STEFANO ULLIANA
IL CONFRONTO TRA LA METAFISICA
ARISTOTELICA E LA NUOVA
SPECULAZIONE BRUNIANA
Osservazioni sul rapporto fra la Metafisica aristotelica e la posizione bruniana
INDICE
INDICE...................................................................................................2
IL CONFRONTO FRA ALCUNI TESTI ARISTOTELICI E LA POSIZIONE BRUNIANA
.............................................................................................................3
OSSERVAZIONI INIZIALI..........................................................................3
IL CONFRONTO FRA LA PROPOSTA TEOLOGICO-NATURALISTICA DI MATRICE
ARISTOTELICA E L’INNOVAZIONE TEORETICO-PRATICA BRUNIANA...........11
OSSERVAZIONI SUL RAPPORTO FRA LA METAFISICA ARISTOTELICA E LA
POSIZIONE BRUNIANA..........................................................................11
L’ATTO DI FINITEZZA ARISTOTELICO.
.................................................29
L’IPOSTASI DELLA PERFEZIONE E IL TERMINE......................................29
CONCLUSIONI.....................................................................................41
PICCOLA BIBLIOGRAFIA BRUNIANA.......................................................48
2
IL CONFRONTO FRA ALCUNI TESTI ARISTOTELICI
E LA POSIZIONE BRUNIANA
OSSERVAZIONI INIZIALI
Postulato interpretativo fondamentale della spiegazione della riflessione di Giordano
Bruno è il fatto di ragione ed immaginazione che la posizione del principio bruniano
dell’un-infinito mobile – Uno, infinito e movimento sono i termini e le nuove categorie
speculative proposte dal pensatore nolano - ha come conseguenza l’affermazione
dell’insopprimibilità dell’apparenza dell’opposizione. Questa apparenza si traduce nella
immagine della divisibilità o sdoppiamento interno della materia.
La distinzione in se stessa mobile fra materia 'incorporea' – o di cose superiori - e materia
'corporea' – o di cose inferiori - è infatti l’espediente che Giordano Bruno utilizza nel De la
Causa, Principio e Uno per preparare il terreno speculativo all’inserimento della centralità
del fattore immaginativo e desiderativo nella trattazione di quella apertura morale e religiosa
tematizzata lungo l’intera silloge dei Dialoghi Morali (Spaccio de la Bestia trionfante;
Cabala del Cavallo pegaseo, con l’Aggiunta dell’Asino cillenico; De gli Eroici furori).
All’inizio della sua speculazione in lingua volgare l’autore nolano si preoccupa però di
concentrare l’attenzione del lettore verso il principio ed il movimento etico che sta a
fondamento di quella distinzione e del suo interno movimento: la relazione inesausta,
continua, creativa e dialettica, fra la perfezione e ciò a cui essa sembra dare luogo.
L’alterazione, come spazio e tempo del ricongiungimento amoroso ed eguale alla libertà.
Non è perciò meno vero, nello stesso tempo, che il filosofo nolano ricordi, proprio in
chiusura della serie dei tre dialoghi di contenuto morale, proprio e di nuovo lo stesso
principio e lo stesso movimento (la possibilità d’infinire), 1 a ripresa e coronamento
dell’intenzione più profonda e giustificatrice della sua intera opera speculativa in lingua
volgare.
1
Giordano Bruno. De gli Eroici furori (Firenze, 1958). Pagg. 1173 – 1174: “Fu per un pezzo il veder tanti furiosi
debaccanti, in senso di color che credono sognare, ed in vista di quelli che non credeno quello che apertamente
veggono; sin tanto che tranquillato essendo alquanto l'impeto del furore, se misero in ordine di ruota, dove il primo
cantava e sonava la citara in questo tenore: O rupi, o fossi, o spine, o sterpi, o sassi, / O monti, o piani, o valli, o fiumi,
o mari, / Quanto vi discuoprite grati e cari; / Ché mercé vostra e merto / N'ha fatto il ciel aperto! / O fortunatamente
spesi passi!”
Osservazioni sul rapporto fra la Metafisica aristotelica e la posizione bruniana
Qui però, nella parte che più direttamente mette in questione la strutturazione aristotelica
del mondo (la serie dei Dialoghi Metafisico-cosmologici: Cena de le Ceneri; De la Causa,
Principio e Uno; De l’Infinito, Universo e mondi), la nostra attenzione deve essere catturata
subito dalla costruzione di quel fondamento filosofico che determinerà poi (nei Dialoghi
Morali) il riflesso della critica all’idea, costitutiva della tradizione occidentale, di possesso e
di dominio.
Ma questa costruzione potrà trovare migliore e più chiara visibilità - soprattutto nella sua
architettonica - non appena il rapporto oppositivo fra posizione aristotelica e speculazione
bruniana riesca a trovare opportuna collocazione e definizione.
L’identità e la pluralità delle realizzazioni dello Spirito costituiscono, insieme, la fonte
infinitamente creativa della riflessione filosofica e dell’azione pratica bruniane. L’inesausta
ed inesauribile intenzione dell’originario si svela come desiderio realizzante universale,
artisticità ineliminabile e necessaria: essa, inoltre, diviene nello spazio e tempo
dell’alterazione richiamo etico alla reciprocità, eguale e fraterna, della libertà. Solamente
l’infinito intensivo dell’universale può presentare come proprio effetto ed apparenza
quell’idea aperta di possibilità che riesce ad accogliere nel suo seno la totalità delle
determinazioni, ovvero l’infinito estensivo.
Così è l’utopia bruniana dell’infinito creativo a salvaguardare la pluralità e la plurivocità
delle determinazioni; l’Identità della distinzione aristotelica fra potenza ed atto, con la
priorità del secondo sulla prima,2 può invece solamente sostituire l’apertura pluriversa
bruniana con la materialità di una sostanza assoluta, omogenea ed annichilente.
Mentre in Bruno, allora, lo Spirito riconosce se stesso attraverso l’universalità del
desiderio, nella determinazione della finitezza cara alla tradizione aristotelica l’atto del fine
giustifica tutti gli strumenti utilizzati per ravvisarlo, confermarlo ed applicarlo. Se in Bruno
l’ideale dell’Amore eguale costituisce l’eticità infinita del sapere e dell’essere, quando
l’infinito dell’opposizione è e non è l’infinito stesso, nell’accoglimento cristiano della
speculazione aristotelica il presupposto sospeso di un mondo unico vale quale materia
predisposta ad un atto generativo e salvifico misterioso ed inesprimibile. 3 Con il rischio,
storicamente realizzatosi nella Chiesa cristiana, che la sostanzializzazione istituzionale di
questo mondo unico obnubili il proprio stesso principio, a favore di una rigida, autoritaria e
totalitaria organizzazione dei fini e degli strumenti atti a realizzarli.
2
3
Aristotele, Della generazione e della corruzione, Libro I. Metafisica, Libro IX, 1049b 4 – 1051a 3.
In questo la riflessione bruniana si oppone alla composizione tomista fra neoplatonismo ed aristotelismo.
4
Osservazioni sul rapporto fra la Metafisica aristotelica e la posizione bruniana
Contro la costituzione di uno spazio immobile e superiore, nel quale far agire un agente
sopramondano, garante della differenziazione e del relativo ordinamento, il movimento
creativo bruniano si sviluppa attraverso la dialettica naturale e razionalmente spontanea
operante fra i due termini - apparentemente distinti - della libertà (la figura teologicotrinitaria del Padre) e della eguaglianza (la figura teologico-trinitaria del Figlio nello
Spirito). Qui si mostra l’elevato abisso della diversificazione desiderativa universale, che
garantisce l’essere ed il poter-essere di ogni esistente, nell’unità relazionale (dinamica)
infinita. Qui il sapere dell’essere e l’essere del sapere si rincorrono e si slanciano
reciprocamente, giustificati e mossi dal termine della fratellanza dell’universale. 4 Qui,
ancora e conclusivamente, l’Uno lascia di sé l’unità infinita della diversità, aprendo in alto il
campo innumerabile delle libere 'potenze' e ricordando se stesso attraverso la sua
'perfezione' (orizzonte an-esclusivo).
Se la posizione metafisica dell’Uno apre, in Bruno, lo spazio della creatività, e se la
posizione etica della sua perfezione istituisce il rapporto dialettico fra la sua libertà e la sua
eguaglianza, nel campo infinito del ricordo del suo amore universale, la distrazione della
sostanza materiale aristotelica sembra invece astrarre principi atomici individuali,
immaginati come elementi compositivi neutrali. Allora tanto la posizione bruniana
dell’unità infinita salvaguarda quello slancio desiderativo che è ragione d’esistenza e di
salvezza, quanto l’opposto pensiero aristotelico della finitezza consente l’impianto e
l’inserzione della modernità numerante, quantificante e misurante. In un’apoteosi
d’organicità, calcolabile ed ordinabile. Tanto il movimento creativo indotto dall’ideale della
divina possibilità fa della diversificazione il motore e l’esemplificazione di un’amorosa ed
eguale liberazione, dimostrando una grandezza emotiva capace di contenere tutte le
molteplici implicazioni e tutte le innumerabili finalità determinate, quanto il criterio della
monolitica fisicità dell’essere invece riduce e ricompatta, intorno alla linearità della
determinazione, ogni apertura e diversificazione, annichilendo la ricerca razionale e
sostituendone le richieste tramite l’accettazione o l’imposizione della dialettica fra lo
spossessamento ed il dominio di una 'materia' previamente neutralizzata.
Se, allora, le parti nell’universo bruniano non vengono spossessate, ma mantengono una
aperta ed eguale libertà – perciò stesso restando parti dell’infinito nell’infinito non
volgarmente designato - l’eteronomia di un ordine agito da un soggetto separato invece
4
Qui il 'pane sostanziale' del particolare francescanesimo bruniano, intinto ed attraversato dal 'vino' di una speciale
dialettica infinitista di stampo platonico, costituisce una 'Cena' unitaria, abissalmente feconda e ricchissima di ogni cibo.
5
Osservazioni sul rapporto fra la Metafisica aristotelica e la posizione bruniana
limita e determina lo spazio ed il tempo della vita nella necessità, e costringe la potenza
all’identità prioritaria di un atto che funge da ordine interno dell’intero universo, secondo la
predisposizione di una impressione formale, ritenuta immagine dell’azione intellettiva
divina.5 Così la concezione bruniana dell’opposizione infinita ha il significato e valore del
positivo e propositivo dissolvimento della puntualità e materialità dell’individuo assoluto.6
Nello stesso tempo l’affermazione dell’incomprensibilità dell’universo, insieme
all’infinitezza di Dio, non sono il rigetto della razionalità, quanto piuttosto la
consapevolezza della sua stessa infinità, nella sua apertura e diversificazione illimitata. Sono
la dimorazione della possibilità, sempre presente, di un principiare inesausto ed inesauribile.
Di un principio creativo infinito, vero e buono.
Così le infinite ed illimitate virtù creative dell’Uno bruniano si stagliano di contro ad una
concezione che assolutizza l’unità della sostanza nel regresso ad un Ente primitivo,
fondamentale per la propria manifestazione come altro. 7 Contro una volontà di potenza che
si fa potenza attuata di questa volontà, il riferimento bruniano, aperto e plurivoco, porta il
soggetto a divenire, per reciprocità d’affetti: lo scioglie dalla propria impermeabilità ed
indifferenza emotiva alla qualità, e lo rende di nuovo sensibile, gli assegna una
determinazione attraverso quell’idea d’eguaglianza che ne muove l’esistenza, come ideale e
fonte desiderante. Contro la formalità dell’atto d’esistenza di tradizione aristotelica, lo
Spirito bruniano si ripristina nel proprio valore immediatamente affettivo e sentimentale.
5
Di qui il rilievo critico che rende problematico l’accostamento di un pensatore della finitezza, quale è ancora
Marsilio Ficino nella sua riplatonizzazione di strutture aristoteliche, all’infinito della riflessività razionale bruniana. Una
posizione opposta sembra, invece, essere quella espressa da Dilwyn Knox. Ficino, Copernicus and Bruno on the motion
of the Earth. In: <<Bruniana&Campanelliana>>, V, 1999/2. Pagg. 333-366.
6
Così non resta in piedi nemmeno l’accusa che Keplero rivolge a Bruno, di aver appunto ridotto Dio a punto e
materia. Saverio Ricci. La fortuna del pensiero di Giordano Bruno. 1600-1750 (Firenze, 1990). Pagg. 72-73.
7
Aristotele. Metafisica, XII, 6-7, 1071b 3 – 1073a 13. Unica la struttura di determinazione ed unico (oltre che
prioritario) l’atto di posizione, la forma aristotelica viene assorbita nella relazione che rende stabile questa unità: la
relazione che pone la totalità (universalità) dell’essere all’interno della espressione divina. E l’espressione divina è
l’essere causa immobile e prima del movimento generale. Poi, analogia ed atto, pur essendo applicati egualmente per
ogni possibile determinazione, variano a seconda del genere che risulta agganciato ad essi e che viene così utilizzato.
Nel modo sopra indicato, la successione di atto di posizione ed analogia, Dio non può non identificarsi con la
sostanza separabile e separata. Esso (essa) mette in movimento e dà affezione. Nel luogo del separabile che ha termine
nel separato vengono disposti, prima il desiderio, e poi l’intelletto: insieme essi costituiscono l’anima. Il corpo invece
occupa il posto dell’inseparabile ed inseparato (se non astrattamente). Mentre all’inseparabile che è anche inseparato
viene associato il plesso atto-potenza (essere che, non essendo, può essere), al separabile che può essere separato si
offre la posizione assoluta dell’essere che può solamente essere (la figura del 'cielo').
L’affermazione aristotelica, poi, della perfezione che se ne sta con se stessa diventa coestensiva alla posizione della
sostanza separata, immobile ed eterna: la sua indivisibilità le impedisce di avere parti e dunque grandezza, la sua
separatezza ne impedisce il contatto con la sensibilità, determinandone l’impassibilità e l’inalterabilità.
Rappresentante della medesima tradizione speculativa occidentale è Georg Wilhelm Friedrich Hegel. Enciclopedia
delle Scienze filosofiche (in compendio): “La natura si è data come l’idea nella forma dell’esser-altro. Poiché in essa
l’idea è come il negativo di se stessa ovvero è esterna a sé, non soltanto la natura è relativamente esteriore nei confronti
di questa idea, ma l’esteriorità costituisce la determinazione nella quale essa è in quanto natura.” § 192 (Bologna, 1985)
pag. 123.
6
Osservazioni sul rapporto fra la Metafisica aristotelica e la posizione bruniana
Nell’infinito del desiderio e dell’immagine riesce a comporre l’aspetto, per il quale è
divenire modificante, con la caratteristica attraverso la quale questa incompiuta
consapevolezza si mantiene nella sua reale apertura di libertà.8
Se l’umanesimo aristotelizzante cristiano, o la più recente posizione machiavelliana,
ritenevano che l’egemonia del pratico potesse e dovesse esercitarsi attraverso una forma
selettiva e discriminante degli interessi materiali superiori, la materia superiore bruniana – la
materia di cose incorporee – attesta al contrario, proprio nell’idealità della sua capacità
creativa, lo Spirito stesso nella sua latenza. Contro quella autorealizzazione del soggetto,
che si fonda sulla volontà di potenza, e si gradua e seleziona in maniera eteronoma ed
insindacabile, il ricordo bruniano dell’alta unità abissale muove alla realizzazione del
perfetto e di ogni conseguente movimento ed alterazione.
La consapevolezza ineliminabile, che ogni variazione sia nella stabilità dell’ideale,
genera l’unità del reale ed affossa ogni pretesa separazione. Nega soprattutto in radice la
possibilità di inserire quella circolarità del pensiero astratto, che è unicamente capace di
riprodurre se stessa. L’idea bruniana, infatti, in quanto unità mobile ed aperta, ha in sé,
insieme, le caratteristiche della libertà e dell’eguaglianza: non pone manifestazioni che si
intendano come istituzioni discriminanti, strumentali alla assolutezza di uno stato da cui
pretendano di discendere e di cui vogliano essere le custodi.9
Il rigetto bruniano per tutti gli usi strumentali ed assolutistici (ideologici) delle religioni
positive intende allora fondarsi innanzi tutto su quella ragione dialettica che si declina e
sviluppa attraverso quel plesso fra spontanea creatività, slancio ed immaginazione
simpatetica che si costituisce all’interno della triade concettuale identificata dai termini della
libertà, eguaglianza ed amore (la Trinità teologico-filosofica). In questo modo la negazione
dell’assoluto come forma e materia del possesso fonda, a propria volta, il dissolvimento
bruniano di quell’univocità che si costituisce quale possibilità di una rappresentazione
universale.
Contro l’univocità di rappresentazione dell’originario e la cessione e cessazione
dell’apparente, la relazione infinita fra soggettività creative e determinazioni, 10 che la
8
Nell’intreccio fra affetto, sentimento, desiderio ed immaginazione il pensatore nolano riesce a far valere temi ed
istanze care a tradizioni diverse, quando non storicamente contrapposte: la predominanza della grazia coltivata
nell’ambiente protestante luterano, la libertà naturale (etica ed estetica) dell’età rinascimentale.
9
Giordano Bruno. Cantus Circaeus. Jordanus Libro e Quaestio XXXIII. Opera latine conscripta, II, V, pag. 184 e
pagg. 209-210.
10
Le 'idee' platoniche, inserite dalla prima tradizione speculativa cristiana nella mente divina, sono qui di nuovo
liberate, rese concrete (cfr. De umbris idearum) e ricongiunte in alto con la molteplicità delle potenze (determinazioni).
7
Osservazioni sul rapporto fra la Metafisica aristotelica e la posizione bruniana
speculazione bruniana pone, indica nella temporalità la fonte della creazione ed animazione
universale. In questo modo negando la distinzione aristotelica fra necessario e contingente, 11
Bruno può presentare una sorta di apertura dell’immaginazione produttiva, sia naturale (i
'mondi' nella loro completa autonomia desiderativa e conservativa) che morale e religiosa
(la diversità dei culti e dei riti religiosi).
Questa apertura si prolunga in sé all’infinito: la creatività riprende continuamente se
stessa, in uno slancio infinito dell’immaginazione che si fa desiderio. Desiderio d’infinito,
che per noi tocca l’infinito e lo realizza, protendendolo così di nuovo all’infinito nella sua
apertura d’orizzonte. L’apertura creativa ideale superiore che così si genera – raffigurata sin
dalle prime opere bruniane in latino (De umbris idearum) attraverso l’immagine della Y
della tradizione pitagorica - impedisce la considerazione racchiusa e ristretta della relazione:
impedisce il costituirsi della coincidenza fra il darsi della determinazione divina e l’offrirsi
dell’ordine universale,12 ed al suo posto inserisce il concetto della moltiplicazione infinita
('innumerabilità dei mondi').
Ecco, allora, che nell’infinito del movimento dello Spirito (Provvidenza) l’innumerabilità
delle pulsioni desiderative e conservative 'mondiali' viene giocata all’interno della dialettica
fra astri solari e pianeti terrestri; all’interno di una dialettica del resto sostanziata dal
rapporto fra l’etere e gli altri elementi bruniani.13 Nello stesso tempo, l’etica bruniana
dell’in-finire – traduzione religiosa e morale dell’apparenza naturale – determina la
posizione di quella consapevolezza dell’apertura infinita, che nell’incomprensibilità trova e
distende la ragione d’una creatività infinita, imprevedibile ed impredeterminabile. Una
ragione di libertà ed eguaglianza, che ravvisa l’amore reciproco quale ideale d’umanità e lo
rende 'sostanza' del vivere e desiderare comune.
