendi”269. Ivi, p. 10 M. Agresti, Il Capitolo Cattedrale di Andria ed i suoi tempi, Andria 1912, vol.I, cap. XIV, p. 306 269 ACM, ms..124, Litigio tra la casa Spinola e l’Universitas di Molfetta 267 268 79 I molfettesi non vollero recedere dalle proprie rivendicazioni neppur dinanzi all’avvento del principe, che aveva impugnato il provvedimento del 1749 opponendo eccezioni di nullità presso la Regia Camera della Sommaria e che era tuttavia intenzionato a risolvere in via conciliativa il tutto270. Prima si vedrà che può conseguire il Sig. Principe da Sua Maestà, giaché la di lui andata a Molfetta è stata inutile, non avendo gli Molfettesi voluto accettare partito alcuno, anziche il Canonico Lupis, ch’anni sono in Voghera fu’ tanto favorito dal Duca, ebbe ardire di dirli in faccia:”Sig. Principe, non occorre ch’ella si lusinghi, non si vuole accomodo”271. Fiero diniego si manifestava alla richiesta di accomodo dunque, malgrado il principe avesse adottato un atteggiamento meno spavaldo rispetto a quello del cadetto. Gio. Filippo non volendo «dar ombra a Molfettesi d’intelligenza»272 non desiderava invero esser accomunato a Paolo nella cui casa pertanto non alloggiò. Egli preferì così la sobrietà di ospiti super partes, i padri gesuiti, pur lasciando che il resto della famiglia si sistemasse comunque nel palazzo del fratello, che aveva appositamente allontanato durante lo svolgersi della propria visita alla città. Paolo se ne dolse infatti nella lettera indirizzata a Luca. In Molfetta io non mi portai con il Sig. Principe, mentre esso espressamente lo vietò, dicendo che voleva andar solo, anzi che non volle ne pure accettare l’alloggio in mia casa, come io lo pregai, adducendo motivo che non voleva dar ombra ai Molfettesi d’intelligenza, onde io mi sono intieramente uniformato ai suoi voleri, e solo ho eseguito il suo dettame; e, quindi, alloggiò dai Padri Gesuiti, e la di lui famiglia nella mia casa. «Avverso del qual decreto si presentarono dal Procuratore dell’Ecc.mo Sig. Duca alcuni capi di nullità, e nello stesso tempo domandò che, qualora quello avesse dovuto confermarsi dallo stesso Tribunale della Regia Camera, si fosse ordinata l’abolizione della ragione proibitiva, che si impose in detto anno 1641, e che fosse permessa ad ogni anno la libertà di tenere centimoli e macinar grani, ove li fosse piaciuto, e che esse Ecc.mo Sig. Duca si fosse assoluto dalla pretenzione dell’Università relativamente ai frutti e sopra quello che essersi riserbato la provvidenza nell’antecedente decreto» (ACM, ms..124, Litigio tra la casa Spinola e l’Universitas di Molfetta) 271 APGS, Fondo Spinola, Lettera di Don Paolo Spinola al suo Sig. fratello Don Luca Spinola (IV Appendice documentale). 272 Ibidem 270 80 Tutto ciò non scalfì minimamente l’unità d’intenti familiare che la presenza di Gio. Filippo a Molfetta aveva il mero scopo di consolidare. Vi era un profondo spirito di collaborazione273 che la gerarchia di poteri intrafamiliari non era riuscita a destabilizzare, poiché quel divario tra primogenito e cadetto «non era percepito generalmente come ingiusto o inopportuno»274. Io prego il cielo che il Sig. Principe ottenga qualcosa avvantagiosa da Sua Maestà, il che si vedrà dimani nel presentarsi il memoriale, giaché il Popolo, che è stato a me sempre favorevole e dalla mia parte, ha firmato, in numero di 600 e più, una procura e un memoriale diretto a Sua Maestà, richiedendo di volere l’accomodo. Dovrebbero queste scritture firmate da tanto numero di gente fare nello animo del Sovrano qualche impressione, ma pure io non so animarmi a sperarlo. Dio e la Vergine Santissima siano però quelli che ci aiutino275. Le speranze riposte dal minore degli Spinola nel più autorevole fratello non trovarono però esaudimento. La città si oppose ancora una volta a risolvere in via transattiva ciò che riteneva fosse stato un reiterato ed evidente abuso perpetrato ai propri danni per oltre un secolo276. Nella parte conclusiva della missiva Paolo scrive: «Il Duca e nostro fratello sta di tutto inteso e mi sollecita per il suo affare, onde, in questa mia breve absenza, mi rimetto a quanto vi ragguaglierà il Principe, con il quale ho fissato andar dimani dal Marchese Ferrante, per averlo sempre più propitio». Non sappiamo se il «Duca nostro fratello» sia Ambrogio o si parli sempre di Gio. Filippo, visto che dei titoli del primo non abbiamo traccia; in ogni caso l’unità familiare rimane preservata nel fare visita congiuntamente, primogenito e cadetto, al Marchese de Ferrante, Commissario della Real Camera della Sommaria, probabilmente, sempre per agevolare le questioni giudiziarie di cui sopra, visto che pendevano le eccezioni di nullità proposte dal Principe avverso il provvedimento del 16 giugno 1749 (vedi Appendice documentale IV, nonché ACM, ms. 124, Litigio tra la casa Spinola e l’Universitas di Molfetta). 274 E. Papagna, Sogni e bisogni di una famiglia aristocratica. I Caracciolo di Martina in età Moderna, Milano 2000, p. 10 275 APGS, Fondo Spinola, Lettera di Don Paolo, cit. 276 «Contro questo Decreto il Procuratore del Duca di S. Pietro presentò alcuni capi di nullità. Riproposta nuovamente la causa nella stessa Regia Camera della Sommaria, il Presidente, Signor Conte Don Cesare Coppola, Patrizio della città di Scala e Ravello, il 25 settembre 1750, emanò un nuovo decreto con il quale, in maniera definitiva, si sentenziò che la richiesta di nullità avanzata non sussisteva e, pertanto, quanto deliberato in precedenza restava confermato. Trascorso il tempo per presentare un eventuale ricorso, la Regia Camera della Sommaria, su istanza dell’Università, il 2 ottobre 1750 spedì alla Regia Udienza Provinciale e all’Avvocato Fiscale le provisioni per l’esecuzione del decreto del 25 settembre. I relativi provvedimenti giudiziali furono eseguiti il 10 ottobre (sabato). Quel giorno a Molfetta giunsero un Tenente di compagnia, sette soldati a cavallo e l’Avvocato Fiscale della Sacra Regia Audienza (con sede in Trani) per dare all’Universita il possesso del ius moliendi. E così, dopo cento nove anni, seppur la causa ebbe un ulteriore seguito, Molfetta fu reintegrata nel suo antico diritto chiamato ius moliendi» C. Pisani, Lo ius moliendi, cit., p. 25 273 81 Il Sig. Principe ha fatto quanto poteva et ha pensato quanto era possibile, ma vi sono cinque o sei capi, che non hanno che perdere, e mettono sotto sopra tutto il pubblico, e due di essi sono l’Arcidiacono Filioli e Ciro De Luca277. Cognomi noti e ricorrenti a Molfetta. Ciro Saverio de Luca sindaco del seggio dei Nobili unitamente all’Arcidiacono Filioli scombussolarono i piani del principe278. Ma chi era quest’alto dignitario del capitolo cattedrale, “compagno d’armi” del de Luca?279 A far data dal 1727 circa sul proscenio molfettese apparve e «cominciò a diventar sempre più presente nella vita cittadina l’arcidiacono Nicolò Filioli che rientrato da Napoli era stato lasciato in ombra durante la celebrazione 277 Ibidem 278“Standosi adunque in questa risoluzione, essendosi avuta apertura di determinarsi tutte le liti suddette amichevolmente e con amichevole composizione con esso Ecc.mo Sig. Duca, per ciò pensando all’utile e vantaggio che verrebbe al pubblico dalla concordia, la quale pure per parte di esso Ecc.mo Signore si promuoveva e desiderava per darsi fine a quei inconvenienti, che seco portavano le liti, per ciò, sotto il 3 agosto del presente anno, legittimamente congregati et parimenti conchiuso e determinato che si eligessero due deputati, e furono eletti essi don Ciro Saverio De Luca e don Leonardo Fragiacomo, li quali, col savio parere del Sig. Avvocato Nicolò Filioli, dovessero trattare e ridurre a capo di quiete le consapute controversie, come da detta conclusione, copia di cui s’è inserito à piedi del presente istrumento” in ACM, ms. 124, Litigio tra la casa Spinola e l’Universitas di Molfetta. 279 «Arcidiacono (dal gr. ἀρχιδιάκονος "primo dei diaconi, dei ministri"; fr. archidiacre; sp. arcediacono; ted. Archidiakonus; ingl. archdeacon). Questo titolo comparisce nel sec. IV, e dapprima non volle indicare che l'anziano per età fra i diaconi, ma ben presto furono affidati a lui dal vescovo speciali e delicati uffici, e Così, più che all'età, si badò alle qualità; talora era scelto ed eletto dai diaconi stessi, talora dal vescovo. Oltre il diritto di cantare il vangelo nella messa pontificale, ebbe anche la carica di capocantore, e a lui spettava il canto dell'Alleluia, l'amministrazione dei beni della Chiesa, e autorità disciplinare sul clero; quindi (in Occidente, verso la fine del sec. VIII) ebbe anche giurisdizione, prima solo sui chierici inferiori, poi anche sui laici, specie in materia contenziosa, onde a poco a poco divenne il vicario generale del vescovo, alla morte del quale teneva il governo temporaneo della diocesi. Cresciuta così l'importanza di tale dignità, gli arcidiaconi non vollero più essere promossi al sacerdozio, perché allora passavano in un rango inferiore. Verso il sec. IX si cominciò a distinguere le mansioni dell'arcidiacono dall'ordine diaconale; si ebbero perciò sacerdoti con titolo e uffici di arcidiacono, e furono loro riconosciuti dal diritto canonico le prerogative e i privilegi del vicario generale del vescovo. Nello stesso tempo, l'arcidiaconato divenne la prima delle dignità canonicali delle cattedrali, come ancor oggi si osserva in moltissimi capitoli. Dal sec. XIII però l'arcidiacono ha cessato di essere per diritto vicario generale, e il concilio di Trento ha quasi annullato, riducendola a poco più di un titolo, la giurisdizione dell'arcidiacono; essa rimane, fra i protestanti, all'arcidiacono anglicano. L'arcidiacono della chiesa romana, o cardinale protodiacono, ha il privilegio di pubblicare l'elezione del papa, e d'imporgli la tiara nell'incoronazione, e di dare il pallio agli arcivescovi». Cfr.: voce Arcidiacono di Leone Mattei Cerasoli, Enciclopedia Italiana, 1929; Bibl.: Schröder, Die Entwicklung des Archidiaconats bis zum XI Jahrhundert, Monaco 1890. 82 del Sinodo»280. Il suo nome non era infatti annoverato tra gli eletti del Sinodo del 1726281. Ciononostante, egli riuscì successivamente a consolidare il proprio prestigio all’interno della vita cittadina, anche attraverso azioni fraudolente282 e «non ce lo sapremmo immaginare estraneo all’iniziativa dell’università per il sindaco nelle chiese e che contestava lo ius moliendi al principe Spinola»283. L’opposizione del Filioli al potere feudale fu tale che nel 1738 Paolo Spinola decise per la sua carcerazione284. Questo non impedì all’uomo nel 1744 di farsi paladino della ripresa dell’azione giudiziaria dell’università contro il vicario. Non pago, l’arcidiacono riuscì poi nel 1746 a far intervenire il Capitolo «per raddrizzare le cose di questa università già decadute senza speranza di soccorso de secolari per varie caggioni impediti a poterlo prestare» e per far rimuovere «dal suo esercizio l’attual sindaco del popolo come quello che contribuisse molto per la presente oppressione»285. Il Filioli fu accusato di essere di «siffatta indole torbida e litigiosa, che non potendo vivere senza eccitar controversie, metteva sossopra quel pubblico, avviluppandolo in continui litigi», come riportato dal suo stesso difensore286. Era indubbio quindi che potesse davvero mettere «sotto sopra» anche le intenzioni del Principe, d’altra parte faceva parte del collegio difensivo dell’universitas e fors’anche con una dose eccessiva di veemenza ne tutelava i diritti. Il nome del Filioli non si trova tra i componenti del sinodo, Palese cita come fonte Synodus ab illustriss. et reverendiss. domino D. Fabrizio Antonio Salerni episcopo melphicten S. Sedi immediate subiecto celebrata in Cathedrali Ecclesia Melphicten die XV septembris MDCCXXVI praesulatus sui anno duodecimo Benedicto XIII pontifice maximo, Romae ex typographia Rev. Cam. Apostolicae 1726, pp. 9-10, 121-122, 154 e ss. in S. Palese, Controversie giurisdizionali, cit., p. 100 281 “Singolare ecclesiastico molfettese divenuto arcidiacono in giovane età, solo per essere nipote del precedente arcidiacono”. S. Palese, Controversie giurisdizionali, cit., p. 100 282 “non ebbe scrupoli a falsificare documenti […] forse sostenne l’Università che andava a muoversi contro il Capitolo per la questione della Porta della Città […] Avvocato del Capitolo si dimostrava negligente a concludere”, Ivi, pp.100-101 283 ACM, “Decisioni decurionali 1 gennaio 1749” 284 S. Palese, Controversie giurisdizionali, cit., p. 103 285 