Contro l’unità che viene affermata tramite un agente distaccato e separato (superiore),
ideologicamente predisposto, orientante e determinante,14 e contro il dominio della forza che
11
Aristotele. Metafisica, XI, 8, 1064b 15 – 1065b 4.
Questo è il motivo fondamentale che spinge Bruno ad accettare la critica aristotelica al rapporto fra una grandezza
causale infinita ed un effetto infinito, rovesciandone però le conclusioni (l’inesistenza dell’infinito). L’infinito inteso dal
pensatore nolano è infatti l’opposto di quello desumibile dal concetto di una relazione causale lineare e deterministica.
La condivisione bruniana della critica aristotelica trova luogo nel De l’Infinito, Universo e mondi; Dialogo secondo,
(Firenze, 1958) pagg. 400 – 432. La preparazione di un concetto creativo e dialettico dell’infinito trova invece posto già
nel testo bruniano precedente: il De la Causa, Principio e Uno.
13
Per questo motivo Bruno, alla fine del De l’Infinito, Universo e mondi, può lasciare la volontà di conservazione in
eterno dei corpi celesti e scivolare verso una concezione atomistica, trattata nel De infigurabili, immenso et
innumerabilibus. Deve essere ricordata, a questo proposito, l’Introduzione di Francesco Fiorentino agli Opera latine
conscripta, dove i due testi vengono avvicinati nella data e nel luogo della loro composizione (Londra, 1584-1585).
Pag. XXVIII.
14
Archetipo di questo concetto è la nozione aristotelica di 'sostrato', poi ripresa da quella plotiniana di 'ipostasi'.
12
8
Osservazioni sul rapporto fra la Metafisica aristotelica e la posizione bruniana
suscita la materia all’interno di un orizzonte preformato, 15 lo scioglimento bruniano della
figura assoluta assume le vesti, le sembianze e le caratteristiche della critica allo sviluppo
infinito ed astratto dell’essere.
Se il pensiero classico della finitezza determinava l’accorparsi e l’agglomerarsi di una
potenza materiale distaccata (mondiale) ad una forma prioritaria agente (ordinante ed
organizzante), la sua versione infinitistica astratta (cristiana) proponeva invece la necessità
di una sorta di mediazione assoluta, continuamente riproponentesi nella sua funzione di
dogmatica unità ed espressione. L’unità fra l’intercessione dello Spirito e la Chiesa visibile
causava in tal modo la presenza di una precomprensione dottrinaria degli scopi esistenziali.
L’impossibile variazione di questi e la loro immodificabilità di tanto tratteneva e
determinava (finiva) il soggetto (ogni soggetto), di quanto consentiva ad esso una presa
totale sul mondo. L’affermazione dell’assoluto, ottenuta attraverso la negazione del finito,
strumentalizzava così la morte (il morire) di ogni esistente. Neutralizzava la separazione,
imputata all’affetto, dalla grandezza originaria attraverso la freddezza di un oggetto
necessario, capace di offrire partecipazione totale e di togliere i fantasmi fluttuanti
dell’apparenza. Approfondendo e radicando il fondamento libero della determinazione
totale, sradicava la portata dell’affetto, del sentimento e del desiderio: rompeva l’unità
mobile ed universale, sostituendola con una graduazione progressiva, ordinante e
discernente. Contro il principio della conservazione sistematica la speculazione bruniana,
invece, ricorda la genesi dell’opposizione dalla riflessività dell’Uno, definisce l’apparente
separatezza della 'Causa' nell’infinito della libertà, pone in essa il 'Principio' della sua
eguaglianza attraverso l’Unità universale dell’amore.
Così l’infinito dell’unità, nell’infinito dell’opposizione, genera quella dialetticità etica
dell’Essere bruniano che apre l’infinito del creativo e del dialettico: genera la
considerazione di come e quanto l’esplicazione desiderativa infinita sia il momento
intrinseco dell’universale. Il rapporto bruniano fra l’infinito e l’universale apre in tal modo
una ragione di sensibilità, che rivitalizza l’esistente, rammentando in esso la presenza sia del
desiderio apparentemente inconsapevole (materia) che di quello apparentemente
consapevole (anima). Contro la posizione aristotelica tradizionale e quella espressa
dall’umanesimo aristotelizzante, che sembravano qualificarsi per la eradicazione dalla
materia della virtù del desiderio, l’infinitismo creativo e dialettico bruniano accoglie e fa
15
Archetipo di questo concetto è la nozione platonica di 'impressione', poi sviluppata in quella aristotelica che
prevede l’accostamento della potenza ad un atto prioritario, situato nei cieli eterei delle intelligenze motrici.
9
Osservazioni sul rapporto fra la Metafisica aristotelica e la posizione bruniana
fruttificare i semi speculativi gettati dalla ripresa rinascimentale del platonismo,
contestualizzandoli in un rapporto metafisico dialettico (l’infinito dell’unità nell’infinito
dell’opposizione), capace di dimostrare la propria apparenza e fenomenicità attraverso
un’etica costituita attorno al plesso originario della possibilità d’in-finire.16
Allora tanto la tradizione teologica ad impronta aristotelica impone la necessità interna
del Dio come termine della finitezza, tanto ed all’opposto l’aperta e viva possibilità
universale bruniana acconsente, nel gioco dialettico dell’unità ideale, il generarsi della
trinità filosofica: l’offrirsi dell’eguale libertà nel monito dell’universalità dell’amore, nel
rispetto della pari dignità di ciascun movimento desiderativo.
Pertanto se l’incomprensibilità dell’Uno costituisce in Bruno la matrice di una eterna
riflessività, la forma attraverso la quale questa riflessività si esprime è quella di una
opposizione infinita. Nella speculazione bruniana questa opposizione infinita è il
movimento dell’unità infinita: il rapporto che la creatività ideale costantemente e
continuamente varia e ricostituisce, tra l’essere del desiderio e la sua viva ed aperta
immagine. Un movimento dialettico che è capace di fondere insieme, attraverso la
consapevolezza etica dell’in-finire, nell’unico termine della libera ed amorosa eguaglianza,
l’immensa mole del creato.
La consapevolezza etica dell’in-finire del Desiderio (Spirito), dunque l’infinitezza del
rapporto fra Unità (Padre) ed Idealità (Figlio), costituiscono il cuore ed il nucleo teoretico
della speculazione bruniana. Esso permette di distribuire l’intero articolato delle
argomentazioni presenti nei Dialoghi Italiani secondo una scansione che, per prima,
analizza e confronta – nella serie di dialoghi che costituiscono l’opera De l’Infinito,
Universo e mondi - la posizione espressa dalla tradizione aristotelica (dove vige il concetto
di una opposizione finita) con la posizione bruniana (caratterizzata, invece, dal concetto di
una opposizione infinita); quindi riscontra la presenza – nei Dialoghi Metafisicocosmologici - dell’opposizione infinita nelle sembianze naturali dello Spirito, definendo
attraverso la nuova concezione dell’etere e degli elementi la sussistenza di una dialettica del
desiderio materiale; infine determina – nei Dialoghi Morali - la valenza morale e religiosa
dell’opposizione infinita tramite l’avvento di una dialettica dell’eguaglianza. Tanto nel
campo della naturalità, che in quello della moralità e della religione, il concetto
16
Queste considerazioni sono già presenti strutturalmente nei primi testi latini di Bruno, il De umbris idearum (1582)
ed il Cantus Circaeus (1582): qui le medesime articolazioni razionali vengono espresse attraverso le nozioni connesse
di subjectum, adjectum ed organum. In questi testi la bruniana consapevolezza dell’infinito differire è subito il 'farsi' del
soggetto plurale, ed in relazione ad esso la fede nell’artisticità che gli è immanente. Così il soggetto diventa aggetto di
una variazione possibilmente infinita, l’organo rappresentando l’ideale unità oltre le apparenti diversificazioni.
10
Osservazioni sul rapporto fra la Metafisica aristotelica e la posizione bruniana
dell’opposizione infinita permette il costituirsi di una apertura d’immaginazione, che si
esprime nel primo contesto attraverso l’infinire dell’etere e nel secondo tramite l’infinire
dell’amore.
Slancio infinito d’immaginazione ed infinitezza del desiderio costituiscono così
l’apertura pluriversa della volontà intellettuale bruniana, capace di mantenere viva la
pluralità nella natura, nella morale e nella religione attraverso la creatività e la dialetticità
dell’unità ideale. Al contrario, la posizione assolutistica ed antibruniana, negando la
materialità e la dialetticità operanti nel desiderio naturale, perde da subito il valore creativo
dell’unità ideale, trasformandone lo slancio in dominio astratto, separato e differenziante.
IL CONFRONTO FRA LA PROPOSTA TEOLOGICONATURALISTICA DI MATRICE ARISTOTELICA E
L’INNOVAZIONE TEORETICO-PRATICA BRUNIANA
Nel dialogo bruniano intitolato De l’Infinito, Universo e mondi il secondo degli
argomenti aristotelici esposti dal peripatetico Albertino può venire riferito ad un brano della
Metafisica aristotelica: precisamente a Metafisica, XII, 8, 1074a 36.17 L’occasione di questo
riferimento può così dare inizio ad una lunga ed articolata serie di raffronti ed osservazioni,
che definiscano la relazione di opposizione sussistente fra la dottrina aristotelica e quel
ritorno alla speculazione prearistotelica sull’infinito che contraddistingue, come nota
originaria e fondamentale, la posizione critica bruniana.
OSSERVAZIONI SUL RAPPORTO FRA LA METAFISICA ARISTOTELICA E
LA POSIZIONE BRUNIANA
Se in Aristotele sembra costituirsi un processo per il quale la causa si identifica
progressivamente con il principio, attraverso l’assorbimento in esso prima della causa
efficiente e poi di quella formale, sino a generare l’unità di un’identità piena e totale
(ragione assoluta),18 in Bruno si assiste invece ad una ripresa della dialettica platonica, nella
17
Giordano Bruno, 'Dialoghi Italiani': De l’Infinito, Universo e mondi. Edizione curata da Giovanni Aquilecchia
(Firenze, 1958), pag. 508. L’indicazione (in nota) della fonte bibliografica aristotelica è di Giovanni Gentile.
18
Nella Metafisica (I, 980a 1 – 983a 23) Aristotele osserva come l’elevazione che ci consente una forma generale
trasferibile (sapienza) permette nel contempo la conoscenza dei lati produttivi (cause) e regolativi (principi) dell’intera
gamma delle esistenze naturali. Così il sapiente deve conoscere l’universale nascosto e non immediatamente apparente,
che può costituire termine stabile ed immodificabile di riferimento, sia conoscitivo che pratico. Libero e divino, il
11
Osservazioni sul rapporto fra la Metafisica aristotelica e la posizione bruniana
quale l’ente si apre in se stesso e si divide, rigettando oltre lo sfondo universale il principio
(l’inizio ed il fine) di tale operazione.19
Qui però l’ultimo non si chiude mai sul primo, come nell’affermazione di un principio
'empirico' di realtà, che sotterraneamente sottintenda il primato di una partizione politica,
sociale od economica dell’essere esistente. È infatti solo lo spazio della libertà della
riflessione che si riempie di meraviglia, per la diversità che l’apparente esibisce ed indica,
verso una nuova profondità determinante (ragione produttiva). Solo procedendo, come fa
Bruno, verso la libertà dell’Uno, il pensare non sarà solamente il coronamento di una
soddisfazione presupposta, vincolata nei luoghi e nei modi di un supposto e garantito
esercizio (accademismo).
Se, infatti, nella concessione del presupposto di trovarsi di fronte l’essere intero si ritrova
subito il monito dialettico che lo accompagna, la necessità richiesta e la possibilità (che poi
si
trasforma
in
potenza)
di
possederlo
interamente,
l’affermazione
bruniana
dell’innumerabilità dei 'mondi'20 intende far valere proprio la possibilità di criticare e
termine è posto direttamente da Dio, che così origina la sapienza stessa e la consapevolezza che di essa hanno gli
uomini. La profondità del termine giustifica il sorgere della diversità ed il superamento dell’immediatezza etica e
conoscitiva. La profondità del termine non è però infinita: il termine è dato immutabilmente.
19
Nell’interpretazione aristotelica (Metafisica, I, 987a 29 – 988a 17) Platone salda la ricerca dell’essenza con la
giustificazione della mobilità dei fenomeni: la congiunzione fra la molteplicità formale (idee) della prima e la
molteplicità materiale e sensibile della seconda si realizza attraverso la dipendenza determinatrice (partecipazione) della
seconda alla prima. Questo rapporto prevede l’intermedio del numero e della misura. L’Uno (causa formale) e la Diade
grande-piccolo (causa materiale) costituiscono la molteplicità ideale. Esse sono entità distinte, in opposizione: la prima
si manifesta anche come causa finale, mentre la seconda separa le entità negative.
Aristotele (Metafisica, I, ibidem) critica la definizione del rapporto funzionale di opposizione che legherebbe l’Uno e
la Diade platoniche. Per lo Stagirita non è la materia (la Diade) ad essere principio di moltiplicazione, bensì di
individuazione; al contrario la forma (l’Uno) non può essere principio di individuazione, ma di moltiplicazione.
Congeniale all’istanza moltiplicativa aristotelica, per la constatazione di una determinazione creativa e dialettica dello
Spirito bruniano, sarebbe l’accostamento della struttura razionale presente nell’opera del filosofo nolano con
l’articolazione presente nel Parmenide platonico. Accostamento che dovrebbe essere effettuato attraverso la mediazione
rappresentata dalla tradizione giudaico-cristiana, specialmente nella sua parte maggiormente spiritualista (S. Giovanni
Evangelista, Gioacchino da Fiore, Dolcino, Müntzer).
20
Giordano Bruno, De l’Infinito, Universo e mondi. Nell’edizione curata da Giovanni Aquilecchia (Firenze, 1958;
seconda ristampa, 1985), pag. 387: “Filoteo. Per venir, dunque, ad inferir quel che vogliamo, dico che, se nel primo
efficiente è potenza infinita, è ancora operazion da la quale depende l'universo di grandezza infinita e mondi di numero
infinito.” Pagg. 518 - 520: “Quanto a quello che secondariamente dicevate, vi dico che veramente è un primo e prencipe
motore, ma non talmente primo e prencipe che, per certa scala, per il secondo, terzo ed altri da quello si possa
discendere, numerando, al mezzano ed ultimo: atteso che tali motori non sono, né possono essere; perché dove è
numero infinito, ivi non è grado né ordine numerale, benché sia in grado ed ordine secondo la raggione e dignità o de
diverse specie e geni, o de diverse gradi in medesimo geno e medesima specie. Sono dunque, infiniti motori, cossì come
sono anime infinite di queste infinite sfere, le quali, perché sono forme ed atti intrinseci, in rispetto de quali tutti è un
prencipe da cui tutti dipendono, è un primo il quale dona la virtù della motività a gli spirti, anime, dei, numi, motori, e
dona la mobilità alla materia, al corpo, all'animato, alla natura inferiore, al mobile. Son, dunque, infiniti mobili e motori,
li quali tutti se riducono a un principio passivo ed un principio attivo, come ogni numero se reduce all'unità; e l'infinito
numero e l'unità coincideno, ed il summo agente e potente fare il tutto con il possibile esser fatto il tutto coincideno in
uno, come è mostrato nel fine del libro Della causa, principio ed uno. In numero dunque e moltitudine è infinito mobile
ed infinito movente; ma nell'unità e singularità è infinito immobile motore, infinito immobile universo; e questo infinito
numero e magnitudine e quella infinita unità e semplicità coincideno in uno semplicissimo ed individuo principio, vero,
ente. Cossì non è un primo mobile, al quale con certo ordine succeda il secondo, in sino l'ultimo, o pur in infinito; ma
tutti gli mobili sono equalmente prossimi e lontani al primo e dal primo ed universal motore. Come, logicamente
parlando, tutte le specie hanno equal raggione al medesimo geno, tutti gli individui alla medesima specie; cossì da un
12
Osservazioni sul rapporto fra la Metafisica aristotelica e la posizione bruniana
sciogliere questa coppia di presupposti: la creatività universale ed il movimento infinito
dell’essere impediscono, infatti, sia la certezza di potersi trovare di fronte all’interezza
dell’essere – che esso è piuttosto inteso come dietro e sopra le proprie spalle (questo il senso
della figura di Atlante, nel De umbris idearum)21 – sia la possibilità (e, tanto più, la
necessità) che questo essere, per l’appunto, possa e debba essere costretto entro un assoluto
ideologico.
Se l’atto puro aristotelico sembra non potersi sottrarre – e così parere costretto – al
risultato della necessitazione della serie graduata delle realtà (primo mobile – astri – mondo
sublunare),22 l’infinito bruniano sembra piuttosto identificarsi con un termine che si sottrae
motore universale infinito, in un spacio infinito, è un moto universale infinito da cui dependono infiniti mobili e infiniti
motori, de quali ciascuno è finito di mole ed efficacia.”
21
Giordano Bruno, De umbris idearum, (ed. Sturlese; Firenze, 1991) pagg. 185 – 186: “Uranie vatem sublimes duxit
in aedeis / Quo faceret mentis nubila pulsa suae. / Ordine praegnantem quo sunt disposta per orbem / Indicat extenta
singola quaeque manu. / Leucadius regno sedet hic tristisque senecta. / Praetulit hic degens talia regna patri. / Cuspide
Marsque potens rapit hinc ea raptaque servat; / Aureus hinc Titan haec diuturna facit. / Blanda Venus grato hinc
numerosa ea reddit amore. / Pacis et armorum hinc arbiter hic superis. / Hinc vultu inconstans Lucina et lumine
clamat: / <<Occubitum visent orta, et adaucta suum>>. / Ordine sunt postaquam concepta palatia caeli, / Bis senas
iuvat hos iam peragrare domos. / Egrediare senex varios subiture locorum / Anfractus, varias insinuando notas; / Huic
divum succede parens. Succede Gradive, / Sminthaeum numen, Cnidia nata mari. / Atlantis succede nepos Cyllenia
proles. / Delia nec cesses caelo Ereboque potens.”
22
Per Aristotele (Metafisica, I, 990a 33 – 991b 1), non tutte le cose hanno idea, o dovrebbero avere idea: non vi può
essere idea, per esempio, né della negazione, né della relazione. Le idee correlative agli oggetti della scienza sono
implicite e non dimostrate. Perciò la critica che Aristotele rivolge a Platone sembra condurlo verso l’affermazione
dell’essere come puro positivo ed evidente: divisione ('numero') e relazione ('relativo') – che insieme sembrano
costituire l’illimitatezza dell’Uno, la sua apertura ed il suo essere profonda ed invisibile genesi di se stesso – invece
fanno scomparire la pura positività ed evidenza del principio. Con il pericolo, avvertito dallo stesso Aristotele, di
rendere invisibili le stesse idee (Speusippo). Inoltre le richieste di fondamento e di determinazione, che pongono in
essere una relazione sempre tensiva ed aperta, includeranno e toccheranno con la propria necessitazione enti che non
possono essere isolati e fissati dall’occhio unico di una stabile considerazione (come invece: Dio, le intelligenza motrici
degli astri e tutte le sostanze sensibili sublunari); enti che non appaiono come necessitati (così dovrebbero invece
apparire per la stessa teoria delle idee), ovvero appaiono senza una connessione interna che ne stabilisca
prioritariamente l’unità e l’identità (la forma). In altre parole, la ricerca ideale impedirebbe la genesi delle unità interne
necessarie: ostacolerebbe la presenza delle forme. Le idee infatti tenderebbero a scomparire nell’abisso della profondità,
impedendo qualsiasi tipo di correlazione necessaria (la presenza, in piena evidenza, di una 'causa di movimento' e
'mutamento'). Rendendosi invisibili, non stabilirebbero (renderebbero stabile una volta per tutte) nemmeno alcuna
determinazione (alcun 'conoscere' ed 'essere' immodificabile). In tal modo non apparirebbe nemmeno alcuna
derivazione: senza un unico punto d’aggancio e connessione non si potrebbe realizzare alcuna adeguazione (come
vorrebbero sostenere i platonici), ma solamente una composizione che non si chiude e definisce mai.
La trascendenza dell’idea (Metafisica, I, 991b 1 – 992a 10) ne determinerebbe poi la separatezza e l’impossibilità
d’intervento nella costituzione delle cose. Solo una causa produttrice intermedia potrebbe risolvere il problema della
separatezza, introducendo se stessa ed i propri criteri, a compimento dell’azione di composizione richiesta: ma allora
essa basterebbe a ciò e sottrarrebbe la necessità del riferimento ulteriore. Questa medesima causa potrebbe poi operare,
generando il discreto, superando la difficoltà – insormontabile presso i platonici – di dover stabilire uno ed un solo
contatto fra la molteplicità delle idee e la molteplicità degli oggetti sensibili possibili: magari tramite il
proporzionamento di elementi preesistenti, funzionali alla composizione (termine della proporzione o 'materia'). Il
termine della proporzione ('materia') diventa così il fine realizzativo della composizione stessa, interno e primo rispetto
ad essa, senza l’indecidibilità posta in essere dalle unità atomiche che, se uguali sono incapaci di rendere la differenza,
se diverse sono impossibilitate ad offrire una benché minima unità singolare. L’unità singolare offerta invece dal
termine della proporzione è capace di sostituire l’indeterminatezza provocata dall’uso di entità astratte intermedie, da
doversi ulteriormente determinare. Provoca inoltre la caduta, la dichiarazione di superfluità ed il riconoscimento
dell’errore nell’uso di una materia prima astrattamente separata, che contenga e sia nel contempo prima, rispetto ad ogni
singolarità (il 'ricettacolo' platonico).
Il fine realizzativo proposto dal termine di proporzione permette inoltre il libero e spontaneo divaricarsi,
diversificarsi, degli enti esistenti e l’ampliarsi dei loro spazi vitali (eterogeneità), senza l’assegnazione di determinazioni
13
Osservazioni sul rapporto fra la Metafisica aristotelica e la posizione bruniana
continuamente a determinazione, in ragione della sua doppia infinitezza, estensiva ed
intensiva.23
Se l’atto puro aristotelico neutralizza ed impedisce il procedere della sensibilità
nell’ambito dell’immaginazione, lasciando a questa solamente il compito combinatorio o
distintivo del vero e del falso, la sensibilità bruniana precipita nell’abisso che costituisce la
stessa, infinita, apertura immaginativa. Tanto quanto il primo limita il contenuto della
sensibilità al determinatamente immaginato, altrettanto ed all’opposto la seconda fa
riemergere la fonte creativa attraverso il desiderio d’infinito. Tanto quanto il primo nega la
possibilità della variazione indotta dal desiderio che si riconosce e si fa infinito, altrettanto
ed all’opposto la seconda la riafferma come principio veramente ed effettivamente
universale, egualmente ed equanimemente distribuito. Tanto quanto il primo racchiude
l’operatività dell’azione all’interno del primato e del limite antropologico, altrettanto ed
all’opposto la seconda ne rammenta la comune, libera, naturale e spontanea, fruizione.
Tanto quanto il primo giustifica la restrizione progressiva e per fasi (economica, sociale,
politica) delle riduzioni apportate alla vita civile, altrettanto ed all’opposto la seconda
scioglie il compito e la pianificazione ideologica delle attività (individuali o collettive,
teoriche o pratiche) nell’aperta relazione con l’altro.
prevalenti, con funzioni egemoniche.
23
Giordano Bruno. De l’Infinito, Universo e mondi. (Ed. Aquilecchia) pagg. 351 – 352. Dall’Argomento del primo
dialogo: “La settima, dal proponere la raggione che distingue la potenza attiva da l'azioni diverse, e sciorre tale
argumento. Oltre, si mostra la potenza infinita intensiva- ed estensivamente più altamente che la comunità di teologi
abbia giamai fatto. La ottava, da onde si mostra che il moto di mondi infiniti non è da motore estrinseco ma da la
propria anima, e come con tutto ciò sia un motore infinito. La nona, da che si mostra come il moto infinito
intensivamente si verifica in ciascun de' mondi. Al che si deve aggiongere che da quel, che un mobile insieme insieme
si muove ed è mosso, séguita che si possa vedere in ogni punto del circolo che fa col proprio centro; ed altre volte
sciorremo questa obiezione, quando sarà lecito d'apportar la dottrina più diffusa.” L’obiezione aristotelica all’infinito
intensivo viene riportata alle pagg. 387 - 388: “Filoteo. Per venir, dunque, ad inferir quel che vogliamo, dico che, se nel
primo efficiente è potenza infinita, è ancora operazion da la quale depende l'universo di grandezza infinita e mondi di
numero infinito. Elpino. Quel che dite, contiene in sé gran persuasione, se non contiene la verità. Ma questo che mi par
molto verisimile, io lo affermarò per vero, se mi potrete risolvere di uno importantissimo argomento per il quale è stato
ridutto Aristotele a negar la divina potenza infinita intensivamente, benché la concedesse estensivamente. Dove la
raggione della negazione sua era che, essendo in Dio cosa medesima potenza e atto, possendo cossì movere
infinitamente, moverebbe infinitamente con vigore infinito; il che se fusse vero, verrebe il cielo mosso in istante;
perché, se il motor più forte muove più velocemente, il fortissimo muove velocissimamente, l'infinitamente forte muove
istantaneamente. La raggione della affirmazione era, che lui eternamente e regolatamente muove il primo mobile,
secondo quella raggione e misura con la quale il muove. Vedi dunque per che raggione li attribuisce infinità estensiva ma non infinità absoluta - ed intensivamente ancora. Per il che voglio conchiudere che, sicome la sua potenza motiva
infinita è contratta all'atto di moto secondo velocità finita, cossì la medesima potenza di far l'inmenso ed innumerabili è
limitata dalla sua voluntà al finito e numerabili. Quasi il medesimo vogliono alcuni teologi, i quali, oltre che concedeno
la infinità estensiva con la quale successivamente perpetua il moto dell'universo, richiedeno ancora la infinità intensiva
con la quale può far mondi innumerabili, muovere mondi innumerabili, e ciascuno di quelli e tutti quelli insieme
muovere in uno istante: tutta volta, cossì ha temprato con la sua voluntà la quantità della moltitudine di mondi
innumerabili, come la qualità del moto intensissimo. Dove, come questo moto, che procede pure da potenza infinita,
nulla obstante, è conosciuto finito, cossì facilmente il numero di corpi mondani potrà esser creduto determinato.”
14
Osservazioni sul rapporto fra la Metafisica aristotelica e la posizione bruniana
L’apertura cosmopolitica, l’accettazione di tutte le possibili diversità sociali, la
condivisione di tutte le possibili variazioni naturali qualificano e costruiscono poco a poco
la progressività delle aperture di libertà bruniane, che moltiplicano in serie successiva la
dimensione libertaria e solidaristica dell’infinito: dall’infinito storico, a due dimensioni,
all’infinito naturale, dotato di una dimensione aggiuntiva, più profonda. Così lasciar essere
l’opposizione attraverso l’ideale impedisce ogni chiusura e riduzione deterministica,
consentendo la libera ed aperta ricchezza offerta dalla molteplicità.
Senza l’ancoraggio ad un oggetto estrinseco, appena fuori portata, ma capace di condurre
una determinazione totale,24 la moltiplicazione infinita del soggetto bruniano apre gli apporti
24
Aristotele (Metafisica, I, 992a 10 – 993a 10) sembra condurre le proprie argomentazioni verso una conclusione
rappresentata dall’affermazione di un’idea universale di diversità oggettiva, che ha effetto sensibile, contro la riduzione
monolitica dell’Uno di tradizione platonica e l’annessa affermazione dell’univocità dell’essere. Bruno pare accettare
questa istanza di diversificazione, ma nel contempo (riutilizzando il concetto platonico della opposizione infinita) le
assegna una apertura illimitata ed una virtù creativa.
Il testo aristotelico vuole infatti ricordare la contestualizzazione operata dall’inserzione del concetto dell’opposizione
finita. L’intervento dell’opposizione (nelle definizioni di linea, superficie, corpo) si svolge ed esercita, proprio contro la
funzione totalitaria e regolante dell’elemento egemonico: la diversità di specie presente nella prima impedisce la
rettificazione e la riduzione (assorbimento) imposte dal secondo. Contro la geometrizzazione dei rapporti di
determinazione apparenti, che vuole ed impone una visione predefinita, dove un primo elemento costituisce tutta la
serie delle figure successive e può da queste essere relativamente separato, l’opposizione aristotelica introduce il
concetto di determinazione specifica. La determinazione specifica rende ragione dell’apparenza osservata attraverso la
combinazione di un sostrato generico e della negazione (propositiva) di tutte le altre differenze possibili, racchiuse in
esso, senza la loro replicazione astratta in un cielo immaginato. In questo modo si darà causa del venire ad essere delle
cose (essere divenuto o 'causa del movimento') e del loro determinarsi ('causa intesa').
La prima opposizione – quella all’interno della quale si susseguono tutte le altre – ovverosia l’esistere e l’avere
relazione, non si aprirà eccessivamente e senza limite, moltiplicando i rapporti di dipendenza all’infinito e disintegrando
la possibilità di una costituzione unitaria del soggetto; al contrario, il soggetto si costituisce unitariamente e non si
avviluppa su se stesso in una sorta di continua automoltiplicazione, ponendosi in ordine ad una determinazione
estrinseca. La determinazione estrinseca del soggetto supera la problematicità dell’opposizione platonica fra l’Uno-in-sé
e l’Unità apparente (l’infinità svaporante del soggetto) e risolve come superflua la connessa riduzione ad un unico
genere della totalità delle virtù determinative. La diversità resta predicata dei generi e delle virtù determinative.
Virtù determinative e generi così compongono gli oggetti in generale: fra questi, anche gli oggetti geometrici, che
altrimenti nell’impianto platonico non riuscirebbero a trovare collocazione. I generi e le virtù determinative non
possono però essere trattati alla stessa stregua di elementi primi racchiusi entro una determinazione univoca dell’essere,
in quanto in questo modo agirebbero come una semplice determinazione categoriale: questi generi e queste virtù sono e
restano diversi. Sono progressivamente acquisibili e non innati. In più: il risultato totale ed individuale della loro
applicazione potrebbe essere diverso dalla loro semplice somma od accostamento. Infine: il risultato totale ed
individuale della loro applicazione non potrebbe essere scisso e separato (esistente indipendentemente) dalla
sensazione, che ce ne offre visione e tangibilità (reale od immaginata che sia).
15
Osservazioni sul rapporto fra la Metafisica aristotelica e la posizione bruniana
determinativi verso ogni direzione. Lo spazio infinito che si offre fra l’Uno e l’Unità
apparente viene così riempito da una molteplicità che si raddoppia, inferiormente e
superiormente. Una doppia molteplicità, delle potenze naturali e delle virtù attuative, che
mantiene sempre aperto lo spontaneo e libero (parimenti eguale per la natura e l’umanità)
esercizio della creatività (ideale e reale).25
Solamente un’opposizione che sia viva e vitale senza soluzione di continuità, tale da
risultare infinita per il desiderio e l’apertura immaginativa universale, potrà far valere
l’immagine di quella doppia molteplicità. Se la categoria aristotelica del possesso sembra
voler istituire il dominio egemonico di un’azione che restringa ed includa a sé tutti gli effetti
dichiarati come possibili, impedendo la libera divaricazione dei fini e delle spontaneità
naturali,26 il rapporto per il quale, in Bruno, il desiderio si fa molteplicità impregiudicata
d’immagine toglie la riduzione egemonica. Per questo motivo speculativo la posizione
bruniana non può venire accostata a qualsiasi tipo di assolutismo e di uso strumentale della
religione, sia in ambito protestante che cattolico, essendone al contrario la critica più
profonda e radicale. Tanto, infatti, la riduzione egemonica fonda, permette, giustifica e
vuole sviluppare qualsiasi tipo di dogmatico settarismo e fanatismo religioso, altrettanto
l’infinita profondità dell’Uno bruniano ricorda l’elevatezza di quella sua immagine, che
25
Giordano Bruno, De gli Eroici furori. (Ed. Aquilecchia) pagg. 1006 – 1007: “Atteone significa l'intelletto intento
alla caccia della divina sapienza, all'apprension della beltà divina. Costui slaccia i mastini ed i veltri. De quai questi son
più veloci, quelli più forti. Perché l'operazion de l'intelletto precede l'operazion della voluntade; ma questa è più
vigorosa ed efficace che quella; atteso che a l'intelletto umano è più amabile che comprensibile la bontade e bellezza
divina, oltre che l'amore è quello che muove e spinge l'intelletto acciò che lo preceda, come lanterna. Alle selve, luoghi
inculti e solitarii, visitati e perlustrati da pochissimi, e però dove non son impresse l'orme de molti uomini. Il giovane
poco esperto e prattico, come quello di cui la vita è breve ed instabile il furore, nel dubio camino de l'incerta ed ancipite
raggione ed affetto designato nel carattere di Pitagora, dove si vede più spinoso, inculto e deserto il destro ed arduo
camino, e per dove costui slaccia i veltri e mastini appo la traccia di boscareccie fiere, che sono le specie intelligibili de'
concetti ideali; che sono occolte, perseguitate da pochi, visitate da rarissimi, e che non s'offreno a tutti quelli che le
cercano. Ecco tra l'acqui, cioè nel specchio de le similitudini, nell'opre dove riluce l'efficacia della bontade e splendor
divino: le quali opre vegnon significate per il suggetto de l'acqui superiori ed inferiori, che son sotto e sopra il
firmamento; vede il più bel busto e faccia, cioè potenza ed operazion esterna che veder si possa per abito ed atto di
contemplazione ed applicazion di mente mortal o divina, d'uomo o dio alcuno.”
26
Dopo aver ricordato le necessità di ravvisare la presenza di un’idea oggettiva di diversità, Aristotele sottolinea
(Metafisica, II, 993a 30 – 995a 20) quanto la congiunzione produttiva fra la molteplicità delle virtù determinative e la
molteplicità dei generi costituisca una sfera d’intervento globale per la vera realizzazione e manifestazione
dell’esistente. La sua ampiezza preclude una sua immediata e totale conoscenza, che perciò può svolgersi solamente per
via di mediazioni successive, tese a ricostituire l’intera struttura ed articolazione dell’ente attraverso la teoria delle
quattro cause. Le cause, a loro volta, si determinano e distinguono, accompagnando la distinzione dell’ente in
soprasensibile ed eterno e sensibile (eterno ed incorruttibile o corruttibile perché generabile). In questa visione organica
il termine origina e conclude lo sviluppo dei fenomeni e degli eventi successivi: perciò non esiste, né può esistere,
alcuna circolarità a livello materiale, né alcun processo all’infinito, nell’ambito di ciascuna singola determinazione. Il
numero dei termini non può poi estendersi innumerabilmente, a pena della caduta della comprensione. Il termine
realizzerà poi entità non separate (il bambino che diventa uomo), oppure separate e diverse (l’acqua e l’aria). Nel primo
caso il processo è irreversibile, nel secondo reversibile. Nel primo caso c’è una visibilità di gradi intermedi, che invece
manca nel secondo.
16
Osservazioni sul rapporto fra la Metafisica aristotelica e la posizione bruniana
consiste nell’infinita apertura: l’eguale ed amoroso rispetto delle libere individualità, umane
o naturali che siano.
Così, non il principio che il soggetto sia come un’impressione interna ad un unico corpo
(magari graduato),27 ma l’aspettativa che esso sia una specie di forza proiettiva ed
estrinsecante, può costituire per Bruno una valida prospettiva civile e morale. Così attenta al
valore delle 'opere'.
Se Aristotele concepisce l’Uno platonico come uno, sottraendogli ogni spazio ed agibilità
superiore (spazio ed agibilità garanti di ogni forza proiettiva, estrinsecante e diversificante),
così concedendogli una rappresentazione degradata nella molteplicità ordinata dei rapporti
univoci,28 Bruno al contrario si riappropria, sin dall’inizio del De l’Infinito, Universo e
mondi, di questo spazio e di questa agibilità. 29 Ciò gli è permesso dal pensiero infinito
dell’infinito: dalla considerazione che l’infinito si da ed è presente, ma in un duplice modo,
intensivo ed estensivo. Come desiderio ed immagine.
27
Secondo Aristotele (Metafisica, III, 995a 24 – 999a 23) la problematicità del rapporto fra essere ed apparire viene
rivelata da una doppia riduzione: quella effettuata dai filosofi naturalisti (materiali ed immanentisti) e quella operata dai
filosofi che sono conclusivamente confluiti nel platonismo (formalisti e trascendentisti). Solamente lo scontro fra le due
opposte posizioni potrà far rimanere in piedi ciò che di buono è compreso in entrambe, e mostrare una possibilità
ulteriore di rifusione, di sintesi dei loro apporti.
Tra separazione ed immanenza Aristotele indica (ed è l’ammaestramento implicito nella soluzione delle prime cinque
aporie) la possibile soluzione mediana rappresentata dalla 'distinzione': un essere 'prima', che si apre alla successiva
determinazione. Questo tipo di essere acconsente alla presenza congiunta delle quattro cause (finale, efficiente, formale
e materiale), permettendo così sia il presentarsi della posizione necessaria (non-contraddizione), che del contenuto della
sua identità (sostanza). Questo stesso tipo di essere poi congiunge in se stesso, attraverso l’opposizione di
determinazione (due i soggetti), sia l’idea primitiva della sostanza soprasensibile, che l’immagine successiva della
sostanza sensibile. Questo tipo di essere infine accoglie tutti gli attributi della sostanza nella sostanza, impedendone la
dispersione attraverso l’immagine univoca della perfezione. Convergenza e completezza degli attributi definiscono
ultimativamente la direzione degli enti perfetti (immobili e necessari) da quella degli enti imperfetti (mobili e non
necessari).
Questa divaricazione annulla e rende superflua la presenza contraddittoria dell’essere ideale platonico, nel contempo
separato ed inseparabile; annulla e rende superflua quindi anche la mediazione interposta dalle entità numeriche.
Aristotele dunque sembra assumere la bontà dell’istanza trascendente delle idee platoniche, ma ne blocca la tendenza a
scomparire, a rendersi invisibili, componendo la necessità tematica dell’oggetto. L’oggetto non è l’astratto,
immaginosamente costruito e verificato sulla base del sensibile.
Se vale la distinzione, così come è stata definita, allora il contenuto viene portato necessariamente, in un modo tale
per cui l’elemento materiale risulta definito dalla forma che lo contiene. In questo modo si risolve il duplice processo
all’infinito decretato dal genere: verso il termine primo (l’Essere e l’Uno platonici non sono il culmine di un processo di
rarefazione della determinazione che la annulli) e verso il termine ultimo (il comparire della determinazione non resta
sospeso, né essa viene discriminata arbitrariamente o senza limite, ma perviene all’individuo; in più, aggiungere delle
parti non fa comparire una determinazione nuova). La determinazione singolarizzante (sostanza) infatti impedisce il
ricorso ad una giustificazione che non può che essere astratta.