ACM, Libro delle Conclusioni Capitolari 1738/1746, “Dichiarazione di 4 canonici” 286 Palese trae le sue informazioni dallo scritto difensivo Per l’Archidiacono d. Nicola Filioli, Napoli 1747, p. 5 280 83 I populares erano, come già era avvenuto al momento dell’infeudazione di Molfetta ai di Capua287, più vicini alle posizioni del feudatario e di chi lo rappresentava piuttosto che a quelle dei concittadini della prima piazza. Don Paolo nella lettera al fratello Luca asseriva convinto: «il Popolo, che è stato a me sempre favorevole e dalla mia parte»288. Si presuppone che fosse la mera prima piazza a non tollerarne l’”oppressiva” presenza. Egli destinava perciò un giudizio inequivocabile ai cittadini dell’universitas: Gli molfettesi sono teste malsane e hanno fatto andare in disperazione gli Ministri della casa, come è seguito a Cavagnaro Baguer et altri, che poi hanno le liti portato grandissimi dispendi alla Casa, e l’abbate Massa richiesto dalla felicità medesima di nostro Padre che ritornasse nel 1725 a riprendersi la coministrazione di Molfetta senza gl’altri Feudi, ne pure volle accettarla289. Non v’è tema di equivoco nell’interpretare letteralmente il giudizio di Don Paolo nei confronti dei molfettesi, per quanto egli si riferisse molto probabilmente, e per coerenza con le proprie precedenti asserzioni, ai soli nobiles della città. La circostanza che Gio. Filippo preferisse che il fratello non fosse sul posto al momento della sua eccezionale comparsa in Molfetta faceva comprendere quanto malvista fosse la figura dell’orgoglioso cadetto Spinola. La posizione di figlio secondogenito non era di certo comoda, la possibilità di esser riconosciuto signore di un feudo, seppur per interposta persona, rappresentava una sorta di riscatto sociale. Don Paolo si era di fatto comportato come padrone della città con le luci e le ombre del caso e anche con una certa presunzione delle proprie prerogative, così come nella vicenda dell’imposizione del tronetto baronale a dispetto delle disposizioni capitolari. Vi è una strana suggestiva coincidenza tra i tempi della diatriba giudiziaria e il periodo in cui il cadetto Spinola si insediava all’interno delle F. Lombardi, cit., p. 122 APGS, Fondo Spinola, “Lettera 1750” cit. (IV Appendice documentale) 289 Ibidem 287 288 84 mura cittadine, finanche con una dimora fissa e riconoscibile. E’ forse il suo esser troppo presente il reale motivo di cotanta avversione alla famiglia, i cui membri sino ad allora erano sempre stati confinati nei loro palazzi a Genova, a Milano e a Madrid cum summo gaudio et libertate soprattutto della prima piazza molfettese? Non a caso tra i motivi di gravame vi sono chiari riferimenti alla gestione “disinvolta” dei privilegi feudali, da parte del giovane vicario, sin dalla sua comparsa. Nel nono motivo di gravame dedusse che dalla venuta in Molfetta dell’illustre Vicario Generale nell’anno 1726, si esige dall’Università, a titolo di dono gratuito, ducati 500, che furono donati ai luoghi pii; nell’anno 1728, a titolo di nuovo possesso dato all’odierno Sig. Duca, succeduto a suo padre, si prese 900 ducati e, nel 1729, essendosi portato il Sig. Duca in Molfetta, si prese, a titolo di donazione da detta Università, altri ducati 1250, per le quali somme fece istanza obbligarsi il Sig. Duca e Vicario alla restituzione di tutte le somme esatte per la causa suddetta290. L’assenza dei feudatari genovesi era stata sino a quel momento certamente funzionale all’autonomia del potere locale gestita prevalentemente dai nobiles. La lontananza dell’utile signore valeva bene persino il vulnus economico dovuto dalla mancata piena riscossione della gabella dello ius moliendi. Don Paolo aveva rotto gli equilibri: il princeps si palesava sotto le mentite spoglie del generalis gubernator e pretendeva finanche di perpetrare ulteriori abusi feudali. Le “teste malsane” dovevano rispondere a questa inaccettabile invasione: rivendicare la restituzione dell’antica imposta dello ius moliendi era uno dei modi - forse l’unico - per circoscrivere definitivamente l’autonomia della sfera giurisdizionale dell’universitas, evitando in tal modo future indebite ingerenze feudali291. ACM, ms. 124, Litigio tra la casa Spinola e l’Universitas di Molfetta. Non a caso il nono non era il solo punto di gravame a interessare la condotta di Paolo e le ingerenze baronali dirette o per interposta persona come nel caso di specie. “Nel settimo punto di gravame si dedusse che, possedendo detta città la Bagliva, con l’ampia giurisdizione e con la facoltà di procedere anche nelle cause di furti che si commettono in campagna di ogni genere di frutta e vettovaglie, ed 290 291 85 4.2. L’eredità di Donna Isabella Maria Spinola Marchesa del Fresno Un’ulteriore e ingarbugliata vicenda giudiziaria coinvolse e divise per decenni gli Spinola di San Pietro. La lunga lite prescindeva in qualche modo dai protagonisti, trovando le sue premesse nella falsa convinzione che gli interessi delle donne non potessero non coincidere con quelli dei loro padri, dei loro fratelli e dei loro mariti e che pertanto un essere privo di autonomia non poteva detenere il potere pubblico e neppur quello privato 292. Entrata in società al tempo in cui ero ancora ragazza, ero votata per condizione al silenzio e alla passività, ne ho saputo approfittare per osservare e riflettere. Mentre mi ritenevano sciocca e distratta, a dire il vero ascoltavo poco i discorsi che si affannavano a tenermi, raccogliendo con cura quelli che cercavano di nascondermi [Madame de Merteuil al Visconte di Valmont]293. Silenzio e passività erano le virtù che si richiedevano dunque secondo l’autore de Le relazioni pericolose a una nobildonna di Antico Regime. Sciocchezza e distrazione ne rappresentavano i dovuti corollari. Ma come nel famoso romanzo di Laclos le donne sapevano essere ben più scaltre di come la misogina vulgata le dipingeva e le dipinge ancor oggi. Isabella Maria Spinola Marchesa del Fresno non era affatto sciocca, né tantomeno distratta, ella aveva solo un grave difetto: era un’indomita creatura fuori dagli schemi del suo tempo. Quegli stessi ricorrenti e consolidati schemi tuttavia la sconfissero. La donna dovette affrontare l’invalicabile muro delle tradizioni feudali e soccombere pur lottando, dimostrando che una femina aveva la forza e il ancora la Portulania di Terra, la Zecca di pesi e misure, la Cattapania, nel qual quasi possesso dall’illustre vicario era turbata; fece perciò istanza ordinarsi che l’Università non fosse turbata in quello e che la Corte Baronale, l’illustre Principe e suo Vicario non s’ingerissero nelle cause appartenenti alla stessa per il titolo suddetto” in ACM, ms. 124, Litigio tra la casa Spinola e l’Universitas di Molfetta. 292 N. Zemon Davis, Donne e politica, in Duby e Perrot (a cura di), Storia delle donne dal Rinascimento all’Età Moderna, Roma – Bari 1991, pp. 201 e ss. 293 P. Choderlos de Laclos, Le relazioni pericolose, trad. e introduzione Bruno Nacci, Firenze 2006, Lettera LXXXI, p. 228 86 diritto di non soggiacere passivamente a quella notoria condizione di infirmitas sexus, che non già la natura ma le leggi degli uomini le avevano a torto attribuito. 4.2.1. Un padre amoroso e una controversa Primogenitura E nel rimanente resterà erede di tutti i miei beni mobili, stabili, rendite, diritti, e azioni, che tengo e possederò, e mi appartengono, e possono appartenere per qualsivoglia titolo o ragione, che sia, fo, e nomino per mia UNICA E UNIVERSALE EREDE L’Eccellentissima Signora Donna Isabella Maria Spinola mia figlia294. Queste le parole contenute nel testamento di Francesco Maria Spinola del 1753: egli non aveva seguito la consuetudine invalsa del fedecommesso, non aveva escluso la figlia dalla successione nei beni feudali. Tra il «rimanente» v’era il Feudo di Molfetta destinato a Isabella, seguendo lo ius commune, che non opponeva alcuna differenza per sesso nella successione dei Feudi.295 Si assisteva alla nomina di una donna come erede universale seguendo i dettami non già del diritto feudale ma di «tutte dunque le Leggi di Natura». Così asseriva nei propri atti il più famoso tra i difensori della Spinola296, e da queste ultime volontà sin troppo inconsuete sorse una lite che sembrò “infinita” e parve terminare solo apparentemente nel 1757, anno in cui venne emessa una sentenza del Sacro Regio Consiglio favorevole alle pretese del fratello del defunto a discapito della sua diretta discendente. Le grandi ricchezze che avevano all’interno cespiti di natura feudale non soggiacevano infatti al diritto comune ma a quello feudale297. Le C. Franchi, Esamina di Ragioni delle nullità proposte a nome della Signora Marchesa del Fresno, Donna Isabella Spinola avverso la sentenza interposta dal S.R.C. a’ 9. Luglio del 1757. A favore del Signor D. Giuseppe Spinola, Biblioteca Nazionale di Napoli Vittorio Emanuele III (d’ora in poi BNN), 1758, p. IV 295 Ivi, p. VI 296 “Ma in quegli ultimi momenti di sua vita in vece di nodrire quei sentimenti di fasto, di gloria, e di ambizione, che sogliono regolarmente allignare negli animi de Grandi, gli si risvegliarono le leggi della Natura, e del Sangue : e si ricordò soltanto di essere padre amoroso”. C. Franchi, cit., p. V 297 A. Berrino, L’eredità contesa, Bari 1999, p. 108 294 87 costituzioni federiciane di Melfi del 1231 erano state il primo tentativo di unificare le coutumes feudali e di imporre un modello di successione fondato sui principi prevalentemente patrilineari alla base di quel corpus feudale che si era formato e consolidato nel Mezzogiorno sin dal XIII secolo 298. La progressiva trasformazione delle pratiche successorie modellate sul diritto feudale avvenne in modo lento e graduale. Si assistette a un primo periodo tra il XIV e il XV secolo in cui la nobiltà dispose in materia successoria il mero frazionamento del possesso feudale, affinché ciascun ramo della famiglia potesse godere di diritti signorili. Successivamente, a partire dalla metà del XVI secolo, si giunse alla indefettibile necessità di una serrata oligarchica in virtù dell’eccessiva liberalizzazione del mercato feudale oltre al dilagante fenomeno dell’indebitamento baronale. Si ripristinò così la primogenitura: «la pratica che prevede[va] a ciascuna generazione un unico erede, sostenuta e realizzata mediante testamenti arricchiti di fedecommessi, rinunce e sostituzioni»299. Anche questa vicenda doveva rientrare in questo modo “nella norma” pur in presenza di un – per quanto misero - riferimento nelle volontà dispositive di Francesco Maria a favore di Giuseppe Spinola: un altrettanto controverso legato. A favore di D. Giuseppe non leggeansi, che queste semplicissime parole: «E in quanto al Ducato di S. Pietro , succeda in esso il mio Fratello a cui spetta»300. La Gran Corte della Vicaria prima, il Sacro Regio Consiglio poi si espressero in diverso modo sulla vicenda, ma l’esito fu sempre difforme da quanto disposto dal testatore. La Marchesa del Fresno tuttavia non si arrese: proseguì a dispiegare eccezioni di nullità, logicamente e giuridicamente fondate, che però non M.A. Visceglia, Linee per uno studio unitario dei testamenti e dei contratti matrimoniali dell'aristocrazia feudale napoletana tra fine Quattrocento e Settecento, in «Mélanges de l'école française de Rome», Année 1983 95-1, p. 395 299 Ivi, p. 109 300 C. Franchi, Esamina di ragioni, cit., p. V 298 88 furono prese in considerazione alcuna, nonostante l'acume e l’abilità di esperto giurista del suo difensore, Carlo Franchi, che le diede anche alle stampe. Purtroppo la questione sottesa a quanto era stato deliberato, la condizione necessaria e sufficiente che rendeva solo Giuseppe degno erede di casa Spinola, risiedeva nel genere “difettoso” della discendenza diretta di Francesco Maria, prima ragione di impugnabilità di quel testamento. Nondimeno, non v’era un netto e inequivocabile riferimento legislativo in materia. Nello ius commune non si riscontrava alcuna distinzione di genere per le successioni ereditarie301. Il diritto feudale «nel segno dell’agnazione e con assoluto vantaggio mascolino»302 «permetteva di privilegiare un erede a discapito degli altri e serviva da fondamento a fedecommessi, rinunce e sostituzioni, che si generalizzarono tra le famiglie aristocratiche e feudali a partire dalla seconda metà del Cinquecento»303. Il “sogno di immortalità” espresso con questo istituto, quella emblematica formula in perpetuum o in inifinitum talvolta potevano anche adattarsi alla semplice logica della discendenza diretta per quanto femminile, visto e considerato che con la prammatica 34 del 1655 con cui Filippo IV concedeva la libertà - non il dovere o l’automatismo - di ricorrere ai fedecommessi con le dovute già citate limitazioni e lasciando sempre individuo, intatto, il patrimonio feudale304. Non esistevano solo feudi mascolini ma anche feminini. Non mancò infatti Franchi di sottolineare che: potea, ciò dirsi ne' Feudi Mascolini, e non già in quei Femminini, come sono appunto i Feudi nel nostro Regno, che hanno per fondamento la Successione Giustinianea, e l'amore del Sangue ...305 Il diritto romano, cui fece riferimento la difesa di Isabella, pur presupponendo la levitas animi e l’infirmitas sexus propria delle feminae come ragione essenziale dell’istituto della tutela mulieris, ai cui parametri dapprima stringenti aveva opposto deroghe, configurava l’istituzione come superata e meramente formale; cfr. V. D’Amato, Femina callida, cit., pp. 12-17. 