28
Aristotele (Metafisica, III, 999a 24 – 999b 24) osserva come la determinazione singolarizzante (sostanza)
impedisca il ricorso ad uno sfondo astratto, dal quale trarre giustificazione per la sovradeterminazione di ogni
particolare; nello stesso tempo offre l’aggancio ad un luogo comune, che unisce e fa convergere con coerenza tutte le
predicazioni, che in tal modo non risulteranno astratte ed arbitrarie. Questo luogo comune è la ragione decretata dalla
sapienza divina, l’insieme della forma e materia ingenerate ('sinolo'). Questo luogo comune è, soprattutto, inseparabile
da tutte le cose che costituisce: distinto e presente diversamente in ciascuna di esse.
29
Giordano Bruno. De l’Infinito, Universo e mondi. (Ed. Aquilecchia) pagg. 372 – 376. La necessità del cielo
aristotelico viene tramutata da Bruno in possibilità che non ha limite e perciò moltiplica i mondi.
17
Osservazioni sul rapporto fra la Metafisica aristotelica e la posizione bruniana
Desiderio ed immagine che non possono essere sradicati e separati, ma che non possono
non essere dati anche in un modo distinto: tale da permettere il loro rincorrersi reciproco.
Se Aristotele, dunque, predispone lo spazio preordinato di un’opposizione finita, che ha
nella neutralizzazione del supremo termine astratto tutta l’evidenza del positivo, Bruno,
come si diceva prima, mantiene infinita l’opposizione: essa precipita sempre nell’abisso del
desiderio, movendo la materia dell’immaginazione sempre a superare l’apparente stabilità. 30
Infatti, tanto la materia aristotelica è complessivamente stabile e non eccedente, 31 quanto la
materia bruniana gode invece dello slancio al proprio continuo autosuperamento, 32
all’apertura creativa della diversificazione. Tanto le sostanze aristoteliche restano preda di
un’unità immobile ed immodificabile (esse restano, senza differenza, all’interno dello
30
Aristotele riesce a formare (Metafisica, III, 999b 24 – 1001a 3) l’immagine di un’origine dispositrice ed
accogliente: un’unità capace di essere determinatamente produttiva e nello stesso tempo abile a rinserrare tra le proprie
fila la fecondità di ogni proprio gesto. Un’unità immediatamente universale. Capace di connettere in sé e contenere,
attraverso una limitazione interna che valga come opposizione, l’aspetto principiale e quello conclusivo. Un’unità che
quindi racchiude l’interezza del movimento (o marea) materiale.
31
Aristotele riesce a far sottintendere (Metafisica, III, 1001a 4 – 1003a 17) la prima definizione di materia,
determinandola come ciò che è apparentemente altro (molteplicità in sé). In questo modo egli la mantiene come atto
unitario, manifestando la possibilità della divisione (come distribuzione) all’interno dell’immagine di un’unica sostanza.
La possibilità della divisione che è distribuzione fonda l’estensione, che non abbisogna di alcuna costruzione astratta
per punti o superfici, numeri od altri enti puramente immaginati. Essa infatti costituisce la stabilità dell’immagine ed il
suo stare per sé ed in relazione ad altro.
Le idee platoniche entrano così nel novero degli enti astratti ed immaginati, protesi con la funzione dell’unità
fondamentale: le specie aristoteliche invece svolgono la funzione immediata e reale della differenziazione. Quest’ultima
funzione mantiene poi per sé una applicabilità universale, che garantisce sia l’atto del suo essere, che la potenza del suo
divenire.
Ora, nella previsione dell’affermazione della precedenza dell’atto sulla potenza (l’atto è su di essa prioritario), si deve
affermare che tutto ciò che è, può essere, e diviene necessariamente. Non è dunque vero che venga a determinazione ciò
che prima è indeterminato, in quanto quest’ultimo essere è solamente un attributo, una posizione della ragione costretta
dall’apparire e dalla valenza dell’empirico. Il principio ha invece priorità d’essere e non si distingue dalla sua
determinata applicazione.
32
Lo slancio della materia bruniana al proprio continuo autosuperamento è la radice oggettiva dell’eroico furore.
Giordano Bruno. De gli Eroici furori. (Ed. Aquilecchia) pagg. 978 - 981: “Ecco dunque, per venir al proposito, come
questo furor eroico, che si chiarisce nella presente parte, è differente dagli altri furori più bassi, non come virtù dal
vizio, ma come un vizio ch'è in un suggetto più divino o divinamente, da un vizio ch'è in un suggetto più ferino o
ferinamente: di maniera che la differenza è secondo gli suggetti e modi differenti, e non secondo la forma de l'esser
vizio. Cicada. Molto ben posso, da quel ch'avete detto, conchiudere la condizion di questo eroico furore che dice: gelate
ho spene, e li desir cuocenti; perché non è nella temperanza della mediocrità, ma nell'eccesso delle contrarietadi; ha
l'anima discordevole, se triema nelle gelate speranze, arde negli cuocenti desiri; è per l'avidità stridolo, mutolo per il
timore; sfavilla dal core per cura d'altrui, e per compassion di sé versa lacrime da gli occhi; muore ne l'altrui risa, vive
ne' proprii lamenti; e (come colui che non è più suo) altri ama, odia se stesso: perché la materia, come dicono gli fisici,
con quella misura ch'ama la forma absente, odia la presente.” Ed, ancora: “Tansillo. Allora è in stato di virtude, quando
si tiene al mezzo, declinando da l'uno e l'altro contrario: ma quando tende a gli estremi, inchinando a l'uno e l'altro di
quelli, tanto gli manca de esser virtude, che è doppio vizio; il qual consiste in questo, che la cosa recede dalla sua
natura, la perfezion della quale consiste nell'unità; e là dove convegnono gli contrarii, consta la composizione e consiste
la virtude. Ecco dunque come è morto vivente, o vivo moriente; là onde dice: In viva morte morta vita vivo. Non è
morto, perché vive ne l'oggetto; non è vivo, perché è morto in se stesso; privo di morte, perché parturisce pensieri in
quello; privo di vita, perché non vegeta o sente in se medesimo. Appresso, è bassissimo per la considerazion de l'alto
intelligibile e la compresa imbecillità della potenza. È altissimo per l'aspirazione dell'eroico desio che trapassa di gran
lunga gli suoi termini; ed è altissimo per l'appetito intellettuale, che non ha modo e fine di gionger numero a numero; è
bassissimo per la violenza fattagli dal contrario sensuale che verso l'inferno impiomba. Onde trovandosi talmente
poggiar e descendere, sente ne l'alma il più gran dissidio che sentir si possa; e confuso rimane per la ribellion del senso,
che lo sprona là d'onde la raggion l'affrena, e per il contrario.”
18
Osservazioni sul rapporto fra la Metafisica aristotelica e la posizione bruniana
spazio della neutralizzazione dell’Uno), quanto gli enti creati bruniani sono invece capaci di
distinguere tra la propria comune appartenenza all’infinito e le proprie libere finalità. Con
ciò riproponendo la sempre problematica consapevolezza del rapporto fra l’amore
fondamentale e l’eguaglianza che ne vuole essere l’espressione.
Se, poi, la predeterminazione assoluta di cui gode la forma presso Aristotele si
accompagna con l’affermazione dell’impossibilità di un’attività autonoma della materia, 33
l’attività della materia bruniana invece scioglie quella predeterminazione nel libero (aperto e
diversificato) movimento del desiderio, senza scordare quell’abissale profondità
dell’immagine che lo sorregge e lo conduce al ricordo ed alla pratica (opera) dell’unità
(naturale ed umana). Qui sta la radice del rifiuto che Bruno rivolge alle fonti agostiniane del
movimento riformato ed al loro atteggiamento di negazione di fronte a quello che esse
33
La priorità d’essere del principio e la sua universale applicazione costituiscono la negazione di qualsiasi apertura
dialettica, che distingua fra l’invisibilità dell’Uno e la molteplicità della sua apparenza e ne opponga continuamente
l’origine ed i risultati. La trasformazione operata da Aristotele (Metafisica, IV, 1003a 20 – 1012b 31) dell’Uno-in-sé in
Essere totalmente apparente e presente costituisce la visibilità del principio come molteplicità coesa e coerente di
determinazioni (‘significati’), con una medesima materia ed una medesima forma interna (un ordine ed un
ordinamento). La risoluzione, alla conclusione del Libro III, dell’aporia relativa all’universalità od individualità
particolare del principio sembra condurre Aristotele verso la protoaffermazione di un’identità universale radicale,
capace di costituire in profondità la base e la giustificazione per l’affermazione unitaria di ogni essere distinguibile.
Questa base e giustificazione è l’unità formale della sostanzialità, capace di contenere in sé tutta la materia
immaginabile, nell’eguaglianza o nella diversità.
Il fatto che l’identità universale radicale sia stabilita attraverso l’unificazione della potenza ad un atto prioritario,
consente poi la distinzione dell’evento della sostanzialità in una sua parte prima e precedente ed in una sua parte
seconda, successiva ed accedente, non scissa e separata (autonoma) rispetto alla prima.
L’estensione universale dell’identità radicale è, poi, la sua dimostrazione. Essa recita la propria ineludibile
applicazione, affermando – nella molteplicità e per l’unità - che “è impossibile che uno stesso attributo appartenga e non
appartenga, ad un tempo, alla stessa cosa.” Senza l’unità dei conoscenti, nemmeno la diversa collocazione dei
conosciuti potrà trovare evidenza e giustificazione: e l’unità dei conoscenti sta nella posizione, interna al dire, della
determinazione oggettiva.
Il relativismo protagoreo invece non ammette la determinazione oggettiva. Per esso l’oggetto si divide e frantuma, si
moltiplica, per tante volte quanti sono i soggetti conoscenti: l’oggetto, con il suo contenuto di realtà e verità, non è più
esterno e vincolante ma interno e prodotto dai condizionamenti consapevoli od inconsapevoli dell’individuo.
L’immagine decretata a rappresentare l’oggetto diventa così variabile, indipendentemente dall’oggetto stesso: e diventa
variabile a tal punto che lo stesso soggetto può credere in buona fede – tenendo per vera la sensazione - in due versioni
opposte della medesima realtà. La determinazione oggettiva aristotelica invece propone la più salda e stretta identità fra
l’oggetto ed il soggetto giudicante, tramite la necessità che si impone per autoevidenza. Il relativismo protagoreo invece
finisce per distruggere se stesso, non potendo ancorare le proprie istanze critiche ad alcun tema obiettivo. Il relativo si
moltiplica sino al dissolvimento della sua stessa istanza indicativa, che a sua volta diviene astratta, invertendo lo stesso
fondarsi della dipendenza, dal soggetto pensante all’oggetto pensato (che lo determina).
Secondo Aristotele solamente un medio che unisca e confonda i 'contrari', senza distinguerli e separarli (opponendoli
ed ordinandoli), può far valere la contraddittorietà dell’Essere. Il medio aristotelico invece esclude la formazione di un
ente sospeso, capace di riproporre una opposizione che non ha alcuna soluzione di continuità (cfr. il sensibilismo
empedocleo e la mescolanza anassagorea). Il medio aristotelico viene invece costruito affinché l’opposizione dei
'contrari', emergente e svolgentesi nel mondo della generazione e corruzione, possa trovare stabile e corretta
collocazione, in ordine ad un’unità immobile dotata della virtù della precedenza: un’unità che sappia far sua la
caratteristica bifronte della causalità motrice e della finalità, risolvendo in tal modo la caotica mobilità dell’essere
sensibile, che così trova determinazione distinta e giustificazione. È per questa ragione che il medio aristotelico dissolve
l’intermedio (tertium non dabitur): separando ed ordinando i 'contrari' – primo l’atto agente, seconda ed ordinata la
potenza passiva – il medio aristotelico ripristina la discrezione (negata sia dal tutto positivo eracliteo, che da quello
negativo anassagoreo). Con ciò esso fornisce sia movimento che ordine, ricorda sia la variazione che l’immobile
terminazione.
19
Osservazioni sul rapporto fra la Metafisica aristotelica e la posizione bruniana
considerano lo spirito diabolico del mondo. Bruno, al contrario, ricorda che come una è la
materia, l’anima e l’intelletto,34 uno è anche lo spirito, che perciò gode (e fa godere) di
un’universalità non separata e non separabile (inalienabile). Un’universalità che dunque non
può essere soggetta a forma.35
Se la tradizione cristiana è stata capace di assumere la diversità aristotelica di genere fra
incorruttibile e corruttibile, distinguendo fra lo spazio di libertà dell’agente massimo e
supremo (lo spazio della generazione delle forme) e lo spazio totalitario della materia
soggetta (la materia sensibile in quanto organicamente impressa), la critica bruniana si
esercita proprio nel tentativo di rompere questa separazione e risaldarne i termini opposti.
Con l’affermazione dell’infinito in atto Bruno toglie quello spazio che era stato scavato per
Dio e rimette in libero movimento la materia, nel suo profondo desiderio di perfezione e nel
suo abissale sorgere come immagine inesauribile.36
34
Giordano Bruno. De la Causa, Principio e Uno. (Ed. Aquilecchia) pagg. 272 – 273: “Teofilo. Questo vuole il
Nolano, che è uno intelletto che dà l'essere a ogni cosa, chiamato da' pitagorici e il Timeo datore de le forme; una anima
e principio formale, che si fa e informa ogni cosa, chiamata da' medesmi fonte de le forme; una materia, della quale vien
fatta e formata ogni cosa, chiamata da tutti ricetto de le forme.”
35
Giordano Bruno. De la Causa, Principio e Uno. (Ed. Aquilecchia) pagg. 252 – 253: “Teofilo. Io non saprei
rispondere al tuo dubio, Gervasio, ma bene a quello di mastro Poliinnio. Pure dirò con una similitudine, per satisfar alla
dimanda di ambidoi, perché voglio che voi ancora riportiate qualche frutto di nostri raggionamenti e discorsi. Dovete
dunque saper brevemente che l'anima del mondo e la divinità non sono tutti presenti per tutto e per ogni parte, in modo
con cui qualche cosa materiale possa esservi, perché questo è impossibile a qualsivoglia corpo e qualsivoglia spirto; ma
con un modo, il quale non è facile a displicarvelo altrimente se non con questo. Dovete avvertire che, se l'anima del
mondo e forma universale se dicono essere per tutto, non s'intende corporalmente e dimensionalmente, perché tali non
sono, e cossì non possono essere in parte alcuna; ma sono tutti per tutto spiritualmente. Come, per esempio, anco rozzo,
potreste imaginarvi una voce, la quale è tutta in tutta una stanza e in ogni parte di quella, perché da per tutto se intende
tutta; come queste paroli ch'io dico, sono intese tutte da tutti, anco se fussero mille presenti; e la mia voce, si potesse
giongere a tutto il mondo, sarebe tutta per tutto. Dico dunque a voi, mastro Poliinnio, che l'anima non è individua, come
il punto; ma, in certo modo, come la voce. E rispondo a te, Gervasio, che la divinità non è per tutto, come il Dio di
Grandazzo è in tutta la sua cappella; perché quello, benché sia in tutta la chiesa, non è però tutto in tutta, ma ha il capo
in una parte, li piedi in un'altra, le braccia e il busto in altre ed altre parti. Ma quella è tutta in qualsivoglia parte, come
la mia voce è udita tutta da tutte le parti di questa sala.”
36
Giordano Bruno, De gli Eroici furori. (Ed. Aquilecchia) pagg. 1025 – 1029. Per l’Universale: “Tansillo. Intendi
bene. Da qua devi apprendere quella dottrina che comunmente, tolta da' pitagorici e platonici vuole che l'anima fa gli
doi progressi d'ascenso e descenso per la cura ch'ha di sé e de la materia; per quel ch'è mossa dal proprio appetito del
bene, e per quel ch'è spinta da la providenza del fato. Cicada. Ma di grazia, dimmi brevemente quel che intendi de
l'anima del mondo, se ella ancora non può ascendere né descendere? Tansillo. Se tu dimandi del mondo secondo la
volgar significazione, cioè in quanto significa l'universo, dico che quello, per essere infinito e senza dimensione o
misura, viene a essere inmobile ed inanimato ed informe, quantunque sia luogo de mondi infiniti mobili in esso, ed
abbia spacio infinito, dove son tanti animali grandi, che son chiamati astri. Se dimandi secondo la significazione che
tiene appresso gli veri filosofi, cioè in quanto significa ogni globo, ogni astro, come è questa terra, il corpo del sole,
luna ed altri, dico che tal anima non ascende né descende, ma si volta in circolo. Cossì essendo composta de potenze
superiori ed inferiori, con le superiori versa circa la divinitade, con l'inferiori circa la mole la qual vien da essa vivificata
e mantenuta intra gli tropici della generazione e corrozione de le cose viventi in essi mondi, servando la propria vita
eternamente: perché l'atto della divina providenza sempre con misura ed ordine medesimo, con divino calore e lume le
conserva nell'ordinario e medesimo essere. Cicada. Mi basta aver udito questo a tal proposito.” Per l’altezza dell’amore:
“Tansillo. Bene. Or per venire al proposito, da furor animale questa anima descritta è promossa a furor eroico, se la
dice: Quando averrà ch'a l'alto oggetto mi sulleve, ed ivi dimore in compagnia del mio core e miei e suoi pulcini?
Questo medesimo proposito continova quando dice: Destin, quando sarà ch'io monte monte, / Qual per bearm'a l'alte
porte porte, / Che fan quelle bellezze conte, conte, / E 'l tenace dolor conforte forte // Chi fe' le membra me disgionte,
gionte, / Né lascia mie potenze smorte morte? / Mio spirto più ch'il suo rivale vale; / S'ove l'error non più l'assale,
sale. // Se dove attende, tende, / E là 've l'alto oggett'ascende, ascende: / E se quel ben ch'un sol comprende, prende, //
20
Osservazioni sul rapporto fra la Metafisica aristotelica e la posizione bruniana
Il Dio scavato è il dio aristotelicamente inteso come l’agente capace di concentrare il
possesso di tutte le singolarità in un luogo separato ed opposto a qualsiasi partecipazione
totale;37 la congiunzione dell’infinitezza del desiderio con l’inesauribilità dell’immagine
rende invece brunianamente presente una partecipazione assoluta e senza residui, nella
consapevolezza della infinità stessa della creatività universale.
Questa infinità chiede l’apertura, tanto quanto quella concezione invece ne impone
l’annullamento e la riduzione attraverso una sorta di vortice e di risucchio di tutte le libere
Per cui convien che tante emende mende, / Esser falice lice, / Come chi sol tutto predice dice. O destino, o fato, o
divina inmutabile providenza, quando sarà, ch'io monte a quel monte, cioè ch'io vegna a tanta altezza di mente, che mi
faccia toccar transportandomi quegli alti aditi e penetrali, che mi fanno evidenti e come comprese e numerate quelle
conte, cioè rare bellezze? Quando sarà, che forte ed efficacemente conforte il mio dolore (sciogliendomi da gli
strettissimi lacci de le cure, nelle quali mi trovo) colui che fe' gionte ed unite le mie membra, ch'erano disunite e
sgionte: cioè l'amore che ha unito insieme queste corporee parti, ch'erano divise quanto un contrario è diviso da l'altro, e
che ancora queste potenze intellettuali, quali ne gli atti suoi son smorte, non le lascia a fatto morte, facendole alquanto
respirando aspirar in alto? Quando, dico, mi confortarà a pieno, donando a queste libero ed ispedito il volo, per cui
possa la mia sustanza tutta annidarsi là dove, forzandomi, convien ch'io emende tutte le mende mie? dove pervenendo il
mio spirito, vale più ch'il rivale; perché non v'è oltraggio che li resista, non è contrarietà ch'il vinca, non v'è error che
l'assaglia. Oh se tende ed arriva là dove forzandosi attende; ed ascende e perviene a quell'altezza, dove ascende, vuol
star montato, alto ed elevato il suo oggetto; se fia che prenda quel bene che non può esser compreso da altro che da uno,
cioè da se stesso (atteso che ogni altro l'ave in misura della propria capacità; e quel solo in tutta pienezza): allora
avverrammi l'esser felice in quel modo che dice chi tutto predice, cioè dice quella altezza nella quale il dire tutto e far
tutto è la medesima cosa; in quel modo che dice o fa chi tutto predice, cioè chi è de tutte cose efficiente e principio, di
cui il dir e preordinare è il vero fare e principiare. Ecco come per la scala de cose superiori ed inferiori procede l'affetto
de l'amore, come l'intelletto o sentimento procede da questi oggetti intelligibili o conoscibili a quelli; o da quelli a
questi. Cicada. Cossì vogliono la più gran parte de sapienti la natura compiacersi in questa vicissitudinale circolazione
che si vede ne la vertigine de la sua ruota.”