302 A. Berrino, cit., p. 111 303 G. Delille, Prefazione, in A. Berrino, cit., pp. 9-12 304 G. Delille, Famiglia e proprietà nel Regno di Napoli, Torino 1988, pp. 64-68 305 C. Franchi, Difesa a favore della signora duchessa di S.Pietro in Galatina, e principessa di Molfetta d. Isabella Spinola contra il signor d. Giuseppe Spinola, Biblioteca Nazionale di Napoli Vittorio Emanuele III, p. VI 301 89 I diritti di Isabella fondati sull’«amore del sangue» non si limitavano perciò al mero principato di Molfetta, ma coinvolgevano anche San Pietro in Galatina, considerando la presenza del riferimento alla spettanza di quest’ultimo allo zio Giuseppe come frutto in realtà di una errata interpretazione della situazione successoria da parte del testatore, che aveva così diviso ciò che non poteva essere soggetto a divisioni di alcun tipo: il patrimonio feudale. Perciò erede unica e universale non poteva che significare ciò che letteralmente si evinceva. Pretende la Marchesa del Fresno esser a se dovuta l’intera successione feudale e burgensatica: ed incerta ancora di sua ragione, non sa, se in vigore nel testamento paterno, o della legge dell’investitura 306. Le pretese della donna riguardavano diritti trasmessi in forma scritta eppure bellamente ignorati perché contra legem, o meglio contra consuetudinem. L’eccezione dianzi descritta non poteva prevaricare la regola consolidata della primogenitura maschile. Dal diritto feudale applicato soprattutto in tema di rapporti coniugali e successioni era derivata dunque una progressiva contrazione “dell’autonomia dispositiva” in campo testamentario, in spregio soprattutto della discendenza femminile. Per quanto lo stesso fedecommesso fosse un istituto mutuato dal diritto romano, esso doveva applicarsi “regolarmente”, attenendosi strettamente ai dettami feudali che privilegiavano un unico erede e la linea maschile. La femina doveva rassegnarsi a essere solo uno strumento di trasmissione di beni dotali e di utili alleanze matrimoniali, null’altro 307. Fedecommesso e primogenitura tuttavia erano istituti a se stanti, non necessariamente connessi poiché non sempre il primo era posto in essere a tutela di beni di carattere esclusivamente feudale, almeno non prima della 306O. Guidotti, Per lo duca di S. Pietro d. Giuseppe Spinola contra la marchesa del Fresno d. Isabella Spinola. BNN, p. III 307 M.A. Visceglia, Linee di studio, cit., p. 436 90 prammatica 33. Anno cruciale fu il 1655: con l’introduzione della prammatica 34 de feudis che contemplava la possibilità di istituire maggioraschi sui feudi sino al quarto grado308 «per quei feudatari […] cui dasse fastidio la successione delle femmine nel feudale»309. Si può dire che l’epilogo di questa vicenda fosse perciò già ampiamente scritto 310. Gli Spinola si erano sempre attenuti alla tradizione feudale, esempi ne erano il testamento redatto da Luca Spinola nel 1741, nonché, seppur con le dovute riserve e ambiguità, il testamento redatto da Francesco Maria seniore nel 1727. Proprio nella primogenitura istituita da quest’ultimo vi erano evidenti vuoti di definizione dei successori, per cui non era chiaro il genere, i gradi, le linee e l’età nella descrizione di erede universàl nel testamento. Il Duca di S. Pietro D. Francesco-Maria Spinola il vecchio, ritrovandosi nelle Spagne coll'onorevole carattere ed impiego di primo Ajo del Re N. S. , agli 11 di Maggio 1727 fece nel Real Posto di Aranques il suo ultimo testamento . Lasciò egli a ciascheduno de' ſuoi figli e figlie la legittima nella somma, che loro spettava, secondo le leggi e gli statuti della Serenissima Repubblica di Genova. Passò indi a dichiarare suo erede universale il Principe di Molfetta D. Gian Filippo Spinola suo figlio primogenito, e chi avesse causa dal medesimo colla qualità di primogenito. Eccone le parole: Declaro por mi beredero uniberſal a mi hiyo D.Juan Phelipe de Spinola Principe de Molfeta, o qui en tubiere causa de el de primogenito in primogenito 311. Si parlava di successione «de primogenito in primogenito», ma senza fornire spiegazioni o ulteriori dettagli relativamente a una necessaria mascolinità dell’erede. I difensori di Giuseppe interpretarono, ovviamente, non esservi stata istituita una primogenitura in perpetuum, fors’anche in virtù di questa vaghezza di riferimenti. Ivi, p. 425 G. Grippa, La scienza della legislazione sindacata ovvero Riflessioni critiche sulla Scienza della legislazione del sig. cav. d. Gaetano Filangieri, Napoli 1784, BNN, p. 131 310 M.A. Visceglia, Linee di studio, cit., p. 427 311 O. Guidotti, cit., p. VII 308 309 91 Non vi sono argomenti, né presunzioni, per le quali si possa imprendere, che abbia egli voluto fondare una Primogenitura perpetua, discensiva: primogenitura per altro, con cui lungi di conservare la sua nobilissima famiglia, l'avrebbe piuttosto annientita312. La famiglia sarebbe stata, come asserisce Guidotti, “annientita” da un tal genere di primogenitura. Il ridondante lemma “conservare” – in netto contrasto con il paventato “annientimento” - era infatti il principale argomento attorno a cui ruotava la difesa di Giuseppe. La famiglia intesa come nomen et sanguis e il suo patrimonio si conservavano ovviamente attraverso la trasmissione esclusivamente maschile. Pertanto, nell’affrontare il capitolo del testamento di Francesco Maria Seniore, dinanzi alle lacune su «gradi, linee e chiamate» si ribadiva che non poteva trattarsi di un istituto volto alla conservazione e degno del crisma in infinitum poiché redatto «senza affatto pensare al decoro della sua famiglia»313. Il «decoro» era un corollario del più ampio lemma conservare, consisteva nella salvaguardia della cognominatio e di conseguenza del genere del successore. Una donna erede universale non poteva non costituire una minaccia al decoro della famiglia non avendo i mezzi atti alla sua prosecuzione. Al tempo stesso la primogenitura di Francesco Maria il Vecchio, essendo oltremodo anomala, era stata per questo disposta respectu tantum vulgaris substitutionis314. Fu questa anche la statuizione definitiva della Magistratura Genovese, nonché della Gran Corte della Vicaria: si trattava di una sostituzione volgare «giacché il Duca D. Gian-Filippo fu dichiarato erede universale del Duca D. Francesco-Maria suo padre in vigore della riferita disposizione senza alcun vincolo di fedecommesso»315. Ivi, p. XIV Ivi, p. XIV 314 Ibidem 315 Ibidem 312 313 92 Era il fedecommesso a rendere cogente e a lungo termine una disposizione, sia essa un maggiorascato o una primogenitura316 e, per completezza, esso doveva essere “individuo”317. Nondimeno, come asseriva Adam Smith, «a quale di loro [figli] debba essere data una preferenza così importante deve essere determinato da qualche norma generale, fondata non sulle dubbie distinzioni del merito personale, ma su una qualche semplice e chiara differenza che non consenta discussioni. Tra i figli di una stessa famiglia non ci può essere differenza più indistruttibile di quella del sesso e dell’età. Il sesso maschile viene universalmente preferito a quello femminile; e a parità di ogni altra circostanza, il maggiore di età è preferito al più giovane. Da ciò l’origine del diritto di primogenitura e della cosiddetta successione lineare»318. Parafrasando l’economista inglese ciascun feudatario era un piccolo sovrano e un sovrano, la cui terra era mezzo non solo di potere ma anche di protezione del proprio lignaggio, non poteva e non doveva lasciare che quest’ultimo subisse divisioni. Alla luce di quanto descritto, risultavano di gran lunga più in linea col costume del tempo e della famiglia le parole e le volontà espresse da Luca Spinola che ben si attennero alle regole acquisite della conservazione e del patrimonio e del decoro. Volle il famoso Capitan generale Ecc.mo D. Luca Spinola I contribuire anche da sua parte al giustissimo pattuito intendimento, che la Casa primogenita dei Duchi di S. Pietro col maggior lustro e splendore nei maschi della famiglia si conservasse. Era egli per mezzo delle armi e del suo valore e scienza nell' arte militare asceso nelle Spagne al sommo delle grandezze e degli onori. Dal matrimonio colla Contessa di Siruela, figlia del Conte di Sifuentes, altra prole non avea che D. Marianna-Francesca, che fu sollecito di dare in moglie al suo nipote D. Francesco-Maria Spinola, allora Principe di Molfetta 319. “E nelle controverſie insorte nel 1732 tra il Duca D. Gian Filippo e i di lui fratelli secondogeniti sull'assegnamento della vita e milizia, che costoro pretendevano sopra tutti i feudi e i beni feudali del Regno; questo sognato fedecommesso non fu affatto opposto. Se si avesse avuta idea di fedecommesso, in quelle circostanze il Duca D. Gian-Filippo non avrebbe certamente lasciato di farne uso, per escludere i fratelli dalla vita e milizia, che pretendevano su de feudi”. O. Guidotti, cit., p. XV 317 R.Trifone, Enciclopedia Italiana, Voce Fedecommesso, 1932 318 A. Smith, La ricchezza delle nazioni, (ristampa) Novara 2013, pp. 117-118 319 O. Guidotti, cit., p. XXXVIII 316 93 Luca assicurò in questo modo la discendenza pura della cognominatio di Casa Spinola, accertandosi che il giovane Francesco Maria Spinola sposasse la sua unica figlia femmina, Francisca Maria. Il «giustissimo pattuito intendimento» di casa Spinola affinché si conservasse maggior lustro e splendore tramite la successione mascolina era così stato, sino al momento del testamento di Francesco Maria juniore, sempre rispettato. Anche Gio. Filippo Spinola nel 1751 aveva stabilito con forza nel proprio testamento il principio della primogenitura universale maschile. In questa Primogenitura chiamò in primo luogo il Principe di Molfetta Francesco Maria suo Figliuolo Primogenito, ed i suoi Discendenti Maschi per linea Mascolina sempre da Maschio a Maschio, e da Primogenito in Primogenito in infinitum. Estinguendosi, o evacuandosi la Linea Maschile del Principe di Molfetta, chiamò il Signor G. Giuseppe, ed i suoi Figli, e Discendenti Maschi, pure da Maschio in Maschio in infinitum, o chi avrebbe nella sua Discendenza Mascolina la qualità, e prerogativa di Primogenito legittimo, e naturale, e di Linea sempre Maschile da Maschio in Maschio. E mancando la detta linea mascolina, chiamò la Contessa Donna Teresa Scotti sua Figlia, ed i suoi Maschi come appunto avea fatto in quella del Principe di Molfetta 320. Mascolino, maschio, maschile: aggettivi e sostantivi aventi tutti la stessa radice e lo stesso significato in tutta questa produzione documentale dei difensori di D. Giuseppe. Tuttavia nell’età dei lumi erano state avvertite «spinte individualistiche tese a contrapporsi alla famiglia-corpo». Possiamo parlare, sposando la tesi di Daniela Lombardi, di una vera e propria “crisi settecentesca” i cui segnali principali erano dati dall’aumento delle controversie giudiziarie in tema successorio sino a giungere finanche a tangere il diritto matrimoniale321. Nel Settecento il paradigma della famiglia patrilineare, primogeniturale e patriarcale cominciava a manifestare segni di C. Franchi, Esamina di ragioni, cit., p. VI D. Lombardi, Donne famiglia e genere, in M.A. Visceglia, F.Chacòn, G. Murgia, F. Tore (a cura di), Spagna e Italia in Età Moderna. Storiografie a confronto, Roma 2009, p. 76. 320 321 94 cedimento”, per quanto “il modello familiare aristocratico non era stato perfettamente coerente neanche nei secoli precedenti322. Le liti erano già ben presenti all’interno della compagine familiare aristocratica molto prima del XVIII secolo. Probabilmente Francesco Maria juniore si era ribellato unicamente alle stringenti convenzioni sociali e aveva accolto di buon grado i mutamenti della propria epoca, ma al contempo aveva trovato un’immarcescibile resistenza da parte di una dottrina giuridica e una prassi familiare ancor “non illuminate”, volte alla conservazione e non già al sovvertimento del patrilignaggio. Quel che si trae da quanto accaduto non è il mero ripetersi di eventi ritualizzati delle famiglie di Antico Regime ma ciò che Elena Papagna definisce come «la valorizzazione dell’individuo». Nella narrazione delle vicissitudini giudiziarie di Isabella del Fresno si intravedono «le alternative, le possibilità di scelta aperte a uomini e donne del passato, riconoscendo loro la facoltà di sottrarsi alle regole di comportamento sociale, al loro determinismo e alla loro ripetitività» 323. Francesco Maria juniore si era distinto dal gruppo famiglia, da quelli che erano i dettami, quasi corporativistici, della casata Spinola324: non aveva voluto di fatto prendere in considerazione né le parole paterne, forse perché non lette, quanto meno non con la dovuta attenzione poiché accettate per procura - cosa che in più occasioni viene ripetuta - così come vien ribadito che non poteva però non conoscerne il contenuto vincolante325. Non si può neppure asserire con Guidotti, che tutte le clausole contenute nelle disposizioni testamentarie di Gio. Filippo fossero state accettate in toto E. Papagna, Sogni e bisogni, cit., p. 10 E. Papagna, Il potere e le sue manifestazioni: famiglie, lignaggi e parentele, in ll Potere e le sue manifestazioni. Secondo Incontro Internazionale di Storia Moderna. Identità Mediterranee: La Spagna e l’Italia in una prospettiva comparata (secoli XVI-XVIII), Madrid 2016, p. 107 324 Ibidem 325 Solo la Gratia l’avrebbe reso vincolante erga omnes. O. Guidotti, cit., p. LXXIX e ss. 322 323 95 quasi fosse un automatismo dovuto come nel diritto germanico326, proprio perché chi accettò e accolse tali statuizioni non le pose mai in essere discostandosene totalmente. In presenza di queste evidenti contraddizioni tra volontà espressa del padre e consuetudine familiare si rese sempre più affannosa la causa di Isabella. Il tutto si consumava anche dinanzi al dato incontrovertibile che il cambiamento delle regole della politica e delle alleanze matrimoniali, a causa del prevalere della primogenitura e del modello patrilineare forte aveva prodotto inesorabilmente «l’assottigliarsi, o l’estinguersi, delle famiglie»327. E quello sarebbe stato purtroppo il destino degli Spinola di San Pietro, a prescindere dal vincitore della contesa in atto. Francesco Maria juniore aveva – e in questo caso dubbi non ve n’erano accettato il decreto di preambolo che precedeva l’eredità paterna328, e in quel preciso istante l’amoroso padre aveva segnato il destino dell’amata figlia. Su tali premesse a Giuseppe spettavano il ducato di San Pietro in Galatina e tutti i beni feudali, e si ebbe pure cura di andar oltre, ritenendo che fosse beneficiario anche di quelli burgensatici che rientravano nella categoria di beni non legati a un feudo, ma privati «alla stregua dei borghesi», detenuti iuxto titulo e quindi nella piena disponibilità del proprietario329. Al di là di questa forzatura giuridica sui beni allodiali che non avevano vincoli di alcun tipo, i beni feudali era indubbio che fossero appannaggio Il modello romano contemplava la scelta del testatore e la voluntas di accettare da parte dell’erede, la cosiddetta adizione, quello germanico prevedeva una successione esclusivamente legittima con una relativa immissione nei beni ipso iure in virtù del diritto naturale. A. Berrino, cit., pp. 20-21 327 E. Papagna, Famiglie di Antico Regime, cit., p. 499 328 «A partire dal XVI secolo presso la Gran Corte della Vicaria si ottiene, previo un processetto di accertamento, un decreto che riconosce coloro che hanno diritto a succedere a un de cuius. I decreti di preambolo non vanno definiti come atti di accettazione dell’eredità ma come decreti di riconoscimento della qualità ereditaria, in quanto nella richiesta di riconoscimento della qualità ereditaria l’accettazione è implicita». A. Berrino, l’Eredità contesa, Roma 1999, p. 23 329 Giuseppe Maria Galanti nelle sue Memorie storiche del mio tempo e altri scritti di natura autobiografica (1761-1806), Cava de’ Tirreni (ristampa) 1996, definiva burgensatico sinonimo di allodiale, «ma con riferimento a quelle proprietà che i feudatari avessero a pieno titolo, al pari dei borghesi (donde il termine), senza potervi vantare diritti di sorta, senza obblighi di prestazioni verso il sovrano e senza obblighi di riconoscimento di diritti verso i cittadini». 326 96 esclusivamente maschile. La questione era finanche così banale che Orazio Guidotti scrisse stigmatizzando l’annosa vicenda in un modo eloquente ed emblematico: È un punto nella ragion feudale e nel nostro Regno incontrastabile, che per fermezza della chiamata del Duca D. Giuseppe, in seguela del convenuto, debba esser tenuta la Marchesa del Fresno o impetrare, o dare il consenso per l'impetrazione del Regio assenso, quante volte il bisogno lo richiedesse: Ed intanto far valere la disposizione del Duca D. Gian Filippo, figlia della promessa e patto correspettivo coi fratelli, sull'intero prezzo di tutti i feudi e beni feudali330. Pertanto si chiedeva, o meglio la ragion feudale pretendeva che “fosse tenuta” la stessa Isabella a impetrare anch’ella, unitamente a colui che reclamava di usurparne il ruolo, quel Regio assenso, quella Gratia, che il testamento di Gio. Filippo non aveva ancor ottenuto, e «intanto far valere la disposizione» di quest’ultimo. Si dava per acquisito che una donna non doveva, non poteva detener alcun bene se non in concomitanza del matrimonio, di conseguenza come “moglie di”, o per benevolenza dei parenti di genere maschile più meritevoli di esser menzionati in una primogenitura o in un fedecommesso. 4.2.2. La «desiderabilissima unione» Isabella avrebbe potuto evitare questa infinita controversia nello stesso modo che era stato previsto per sua madre da Luca Spinola: un utile esempio dell’endogamia genovese331. Ciò non era avvenuto: la donna aveva dovuto sposare il marchese del Fresno nonché duca di Frias Martin Fernàndez de Velasco, piuttosto che lo zio Don Giuseppe, il quale a sua volta si era coniugato successivamente a una Sanseverino332. Le alleanze matrimoniali erano orchestrate dai membri più autorevoli della famiglia O. Guidotti, op cit., p. LIV A. Musi, Mercanti genovesi, cit. p. 63 e ss. 332 R. Santamaria (a cura di), Palazzo Doria Spinola, cit., p. 64 330 331 97 con la cura dovuta e valutandone l’opportunità politica ed economica. Non v’era possibilità di scelta da parte dei nubendi, l’unica decisione plausibile era obbedire ai voleri paterni o anche materni. Infatti perfino le donne potevano fungere da abili sensali, purché ogni accordo coniugale si risolvesse in un’alleanza vantaggiosa per il proprio lignaggio333. Fu ritenuto più conveniente che Isabella sposasse il Marchese del Fresno che vantava tra i diversi titoli anche quello di Conestabile di Spagna, sancendo così un’alleanza con la grande nobiltà spagnola, pur esulando dalla tradizionale “endogamia genovesa” 334 col senno di poi scelta più adeguata perché per mezzo di questa desiderabilissima unione, cessando ogni litigio, si dasse compenso alla gravissima perdita, e ſi rinnovasse con prosperi, e fausti avvenimenti l'antico splendore d'una sì Illustre Famiglia, che è stata fin oggi la gloria della nostra Italia Questo era l’incipit delle difese a favore della Marchesa del Fresno335. Le alleanze endogamiche per i maschi ed eterogamiche per le femmine erano la prassi matrimoniale seguita dalle élite genovesi, una sorta di panacea per conservare intatti i rapporti tra “colonia-patria” oscillanti tra Napoli e Genova336. Nel caso che ci occupa, per una figlia unica erede sarebbe stata logicamente auspicabile la soluzione di un matrimonio endogamico337: una sorta di rimedio stragiudiziale della vicenda. In mancanza della «desiderabilissima unione» il sorgere della controversia aveva assunto definitivamente il crisma dell’ineluttabilità 338. E. Papagna, La scelta del coniuge, cit., p. 145 R. M. Girón Pascual, Exogamia, endogamia e ilegitimidad: estrategias familiares de los mercaderes genoveses de Granada durante la edad moderna (ss. XVI-XVIII), «Historia y Genealogía» Nº3 2013, pp. 8398 335 C. Franchi, Difesa a favore della signora duchessa, cit, p. II 336 G. Brancaccio, Nazione genovese, consoli e colonia nella Napoli moderna, p.61 A. Musi, Mercanti genovesi, cit. p.63 e ss. 337 “figlie uniche eredi, ciò che favorisce la scelta dell’endogamia” in G. Delille, Famiglia e potere, cit., p. 285 338 C. Franchi, Difesa a favore della signora duchessa, cit., p. III 333 334 98 4.2.3. I diversi gradi di giudizio: La Gran Corte della Vicaria La battaglia legale non parve invero conoscere tregua: Isabella e Giuseppe pretesero entrambi il medesimo petitum, ossia l’intero patrimonio del caro estinto Francesco Maria. Una prima pronuncia della Gran Corte della Vicaria339 aveva alfine stabilito una sorta di divisione salomonica tra i due contendenti: Interponatur Decretum praeambuli qu. Illuſtris Ducis S. Petri D. Francisci Maria Spinola in beneficium Illustris D.Iſabella Spinola eius filia ex Teſtamento dicti quond. Illuſtris Ducis D. Francisci Maria Spinola in scriptis condito in Civitate Matriti sub die 27. Martii 1754, et aperto, et publicato sub die 28. eiusdem mensis, et anni in Bonis Burgenſaticis. Et in Ducatu S. Petri, aliisque Feudis et bonis Feudalibus antiquis in benefi cium Illustris D. Josephi Spinola tam ex Testamento pradito, quam Jure unitatis et Individuitatis, cum oneribus, legatis, et declarationibus in praecitato Testamento contentis, et in omnibus servata forma eiusdem cum benefic. L. & Inv. Et reſpectu praetensorum per dićtam Illustrem D. Isabellam infra quatuor dies audiantur Partes. Verum praefatus Illustris D. Joseph non alienet, et se obliget respectu fructuum, et de praesenti Decreto non consignetur fides , neque copia inconsulto S.R.C. sive Domino Causa Commissario 340. Occorre specificare che il succitato Decretum praeambuli era una statuizione di competenza della Gran Corte della Vicaria, che stabiliva e riconosceva chi era legittimato a succedere al testatore341. In virtù di tal La Gran Corte della Vicaria era divisa in quattro ruote, due civili e due criminali. La Regia Camera della Sommaria era competente per le cause finanziarie e fiscali: il patrimonio Reale, l'erario pubblico, le liti tra feudatari e quelle tra i baroni e i lori sudditi. Il Tribunale della Zecca provvedeva al bollo delle unità di misura; il Tribunale della Bagliva trattava le cause minori civili di risarcimento danni. 339 La Vicaria criminale giudicava in primo grado i delitti commessi a Napoli e nei suoi Casali e in appello le cause già decise nei tribunali delle provincie del Regno chiamati "Udienze". La Vicaria civile trattava le cause sino ad un certo valore, di eredità e quelle su prove documentali (polizze bancarie, atti pubblici, ecc.). Il Capo della Vicaria (Reggente) era un uomo d'armi (vedi il Gran Camerlengo) e non di legge, non aveva diritto di voto anche se poteva presiedere una Ruota (oggi si direbbe Collegio). La Regia Camera della Sommaria redigeva i bilanci del Regno che veniva sottoposto al voto favorevole del Collaterale (l'organo di governo che affiancava il vicerè), al visto dei Seggi di Napoli (l'amministrazione cittadina) e del Parlamento(sino al 1642). cfr.M.R. Di Simone, Istituzioni e fonti normative in Italia dall’Antico Regime al fascismo, Torino, 2007, pp. 82-83 340 341 C. Franchi, Esamina di ragioni, cit., p. V A. Berrino, cit., p. 25 99 decreto si riconoscevano alla discendente diretta, definita dal testatore erede Unica e universale, i beni burgensatici sulla cui disponibilità non v’era vincolo, mentre all’agnato Don Giuseppe, capace di tramandare il nome della casata, i beni feudali. In parte la volontà di Francesco Maria juniore trovava la giusta considerazione con questo decreto, avente però il carattere della provvisiorietà (non consignetur fides, neque copia inconsulto S.R.C. sive Domino Causa Commissario). E infatti: Si richiamò di questo Decreto di Preambolo D. Isabella nel S.R.C., dove crediamo, che si fosse riconosciuto intollerabile il Gravame, che si era inferito alla Figlia del Testatore, istituita Erede Universale ed Unica. Avocò la causa dalla Vicaria, e la ritenne sotto la sua ricognizione 342. La causa proseguiva innanzi al Sacro Regio Consiglio343 poiché intollerabile era il gravame. Era difatti evidente che la posta in gioco aveva assunto un ben più ampio spessore che travalicava la questione meramente ereditaria, ma giungeva a sottolineare quel che era – con un necessario ossimoro palesemente implicito nel sovrabbondante uso di “maschio” e “femmina”: il potere politico o economico non può e non deve aver tratti femminili. 