37
Aristotele sostiene (Metafisica, VI, 1025b 3 – 1028a 6) che l’essere generale, che si pone da sé, si distingue dagli
esseri che partecipano e si sostanziano dell’attività di posizione sensibile od astratta. Tanto quello esiste ed è reale,
quanto questi dubitano che l’esistenza dichiarata sia identica alla realtà, distinguendo con ciò fra la seconda e la prima.
Nella preferenza delle scienze teoretiche su quelle pratiche e poetiche (le seconde dispongono obiettivi desiderati o
permettono l’arbitrarietà della creazione), la scienza fisica si rivolge agli enti per i quali la forma non si separa dalla
materia ed il fine del movimento (principio) non è distaccato; la scienza matematica si rivolge invece a quegli enti che
vengono astratti dalla sensibilità e considerati come immobili; la filosofia prima (teologia) considera gli enti immobili
ed, in più, separati. Gli enti immobili e separati costituiscono la manifestazione del divino nella sua eternità
(padroneggeranno una materia diversa, costituendo una perfezione attraverso il loro principio intellettuale) e così
rappresentano la realtà che a maggior titolo può assumere la dignità di quell’universale che Platone assegnava alla
molteplicità ideale.
Dato l’essere in generale, con i suoi modi di comparire e le sue partizioni (l’essere accidentale, l’essere come vero ed
il non essere come falso, l’essere delle categorie, l’essere come potenza ed atto), Aristotele comincia la trattazione
dell’essere accidentale.
L’essere accidentale non ha la forza degli altri gradi dell’essere. Esso non diviene, ma sembra restare applicato e
fissato ad un determinato essere senza possedere né le caratteristiche della necessità (per cui possa essere incluso
nell’oggetto come sua determinazione propria), né quelle della frequenza massima o maggiore (per le quali possa essere
relativamente stabilizzato): sembra invece possedere la superficialità e l’ininfluenza dell’attributo che può essere tolto
senza intaccare la sostanza dell’oggetto considerato. Variabile arbitrariamente, esso non può essere fissato ad alcuno
schema definitorio che sussista in anticipo o che sia relativamente stabile. L’essere accidentale esiste e viene posto, poi,
accidentalmente: non sussiste alcuna relazione che lo disponga necessariamente o con relativa certezza. In questo senso
l’essere accidentale è imprevedibile. Poste però determinate condizioni e svolte con un determinato processo, l’essere
accidentale si realizzerà senza errore.
Dopo l’essere accidentale Aristotele procede alla trattazione dell’essere come vero e del non essere come falso:
l’adeguazione dell’affermazione, che unisce (od allontana, negando) il predicato al soggetto, alla realtà costituisce il
fondamento dell’immagine di verità dell’espressione; all’opposto, la negazione di questa adeguazione costruisce
un’illusione totalmente infondata. Immagine di verità ed illusione stanno come termini dell’operatività della mente
umana, senza possedere una realtà oggettiva e separata (esistente indipendentemente).
21
Osservazioni sul rapporto fra la Metafisica aristotelica e la posizione bruniana
potenzialità in un clivo dominante e graduato. 38 La negazione aristotelica dell’infinito
sembra infatti concentrarsi nella affermazione prioritaria e fondamentale della irreversibilità
della temporalità: il divenire e l’attuazione secondo la dimensione della finitezza
impediscono la genesi di un’entità capace di contenere in sé, in un unico plesso, la tensione
al superamento, il movimento e la genesi ideale. Un’entità universale dotata di una plasticità
interna, capace di contenere in sé tutti i semi delle cose e tutte le possibilità delle ulteriori
diversificazioni creative (la materia ideale bruniana).39
38
Aristotele rileva (Metafisica, VII, 1028a 10 – 1032a 11) come l’essere della sostanza fondi l’applicabilità di tutte le
altre categorie (qualità, quantità, relazione …): esso si presenta con una precedenza reale, mentale e temporale. L’essere
della sostanza può così accogliere in sé l’intero problema dell’essere. Poi Aristotele si domanda se l’essere della
sostanza si limiti all’essere sensibile (i corpi con i loro elementi), o non sussistano invece anche delle sostanze non
sensibili ed eterne. Aristotele distingue quindi fra i diversi significati che possono essere attribuiti al temine di sostanza:
la sostanza può essere intesa come essenza, universale, genere e sostrato.
Sostrato è il riferimento investito dalla generalità delle predicazioni. Questo sembra costituire un luogo che ha come
estremi, da un lato la materia, dall’altro la forma, ed all’interno la composizione ottenuta in virtù d’entrambe, per il loro
incontro (il 'sinolo'). L’immagine che rappresenta il sostrato gode della proprietà di partecipare dell’idea di sostanza,
che dunque non è esaurita da quella: essa infatti deve poter essere separata e godere di una priorità di posizione. La
forma ed il composto acquisiscono così quella posizione dominante che li avvicina maggiormente alla predetta idea.
La forma o essenza è, poi, ciò che distingue ciascuna cosa dalle altre, reciprocamente. Essa esprime completamente
l’essere della cosa intesa, senza presupporlo. Ma l’espressione più completa dell’essere di una cosa è il suo essere
individuale (la specie o la differenza ultima del genere). Se l’essere della categoria della sostanza si esprime
immediatamente nell’individuale, l’essere delle altre categorie dispone comunque una certa unità, che non è quella
puramente verbale e linguistica.
Il risultato della composizione delle categorie (giudizio) impone l’aggiunta di una relazione che viene richiesta per far
stare l’atto di identità posto dall’unità dell’oggetto declinato ('naso camuso'). La declinazione effettiva può poi essere
legittimata dall’appartenenza del predicato al contesto generico nel quale risulta inserito.
L’identità della cosa è la singolarità declinabile, nell’essere che porta tutti i suoi attributi in modo necessario
(escludendo le classificazioni diverse). L’effetto declinato può però essere distinto ed applicato esternamente (anche se
non a pari titolo), nel caso dell’essere accidentale. Così l’indivisibilità dell’essere-per-sé platonico viene trascinata giù
nelle individualità distinte aristoteliche; l’unità del mondo ideale platonico diventa la convergenza di tutti gli attributi
possibili nell’oggetto considerato. Convergenza che toglie ogni discrepanza nella determinazione.
39
Giordano Bruno. De umbris idearum, (Ed. Sturlese) pagg. 33 – 34: “INTENTIO XII. M. Verum Anaxagoricum
chaos est sine ordine varietas. Sicut igitur in ipsa rerum variegate admirabilem concernimus ordinem, qui
supraemorum cum infimis, et infimorum cum supremis connexionem facies, in pulcherrimam unius magni animalis –
quale est mundus – faciem universas facit conspirare partes, cum tantum ordinem tanta diversitas, et tantam
diversitatem tantus ordo requirat – nullus enim ordo ubi nulla diversitas extat, reperitur - , unde primum principium
nec ordinatum, nec in ordine licet intelligere.” Pagg. 59 – 60: “CONCEPTUS XVII. Sicut ideae sunt formae rerum
principales, secundum quas formatur omne quod oritur et interit, et non solum habent respectum ad id quod generatur
et corrumpitur, sed etiam ad id quod generari et interire potest, ita tunc verum est nos in nobis idearum umbras
efformasse, quando talem admittunt facultatem et contrectabilitatem, ut sint ad omnes formationes possibiles,
adaptabiles. Nos similitudine quadam formavimus eas, quae consistunt in revolutione rotarum. Tu si aliam potes
tentare viam tenta.” De la Causa, Principio e Uno. (Ed. Aquilecchia) pagg. 300 – 301: “Teofilo. Plotino ancora dice nel
libro De la materia, che, <<se nel mondo intelligibile è moltitudine e pluralità di specie, è necessario che vi sia qualche
cosa comune, oltre la proprietà e differenza di ciascuna di quelle: quello che è comune, tien luogo di materia, quello che
è proprio e fa distinzione, tien luogo di forma>>. Gionge che, <<se questo è a imitazion di quello, la composizion di
questo è a imitazion della composizion di quello. Oltre, quel mondo, se non ha diversità, non ha ordine; se non ha
ordine, non ha bellezza e ornamento; tutto questo è circa la materia>>. Per il che il mondo superiore non solamente
deve esser stimato per tutto indivisibile, ma anco per alcune sue condizioni divisibile e distinto: la cui divisione e
distinzione non può esser capita senza qualche soggetta materia. E benché dichi che tutta quella moltitudine conviene in
uno ente impartibile e fuor di qualsivoglia dimensione, quello dirò essere la materia, nel quale si uniscono tante forme.
Quello, prima che sia conceputo per vario e multiforme, era in concetto uniforme, e prima che in concetto formato, era
in quello informe.” Pag. 304: “Quella materia per esser attualmente tutto quello che può essere, ha tutte le misure, ha
tutte le specie di figure e di dimensioni; e perché le ave tutte, non ne ha nessuna, perché quello che è tante cose diverse,
bisogna che non sia alcuna di quelle particolari. Conviene a quello che è tutto, che escluda ogni essere particolare.”
22
Osservazioni sul rapporto fra la Metafisica aristotelica e la posizione bruniana
La materia aristotelica sembra invece non seguire questa dinamicità pulsionale, aperta e
creativa, per concentrarsi invece sulla capacità e sulla potenza della distinzione e
discrezione delle sostanze e dei luoghi, così generando una generale disposizione
geometrica, che ha quali elementi primi i soggetti, come attributi le affezioni, essendo
invece l’accrescimento (o la diminuzione) e l’alterazione i segni e le prove del divenire
temporale. Divenire che si esprime all’interno del limite costituito dai termini opposti
dell’inizio e del fine, propri dei procedimenti esistenziali.40
40
Aristotele prosegue nella sua trattazione dei diversi significati dell’essere (Metafisica, VII, 1032a 12 – 1038a 35)
osservando che, se l’essenza instaura l’immagine univoca della definizione, allo stesso modo può intervenire per fissare
la materia, l’agente ed il fine della generazione (generazione naturale, produzione artistica o casuale). Nella generazione
naturale l’essenza della forma producente è la stessa di quella poi prodotta, nella produzione artistica sussiste
un’immagine dell’essenza nella mente dell’artefice, nella produzione spontanea la risoluzione si attua senza
intermediazione. La determinazione è comunque virtù della forma, che muove a sé la materia.
Aristotele poi rileva che tutto ciò che diviene, diviene tra i due termini della forma e della materia, che sono
imprescindibili e non possono essere soggetti a mutamento, a variazione e dunque generazione. Questi due termini
possono essere congiunti dall’agente a costituire il 'sinolo'. Se, allora, la forma è ingenerabile, la materia è incorruttibile
(non può venir mai meno).
Inoltre, la forma non può essere separata e determinata, o dichiarerebbe la superfluità dell’essere concreto sensibile.
Essa invece è non-separata e congiunta (al contrario le idee platoniche sono inerti astrazioni universali): viene presa e
messa in movimento di costituzione dalla causa efficiente. Il movimento di costituzione della medesima specie si
diversifica poi non per effetto della forma, ma per intervento della possibilità di variazione offerta dalla materia.
Materia che può essere immobile di per sé oppure mobile, ma che viene comunque traguardata nei suoi movimenti dalla
precedenza e dalla priorità di una forma, sia nel caso delle produzioni artistiche, sia in quello delle generazioni naturali.
La nozione di forma viene poi modulata da Aristotele secondo la caratteristica per la quale la parte materiale del
'sinolo' appare inclusa nel tutto stesso, mentre la parte del tutto formale può essere distinta e restare come tale al di sopra
della presenza materiale dell’essere considerato. La presenza materiale dell’essere considerato viene riconosciuta per
effetto dell’intuizione e della percezione sensibile, non dell’intelletto, che coglie la necessità di ciò che viene posto. La
superiorità delle parti della forma rispetto alla sua presenza materiale viene poi resa identica alla loro antecedenza,
mentre la precedenza della forma nella sua interezza (totalità) sulla materia assicura circa il fatto della successività delle
parti materiali; gli elementi costitutivi del composto ('sinolo') possono invece solo essere distinti da questo, ma non
separati.
Se negli enti sensibili la materia non può essere totalmente separata da ciò che si pensa costituisca forma, la forma
stessa degli esseri sensibili manterrà un luogo ed una caratteristica fondamentale di indeterminatezza (il movimento e la
presenza irriducibile delle parti materiali). Nell’uomo questo movimento ha origine dall’anima, mentre le parti materiali
si identificano con l’insieme degli organi.
Se negli enti sensibili la forma non è disgiunta dalla materia, parallelamente ed a livello conoscitivo, la specie non è
disgiunta dal genere: ogni determinazione successiva che si appoggia alla precedente è dentro sin dall’inizio entro un
orizzonte predeterminato, che non permette alcun salto e variazione verso possibilità equipotenziali (a latere). Il
processo determinativo procede dunque in maniera unilineare e discendente sino alla differenza ultima.
23
Osservazioni sul rapporto fra la Metafisica aristotelica e la posizione bruniana
Questa geometricità41 della materia aristotelica favorisce l’impianto successivo
dell’immagine della radice immobile del movimento (la causa o motore immobile) ed il
riflesso della sostanza soprasensibile. Questo impianto trova le sue prime operazioni nella
disposizione di uno spazio immaginato, che attraverso la separatezza rende una priorità,
all’interno della quale il divino stesso possa apparire quale causa e ragione ordinante, in
atto.42
Giordano Bruno invece sembra – soprattutto nella serie dei dialoghi De gli Eroici furori –
voler mantenere una possibilità che lasci aperta illimitatamente la propria espressione e
41
Aristotele ricorda (Metafisica, VII, 1038b 1 – 1041b 33) che la sostanza è indivisibile (impartecipabile). Mentre
dunque essa rimane impredicabile di altro, l’universale si distribuisce equanimemente ad una molteplicità, senza
distinzione. Mentre la prima vale come entità immobile (separata), il secondo si presenta con il valore e la funzione
dell’attributo (inseparato rispetto a ciò di cui è attributo). Nello stesso tempo l’universale (platonico: l’idea) vuole avere
sia una sussistenza separata che una ben determinata applicazione: ma l’applicazione, se l’idea rimane separata
distruggerà l’idea stessa fra un astratto ed una molteplicità disintegrata, priva di identità reale. Questa identità reale
resterà infatti o completamente indistinta, o all’opposto, si disperderà nei rivoli di una precisazione che tenderà a far
valere un numero sempre maggiore di elementi comuni. Questi infine, fusi insieme, renderanno superflua nella loro
posizione la distinzione fra l’in-sé e la cosa.
Sorpassando l’inutile raddoppiamento di determinatezze in lotta fra loro dell’idea e dell’essere concreto e
determinato, l’individuazione permessa dalla sostanza aristotelica si arresta al limite di indeterminazione offerto dalla
materia, che impedisce la deduzione del concreto da un termine astratto universale. L’individuazione che vuole invece
utilizzare lo strumento dell’idea platonica non è destinata a realizzarsi, dal momento che la distinzione operata per sua
virtù non si arresta, ma prosegue infinitamente, con una diversificazione infinita di elementi base comunicabili e
partecipabili.
La sostanza aristotelica non può identificarsi con le parti materiali degli esseri (atomi), né con quell’universale
astratto e comunemente predicabile che è, insieme, l’Essere e l’Uno dei platonici. La sostanza aristotelica mantiene per
se stessa la caratteristica fondamentale della distinzione, evitando l’inutile raddoppiamento costituito dall’essere ideale
platonico. La sostanza aristotelica è piuttosto la forma, in quanto permette la costituzione dell’intero dell’essere
determinato, includendone e giustificandone tutte le parti.
42
Per preparare l’affermazione della priorità dell’atto sulla potenza Aristotele ne dispone prima (Metafisica, VIII,
1042a 3 – 1046b 23) la loro distinzione immediata. Innanzitutto lo Stagirita osserva come la materia possa essere
definita quale potenzialità; potenzialità che non può sussistere senza il principio che la realizza: la forma. In questo
modo la forma è un principio che deve sussistere già in atto per realizzare la potenzialità materiale.
La forma, per la primalità dell’atto, si distingue dal composto. Essa non può coincidere con l’insieme delle parti
materiali: nello stesso tempo non può dirsi totalmente separata dalla materia (come invece intendono fare i platonici con
le idee). Essa è una convergenza unitaria precisa (non un’aperta molteplicità) dove ogni elemento è proprio.
Se la materia antecedente alla formazione (materia prima) è comune indeterminatezza, l’intervento della formazione
(causa efficiente) trasforma questa indeterminatezza comune in diversità, in pluralità separabile di sostanze (con diverse
materie prossime).
Gli enti che non sono generati (come gli enti geometrici, l’indicazione razionale delle sostanze, le categorie) non
hanno materia. Gli enti che sono generati hanno invece materia, che può essere positivamente la forma e negativamente
la sua privazione. Il positivo è dato dalla generazione che opera direttamente attraverso, appunto, la forma; il negativo è
dato, invece, dalla corruzione che opera tramite l’intervento di un’altra forma sulla materia, che è ridiventata prima nel
momento di un nuovo intervento.
Il processo di determinazione, che origina dal genere e si realizza nella differenza specifica ha come potenza (e
materia) il genere e come atto (e forma) la differenza specifica. Esso ha come causa una causa efficiente, che lega
immediatamente l’una all’altro, stabilendo un’unità dinamica.
Dopo la disposizione della distinzione immediata fra atto e potenza, Aristotele comincia (Metafisica, IX, 1045b 27 –
1052a 11) l’analisi dei concetti di potenza ed atto e delle loro reciproche relazioni. L’essere come potenza si identifica
con il principio d’azione (mutamento), ed interessa il soggetto alla mutazione stessa (potenza passiva ed attiva).
L’alterazione può così essere completa, oppure arrestarsi in virtù delle capacità di resistenza (conservazione) del
soggetto. La potenza passiva può dunque essere trasmessa inalterata di ente in ente, essendo comunque distinta nella sua
parte agente e paziente. L’impotenza è a sua volta privazione, con diverse sfumature, della potenza.
La potenza è razionale quando alloggia in parti d’essere razionali, irrazionale quando invece alberga in parti d’essere
prive di ragione. La prima può originare entrambi i contrari, alternativamente (l’uno, positivamente o per natura, l’altro
invece per privazione); la seconda uno solo dei due.