4.2.4. Il Sacro Regio Consiglio delibera «Il testamento, anche se non autografo e più o meno lungo come di solito tra aristocratici, rispecchia[va] assai più autenticamente la volontà e perciò la personalità dell’individuo, anche quando essa [era] condizionata da consuetudini infrangibili quali il maggiorasco e il fedecommesso»344. Potea il Duca D. Francesco, avvalendosi della Grazia conceduta al Baronaggio di questo Regno contenuta nella Prammatica 33 de Feudis, Ibidem Sacro Regio Consiglio: istituito nel XV secolo dagli Aragonesi con funzioni consultive verso il Governo, divenne in seguito tribunale di appello sulle decisioni delle Regia Camera della Sommaria; sostituendosi alla Gran Corte della Vicaria, la quale non fu abolita, divenne Corte Suprema del Regno di Napoli. Nel XVII secolo divenne l’unica corte competente per le liti inerenti ai feudi e i feudatari, sia di carattere civile che penale. Su queste liti giudicava in via definitiva e inappellabile anche se le sentenze potevano essere successivamente riformulate dallo stesso organo; cfr. I. Del Bagno, Saggi di Storia del Diritto Moderno, Salerno 2007, pp. 79 e ss. 344 R. Colapietra, Baronaggio, umanesimo e territorio nel Rinascimento meridionale, Napoli 1999, p. 451 342 343 100 e più chiaramente spiegata nella notissima Grazia del 1720. istituire erede nel Principato di Molfetta, nel Ducato di S. Pietro in Galatina, e negli altri suoi Beni Feudali D. Giuseppe suo Fratello; senza, che gli fosse di ostacolo D. Isabella sua Figliuola. Ma in quegli ultimi momenti di sua vita in vece di nodrire quei sentimenti di fasto, di gloria, e di ambizione, ei si ricordò soltanto di essere Padre amoroso345. Questa premessa, usata nel primo atto introduttivo in difesa di Donna Isabella allo scopo di giustificare le decisioni di Francesco Maria, per quanto altamente toccante, non tenne in conto che non si discettava di sentimenti, ma di regole ferree di una famiglia la cui discendenza e il cui nome andavano garantiti senza indugiare o incespicare in un erede dal sesso sbagliato. La sentenza emessa dal Sacro Regio Consiglio è così a favore di Don Giuseppe. La sentenza del S. C. profferita a’ 9. Luglio del passato anno 1757. dichiara , che spetti al Signor D. Giuseppe Spinola tutta la Roba Feudale, e burgensatica rimasta nell’eredità del Duca Gio: Filippo suo Padre in virtù della Primogenitura eretta da costui : anche attenta la Dichiarazione fatta dal Duca Francesco Maria il giovane nell'ultimo suo Testamento. Ordina in seguela di ciò, che s'immetta il Sig. D. Giuseppe nel possesso dell'una, e dell' altra sorta de Beni per due delle tre parti: e che per la terza parte rimanente se ne faccia sequestro, e rimanga sequestrata fino a che sia liquidata con Termine, e sentenza la Legittima sui medesimi Beni spettanti alla Signora D. Isabella ex persona del Defunto suo Padre. Tutte le altre Controversie si sottopongono a Termine. Ed ecco quali sono tali controversie: La validità del Testamento di Francesco Maria il giovane, e data la validità la Dichiarazione dell'Erede in Feudalibus: Il Maggiorato, che D. Isabella pretende istituito dal Duca Francesco Maria Spinola il vecchio fin dal 1727: Il valore del Feudi preteso dal Signor D. Giuseppe nel caso di non essere valida la Primogenitura sul corpo de Feudi medesimi: Il valore del Ducato di S. Pietro per la Convenzione passata nel 1735. tra il Duca Gio: Filippo, ed i suoi Fratelli Secondogeniti: Il dritto di costringere l' Erede , e l' Erede dell'Erede in Feudalibus del medesimo Duca Gio: Filippo ad impetrare su quella Convenzione l'Assenso346. Dalla lettura di questa sentenza non ci è dato scorgere come unica motivazione null’altro se non la primogenitura istituita da Gio. Filippo, 345 346 C. Franchi, Difesa a favore della signora duchessa, cit., p. V C. Franchi, Esamina di ragioni, cit., p. VIII 101 nessun accenno perciò alla volontà del testatore ultimo347. Pertanto, il dubbio che le argomentazioni del difensore di Isabella sulla nullità della sentenza fossero fondate era ed è giustificabile. Franchi non a caso affermava: Non può esservi dunque più dubbio, se questa Grazia dell'esclusione delle Femmine per Fedicommesso si fosse o no conceduta da Filippo IV. Egli è manifesto, che fu rotondamente negata. Quindi allorchè si spedi su questa Grazia di Filippo IV, quel Privilegio, che è inserito nella Pramm. 34 de Feudis, rimasero tuttavia i Baroni esclusi di potere PER MODUM SUBSTITUTIONIS rimuovere le Femmine tanto Discendenti, quanto Collaterali dalla Successione de'Feudi. E non sembrava, che potesse più promuoversi questo dubbio dopo la Grazia del 1720, allorché l'Imperadore Carlo VI negò alla Città e Baronaggio il permesso di escludere le Femmine per via di Sostituzione Fedecommessaria348. Non era un meccanicismo giuridico ineludibile, quindi, l’esclusione del genere femminile attraverso il fedecommesso, al di là dei casi enumerati negli scritti difensivi di Orazio Guidotti, come abilmente si faceva notare nell’eccepire la nullità della sentenza del Sacro Regio Consiglio, che invece aveva accolto in toto le ragioni di Giuseppe. Questo anche in aperta contraddizione con quanto gli stessi sovrani Filippo IV prima e Carlo VI poi avevano concesso, non avallando, o meglio non rispondendo alle richieste di Gratia, concedendosi il tempo necessario a esaminarle con estrema calma, e a volte lasciando il tutto privo di un giudizio, in una sorta di silenzio – diniego ante litteram349. L’appigliarsi quasi ampolloso nelle difese di Giuseppe alle precedenti prammatiche 33 e 34 de feudis e alle Gratiae non poteva assurgere ad argomentazione univoca atta a giustificare di per sé sola quanto statuito nella sentenza del Sacro Regio Consiglio, che non solo disponeva che il Sia Guidotti che Franchi fanno riferimento alla “famigerata” accettazione del testamento e degli atti prodromici dello stesso, come appunto la primogenitura universale, avvenuta non già personalmente da parte di Francesco Maria, ma attraverso un procuratore, un plenipotenziario o Illustre personaggio come lo definisce Guidotti più e più volte istituito tale in Madrid il 21 di Aprile 1753 Cfr. O. Guidotti, cit. p. LXXIX e ss.; C. Franchi, Esamina di ragioni, cit., p. IX 348 Ivi, p. XXXVII 349 Ibidem: Suae Majestati res melius perpendi digna visa fuit, et perpendenda respondit. 347 102 diritto mascolino dell’agnato Giuseppe avesse la precedenza su quello della discendente diretta Isabella, ma, nella divisione del patrimonio in tre parti, lasciava ancor sottoposta a sequestro e, di conseguenza, indisponibile la quota di legittima spettante a quest’ultima, per quanto esigua rispetto al resto del patrimonio ereditato. Guidotti nell’atto introduttivo di questa controversia, visto e considerato che quelle argomentazioni sarebbero state accolte in toto, ben affermava: E tutto ciò qualora nel caso nostro s'incontrasse dubbio, il che non va, nei termini delle Grazie del nostro Regno sulla disposizione del Duca D. Gian-Filippo a pro del suo figlio secondogenito. E quando ancora, come a suo luogo si vedrà, non concorresse in benefizio del Duca D. Giuseppe la testamentaria disposizione del defunto Duca suo fratello, valida incontrastabilmente per la prammatica 33 de feudis. Senza di che, prescindendo ancora dal patto ed obbligo, che in persona della Marchesa del Fresno nasce dall' istrumento di concordia stipulato tra 'l Duca P. Gian-Filippo e i suoi fratelli , e da tutto l'altro, che in appresso si dimostrerà ; per vie più stabilire la ragione del Duca D. Giuseppe in una causa tanto giusta e tanto favorevole, si tratterà anche qui l'articolo, se sottoposto a fedecommesso il feudo, se ne debba il valore, ove precisamente concorra la buona fede , sia lontana la fraude , e si tratti della conservazione della famiglia350. La «conservazione della famiglia» aveva così ottenuto la sua effimera vittoria. Giuseppe non avrebbe avuto discendenza alcuna. 4.2.5. L’ultima beffa: il sequestro in perpetuum della legittima Ciò però nonostante non possiamo mancare di aggiungere, che per manifesto abbaglio di fatto si ordinò colla stessa sentenza, che precedente nuovo Termine dovea liquidarsi la Legittima spettante per la Terza parte de Feudi ereditari del Duca Gio: Filippo alla Signora D. Isabella ex persona del Duca Francesco Maria di lei Genitore: e che frattanto questa Terza parte rimanesse sottoposta a sequestro: con essersi però conceduta l'Immissione al Sig. D. Giuseppe per le altre due Terze parti de Feudi. Come dunque si ordina colla Sentenza , che rimanga in sequestro la Terza parte de Feudi, e si dà al Signor D. Giuseppe l'Immissione per le altre due Terze Parti?351 350 351 O. Guidotti, cit., p. LIV C. Franchi, Esamina di ragioni delle nullità, cit., p. XXXVIII 103 Ecco l’ulteriore vulnus che derivava da questa iniqua sentenza: Isabella non poteva disporre neppure di quella terza parte del patrimonio paterno che era stato deliberato le spettasse. Carlo Franchi si limitava ad adombrare l’ingiustizia posta in essere dal Sacro Regio Consiglio. Egli si appellò nuovamente alla presunta primogenitura, o vulgaris substitutio di Francesco Maria seniore, presupposto delle disposizioni di Gio. Filippo mai eseguita dalla Sommaria352, si convenne anche sull’ammontare della legittima a 176.000 ducati 353. La vicenda si concluse “naturalmente” nel 1784 alla morte dello zio: Isabella prese così possesso degli agognati beni paterni ma non poteva a sua volta trasmetterli ad alcun genere di discendenza diretta. La Marchesa del Fresno poté esclusivamente godere di una passeggera soddisfazione. Il 3 aprile 1787 Maria Teresa Spinola, già contessa Gallarati Scotti, contò titolo anche di principessa di Molfetta lasciando alla nipote il titolo di duchessa di San Pietro in Galatina354 in una sorta di pacifica spartizione dei beni feudali, questa volta dividui. E nuovamente le volontà di Francesco Maria juniore furono disattese, decisamente stravolte. Le traversie giudiziarie avevano minato finanche il privato dell’ultima duchessa Spinola di San Pietro in Galatina: il nipote, novello Marchese del Fresno e Duca di «Regia Camera della Sommaria (1444-1806): esaminava i conti del regio tesoro, dei ricevitori provinciali e di tutti gli altri funzionari ai quali erano affidati il denaro pubblico, i rendiconti dei pubblici amministratori, i conti relativi alle imposizioni fiscali delle universitates. Fu proclamata da re Ferrante (Ferdinando I di Napoli) Tribunale Supremo, con competenza a giudicare in materia fiscale. Trattava sia gli affari amministrativi sia le cause giudiziarie concernenti il fisco. Esercitava mansioni consultive per il Governo in materia finanziaria. Svolgeva attività giurisdizionale di primo grado in tutte le cause che avessero un purchessia interesse fiscale. Nei primi tempi, contro le sue decisioni, era ammesso ricorso al Sacro Regio Consiglio, ma nel 1482 Ferdinando I d’Aragona ne fece un Tribunale Supremo le cui decisioni non erano appellabili ad altri tribunali. Essa trattava tutte le cause in cui fosse coinvolto il regio fisco e che avessero implicazione con la materia fiscale». I. Del Bagno, Saggi, cit., pp. 79 ss. 353 G. Vallone, Feudi e Città, Studi di Storia Giuridica e Istituzionale Pugliese, Lecce 1993, pp. 236 354 Per Nobilem Caesarem Utriusque Siciliae, visis actis fuit provisum et decretatum quod stante obitu Illustris Comitis et Principis Melphicti D. Theresiae Spinola e Ducibus S. Petri in Galatina; Maria Teresa viene qui definita ufficialmente principessa di Molfetta in APGS, Fondo Spinola, Molfetta 1795, Decreto Regio che riconosce Carlo Gallarati Scotti contare titolo di principe di Molfetta (V Appendice documentale) C. Pisani, La gabella dello scannaggio di Molfetta, in «L’Altra Molfetta», gennaio 2018, p. 29 352 104 Frias, Diego Fernández de Velasco355 meditava e prometteva di tagliarle gli alimenti vedovili per via di un matrimonio segreto contratto nel Regno di Napoli, dove aveva stabilito la propria residenza per meglio seguire il corso della sua battaglia