24
Osservazioni sul rapporto fra la Metafisica aristotelica e la posizione bruniana
variabile la propria intensione, disintegrando la chiusura e la convergenza necessaria
dell’atto d’ordine aristotelico. Causa efficiente e causa finale vengono distribuiti all’intero
creato, come libera identità creativa dell’amore eguale.43
Così la possibilità bruniana è in movimento – mentre la materia aristotelica non lo è – ed
in continua, aperta e libera (multivoca), trasformazione: il desiderio del Bene si fa bene,
egualmente distribuito, del desiderio. Se l’unità e l’unicità 44 del principio distintivo
aristotelico (insieme causa efficiente e finale) – unità ed unicità che lo fanno essere causa
La potenza attuale dei Megarici porta ad un determinismo assoluto, senza alcuno spazio interno per una differenza,
tramite la quale possa darsi la possibilità di variazione e, con essa, della possibilità del mantenimento o della scomparsa
(sia che questa riguardi l’arte, la memoria o la sensibilità). La distinzione aristotelica dell’atto dalla potenza e della
potenza dall’atto permette invece l’inserimento di questa differenza, che costituisce il passaggio verso il possibile
(potenza latente), che si dà diversamente oppure identicamente.
Il principio della posizione dell’attività di movimento che realizza il possibile (diverso, identico o negativo) è l’atto
(entelécheia). In questo modo l’atto è congiunto con il possibile, sia che esso sia diverso, identico o porti ad una
negazione: il primo non è separato dal secondo, né il secondo dal primo (nella relazione il possibile si realizza
necessariamente). Mantenere il possibile congiunto all’atto significa nel contempo considerare l’impossibile come suo
correlato privativo. I Megarici, al contrario, negando il possibile, affermavano l’impossibile in una posizione ancor più
profonda del possibile stesso, negando con ciò la sua definizione attraverso la privazione.
La realizzazione del possibile può avvenire tramite l’esercizio regolato di un’attività sino a conseguire il fine (potenza
acquisita), oppure avvenire immediatamente senza sforzo e mediazione continua (potenza congenita). Il rapporto fra
possibilità ed atto si esercita sempre nell’addivenire di una determinazione, con gli opportuni corollari del tempo, del
modo e della definizione relativa. Se il rapporto fra l’atto e la possibilità, nelle potenze irrazionali, si esercita
necessariamente e senza ostacolo o possibile variazione, nelle potenze razionali invece ha luogo la scelta ed il desiderio
di uno dei due contrari. Ma la realizzazione di uno dei due contrari comporta comunque il vincolo dell’opportuna
soggezione alle condizioni determinative, che rilasciano la potenza prestabilita nell’atto della sua esistenza solamente
dietro un opportuno orientamento del paziente, o l’eliminazione delle resistenze ed ostacoli esterni.
Se la relazione del possibile aristotelico è una relazione astratta, perché predeterminata (nel tempo, nel modo, nel
fine), il vincolo dell’opportuna soggezione alle condizioni determinative costituisce la possibilità dell’apparire
dell’esistenza della cosa (attualizzazione di essa). Ogni cosa può apparire quando un agente predisponga la propria
azione al conseguimento di determinati fini, superando tutti gli eventuali ostacoli (azione con finalità esterna o
'movimento'); oppure quando la natura interna di una cosa possa realizzarsi senza impedimento (azione con finalità
intrinseca od 'attività'). L’atto può essere identificato tramite questo secondo modo di realizzazione.
In questo modo certamente non può sorgere una materia che possa essere autonoma e spontanea, in libero sviluppo e
diversificazione: al contrario la materia è soggetto, e soggetto determinabile. Essa riceve (dall’esterno o dall’interno)
tutte le proprie determinazioni e movimenti dalla forma e dall’atto, e dall’organizzazione delle molteplicità presenti
nella forma e nell’atto.
Così la forma e l’atto precedono la potenza e la materia: nella conoscenza, con il primato dell’essere intenzionale; nel
tempo, con la precedenza dell’individuo nella generazione della specie; nella sostanza, in quanto l’atto è il termine
regolativo (che, annullando la differenza fra esterno ed interno, è azione pura, come obiettivo o come subiettivo);
nell’essere, in quanto l’atto è la prerogativa dell’essere eterno, incorruttibile e necessario, anteriore all’essere
corruttibile e contingente (l’essere che può essere, ma anche non essere).
Se la potenza è sempre potenza dei contrari (possibile realizzazione dell’uno e dell’altro), l’atto che positivamente
instaura il bene precede per titolo e dignità la potenza, la quale a sua volta precede il male che, se realizzato, non può
godere dell’eternità ed incorruttibilità delle quali gode invece la sostanza soprasensibile.
Anche l’atto dei principi matematico-geometrici, con l’evidenza della loro posizione immaginativa, precede il loro
uso e combinazione per la formulazione della catena dimostrativa dei teoremi.
Infine, nel caso della distinzione dell’essere come vero e del non-essere come falso, l’attuazione permessa dalla
riflessione oggettiva precede ed ingenera il movimento della conoscenza, che in tal modo risulterà accettazione del vero
e riconoscimento dell’ignoranza. Nel caso di entità dotate di parti (tutti i composti) il vero potrà stare nel
riconoscimento attuale della loro concentrazione oppure dispersione, oppure ancora talora concentrazione talora
dispersione. Nel caso di entità semplici il vero starà semplicemente nella loro comprensione attuale (ogni potenza li
trasfigurerebbe, sottoponendoli a modificazione). In quest’ultimo caso non sussiste il falso, ma il semplice
disattendimento.
43
Giordano Bruno, De gli Eroici furori, (ed. Aquilecchia) pag. 947: “Argomento ed allegoria del quinto dialogo.
Perché medesimo è più chiaro e più occolto, principio e fine, altissima luce e profondissimo abisso, infinita potenza ed
25
Osservazioni sul rapporto fra la Metafisica aristotelica e la posizione bruniana
universale - stabilisce l’impossibilità della variazione delle specie determinative, 45 la
relazione sempre infinitamente aperta fra la causa ed il principio bruniani – l’invisibile
infinitezza dell’Uno46 – disintegrando la loro composizione e fusione, ricorda la presenza
aperta ed illimitata (impredeterminata) della grazia creatrice e salvatrice.
Di nuovo, così, ritorna il tema dell’impredeterminatezza della grazia divina, che crea e
salva tramite il desiderio stesso, che allontana Bruno dalla tradizione paolina, agostiniana e
riformata.47
infinito atto, secondo le raggioni e modi esplicati da noi in altri luoghi. Appresso si contempla l'armonia e consonanza
de tutte le sfere, intelligenze, muse ed instrumenti insieme; dove il cielo, il moto de' mondi, l'opre della natura, il
discorso de gl'intelletti, la contemplazion della mente, il decreto della divina providenza, tutti d'accordo celebrano l'alta
e magnifica vicissitudine che agguaglia l'acqui inferiori alle superiori, cangia la notte col giorno, ed il giorno con la
notte, a fin che la divinità sia in tutto, nel modo con cui tutto è capace di tutto, e l'infinita bontà infinitamente si
communiche secondo tutta la capacità de le cose.”
44
L’unità è qui la trasformazione in punto, tratto ed apertura di visibilità dell’invisibilità dell’Uno neoplatonico.
L’unicità è la sua presenza assoluta. Aristotele osserva (Metafisica, X, 1052a 15 – 1056b 2) come l’uno sia l’essere
ininterrotto ('il continuo naturale'), quell’essere che si muove senza diverse partizioni che ne scompongano le diverse
direzioni. Esso infatti offre un’univocità di direzione. Oltre all’univocità di movimento l’uno offre poi la stabilità e
l’interezza dell’immagine, senza frazionamenti ('l’intero'). Un’immagine siffatta può muoversi non essendo influenzata
da alcuna variazione temporale o di luogo. L’ente che obbedisce sommamente a questa caratteristica è il cielo.
Uno è anche l’ente la cui nozione non si diversifica, perché riferita ad un’unica entità ('l’individuo'), oppure perché
riferita ad un’entità nella conoscenza generalmente immodificabile ('l’universale'). Generalmente immodificabile è
l’unità della molteplicità.
L’atto dell’uno (la sua essenza) consiste nella posizione dell’unità (“alcunché di determinato e particolare”) tramite
l’indivisibilità: questa posizione lo ritaglia nel tempo, nella determinazione, nell’origine. Soprattutto lo fa essere
strumento di riferimento e di misurazione egemonico e privilegiato ('termine primo'), applicato per la maggior parte
nella categoria della quantità. Qui l’unità raggruppa il molteplice e lo determina come molteplice, come la cosa
determina la propria conoscenza.
All’unità della quantità Aristotele aggiunge e congiunge l’unità della qualità, per far considerare una qualunque cosa.
L’uno non è un essere-per-sé: piuttosto esso viene predicato di un sostrato. Non è un essere che stia al di là della
molteplicità, invece è proprio l’identità che è presente in ciascuna parte di questa. È l’universale che si fa
determinazione: inseparato, è attributo formale di ciascuna singolarità, declinato secondo le diverse accezioni presenti
nelle diverse categorie (una affezione, una grandezza, … , una sostanza).
Se l’uno non può dunque essere separato dal molteplice, al quale invece da luogo (e luogo particolare), deve però
essere da questo distinto: viene distinto non come elemento che viene escluso totalmente, ma come elemento la cui
posizione è necessaria per la comparsa e definizione del suo termine opposto. In questo modo l’opposizione fra l’uno ed
il molteplice può comportare l’esclusione alternativa e reciproca fra i due termini in un medesimo soggetto, ma sulla
base di una loro coesistenza logica.
La coesistenza delle nozioni opposte dell’uno e del molteplice ne definisce la caratteristica reciproca della contrarietà:
in particolare, se l’uno possiede la virtù di poter restare sempre con se stesso ('indivisibilità'), il molteplice assume su di
sé il peso della distribuzione ('divisibilità').
La materia della forma indivisibile è l’identità (solo numerica od anche specifica, oppure per eguaglianza). La
somiglianza fa decadere l’identità attraverso l’applicazione di un certo numero di differenze determinative, tali ed in
numero tale comunque da non far perdere una certa uniformità. Come per esempio il grado eguale dell’affezione, o la
variazione non estrema (che non comporta diversificazione), o la qualificazione.
La materia diversa della forma divisibile è la diversità. Diversità è anche posizione diversa nell’ordinamento
numerico o delle grandezze. Il dissimile conduce al diverso.
Se la diversità è l’apertura immediata di una differenza, la differenza può essere intesa ponendo un termine astratto
sulla cui base originarla. Questo termine astratto può essere qualunque genere e qualsiasi specie. Nel genere la diversità
impedisce il medesimo sviluppo, nella specie il medesimo sviluppo è differenziato dalla forma.
Sembra che la definizione di contrarietà stabilisca un modo per costituire all’interno del rapporto fra l’uno e la
molteplicità un limite determinante (specifico): la contrarietà apre infatti in maniera completa ed esaustiva la serie dei
gradi della differenza fra due termini, opposti e complanari: l’elemento primo, che esprime la presenza massima
(completa e perfetta) del termine superiore, e la materia ultima, che invece presenta la sua presenza minima o nulla
(privazione o negazione). La privazione si realizza infatti variamente, mentre la negazione totalmente.
26
Osservazioni sul rapporto fra la Metafisica aristotelica e la posizione bruniana
Dunque Bruno inserisce il soggetto mobile aristotelico (la potenza) nella struttura
razionale costituita dalla opposizione infinita, richiamando sia il senso dell’Uno infinito
della speculazione presocratica, sia inserendo in esso quel movimento dialettico che aveva
trovato espressione nel Parmenide platonico. In questo modo esso viene trasformato nella
possibilità d’in-finire, acquisendo una determinante caratterizzazione etica generale. Perciò
l’eguaglianza degli elementi naturali bruniani 48 – quasi una ripresa dell’eguaglianza
aristotelica delle specie – possiede in se stessa la profondità del motore amoroso ed il suo
riflesso e partecipazione illimitata. La trasformazione della materia stabile e digradante
Il limite e la serie progressiva dei gradi della differenza costituiscono insieme l’ente intermedio. L’ente intermedio
contiene in sé dunque le possibilità opposte decretate dal positivo e dal negativo (facendo così comparire il doppio ed
opposto senso della 'generazione' e della 'corruzione'), costituendo con ciò la possibilità di un soggetto mobile tra gli
estremi. La contraddizione invece esclude questo soggetto.
Nel caso della costituzione dei numeri e delle grandezze la scuola platonica utilizzava i due principi opposti
dell’uguale e della diade grande-piccolo. Aristotele preferisce invece definire l’uguale sulla base dei due termini
(movimenti opposti) dell’ingrandimento (eccesso) e del rimpicciolimento (difetto): così l’uguale si costituisce
sottraendo le variazioni che danno la misura più piccola e quelle che danno la misura più grande, fondendo così insieme
questa doppia negazione in un unico soggetto e posizione, con una sorta di concentrazione progressiva pari a quella
utilizzata modernamente per definire l’intorno di un numero.
Nel caso più generale della costituzione delle sostanze lo spazio intermedio fra i due termini 'Uno' e 'Molti' viene
riempito da una materia immobile, non eccedente, ma ordinata dal primo ai successivi. Quindi in un certo senso
digradante. In questo modo, in una visione neoplatonizzante, se all’Uno viene riferita la totalità degli attributi, i Molti
possono trovare definizione attraverso la distinzione coerente (singolarizzante) delle determinazioni.
45
Aristotele continua (Metafisica, X, 1056b 3 – 1059a 15) osservando che, perché l’Uno non sia discrezione o
riduzione, ma mantenga le sue caratteristiche di continuità e totalità, i Molti non debbono poter essergli estrinseci divaricantisi, ed aperti, perché moltiplicantisi in modo indefinitamente variabile (da poco a molto) – a pena di trascinare
con sé ciò che dovrebbe restare uno, e sarebbe ridotto ad un’inezia.
Non vi può essere distacco allora fra l’Uno e la Diade (ed il due essere subito della molteplicità), così come
proponevano i platonici. Non vi può essere dunque nemmeno opposizione e separazione fra questi due termini, ma i
Molti debbono essere dell’Uno e nell’Uno.
Se i Molti saranno dell’Uno e nell’Uno, allora la sua potenza moltiplicativa non troverà limiti estrinseci e potrà
subitaneamente estendersi senza in realtà allontanarsi da se stessa. Così la materia risulterà compresa all’interno
dell’orizzonte formale dell’Uno e – come si diceva prima - non sarà eccedente, ma digradante. Progressivamente
ampliantesi nel numero, dimostrerà una relazione diretta, fondata sull’indivisibilità dell’unità misurante.
Invece dei numeri ideali proposti dalla scuola platonica Aristotele escogita un intermedio diverso. Intermedio è
l’essere che è soggetto alla relazione che oppone i contrari, e che dunque è incluso in essa come potenzialità che deve
essere attuata. In ciò esso costituisce il passaggio unitario che è presente in ogni generazione.
Ogni intermedio è costituito dalla combinazione della graduazione che ha come base un contrario separato verso
l’altro, secondo una quantità divisa nei due termini corrispettivi del poco o del molto (p. es. il bianco con poco di nero
vale il nero con molto di bianco). Termini legati alla sostanzialità positiva dei contrari (nell’esempio considerato:
l’espansività del bianco e la concentratività del nero).
La contrarietà interviene anche nella definizione dei rapporti fra le specie del medesimo genere: qualunque specie,
pur del medesimo genere, gode di una posizione separata rispetto a ciascuna delle altre. E non v’è mediazione ed
intermedio fra le specie, di modo che non può comparire alcun ordine fra le stesse (immanente) che le identifichi e le
diversifichi, graduandole (il genere non è termine astratto). Nello stesso tempo esse non possono essere riferite ad altro,
ovvero ottenere ed essere soggette ad un principio estrinseco. Così tutte le specie godono a parti titolo della medesima
posizione rispetto al genere al quale appartengono e dal quale si distaccano in virtù di forme che si divaricano
(distinguono) reciprocamente.
Quest’ultima divaricazione è nominata da Aristotele come una contrarietà nell’essenza. Essa costituisce la profondità
della distinzione fra gli enti, mentre altre opposizioni partecipano di un livello più superficiale (corporeo), che non
intacca e non influenza la predeterminazione formale.
Con ciò la materia aristotelica definisce finalmente e fatalmente la propria inattività: il salto che Aristotele fa
compiere all’essere nel passaggio dal corruttibile all’incorruttibile è infatti il salto che è consentito dall’opposizione fra
la priorità della forma e la posteriorità della materia. Questa divaricazione di direzioni separa l’ente incorruttibile
dall’ente corruttibile, non assegnando ad entrambi una medesima determinazione. Così se, per e nella forma, le parti
precedono il tutto, nella materia il tutto è anteriore alla formazione ed organizzazione delle parti.
27
Osservazioni sul rapporto fra la Metafisica aristotelica e la posizione bruniana
aristotelica in materia sempre e continuamente eccedente doveva perciò ricordare quello
spazio ulteriore, non vuoto né inerte,49 che costituisce il luogo del comparire della
temporalità, come libera ed eguale potenza creativa, dove la radicalità del desiderio suscita
sempre nuovamente l’immaginazione.
46
Giordano Bruno. De la Causa, Principio e Uno. (Ed. Aquilecchia) pagg. 340 – 341: “In conclusione, chi vuol
sapere massimi secreti di natura, riguardi e contemple circa gli minimi e massimi de gli contrarii e oppositi. Profonda
magia è saper trar il contrario dopo aver trovato il punto de l'unione. A questo tendeva con il pensiero il povero
Aristotele, ponendo la privazione (a cui è congionta certa disposizione) come progenitrice, parente e madre della forma;
ma non vi poté aggiungere. Non ha possuto arrivarvi, perché, fermando il piè nel geno de l'opposizione, rimase
inceppato di maniera che, non descendendo alla specie de la contrarietà, non giunse, né fissò gli occhi al scopo; dal
quale errò a tutta passata, dicendo i contrarii non posser attualmente convenire in soggetto medesimo. Poliinnio. Alta,
rara e singularmente avete determinato del tutto, del massimo, de l'ente, del principio, de l'uno.” De l’Infinito, Universo
e mondi. (Ed. Aquilecchia) pagg. 491 – 492: “Tuttavia, quantunque sia vero che ogni cosa si muove per gli suoi mezzi,
da' suoi ed a' suoi termini, ed ogni moto, o circulare o retto, è determinato da opposito in opposito; da questo non
séguita che l'universo sia finito di grandezza, né che il mondo sia uno; e non si distrugge che sia infinito il moto
semplicemente di qualsivoglia atto particolare, per cui quel spirto, come vogliam dire, che fa ed incorre a questa
composizione, unione e vivificazione, può essere e sarà sempre in altre ed altre infinite. Può dunque stare, che ogni
moto sia finito (parlando del moto presente, non absoluta e semplicemente di ciascun particulare, ed in tutto) e che
infiniti mondi sieno: atteso che, come ciascuno de gl'infiniti mondi è finito ed ha regione finita, cossì a ciascuno di quei
convegnono prescritti termini del moto suo e de sue parti.” De gli Eroici furori. (Ed. Aquilecchia) pagg. 944 – 945:
“Argomento ed allegoria del quinto dialogo. Or quanto al fatto della revoluzione, è divolgato appresso gli cristiani
teologi, che da ciascuno de' nove ordini de spiriti sieno trabalzate le moltitudini de legioni a queste basse ed oscure
regioni; e che per non esser quelle sedie vacanti, vuole la divina providenza che di queste anime, che vivono in corpi
umani, siano assumpte a quella eminenza. Ma tra' filosofi Plotino solo ho visto dire espressamente, come tutti teologi
grandi, che cotal revoluzione non è de tutti, né sempre, ma una volta. E tra teologi Origene solamente, come tutti
filosofi grandi, dopo gli Saduchini ed altri molti riprovati, ave ardito de dire che la revoluzione è vicissitudinale e
sempiterna; e che tutto quel medesimo che ascende, ha da ricalar a basso; come si vede in tutti gli elementi e cose che
sono nella superficie, grembo e ventre de la natura.”
47
Un esempio, all’inizio della costituzione di una certa tradizione interpretativa e dottrinaria cristiana, del Dio che è
indivisibilmente principio e causa (in quanto immobile ed invariabile principio distintivo universale) si può forse
trovare nella posizione di S. Paolo. Di fronte alla possibilità di una modificazione libera e propositiva dell’individuo,
messa in opera dal desiderio, il Tarsense vuole sottolineare, nella I Lettera ai Corinti [VII, 1 - 21], la stabilità invece
assegnata a ciascuno dalla relazione fra dono divino e vocazione. Questa impedisce che il desiderio umano si eserciti
nei confronti del mondo, che resta invece come legato, sospeso ed ordinato (in maniera neutrale) ad una sorta di
imperscrutabile possesso e giudizio divino. Nella sicurezza di questo giudizio e possesso S. Paolo sembra depositare,
prima, l’indissolubilità del matrimonio, poi l’uso gioiosamente strumentale dei figli. La vera sostanza di questa
immodificabilità è l’amore divino, che cede il proprio Figlio per la salvezza universale. In questa unità, del mondo e
della fede [VIII - IX], lo Spirito del Signore (il Cristo come Immagine) emerge come potenza totale. Di contro ad essa
esaltazione, desiderio, potere e critica stabiliscono il primato (totalmente apparente ed inconsistente) dell’umano [X, 1 12], destinato ad essere capovolto dalla distruzione divina dell’idolatria tutta terrena della 'carne'. L’eternità dell’amore,
allora [XI], sarà il ricordo della vita, contro la dissoluzione e distruzione operate dalla forza del potere. Quest’apertura,
che ha quale principio lo Spirito e per fine l’Immagine del Signore (Immagine che offre un Corpo illimitato; un Corpo,
dove le parti hanno eguale e reciproca dignità) [XII, 7 - 27] mostra al proprio interno la tensione e la direzione di una
conversione: oltre ed oppostamente all’uso strumentale ciò che rende tutto veramente, realmente e con giustizia
possibile, è l’Amore. Esso infatti non si limita all’essere strumentale, né alla conoscenza dei fini o dei principi; va oltre
lo stesso sacrificio [XIII, 1 - 3]. Porta infatti il bene senza limitazione [XIII, 4]. Non ha preconcetto di sé, così non
esclude, né condanna [XIII, 5]. Non separa, ma scopre l’Unità [XIII, 6]. Accoglie il passato, essendo il futuro che tutto
porta [XIII, 7]. È eterno in quanto perfetto: completo in se stesso, non ha nulla fuori di sé (come noi, che invece
slanciamo ragioni)[XIII, 8 - 12]. Di per se stesso vale dunque come disposizione, senso e significato unitario di quelle
che verranno successivamente definite virtù teologali: fede, speranza e carità [XIII, 13].
Si deve tenere presente, qualora si volesse sostenere un possibile confronto con la posizione bruniana, che l’impronta
del testo paolino considerato (I Lettera ai Corinti) sembra essere opposta e contraria all’intenzione bruniana: dove S.
28
Osservazioni sul rapporto fra la Metafisica aristotelica e la posizione bruniana
L’ATTO DI FINITEZZA ARISTOTELICO.
L’IPOSTASI DELLA PERFEZIONE E IL TERMINE.
Al contrario l’assolutezza del finire e del finito aristotelico viene categorizzata attraverso
la definizione necessaria ed oggettiva del movimento, che, in questa misura, pretende e
vuole esprimere una valenza etica, conoscitiva ed ontologica. L’unità prima e distintiva, che
ricompatta l’azione alla sostanza, supera l’apparenza d’estrinsecità presente nel mondo della
generazione e genera la posizione della forma in sé. La differenza fra la forma in sé e la
forma fuori di sé – la forma precipitata nella materia – esprime, poi, il distacco della
sostanza dalla sensibilità. La sua primalità ed il suo essere centro universale d’orientamento
e movimento.50
Paolo vuole assoluto e necessità d’ordine distinto, con un conclusivo ritorno dell’incorruttibile in se stesso, Bruno
preferisce possibilità e libertà; dove il primo reseca il desiderio quale possibilità dell’esser-diverso (considerandolo
semplicemente quale licenza e fatalità dell’errore), il secondo vede apertura ed eguaglianza, amore sensato, più vero e
reale. Dove il primo tende a stabilizzare le condizioni, per la conservazione positiva della tradizione familiare e sociale
(l’uso strumentale dei figli; l’affermazione dell’indifferenza delle situazioni contingenti rispetto all’influenza del dettato
evangelico), il secondo profetizza l’avvento di una società di liberi ed eguali, proprio in realizzazione del dettato
evangelico medesimo.
48
Giordano Bruno. De l’Infinito, Universo e mondi. (Ed. Aquilecchia) pagg. 527 – 530. In risposta alla difficoltà
apparente suscitata dal quinto argomento di Albertino, Bruno scrive: “Ecco, dunque, quali son gli mondi, e quale è il
cielo. Il cielo è quale lo veggiamo circa questo globo, il quale non meno che gli altri è astro luminoso ed eccellente. Gli
mondi son quali con lucida e risplendente faccia ne si mostrano distinti, ed a certi intervalli seposti gli uni da gli altri;
dove in nessuna parte l'uno è più vicino a l'altro che esser possa la luna a questa terra, queste terre a questo sole: a fin
che l'un contrario non destrugga ma alimente l'altro, ed un simile non impedisca ma doni spacio a l'altro. Cossì, a
raggione a raggione, a misura a misura, a tempi a tempi, questo freddissimo globo, or da questo or da quel verso, ora
con questa ora con quella faccia si scalda al sole; e con certa vicissitudine or cede, or si fa cedere alla vicina terra, che
chiamiamo luna, facendosi or l'una or l'altra o più lontana dal sole, o più vicina a quello: per il che antictona terra è
chiamata dal Timeo ed altri pitagorici. Or questi sono gli mondi abitati e colti tutti da gli animali suoi, oltre che essi son
gli principalissimi e più divini animali dell'universo; e ciascun d'essi non è meno composto di quattro elementi che
questo in cui ne ritroviamo; benché in altri predomine una qualità attiva, in altri altra; onde altri son sensibili per l'acqui,
altri son sensibili per il foco. Oltre gli quai quattro elementi che vegnono in composizion di questi, è una eterea regione,
come abbiam detto, immensa, nella qual si muove, vive e vegeta il tutto. Questo è l'etere che contiene e penetra ogni
cosa; il quale, in quanto che si trova dentro la composizione (in quanto, dico, si fa parte del composto), è comunmente
nomato aria, quale è questo vaporoso circa l'acqui ed entro il terrestre continente, rinchiuso tra gli altissimi monti,
capace di spesse nubi e tempestosi Austri ed Aquiloni. In quanto poi che è puro, e non si fa parte di composto, ma luogo
e continente per cui quello si muove e discorre, si noma propriamente etere, che dal corso prende denominazione.
Questo benché in sustanza sia medesimo con quello che viene essagitato entro le viscere de la terra, porta nulla di meno
altra appellazione; come oltre, si chiama aria quello circostante a noi; ma, come in certo modo fia parte di noi o pur
concorrente nella nostra composizione, ritrovato nel pulmone, nelle arterie ed altre cavitadi e pori, si chiama spirto. Il
medesimo circa il freddo corpo si fa concreto in vapore, e circa il caldissimo astro viene attenuato, come in fiamma; la
qual non è sensibile, se non gionta a corpo spesso, che vegna acceso dall'ardor intenso di quella. Di sorte che l'etere,
quanto a sé e propria natura, non conosce determinata qualità, ma tutte porgiute da vicini corpi riceve, e le medesime
col suo moto alla lunghezza dell'orizonte dell'efficacia di tai principii attivi transporta. Or eccovi mostrato quali son gli
mondi e quale è il cielo; onde non solo potrai essere risoluto quanto al presente dubio, ma e quanto ad altri
innumerabili; ed aver però principio a molte vere fisiche conclusioni. E se sin ora parrà qualche proposizione supposta e
non provata, quella per il presente lascio alla vostra discrezione; la quale, se è senza perturbazione, prima che vegna a
discuoprirla verissima, la stimarà molto più probabile che la contraria.”
49
Giordano Bruno. De l’Infinito, Universo e mondi. (Ed. Aquilecchia) pagg. 370 – 385. Particolarmente, pag. 378:
“Perché infinito spacio ha infinita attitudine, ed in quella infinita attitudine si loda infinito atto di existenza; per cui
l'efficiente infinito non è stimato deficiente, e per cui l'attitudine non è vana.”
50
Aristotele ricorda (Metafisica, XI, 1058a 18 – 1060b 30) che, se la sapienza è la ricerca della ragione capace di
contenere in sé sia ciò che pone, sia ciò che è posto, allora essa non può non fondarsi sopra un’identità che si estenda
nella pluralità, attraverso la diversità dei generi e, nei generi, delle specie. Un’identità nello stesso tempo reale e
29
Osservazioni sul rapporto fra la Metafisica aristotelica e la posizione bruniana
Fondamento del grado e del distacco originario, l’unità prima e distintiva aristotelica
racchiude in sé sia l’aspetto per il quale la determinazione non può originarsi se non
univocamente, sia quello per il quale la sua comparsa non può non darsi per mezzo della
molteplicità. Perciò essa sia impone l’inconfutabilità del principio d’identità, sia ne
manifesta l’applicazione attraverso ogni intenzione formale, che riporti il vero mentale al
reale (intellettivo e sensibile).51 Tolta così la separazione del soggetto in due termini opposti,
l’intermedio aristotelico può garantirsi una sopravvivenza sospesa alla positività della
realizzante, che escluda la possibilità di un essere contraddittorio. La sapienza in tal modo si caratterizza come
conoscenza della totalità, distinta nella sua parte prima e precedente, e posteriore. Se la sua parte prima è ulteriormente
indimostrabile, la sua parte posteriore invece deve esserlo completamente.
Se dei principi estrinseci fondano la sapienza 'seconda', la sapienza 'prima' deve in qualche modo essere capace di far
rientrare nel proprio campo d’indagine l’origine e non solo il termine dell’azione e del movimento che le è connesso.
Intendendo la causa finale in modo a sé distinto, ovvero come ente immobile e primo, la sapienza ‘prima’ riguarda le
sostanze 'prime', ma attraverso di esse potrà anche condurre a determinazione la trattazione sulle sostanze 'non-prime'
(sensibili), in quanto ne enucleerà e giustificherà le ragioni formative (le cause ed i postulati). In questo modo la
sapienza 'prima' risolverà il falso dilemma fra la scelta di elementi immanenti ai composti e forme trascendenti i
medesimi. Ciò che genera stando in alto (generi supremi), componendo le diverse cause e costituendo i diversi postulati,
pone il principio dell’essere. Ponendo il principio dell’essere, non lo pone univocamente, ma riccamente dotato di
molteplicità: di una molteplicità tale che è capace di contenere in sé tutte le possibili individualità, determinate
attraverso le specie.
L’ente immobile e primo è la sostanza distaccata dal sensibile e dalla materia: proprio essendo così distaccata essa è
infatti immutabile, quindi eterna, quindi ancora centro e fondamento dell’ordinamento universale. La presenza della
materia costituisce poi la spiegazione della variazione e della corruttibilità, non della materia stessa, bensì della forma
nella materia. Senza variazione – se l’essere e l’uno fossero principi immediati – non vi sarebbe alterazione né diversità:
non vi sarebbero singolarità, né un’unica sostanza universale che ne concentri il possesso. Quest’unica sostanza
universale, che ne concentra il possesso, deve essere considerata in opposizione rispetto ad esse, o verrebbe dissolta
dalla loro partecipazione totale. Quest’unica sostanza universale è capace di sostituire l’applicazione combinata
dell’Uno e della Diade platonici e di risolvere l’inconsistenza astratta dell’elemento generatore dei corpi: il punto (esso
è infatti ottenuto a ritroso per divisione).
Così il principio aristotelico diventa egemonico e graduante, non trasferibile (non predicabile). Forma inamovibile,
ordina e moltiplica le determinazioni in quanto le contiene. Sia quelle che si ritiene non possano essere separate (p.es.
l’anima vegetativa e sensitiva), sia quelle che invece si ritiene possano esserlo (l’anima intellettiva). Forma che resta
fuori presa, garantendo sia l’identità che la diversità.
51
Aristotele indica fortemente (Metafisica, XI, 1060b 31 – 1063b 16) come l’unica sostanza universale costituisca
l’essere in quanto essere: essa si fissa come radice alla quale possono essere innestati e sviluppati i diversi significati
dell’essere stesso: la graduazione progressiva delle sue determinazioni, come pure tutte le contrarietà incluse in quella
fondamentale fra uno e molteplice o tutti gli intermedi racchiusi da queste. La quantità e la divisione della quantità (con
le relative somiglianze e dissomiglianze, proporzionalità ed improporzionalità) costituiscono invece lo spazio astratto
d’intervento del matematico. Il movimento è invece il campo d’indagine e d’intervento del fisico. L’immagine ed il
giudizio sono l’attività del dialettico e del sofista.
Oltre il valore di applicazione sempre particolare (negli oggetti matematici o fisici), gli assiomi (principi logici
fondamentali) devono essere indagati e giustificati nella loro essenza e formazione generale. Il primo assioma che deve
essere indagato nella sua essenza prima e formazione generale è quello che afferma che “non è possibile che la
medesima cosa in un unico e medesimo tempo sia e non sia, e che lo stesso vale anche per gli altri attributi che sono fra
loro opposti in questo modo” (1061b 36 – 1062a 2). Essendo immediatamente evidente di per se stesso, questo assioma
non può essere dimostrato direttamente: può invece essere confutato chi lo neghi, ed affermi la contraddittorietà del
medesimo soggetto. Anche chi affermi la contraddittorietà del medesimo soggetto infatti non può però fare a meno di
indicare un medesimo soggetto, e dunque di far valere ciò che vuole negare. Se il medesimo soggetto è vero, inoltre,
esso viene posto necessariamente ed esclude la sua negazione: il vero stabilisce un orientamento che toglie
l’equipossibilità degli opposti.
Il problema che all’identità delle cose non corrisponda l’identità delle conoscenze, e che dunque non possa realizzarsi
la conformazione del vero al reale, può essere risolto non appena si pensi che reale e vero non possano essere separati:
gli stessi filosofi naturalisti del resto affermavano l’impossibilità del loro distacco e capovolgimento, ma senza
concedere il divenire. Senza dunque ammettere la trasformazione dal non essere (per effetto del poter essere il contrario
o materia) all’essere (in virtù della forma). La stessa identità del resto è ammessa dalla stessa sensazione, dai sofisti
30
Osservazioni sul rapporto fra la Metafisica aristotelica e la posizione bruniana
forma, guadagnando una potenzialità tutta eterodiretta e suscitata. È questa sospensione a
distinguere ed ordinare i 'contrari' anassagorei nella successione metafisica aristotelica
dell’atto e della potenza.52
In questa successione si fissa, prima, la graduazione aristotelica delle scienze, poi quella
delle sostanze, in una sorta di corrispondenza assoluta. 53 Allora la stessa distinzione
dell’essere come vero e, di più, come necessario (o, all’opposto, come contingente e
variabile) pretende di focalizzare un sostrato primo e comune, che permetta l’affermazione e
l’applicazione di una soggezione assoluta.54
invece considerata il maggiore intervento disturbativo. È infatti solamente l’organo della sensazione e non la sensazione
in se stessa a costituire un possibile ostacolo al raggiungimento, coglimento ed espressione del realmente vero. Oltre
alla sensazione è poi lo stesso giudizio a mantenere fermo e stabile il vero oltre le possibili variazioni, guardando agli
enti che non si modificano (gli enti celesti).
Poi, il movimento comporta il mosso ed il movente, l’origine o l’agente ed il termine o fine dello stesso: tra l’inizio e
la conclusione del movimento il corpo che si muove assume una direzione univoca ed univocamente determinata (non
contraddittoria).
La variazione dei corpi sensibili e materiali nel senso della quantità può lasciare indifferente l’impressione qualitativa
e conservare una certa identità. L’invariabilità di noi stessi del resto consente il permanere di qualche cosa di stabile e
trasmissibile senza modificazioni.
52
Aristotele conclude la trattazione del principio di identità e non-contraddizione, rilevando l’assenza di una
sostanzialità che possa essere propria dell’intermedio (tertium non dabitur). Aristotele infatti scrive (Metafisica, XI,
1063b 17 – 35) che, se la materia è la possibilità del contrario e funge dunque da intermedio generale, non è comunque
possibile che i contrari da essa ammessi non si intendano in modo separato e che l’intermedio stesso non spazi
all’interno di una doppia negazione. Doppia negazione che costituisce la biunivocità del termine da essa compreso. E
che dunque distacca il termine stesso dai rispettivi contrari solo immaginativamente.
Però i contrari non possono essere ammessi contemporaneamente in atto ed in modo distinto, come vuole Anassagora
con la sua affermazione del tutto in tutto, ma l’uno come potenza e l’altro come atto. Ciò garantisce la direzionalità e
l’irreversibilità del divenire.
53
Aristotele seziona il piano del conoscere e dell’essere, rilevando (Metafisica, XI, 1063b 36 – 1064b 14) come le
scienze particolari assumano un oggetto particolare e ne presuppongano una particolare essenza, attraverso la
sensazione o l’ipotesi, sviluppandone poi le successive conseguenze, mentre la teologia non presuppone alcuna essenza
a capo di alcun oggetto particolare. Se poi le scienze poietiche e pratiche indagano l’essere in quanto in movimento e
sottoposto all’azione, ma ne presuppongono il principio in un agente separato, le scienze fisiche considerano invece
l’essere in movimento come dotato autonomamente di questo principio, senza estrinsecarlo. Se le scienze fisiche, poi,
considerano come oggetto l’entità concreta singolare (il sinolo), le matematiche prescindono dalla materia (e dalla
sensibilità) e considerano come oggetto un’entità deprivata di tutte le caratteristiche soggette alla sensazione ed alla
variabilità imprevedibile, per concentrarsi intorno alle caratteristiche ed alle proprietà che possono essere unitariamente
ed immobilmente disposte ed organizzate. Scienza dell’entità separata, ovvero sussistente di per se stessa (prima e
superiore), è invece la teologia: essa riguarda un’entità determinata che vale anteriormente ad ogni altra ed è perciò
capace di definire ogni altro valore.
Se la teologia riguarda questa entità determinata e sussistente di per sé, non vi può essere invece alcun tipo di scienza
che riguardi l’essere che è posto come tale (ed è un fine) senza avere una causa che sia determinata o che possa in alcun
modo raggiungere una certa determinazione: l’essere accidentale, non necessario né frequente ma casuale e fortuito.
54
La congiunzione del predicato al soggetto, che mantiene la caratteristica fondamentale della verità, è, secondo
Aristotele (Metafisica, XI, 1064b 15 – 1066a 34), un’operazione della mente umana per la quale una determinazione
viene agganciata ad un termine comunque astratto: la scienza riguarda invece l’essere che è prima e fuori di
quest’astratto. Se l’essere come vero mantiene la nota dell’essere che partecipa in qualche modo del movimento della
mente, la scienza deve guardare oltre questo movimento per fissarsi sull’essere che se ne sta stabilmente ed
immobilmente di fronte alla sua contemplazione.