legale. L’ultima Spinola ereditò ben 126.000 ducati di debiti dallo zio rivale, oltre alla responsabilità del mantenimento della di lui vedova Sanseverino. Giuseppe rimaneva utile padrone delle risorse della nipote anche post mortem 356. In tutta questa vicenda, che ebbe a confondere in diversi tratti il pubblico e il privato della famiglia, anche l’universitas di Molfetta, a dispetto di quella rappresentazione, più letteraria che storiografica, che vorrebbe questa istituzione totalmente alla mercé del baronaggio, in uno scontro decisamente tra eguali357 si contrappose vivamente anche al solo conferire a una donna, a un essere “fragile”, il titolo di principessa della città. Domenico Magrone riferisce infatti che nella Conclusione Decurionale del 12 giugno 1786, nel momento in cui un giudice inviato da Isabella pretese di prender alfine possesso della città agli Spinola infeudata, un Decurione evidenziò che non poteva attribuirsi, così come stabilito nella patente, il titolo di principessa di Molfetta bensì solo ed esclusivamente quello di utile signora della Città, affinché «non debba un tal titolo col tratto successivo pregiudicare il diritto di questa Università, la quale sempre e signanter nell’atto di possesso di questa Signora formalmente si protestò contro il titolo suddetto»358. Anche i molfettesi, quelli che Don Paolo Spinola aveva stigmatizzato come «teste malsane»359, consideravano evidentemente degno del titolo di M.Manrique de Lara y Velasco, Los modernos Condestables, in «Hidalguía: la revista de genealogía, nobleza y armas» (298-299), Salazar y Castro 2003, p.361 356 G. Vallone, Feudi e città, cit., pp. 235-236 357Ivi, pp. 236-237 358 D. Magrone, La fine del dominio feudale in un Comune della Puglia, Molfetta 1900, p. 7 359 Nel carteggio intercorso tra Luca e Paolo Spinola in APGS, Fondo Spinola “Lettera di Don Paolo”, cit. ( IV Appendice doc.) a proposito della infinita lite, Paolo parla degli abitanti dell’universitas come “gente malsana”, poiché in diverse occasioni si era mostrato restio il Reggimento della città a raggiungere un accordo, un “accomodo” in relazione alla controversia. 355 105 princeps solo un uomo. Gli esponenti del Reggimento della città rappresentarono in questo modo una sorta di inconsapevole consenso a quanto profuso nel testamento di Gio. Filippo. L’universitas e il suo antico signore avevano trovato finalmente un punto di incontro. 106 CONCLUSIONI La fine degli Spinola di San Pietro. I Gallarati Scotti Avendo esposto i Deputati della città di Molfetta ed i Proccuratori del Principe di Molfetta Conte Scotti e della Duchessa di San Pietro in Galatina Donna Isabella Spinola di aver conchiuso, che quella Università comprì il feudo di Molfetta per il prezzo di ducati 213.730,52, a condizione che una tal vendita sia sovranamente approvata, e resti abolita una denuncia pendente nel Tribunale della Camera con la quale si pretese anni sono dalla medesima città di esser nulla una transazione fatta nel 1679 tra il Regio Fisco e Veronica Spinola […] S.M., uniformandosi al sentimento manifestato dal Marchese Vivenzio si è degnata di ordinare, che venga abdita la predetta denuncia, come l’Università, ed il Possessore di Molfetta hanno domandato ed hanno approvato benanche che resti nella sua piena fermezza e validità la vendita della città di Molfetta conchiusa tra le mentovate due parti, onde quella Università ritorni al Regio Demanio360. Il 1798 fu un anno cruciale per la storia dell’universitas molfettese che riconquistò la sospirata demanialità. Non più utili padroni bensì, almeno in teoria, quella vera Felix patria in qua fruimur libertate361. Il principato di Molfetta rimase un titolo formale legato al possesso di terre e rendite ancor di carattere feudale, ma estraneo alle mura cittadine. Nel testo in cui si dispose il regio assenso a questa transizione non si può non notare che Isabella era nomata appunto solo come duchessa di San Pietro in Galatina e che invece Carlo Gallarati Scotti veniva definito Principe di Molfetta. L’abiatico di Maria Teresa Spinola, ultima secondo la linea di primogenitura stabilita da Gio. Filippo, alla morte dell’ava avvenuta nel 1794, aveva chiesto e ottenuto l’anno successivo il regio assenso da parte di Ferdinando IV a «contare titolo di Principe di Molfetta»362. Il regio decreto si limitava a questo singolo titolo non menzionando quello di duca di San Pietro in Galatina, che così rimaneva ancora in capo a ACM, ms 124, Litigio tra la Casa Spinola e l’Universitas di Molfetta E. Pomes, cit., p. 146 362 APGS, Fondo Spinola, “Molfetta 1795, Decreto Regio che riconosce Carlo Gallarati Scotti contare titolo di principe di Molfetta” (V Appendice documentale) 360 361 107 Isabella363. La Marchesa del Fresno forse si era rassegnata a non opporsi, a dividere l’individuo patrimonio feudale probabilmente nel momento in cui aveva ricevuto il rifiuto di riconoscere l’agognato titolo da parte dei molfettesi nel 1786, lasciando che esso fosse attribuito a Maria Teresa Spinola prima e alla sua discendenza maschile poi, in ossequio ancora una volta ai voleri di Gio. Filippo. Al godimento della eretta universale Primogenitura chiamò in primo luogo D. Francesco-Maria Principe di Molfetta suo figlio primogenito, e dopo di esso i di lui discendenti maschi legittimi e naturali, per linea mascolina, di primogenito in primogenito in infinitum more Regio. Nel caso di estinguersi la linea mascolina del primogenito Principe di Molfetta D. Francesco Maria volle, che nell' ordinata universale Primogenito succedesse p. Giuseppe altro suo figlivo legittimo e naturale, e dopo di lui i suoi figli e discendenti legittimi e naturali, di maschio in maschio, di primogenito in primogenito, e nella stessa guisa, che disposto avea per la discendenza del primogenito Principe di Molfetta D.Francesco-Maria. […] - Passò poi, nel caso di estinzione di tutti i maschi discendenti dai menzionati suoi figli, con capitoli separati alle chiamate de discendenti maschi di D. Teresa Spinola Contessa Scotti sua figlia, ed indi de maschi delle femmine discendenti di cennati due suoi figli maschi coll'istesso ordine e qualità di primogenitura364. Nel 1801, alla morte di Isabella, ultima della sua cognominatio, Carlo Gallarati Scotti successe definitivamente in tutti i beni feudali spinolini365. Non v’era più nessuno che potesse opporsi: i San Pietro si erano estinti. In quell’Italia scossa e rinnovata da Napoleone, il nipote ex filio di Donna Maria Teresa366 potè accedere ufficialmente a tutti i diritti feudali di erede maschio della famiglia367. Non vi fu più il nome Spinola, ma Gallarati Scotti, Per Sacrum Regium Consilium iunctis aulis et subiecto fideicommisso, ac primogeniturae institutae a quo illustri Duca S. Petri in Galatina D. Joa. Philippo Spinola Spectavisse et spectare in beneficium Illustris Comitis D. Caroli Scotti Gallarati et Principis Melphicti neptis ex filio primogenito praemortuo in APGS, Fondo Spinola, Regio Decreto di Ferdinando IV 1795 364 Ivi, p. XLIV 365 O. Guidotti, cit., p. XLV 366 Marito di Maria Teresa fu Giambattista Gallarati erede dal patrigno Giovan Battista Scotti con l’obbligo di assumerne il cognome, acquisendo così i feudi di Vedano e Colturano con il titolo comitale. Cfr. R. Santamaria (a cura di), Palazzo Doria Spinola, cit., p. 60 367 V. Spreti, Enciclopedia storico-nobiliare italiana: famiglie nobili e titolate viventi riconosciute dal R. governo d'Italia compresi: città, comunità, mense vescovili, abazie, parrocchie ed enti nobili e titolati riconosciuti, Vol.III, Bologna 1930, p. 323 363 108 non più Genova, ma Milano a indicare il principato di Molfetta e il ducato di San Pietro in Galatina. Eppure non fu questo l’unico mutamento che interessò l’universitas e il regno di Napoli in quel sì delicato periodo storico. I napoleonidi avevano sancito l’eversione della feudalità con la legge del 2 agosto 1806 firmata da Giuseppe Bonaparte. In questo modo erano state soppresse le giurisdizioni e i diritti feudali, e passati al regio demanio. Era ormai abolito il diritto feudale, lo ius commune era l’unico ordinamento cui fare riferimento per le terre del Regno. Tuttavia all’art. 3 di quella legge rivoluzionaria si leggeva: La nobiltà ereditaria è conservata. I titoli di principe, di duca, di conte e di marchese, legittimamente conceduti, rimangono agli attuali possessori, trasmessibili ai discendenti in perpetuo, con ordine di primogenitura, e nella linea collaterale sino al quarto grado. Occorre che tutto cambi perché nulla cambi? Ciò che è certo è che i salvifici titoli erano conservati e così anche le pratiche successorie basate sulla primogenitura. Le leggi sull’eversione della feudalità furono quindi quel «tonfo senza rumore» descritto da Giulio Sodano368? Il tonfo si udì in modo ben distinto e destabilizzante per coloro che sino ad allora avevano goduto di benefici e privilegi fiscali consolidati da prassi e consuetudini centenarie. Musi definisce il tratto principale del feudalesimo mediterraneo «il binomio possesso terriero-giurisdizione». Premessa fondamentale di questa equazione è che l’insieme dei “diritti” di cui i signori godono sul territorio configura uno status che, «per tutta l’Età moderna, assegna[va] loro un valore aggiunto rilevantissimo rispetto alla posizione di semplice proprietario terriero»369. L’eversione «abolì comunque la feudalità come ordine della società titolare di giurisdizioni, G. Sodano, L'aristocrazia napoletana e l'eversione della feudalità: un tonfo senza rumore? in R. De Lorenzo (a cura di), Ordine e disordine. Amministrazione e mondo militare nel Decennio francese, Napoli 2012, pp. 137-157. 369 A. Musi, Feudalesimo mediterraneo ed Europa moderna: un problema di storia sociale del potere, «Mediterranea» n. 24, 2012, pp. 14-15 368 109 cioè di privilegi»370, non si tradusse nel mero ridimensionamento delle rendite a causa del nuovo sistema tributario che assoggettava alla bonatenenza non solo i beni allodiali, ma anche e soprattutto quelli che prima erano feudali con una perdita economica non irrilevante per i baroni, che come asseriva Pasquale Villani, subirono «un colpo dal quale non avrebbero più potuto riaversi»371. Quella che si preservava intatta era la nobiltà ereditaria, almeno nella trasmissione dei titoli e del patrimonio, preservata era infatti la primogenitura, lasciando sostanzialmente invariato il maggiorascato previsto nel Codice Napoleonico in conformità con quanto sancito nelle famose prammatiche 33 e 34 de feudis, ma non già il fedecommesso, abolito con un provvedimento del 1807. Cadevano le antiche prestazioni personali, cadevano gli antichi diritti giurisdizionali. Una palese lacuna invece, secondo la letteratura storico-giuridica di fine Ottocento, era rappresentata dalla mancata riforma economica, quella tanto sospirata riforma agraria che avrebbe davvero colpito la patrimonialità e il potere feudale372. È stigmatizzato come conservativo questo «carattere non profondamente innovativo della legge»373 e pertanto l’abolizione non si era fattualmente perfezionata, non intaccando efficacemente la forza economica del baronaggio374. Non si considera però l’aspetto più pregnante della legge del 1806: l’abolizione dei privilegi e di quel sistema di giurisdizioni troppo spesso prono agli abusi375. Angela Valente parla di una «passiva rassegnazione»376 da parte dell’antico ceto feudale, circostanza che non ha, invero, riscontri univoci. Anche Elvira Chiosi insiste su questo concetto: i novelli grandi proprietari A. Musi, Il feudalesimo nell’Europa moderna, Bologna, Il Mulino, 2007, p. 277 P. Villani, Il decennio francese, in R. Romeo e G. Galasso (a cura di), Storia del Mezzogiorno, vol. IV, t.2, Roma 1986, pp. 609-610 372 A.Musi, Il feudalesimo nell’Europa, cit., p. 281 373 Ivi, p. 280 374 Ivi, pp. 277-280 375 Ibidem 376 A. Valente, Gioacchino Murat e l’Italia meridionale, Torino 1965, p. 18. 370 371 110 titolati non si sarebbero mostrati colpiti da questa repentina trasformazione nonostante ciò comportasse una contrazione economica delle rendite feudali, ma anche la ben più devastante decadenza politica dopo l’affermarsi della dinastia borbonica377. La condizione di semplice proprietario terriero comportava comunque l’assunzione di oneri mai sostenuti dal baronaggio, che il diritto feudale aveva sino a quel momento preservato. L’ipotesi che tale gruppo sociale poteva aver ritenuto allettante - ma che non fu mai posta in essere - era stata «semmai quella di diventare nobili proprietari», continuando cioè a conservare gli antichi privilegi, primo fra tutti l’esenzione dai tributi. E invece dovettero rapportarsi con la triste realtà di esser sì possidenti, ma con obblighi di “cittadini”378. Questo nuovo habitus li pose peraltro di fronte alla soppressione di retaggi di antico regime, che colpirono quegli elementi che attenevano non solo alla sfera sociale delle famiglie, ma in particolare a quella economica. Al di là della perdita dei privilegi feudali, non si può non convenire con Maria Antonietta Visceglia che le leggi eversive attraverso l’abolizione di istituti consolidati e caratterizzanti le costumanze aristocratiche, come ad esempio il fedecommesso, attraverso eventi destabilizzanti come la soppressione di un gran numero di monasteri, utili luoghi «dove riversare le eccedenze femminili […] ed educare le fanciulle non destinate al chiostro»379, ebbero in ogni caso un effetto disgregante sulle ricchezze nobiliari e sul mos nobilium, minando irreversibilmente i pilastri e le certezze sui quali sino ad allora essi si erano poggiati380. La Restaurazione – come ribadito – accolse integramente quanto posto in essere da Giuseppe Bonaparte prima, e da Gioacchino Murat poi. 377 E. Chiosi, Il Regno dal 1734 al 1799, in G. Galasso e R. Romeo (a cura di), Storia del Mezzogiorno, vol. IV/2, Napoli 1986, p. 441. 378 G. Sodano, L'aristocrazia napoletana, cit., p. 145 379 Ivi, p.149 380 M. A. Visceglia, Il bisogno di eternità, p. 255 111 Ferdinando IV di Borbone confermò la linea adottata nel breve periodo franco - napoleonico in tema di feudalità, e intese dare una sistemazione razionale alle amministrazioni locali381, attenendosi sostanzialmente al modello del Decennio francese, e dunque riprendendo a grandi linee le leggi promulgate nel 1806 da Bonaparte. Si scardinò così, definitivamente o quasi, un retaggio istituzionale «che aveva del tutto perso la funzione per cui fu originariamente istituito»382. Tramontarono progressivamente anche le universitates, i sedili e i loro reggimenti. L’ancora per poco Regno di Napoli fu suddiviso in province, distretti e comuni, affidandone la responsabilità governativa rispettivamente all'intendente, al sottointendente e al sindaco. Nel dicembre 1816, spenti gli echi rivoluzionari e sancite le determinazioni del Congresso di Vienna, l'Italia meridionale e la Sicilia costituivano il Regno delle Due Sicilie. Cambiati erano, all'opposto, gli assetti cittadini nel decennio napoleonico, con i suoi 15000 abitanti Molfetta assurgeva alla prima classe dei centri urbani, conformandosi al nuovo corso. L’antica universitas si accordò al “decoro borghese”383, nel 1806 si diede di conseguenza una definizione codificata del terzo ceto, che comprende il resto del popolo ma da questo possono eligersi a Decurioni e altri Uffici, i soli comodi Massari e accreditati Artieri384. La borghesia cominciò ad assumere concrete connotazioni, attraverso la promozione di «un clima culturale con chiaro orientamento di impegno Legge del 12 dicembre 1816 sull’amministrazione civile e Legge del 21 marzo 1817 sul contenzioso amministrativo 382 A. Mele, La legge sulla feudalità del 1806 nelle carte Marulli, in S. Russo (a cura di), All’ombra di Murat. Studi e ricerche sul Decennio francese, Bari 2007, p. 104 383 P. Conte, Recensioni: A. Spagnoletti (a cura di), Il governo della città, il governo nella città. Le città meridionali nel decennio francese, in Atti del Convegno di Studi, Bari 2009, in «Bollettino storico della Basilicata», n. 26 (2010), pp. 398-399 384“Nella lista degli eleggibili a cariche pubbliche del Comune di Molfetta nel 1806, si desumeva lo status prettamente borghese della maggioranza degli aspiranti” in P. Modugno, L. La Forgia, Storia di Molfetta. Uomini e vicende di un Comune della Terra di Bari. Volume I (dalle origini all’Ottocento), Molfetta 2019, pp. 120-121 381 112 civico, morale e politico» ponendo le basi per una modernizzazione nel lungo periodo385. L’appellativo di principe di Molfetta, Spinola o Gallarati Scotti che fosse, rimase invece inalterato: un prezioso e prestigioso recipiente del tutto privo di tangibili contenuti al di fuori di quelli prettamente patrimoniali. 385 Ivi, p. 129 113 APPENDICE DOCUMENTALE Documentazione Archivio Gallarati Scotti Milano, Fondo Spinola I Vendita della città di Molfetta da Ferdinando Gonzaga a Gio. Stefano Doria e mediante il suo assenso a Luca Spinola 1640 2 Aprile Vendita della città di Molfetta dal Sig. Ferdinando Duca di Guastalla a Gio. Stefano Doria e mediante il suo assenso al Sig. D. Luca Spinola, quondam Gaspare per ducati 170.000. Roga Notaro Gio. Francesco Poggio 1640 4 Maggio Ratifica del medesimo contratto Notaro Gio. Villani di Guastalla Ratifica fatta da Ferdinando Gonzaga giuniore, Duca di Guastalla dell’instrumento di vendita della città di Molfetta 2 aprile 1640 a Notaro Giovanni Francesco Poggio al Signor Luca Spinola, quondam Gaspare di consenso del Signor Giovanni Stefano Doria quondam Nicolò per il prezzo di scudi 170.000. Melphictae 1640 2 Aprile Instrumento con cui Gian Stefano Doria trasmette a Luca Spinola la città di Molfetta nel caso che esso Doria in sua vita non avesse nominato altro successore in Notaro Giovanni Francesco Poggio di Genova Instrumento scripto dal Notaro Gian Francesco Poggio di Genova con cui il fu don Gian Stefano Doria in sua vita non avesse nomato altro successore come di fatto non lo nominò Executio di Regio Privilegio per il quale S.M. Cattolica concede il suo assenso alla vendita fatta per l’Ill.mo D. Ferrante Gonzaga Duca di Guastalla e Principe di Molfetta a D. Luca Spinola per ducati 170.000. II 114 3 giugno 1690 Distinzione che dicesi avuta da Molfetta da Giambattista Baguer relativa al debito di Gian Maria De Luca di ducati 2245 verso la Sig.ra Veronica Spinola in conto del quale si vedono assegnati alla medesima vari stabili ivi distinti situati in Molfetta risultando la stessa signora creditrice anche di ducati 71, oltre l’ammontare di varie spese. Molfetta a suo tempo ====================== (parte non leggibile) Rogato per mano del Notaro Giuseppe Grazioso di Bari habitante in Giovinazzo sotto li 7 marzo 1687 quali obligò pagare in diverse tande. In grazia del qual debito il Sig. Gio. Maria de Luca e Francesca Passari sua moglie assignarono al Sig. D. Gio. Batta de Baguer Agente Generale dell’Ecc.mo Signor Duca di San Pietro, Principe di Molfetta infradetti beni stabili: una possessione d’arbori di olive et altri frutti di vigne otto, ordini quattordeci, et viti nove secondo la pubblica general misura della corda di Molfetta posta nel tenimento di detta città in loco detto Piscina Stamita, apprezzata a ducati sessanta la vigna sì che detto prezzo ascenda a ducati 501:330 ¾ Una possessione d’olive et altri frutti di vigne quindecim, ordini due e viti 23 posta nel detto tenimento in loco detto il Piano di Mizzo, chiamato Li Canali Grandi, apprezzata a ducati cinquantanove la vigna sì che dall’intiero prezzo ascende a 888:79 ¼ Una pezzogna d’olive di vigne cinque volte poste nel medesimo tenimento in loco detto Torri Moscati apprezzata a ducati cinquantacinque la vigna, sì che l’intiero prezzo di essa ascende a ducati 275 Et un’altra pezzogna similmente d’olive di vigne nove, ordini quattro, e viti 32 apprezzata ducati cinquantasette la vigna; sì che l’intiero prezzo ascende a ducati 519:80/22187:93 115 Da li quali si defalca ducati 25 per il capitale d’annui carlini* dodeci e mezzo si devono al reverendo capitolo la possessione delli Canali ducati 25/2159:93 sì che il prezzo di dette robbe resta netto. Alli retroscritti ducati 2159,93, s’aggiongono ducati 13,95 per le culture fatte in dette robbe nel presente anno, quali culture non stanno incluse in detti prezzi; sì che uniti ducati 13,95 con detti ducati 2159,93, fanno ducati 2173:88. Quali defalcati dalli detti ducati 2245, credito di Nobile Eccellentissima Signora Donna Veronica Spinola, restò debitore detto Giovanni Maria in ducati 71,12. Detti coniugi si obbligarono insieme ai loro figli, Michele e Domenico de Luca a pagare a’ debito Ecc.mo Illustrissimo Sig. Duca per tutte. Li 20 maggio 1692. Inoltre si obbligarono a pagare all’Ill.mo Sig.Agente Generale infra il medesimo termine di due anni l’interesse si pretende dallo Illustre Agente nella misura che dovrà dichiararsi dall’Illustre Celentano, Giudice della Gran Corte della Vicaria una colle spese fatte dall’ill.mo don Giovanni Battista tanto intimatio quanto nell’udienza di Trani spese per la stipulazione di instrumenta di detti apprezzatori e delli Agrimenzori, quale spese anco si dichiarvano dall’illustre don Marcello Celentano. Come tutto chiaramente si legge dall’istrumento stipulato dal Notabilis Gasparro Squadrella di Modugno sotto li 18 maggio 1690. 116 III Trascrizioni lettere varie indirizzate a don Luca Spinola 1736-1750 Lettera di don Marco Imbonati al Duca Luca Spinola Milano marzo 1736 Carissimo amico, la lettera fortunatissima che da V.E. solo ieri ho ricevuto in data delli 4 novembre dello scorso anno indica che non ne ho ricevuto verun altra prima e che lo sbaglio proceda apporto o dalla Posta o dalla grande lontananza del Paese in cui Vostra Ecc.za si ritrova; che se io prima d’ora han così avuto il gran contento di ricevere sue lettere, può ben ella immaginare quanto sarei statto sollecito nel rispondere, sì per la stima, sì per l’affetto che anche io grande le professo. Se mi è riuscita nuova la notizia ch’ella mi ha data del suo felice matrimonio, mi è stata occasione di grande allegrezza per il contento che V.E. ne haveva ricavato da un collocamento sì Nobile: solo temo che coll’essersi accasato costì in Madrid, Dio sa quando più averò il contento di vederla e di darle un stretto abbraccio; anzi se costì vi fosse qualche nichia propria del mio Grado e stato, quanto volentieri verrei ad abitare in questo Paese e così poter stare assieme e finire costì i miei giorni ove mio Padre ebbe li suoi natali, molto più se in casa di sua ecc.za avessi ad avere in qualche suo quarto la mia abitazione; io credo che piantaressimo costì una buona Accademia da divertirsi. Costì pure è quella città nella quale per cinque anni vi hà dimorato in qualità di Paggio della Regina e poi Capitano del Regimento all’or del Padre stesso di V.E. mio fratello che costì pure è morto. Resti pure certo che non lasciarò di adunare ouverture e di violino e di flauto in quantità per servire V.E. e le consegnerò al portiere di sua casa in Milano, ma bisogna poi che ella raccomandi al suo signor padre che dia ordine che gli rimettino subito costì tutto ciò che farò avere al detto portiere, acciò io non sia considerato dimentico del mio obligo di servirla. 117 Sappia pure che tante volte mi ero ricordato di V. E. e avere mandato delle musiche, ma non sapevo mai ove far capo e ove diriger le mie lettere; ove dunque si degni di tenere corrispondenza di me con sue lettere che mi saranno molto care. Procurerò nelle mie orazioni di pregare per V.E., e che Dio gli conceda di vivere sempre in santa pace ed allegrezza colla sua sposa mia nuova padrona, mentre ai tempi nostri li affetti dei mariti verso le proprie spose oh quanto presto si raffreddano. Pensi un po’ seriamente come si potrebbe effettuare il venire costì anch’io e viver assieme in buona e santa compagnia con V.E., a cui profferire tutta la mia servitù et il mio affetto. Speravo, poi, che mi darà a suo tempo la felice nuova della gravidanza della Sig.ra Duchessa sua consorte a cui desidero un felice e maschile parto. Mi raccomando poi anch’io con tutta libertà a V.E., giaché è in cotesta città, di mandarmi un po’ di buon tabacco nero di Siviglia à suo genio e con di nuovo pregarla dei suoi preziosissimi commandamenti, siccome anche della continuazione del suo buon affetto che stimo molto e con pregarla di pormi ai piedi della futura sua consorte e cugina con tutto l’ossequio e affetto mi protesto di V.E.. Per meglio servire sua ecc.za sarebbe bene che la mi mandasse una carta in cui fossero scritti tutti li motivi e principii delle sue ouverture e suonate, per non avere a duplicare invano le coppie che di volta in volta le manderò. Mio nipote le invia li suoi rispetti e saluti. Devotissimo, obligatissimo et affezionatissimo servo et amico don Marco Imbonati. 118 IV Lettera di Don Paolo Spinola al suo Sig. fratello Don Luca Spinola Carissimo Fratello non ho che suggerire in risposta al Vostro amatissimo foglio del 7 giugno, poiché altro non contiene che gentili espressioni di affetto, di cui porgo distinte grazie. Venendo alla causa dello ius moliendi, come vi scrissi nella passata, sta appuntata per il 24 entrante, però prima si vedrà che può conseguire Vostro Sig. Principe da Sua Maestà, dopo che la di lui andata a Molfetta è stata inutile, non avendo i Molfettesi voluto accettare partito alcuno, anziché il canonico Lupis, che anni sono in Voghera fu tanto favorito dal Duca, ebbe ardire di dirgli in faccia:”Sig. Principe, non occorre ch’ella si lusinghi, non si vuole accomodo”. Tutto ciò fu da me previsto, come con l’antecedente mia vi denotai, allorché vi motivai che, nonostante buone speranze che il Sig. Principe dava con la sua lettera da Molfetta per l’accomodo, io nulla ne vedevo. Gli molfettesi sono teste malsane et hanno fatto andare in disperatione gli Ministri della casa, come e seguito a Cavagnaro Bagner et altri, che poi hanno le liti portato grandissimi dispendi alla Casa, e l’abbate Massa richiesto dalla felicità medesima di nostro Padre che ritornasse nel 1725 a riprendersi la coministrazione di Molfetta senza gl’altri Feudi, ne pure volle accettarla. Io prego il cielo che il Sig. Principe ottenga qualcosa avvantagiosa da Sua Maestà, il che si vedrà dimani nel presentarci il memoriale, giachè il Popolo, che è stato a me sempre favorevole e dalla mia parte, ha firmato, in numero di 600 e più, una procura e un memoriale diretto a Sua Maestà, richiedendo di volere l’accomodo. Dovrebbero queste scritture firmate da tanto numero di gente fare nello animo del Sovrano qualche impressione, ma pure io non so animarmi a sperarlo. Iddio e la Vergine Santissima siano però quelli che ci aiutino. Il Sig. Principe ha fatto quanto mai poteva et ha pensato quanto era possibile, ma vi sono cinque o sei capi, che non hanno che perdere, e mettono 119 sotto sopra tutto il pubblico, e due d’essi sono l’Arcidiacono Figlioli e Ciro De Luca. In Molfetta io non mi portai con il Sig. Principe, mentre esso espressamente lo vietò, dicendo che voleva andar solo, anzi che non volle ne pure accettare l’alloggio in mia casa, come io lo pregai, adducendo motivo che non voleva dar ombra ai Molfettesi d’intelligenza, onde io mi sono intieramente uniformato ai suoi voleri, e solo ho eseguito il suo dettame; e, quindi, alloggiò dai Padri Gesuiti, e la di lui famiglia nella mia casa. Nell’entrante settimana spero passare all’Isola d’Ischia a prendere quelli bagni, et al ritorno immediatamente portarmi a Molfetta per tirare gli conti di questi due anni, il che non si è potuto fare nell’anno passato per causa di non essermi potuto di qua amovere, però, prima di partirmi, sentirò che disposizione da Sua Maestà ebbe nostre suppliche. Nell’entrante settimana spero passare all’Isola d’Ischia a prendere quelli bagni, et al ritorno immediatamente portarmi a Molfetta per tirare gli conti di questi due anni, il che non si è potuto fare nell’anno passato per causa di non essermi potuto di qua amovere, però, prima di partirmi, sentirò che disposizione da Sua Maestà ebbe nostre suppliche. Il Duca e nostro fratello sta di tutto inteso e mi sollecita per il suo affare, onde, in questa mia breve absenza, mi rimetto a quanto vi ragguaglierà il Principe, con il quale ho fissato andar dimani dal Marchese Ferrante, per averlo sempre più propitio. Conservatemi il Vostro affetto e, pronto a Vostri comandi, mi confermo Vostro affezionatissimo fratello che v’ama. Napoli 24 luglio 1750. Don Paolo Spinola 120 V Molfetta 1795, Decreto Regio che riconosce Carlo Gallarati Scotti contare titolo di principe di Molfetta Ferdinandus IV Dei Gratia utriusque Siciliae et Hyerusalem, Infans Hispaniarum, Dux Parmae, Placentiae, et Castri, ac Magnificus Princeps hereditarius Hetruriae In causa decreti pertinentis petiti per Illustrem Comitem Don Carolum Scotti Gallarati, ut ex actis die 24 mensis Aprili 1795 Neapoli Per Nobilem Caesarem Utriusque Siciliae, visis actis fuit provisum et decretatum quod stante obitu Illustris Comitis et Principis Melphicti D. Theresiae Spinola e Ducibus S. Petri in Galatina, bona, jura, et actionis in eius haereditate remansa eidemque obventa virtute Instrumenti conventionis et transactionis initi die 8 aprili 1783 per Notarium Nicolaum Ranieri Tenti a Neapoli et adprobati per Sacrum Regium Consilium iunctis aulis et subiecto fideicommisso, ac primogeniturae institutae a quo illustri Duca S. Petri in Galatina D. Joa. Philippo Spinola Spectavisse et spectare in beneficium Illustris Comitis D. Caroli Scotti Gallarati et Principis Melphicti neptis ex filio primogenito praemortuo Magnificae Illustris Comitis Theresiae etiam attenta renunciatione facta per Illustrem Archiepiscopum Sida, et Nuntium Apostolicum D. Joannem Scotti Gallarati instrumento dici 12 Aprilis 1769 per Notarium Franciscum Lambertenghi Civitatis Mediolani folio cum iisdem vinculis conditionibus, majoratu, primogenitura oneribus, declarationibus ceterisque contentis tam in instrumento dicti quondam illustris Ducis Sancti Petri in Galatina, D. Joanni Philippi Spinola quam in dicto instrumento conventionis et transactionis et in omnibus servata forma eorumdem; verum praesentem decretum non exequatur nisi prius registratum in Regio Archivio. hoc juramentum Sava- Migliorini – Pisani […] Neapoli, die primo mensis junii 1795 [firme illeggibili in calce] 121 Documentazione fotografica 1. Molfetta Via Piazza 8, iscrizione Veronica Spinola 122 2. Molfetta Seggio dei Nobili 1500, Via Piazza 10 – 12 123 3. Molfetta Via Forno Seggio dei Populares 124 4. Molfetta particolare Via Forno 125 5. Palazzo Filioli 126 6. Palazzo Giovene 127 7. Palazzo de Luca 128 8. Palazzo Dogana 129 BIBLIOGRAFIA Annuario della Nobiltà Italiana di Goffredo di Crollalanza, Bari 1898; Libro d'Oro Collegio Araldico, Roma 2000 Allocati A., Lineamenti delle istituzioni pubbliche nell'Italia meridionale, Roma 1968 Barbagli M., Sotto lo stesso tetto. Mutamenti della famiglia in Italia dal XV al XX secolo, Bologna 1984 Bellifemine G., Molfetta nei secoli. 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XIIIXVIII, Atti della Quarantesima Settimana di Studi, 6-10 aprile 2008, pp. 471-480 Zemon Davis N., Donne e politica, in Duby e Perrot (a cura di), Storia delle donne dal Rinascimento all’Età Moderna, Roma – Bari 1991, pp. 201-229 FONTI ARCHIVISTICHE Archivio Gallarati Scotti Milano, Fondo Spinola, I. “Vendita della città di Molfetta da Ferdinando Gonzaga a Gio. Stefano Doria e mediante il suo assenso a Luca Spinola” II. “1690 3: Giugno, Distinzione che dicesi avuta da Molfetta da Giambattista Baguer relativa al debito di Gian Maria de Luca in ducati 2245: verso la Sig.ra Veronica Spinola” III. “Marzo 1736. Lettera di Marco Imbonati a Don Luca Spinola” 143 IV. “Luglio 1750. Lettera di Don Paolo Spinola al fratello don Luca Spinola” V. “Molfetta 1795, Decreto Regio che riconosce Carlo Gallarati Scotti contare titolo di principe di Molfetta” Biblioteca Comunale di Molfetta, Manoscritto n. 232, Visaggio “Notizie storiche dei vescovi e dei canonici di Molfetta dal 1679 al 1720” Biblioteca Comunale di Molfetta, Manoscritto n. 124[6/VI], Litigio tra la casa Spinola e l’Universitas di Molfetta (1753) Biblioteca Nazionale di Napoli Vittorio Emanuele III, C. Franchi, Difesa a favore della signora duchessa di S.Pietro in Galatina, e principessa di Molfetta d. Isabella Spinola contra il signor d. Giuseppe Spinola, 1754 Biblioteca Nazionale di Napoli Vittorio Emanuele III, O. Guidotti, Per lo duca di S. Pietro d. Giuseppe Spinola contra la marchesa del Fresno d. Isabella Spinola, 1754 Biblioteca Nazionale di Napoli, Vittorio Emanuele III, C. Franchi, Esamina di Ragioni delle nullità proposte a nome della Signora Marchesa del Fresno, Donna Isabella Spinola avverso la sentenza interposta dal S.R.C. a’ 9. Luglio del 1757. A favore del Signor D. Giuseppe Spinola, 1758 FONTI ONLINE AA.VV, Enciclopedia Italiana, 1929- 1934 in Treccani online Treccani, Vocabolario online Treccani, Dizionario di Storia, 2010, versione online 144 RINGRAZIAMENTI Mi è doveroso dedicare questo spazio del mio elaborato alle persone che hanno contribuito, con il loro instancabile supporto, alla realizzazione dello stesso. In primis, un ringraziamento speciale alla Professoressa Elena Papagna, mio relatore e mentore, per la sua immensa pazienza, per i suoi indispensabili consigli, per le conoscenze trasmesse durante tutto il percorso di stesura dell’elaborato. Ringrazio infinitamente mio padre e mia zia Maddalena che mi hanno sempre sostenuto appoggiando ogni mia decisione di proseguire “oltre il dovuto” il mio percorso di studi. Un grazie di cuore va al Professore Pasquale Cordasco che mi ha indicato la via per muovermi nel dedalo degli archivi pubblici e privati. La mia personale riconoscenza va infine al Cavalier Corrado Pisani per la grande disponibilità nei miei riguardi e per i consigli e gli aiuti preziosi derivanti dai suoi studi e scritti. 145 Gli Spinola di San Pietro PELLINA 1599 ca. ∞ 18.06.1615 Luca Spinola di Gaspare principe di Molfetta POLISSENA (Suor Maria Deodata) 03.06.1600 SUOR ANGELA SERAFINA DI S. SILVESTRO MARIA CAMILLA (Suor Maria Giovanna in San Sebastiano) 01.02.1608 GIO. MARIA VERONICA 18.06.1601 ∞ David Imperiale marchese d’Oria GIOVANNI BATTISTA GIO. FILIPPO 1575 - † 13.12.1625 † I Duca di San Pietro GIO. CARLO ∞ 01.01.1596 Maria di Filippo Spinola di Ambrogio (Fra’ Gio. Battista Maria di Santa Teresa, carmelitano scalzo) 15.03.1611 † 16.08.1642 GIO. PIETRO VIOLANTE GIO. DOMENICO 23.12.1620 - † 1660 13.09.1602 - † 09.04.1666 II Duca di San Pietro ∞ 1629 Paola Maria di Gio. Filippo Saluzzo 19.03.1619 ∞ 12.04.1638 Lorenzo Sauli di Ottavio Maria ∞ 22.01.1643 Carlo Centurione di Luigi San Pietro in Galatina, 05.07.1616 - † 10.04.1675 ∞ 25.04.1644 Maria Brigida Franzone di Agostino GIO. AMBROGIO 21.09.1614 Napoli, † 14.10.1646 07.09.1609 - † 04.10.1660 Principe di Molfetta ∞ 21.11.1650 Veronica Spinola di Luca († 14.02.1688) LUCA SPINOLA di S.Luca †1657 I Principe di Molfetta VERONICA SPINOLA di S.Luca 1625† 14.02.1688 AURELIA PELLINA SPINOLA di S.Pietro 1599 ca. ∞ 18.06.1615 GIO. FILIPPO SENIORE SPINOLA di S.Pietro 07.09.1609 - † 04.10.1660 II Principe di Molfetta ∞ 21.11.1650 Veronica ∞ Ercole Grimaldi marchese di Campagna, (poi Principi di Monaco) GIO. FILIPPO JUNIORE Ratisbona, 27.04.1677 - † Milano, 10.02. 1753 IV Duca di San Pietro IV Principe di Molfetta FRANCESCO MARIA SENIORE LUCA Conte di Siruela Madrid, 06.12.1679 - † Madrid, 03.07.1750∞ Maria Luisa de Silva Velasco de la Cueva Ruiz de Alarcón y Caballos, contessa de Valverde, marchesa de Santa Clara e de Siruela e grande di Spagna 25.02.1659-† Aranjuez, 15.05.1727 III Duca di San Pietro III Principe di Molfetta AMBROGIO Milano, 09.03.1687 ∞ Teresa Aulingeren ISABELLA SPINOLA di Paolo marchese de Los Balbases († 04.10.1700) ∞ 05.01.1704 MARGUERITETHÉRÈSE COLBERT Gli Spinola di San Luca si uniscono al ramo dei San Pietro ∞ MARIA TORQUATA CONTRERES GUZMAN Y TOLEDO figlia di don Giuseppe Conte d’Alcudia GIOVANNI BATTISTA 24.02.1688 - † Roma, 1753 Cardinale, Vescovo di Albano PAOLO Vicario generale di Molfetta dal 1726 sino al 1753? Milano 1700 -? ∞ Vittoria Spinola fu Luca, Marchesa di Lerma PROGENIE DI GIO. FILIPPO JUNIORE (IV PRINCIPE DI MOLFETTA) FRANCESCO MARIA Juniore Pamplona, 13.09.1712 - † Madrid, 27.03.1754 V Duca di San Pietro Principe di Molfetta GIO. GIUSEPPE MARIA 06.03.1714 - † Napoli, 08.01.1784 VI Duca di San Pietro Principe di Molfetta ∞ 1735 MARIA ANNA FRANCESCA SPINOLA di Luca contessa de Valverde e de Siruela ISABELLA MARIA Spinola Marchesa del Fresno † 09.01.1801 ∞ MARTIN FERNÀNDEZ DE VELASCO, duca di Frias MARIA FRANCESCA SANSEVERINO ∞ 04.09.1758 NICOLÒ ANTONIO MARIA 27.03.1716 - † 28.01.1801 Vescovo di Lepanto MARIA TERESA Casalnoceto 19-5-1721 + Milano 18-10-1794 ∞ GIO. BATTISTA GALLARATI SCOTTI Patrizio Milanese, Signore di Vedano per successione Scotti (con l’inquartamento dell’arma e l’aggiunta del cognome Scotti) del 15-1-1729, Conte di Colturano GIUSEPPE GALLARATI SCOTTI Milano 5-3-1750 + Parigi 10-6-1786 SIGNORE di Vedano dal 1777, Patrizio Milanese, 5° Marchese di Cerano, ∞ COSTANZA ORSOLA BELLONI, figlia di Luigi Ignazio Conte di Montù Beccaria e di Vittoria Cuttica dei Marchesi di Cassine Dagli Spinola di San Pietro ai Gallarati Scotti CARLO GALLARATI SCOTTI 3 febbraio 1775- 3 febbraio 1840 Marchese di Cerano, VII Duca di San Pietro in Galatina (1801, - 3 febbraio 1840), Principe di Molfetta (18 ottobre 1794 - 3 febbraio 1840) ∞ 1814 FRANCESCA GONZAGA GUERRIERI