Se la scienza guarda al movimento, si accorge che esso si trova integralmente espresso nelle singole determinazioni
categoriali e non in uno spazio unitario ed univoco al di là di queste. Nelle singole determinazioni categoriali, poi, il
movimento si attua secondo i contrari attraverso la potenza e l’attività. L’ente nel movimento resta indeterminato, in
quanto resta soggetto alle due eventualità opposte. L’atto però è solo uno dei due.
L’effettuarsi del movimento presuppone dunque un atto opposto, alternativo, ed una potenza che può dirigersi verso
l’uno o l’altro dei termini. Ma l’atto e questa potenza non sono scissi: l’unità della seconda al primo è proprio ciò che
permette il divenire (l’attività di attualizzazione o realizzazione della cosa).
31
Osservazioni sul rapporto fra la Metafisica aristotelica e la posizione bruniana
Questa soggezione si realizza attraverso l’atto della finitezza: quell’accostamento della
potenza all’atto che costituisce la definizione della assolutezza del fine e del movimento
attraverso l’atto di posizione del principio egemonico ed agente. Per questo motivo
Aristotele è costretto ad eliminare il concetto dell’infinito, 55 ed a sostituire nel suo luogo
sfuggente la visibilità di una limitatezza assoluta (il cielo).56
Infatti ciò che continuamente si dividesse, perciò muovendosi sempre senza termine che
ne limiti l’operazione, sopravanzando e rovesciando tutte le condizioni considerate
inamovibili e necessarie, costituirebbe quell’universale creativo e dialettico la cui possibilità
55
Aristotele definisce (Metafisica, XI, 1066a 35 – 1067a 37) l’infinito come ciò che si sottrae a fine – e che perciò è
illimitato – oppure come ciò che sottrae continuamente il fine, spostandolo nel movimento sempre più in là.
Aristotele ritiene di provare che l’infinito non sussista in atto oltre gli enti sensibili, e nemmeno negli enti sensibili. Se
fosse oltre gli enti sensibili sarebbe sostanza, ovverosia indivisibile (la divisibilità accompagna infatti le nozioni
combinate di molteplicità e grandezza). Si sottrarrebbe a qualsiasi posizione e non permetterebbe il continuo e sempre
ulteriore spostamento del proprio termine. Impedirebbe la percorribilità. Se ne potrebbe stare come entità prima e
separata, inelastica e priva di plasticità. In altre parole, in questo caso l’infinito sostituirebbe il concetto della sostanza
separata aristotelica. Ma Aristotele preferisce non vedere questa qualifica e questo titolo dell’infinito, perché preferisce
assegnarlo unicamente alla dimensione della grandezza e della divisibilità per posizione. Così dovrebbe esistere
solamente come principio astratto negativo e non immanente a determinazioni che pur gli appartengono, anche se come
privazioni: perché tutte le posizioni particolari dei corpi effettuate (dal corpo all’indietro sino al costituente elementare)
godrebbero di un’esistenza negatrice della possibilità della suddivisione ulteriore.
Se sussistesse l’infinito in atto, poi, tutto parteciperebbe in atto di esso: ed Aristotele vedrebbe o che l’infinito avrebbe
accostate infinite parti, con la contraddizione di un unico soggetto moltiplicato infinite volte, o che esso dovrebbe non
avere parte alcuna, così perdendo la propria estensione e posizione, e così scomparendo. Si potrebbe dire che, in
quest’ultima eventualità, l’infinito non potrebbe avere atto.
Se dunque l’infinito non può essere in atto (ovvero essere sostanza), il suo stesso essere termine illimitato (ovvero il
suo essere accidentale) ne distrugge la possibilità di posizione assoluta. Privo di conclusione e di realizzazione,
l’infinito potrebbe, secondo Aristotele, rifugiarsi nel mondo sensibile, indeterminato. Ma qui ogni corpo ha limite, sia
esso sensibile od intelligibile; poi, l’ente numerabile non può essere inteso in senso separato e così infinitamente diviso,
perché ha riferimento in una misura. Nessun corpo sensibile può essere infinito, ribadisce Aristotele, perché i corpi
possono essere composti o semplici: ed i corpi composti, per la persistenza di contrari che si limitano reciprocamente,
non possono attuarsi come infiniti, né, per la limitata consistenza degli elementi, si vede esistere alcun corpo illimitato. I
corpi semplici a loro volta, non possono essere fatti derivare da un’entità universale, né questa entità universale
potrebbe sussistere come essere illimitato. Essa infatti somiglia piuttosto ad un’entità astratta (equiparabile all’Uno dei
naturalisti), certamente non effettivamente e realmente esistente. I corpi semplici allora sussistono indipendentemente e
ciascuno di essi non è infinito: non è infinito il fuoco, né l’aria, né l’acqua, né la terra. Il tutto resta sempre preda dei
contrari, che non si dissolvono e limitano l’applicazione dell’ente.
La localizzazione del corpo sensibile, poi, rende identica la posizione del tutto e delle parti. Così se il corpo infinito è
omogeneo (di un’unica natura), sarà o stabilmente immobile o in movimento senza diversificazioni. Sia nel caso che se
ne stia stabilmente immobile, o che si muova senza diversificazioni in una medesima direzione, non comparirà alcuna
ragione ed alcuna necessità perché questo si realizzi. Non si darà evidenza di alcuna determinazione o possibilità, e le
parti resteranno indecise, uniformi e senza differenza: scompariranno come parti. E di esse non si potrà dire né la quiete,
né il movimento. Così, in ultimo, scompariranno gli stessi contrari.
Se invece non v’è corpo infinito unico ed omogeneo, ma l’infinità si esprime come molteplicità e diversità
irriducibile, le sue partizioni (direzioni elementari costitutive) potrebbero essere in numero limitato od illimitato: ma se
fossero in numero limitato, almeno una di esse (il fuoco o l’acqua, per esempio) dovrebbe essere infinita per costituire
un tutto infinito, rompendo anche in questo caso la contrarietà reciproca degli opposti. Se fossero poi in numero
illimitato, illimitati in numero sarebbero i luoghi che essi contrassegnano: ma i luoghi sono invece limitati, ed il tutto al
quale danno composizione è conseguentemente limitato.
La contrarietà sussistente fra il luogo della leggerezza e quello della pesantezza impedisce poi che un corpo possa
intromettersi quale medio ed essere infinito, a pena di perdere e l’una e l’altra. Non si muoverebbe di più verso l’alto
che verso il basso, resterebbe immobile annullando sia la direzione del divenire delle sostanze che la loro attuazione: il
tutto potrebbe allora aleggiare senza alcuna determinazione. Scomparirebbero pure le dimensioni. Quella anteroposteriore, insieme a quella dell’alto e basso, ed a quella della destra e sinistra, data dalla diversità.
Ma se il luogo è la finitezza della dimensione, che si realizza attraverso e dai contrari, ogni corpo sarà apparente
quando si dimostrerà in essa incluso.
32
Osservazioni sul rapporto fra la Metafisica aristotelica e la posizione bruniana
Aristotele intende invece rendere infondabile. Perciò l’irreversibile prospettiva temporale,
che offre il divenire e l’attuazione, renderebbe l’infinito reale compagno e successivo
dell’infinito causale, con uno scontro fra i due per il posto da prendere nell’unica
apparizione, necessariamente infinita e capace di entrambi. È invece, per Aristotele, la
determinata e particolare grandezza (l’ente che si pone individualmente) a dimostrare con la
forma e la materia la determinazione e la possibilità del movimento, oltre che la graduazione
temporale.
La mutazione vera ed effettiva è allora, in Aristotele, la generazione (o la corruzione) che
si fa internamente alla forma ed alla materia di un sinolo. La forma si diversifica attraverso
il ritornare prima della materia, nella corruzione, e si ripresenta sotto nuova determinazione
per effetto di un agente (esterno od interno), nella generazione. Forma e materia sono
dunque in questo contesto reciproci termini di riferimento inamovibili. Quanto la prima
offre sempre l’essere, per la congiunzione singolarmente individuale (non variabile) di
soggetto e predicato, altrettanto la seconda offre la possibilità del non essere, attraverso la
negazione diretta ed opposta della prima.
La variabilità della forma e della materia non è movimento, perché questo apparente
movimento mantiene la stabilità della prima e della seconda: essa sviluppa solamente la
variazione dell’intenzione 'locale'. Perciò il non essere è entità comparente, in se stessa in
movimento fra gli opposti e contrari, all’interno del processo di generazione o corruzione
(non ha luogo separato). Movimento dunque resta solamente l’attività che non interrompe
l’essere, per offrire, relativamente e di contro, il non essere.
Ricapitolando, secondo la categoria aristotelica di sostanza vi può essere solamente
generazione e corruzione (che non sono movimento, perché hanno a che fare con la stabilità
ordinata della forma e della materia); secondo il relativo il movimento non è determinato da
una causa certa e stabile che si rifletta necessariamente sul mosso; secondo l’azione e la
passione già sussiste movimento, che non può essere invertito nella propria direzione, se
non casualmente. Poi, qualsiasi genere di movimento o di generazione non si costituirebbe,
se esso dovesse innestare in se stesso un ulteriore rimando all’indietro, di tipo causale.
Tutti i movimenti (o le generazioni), infine, devono essere conclusi, per poter essere
invertiti. E la materia che accoglie in sé tutti i punti d’inizio e tutte le fini, oltre che tutte le
56
Negato, dunque, l’infinito sia in atto che per accidente, sia come entità di cui si ha sensibilità, Aristotele ricorda che
l’infinito della grandezza (l’essere continuamente divisibile) è un’entità astratta, che non può essere identificata con
l’ente reale, nemmeno con l’entità che si muove eternamente ed ha durata eterna. Questa entità è infatti, per Aristotele,
il cielo: ed esso è limitato.
33
Osservazioni sul rapporto fra la Metafisica aristotelica e la posizione bruniana
possibili sostanze naturali, dovrà essere una materia mondiale che sa distinguere fra
sostanze e luoghi (inizi o fini). Tutti i movimenti dovranno allora appuntarsi sulla variazione
(per contrarietà) delle qualità (affezioni), quantità o luoghi attribuiti alle sostanze. 57
Se la necessità e la determinazione (secondo qualità, quantità e luogo) sembrano essere,
allora, le caratteristiche ideali e, nello stesso tempo reali, del movimento aristotelico, la
fissazione e l’impianto da queste ingenerati costituiscono l’ambito immaginativo all’interno
del quale Aristotele può offrire la distinzione graduale e ordinata delle sostanze. 58 L’unità di
forma e materia che viene così disposta è pronta ad accogliere sia la molteplice identità delle
determinazioni, che la diversità dei luoghi, organizzata attorno alla polarità dei 'contrari'. 59
In questa unità disposizionale causa esterna e principio interno raccolgono, poi, la totalità
delle determinazioni.60
57
Aristotele, Metafisica, XI, 1067b 1 – 1069a 14.
Secondo Aristotele (Metafisica, XII, 1069a 18 – 1069b 34) la sostanza è un uno-tutto. Partecipando diversamente di
ogni essere, accompagna tutte le determinazioni categoriali. Essa, dunque, ha presenza molteplice: insieme alla
molteplicità della sua presenza, essa detiene pure una certa gradualità, che si esprime come diversità di genere. Oltre
alla prima e più vicina a noi sostanza sensibile e corruttibile, v’è la sostanza sensibile ma incorruttibile dei cieli, in
eterno movimento. Il fondamento, poi, di questo eterno movimento è, infine, la sostanza soprasensibile: il motore (causa
di movimento) immobile.
Il genere della sostanza sensibile si qualifica e viene individuato dal mutamento (generazione, corruzione, alterazione,
crescita o diminuzione, movimento locale). Il mutamento avviene e si realizza dai contrari in un soggetto o sostrato (la
materia) che riceve via via le determinazioni. Essa può essere entrambi i contrari (potenza), pur divenendo o l’uno o
l’altro: perciò la potenza è mossa dall’atto di uno dei due contrari. Altro da ciò che dev’essere, la materia, come
potenza, è distinta da ciò che intanto e per prima è, la forma in atto di realizzazione. Ma, essendo la forma in atto di
realizzazione, la materia non è distaccata dalla sua fonte causale: vi si accompagna e ci si adegua, non risultando con
ciò un essere indifferenziato.
I cieli hanno invece materia particolare (l’etere), capace del solo movimento di traslazione (circolare). Essa non ha
invece le potenzialità assegnate alla materia del mondo corruttibile (il mondo sublunare): essere dilatata e dilacerata fra
gli estremi opposti. Viene invece come trasportata staticamente dalla forma del cielo.
59
Aristotele ricorda (Metafisica, XII, 1069b 35 – 1070a 30) che se la materia è il mantenimento non distaccato ma
distinto del fine, allora essa sta come elemento inamovibile e necessario, posto nella sua necessità dalla necessità stessa,
prioritaria, della forma. Forma e materia, allora, fuoriusciranno dalla possibilità di essere pensati come esseri soggetti
alla possibilità della scomparsa: poste insieme, necessariamente, forma e materia varranno come principio ed elemento
di un composto indisgiungibile.
Ciò che muta ha dunque fine intrinseco, inseparabile, ma viene posto diversamente da cause esterne diverse (diverse
cause efficienti, della medesima natura e nome di ciò che verrà prodotto, senza alterazione). Perciò forma e motore
prossimo si realizzano nel termine dell’opera (naturale od artificiale), che costituisce l’identità della materia prima e
dopo la trasformazione.
Arte e natura sostituiscono i concetti di potenza (la presenza di una causa esterna) e di finalità immanente (causa
interna). Le forme delle sostanze composte con arte restano insieme a queste stesse sostanze e non hanno un’esistenza
separata; le forme delle sostanze composte naturalmente potrebbero esistere separatamente: ma queste in realtà vengono
astratte, cioè sottratte alla loro condizione materiale immediata, come se potessero essere delle forme artistiche. Le
cause che sono all’origine dell’applicazione delle forme o del loro svolgimento interno stanno comunque prima del
termine realizzante o sinolo (individuo).
Solamente l’anima intellettiva sembra poter ritornare all’origine del termine, inseparato dal termine stesso: con ciò
non si da atto alla costituzione di una frattura e separazione, che presupponga all’interno dell’originario delle forme
ideali prime e formanti (le idee platoniche).
60
Secondo Aristotele (Metafisica, XII, 1070a 31 – 1071b 2) 'causa' e 'principio' possono essere detti, in un senso,
come 'molti', e, in un altro senso, come 'uno'. Possono essere detti, e sono, 'molti', in quanto non sussiste un elemento
comune che congiunga, sovrastandole, tutte le categorie: la sostanza non determina le altre categorie e le altre categorie
non determinano la sostanza. Ma, nemmeno (con un’istanza platonica), gli elementi che sono 'prima' possono essere gli
stessi di quelli che sono 'dopo', nei composti. Offerto lo spazio per la sussistenza di una formalità (o molteplici
formalità) ulteriore, superiore e prima, Aristotele si preoccupa di demolirne l’applicazione secondo le modalità stabilite
58
34
Osservazioni sul rapporto fra la Metafisica aristotelica e la posizione bruniana
Nella composizione aristotelica fra atto di posizione prioritario e schema analogico, Dio
non può non identificarsi se non con la sostanza separabile e separata. Esso (essa) mette in
movimento e da affezione. Nel luogo del separabile che ha poi termine nel separato vengono
disposti, in posizione inferiore il desiderio, ed in posizione superiore l’intelletto: insieme
essi costituiscono l’anima. Il corpo invece occupa il posto dell’inseparabile ed inseparato
(separato solo astrattamente). Mentre all’inseparabile che è anche inseparato viene associato
il plesso atto-potenza (l’essere che, non essendo, può essere), al separabile che può essere
separato si offre la posizione assoluta dell’essere che può solamente essere (il cielo).
L’essere che può solamente essere (l’essere che si da) si presenta sempre diversamente;
inoltre sembra potersi sviluppare: si sviluppa nell’azione che intraprende per generare e
conservare le specie viventi (come il sole e l’eclittica, che sono cause efficienti degli esseri
viventi del mondo sublunare).
Platonicamente, una molteplicità nella materia o nella forma distanzia l’atto dalla
potenza, costituendo un essere ideale che deve essere raggiunto attraverso la composizione,
per offrire la presenza della determinazione. La composizione in Aristotele però è atto
individuale, non universale: forma e materia sono specificamente e numericamente unitari.
Nello stesso tempo la caduta della possibilità delle cause universali non rende impossibile
risalire ad una causa prima: infatti la causa è una se si risale sino a Dio, come causa di tutte
le possibili sostanze. A loro volta tutte le sostanze esistenti sono causa di tutto ciò che si
accompagna ad esse, come affezione e movimento. Perciò molte diventano le cause, distinte
e separate, quando materia e forma esprimano in loro stesse una molteplicità. 61
Oltre l’eterno che è in movimento (il primo mobile etereo) vi è un eterno che è immobile:
infatti, pur se il movimento del primo cielo è eterno, in modo tale da potergli attribuire
dai platonici o dagli atomisti: infatti fra i migliori candidati ad occupare il posto di questo elemento primo sta l’essere e
l’uno della tradizione accademica. Ma, dice Aristotele, l’essere e l’uno non possono identificarsi con l’elemento primo,
perché piuttosto essi vengono attribuiti diversamente alla molteplicità degli esseri (ognuno definito appunto tale: essere
e uno).
Non v’è dunque un elemento primo, un elemento che fonda in sé le caratteristiche dell’elemento e del principio, che
sia perciò separato ed inseparato rispetto alla sostanza che causa e costituisce? Se non v’è un elemento primo e
sovrastante, che accomuni tutte le determinazioni, come essere assoluto (egemonico), perché questo può essere
immaginato solamente per astrazione e sottrazione, tuttavia si deve pensare che lo spazio della forma costituisca
l’ambito di validità di una opposizione, espressa secondo uno schema che lega insieme il momento tetico della forma,
quello antitetico della privazione e quello sintetico della materia. Questo schema (l’analogia) fornisce la struttura di
determinazione di ogni cosa. A questo schema va aggiunto, quale accompagnamento, l’atto prioritario che impone la
presenza esterna della causa efficiente (causa motrice).
Unica la struttura di determinazione ed unico (oltre che prioritario) l’atto di posizione, la forma viene assorbita nella
relazione che rende stabile questa unità: la relazione che pone la totalità (universalità) dell’essere all’interno della
espressione divina. E l’espressione divina è l’essere causa immobile e prima del movimento generale. Poi, analogia ed
atto, pur essendo applicati egualmente per ogni possibile determinazione, variano a seconda del genere che risulta
agganciato ad essi e che viene così utilizzato.
61
Aristotele, Metafisica, XII, 1071b 3 – 1072a 18.
35
Osservazioni sul rapporto fra la Metafisica aristotelica e la posizione bruniana
solamente l’essere che può essere (e non quello che può non essere), esso come movimento
è posto in essere da un motore che deve esistere prima in atto, senza ulteriore rimando. Un
motore, ed un essere, che è completamente essere: in questo senso, senza potenza.
Questo motore viene allora inteso come atto puro.62 Senza movimento, né variazione,
esso si dimostra come l’essere che è completamente e compiutamente essere, in modo
separato, mentre la potenza che gli è congiunta immediatamente (il cielo) non può divenire,
ma solamente muoversi. La successione costituita dall’atto separato e dall’atto che ha
congiunta a sé la potenza, impone l’affermazione dell’invariabilità dell’essere universale,
dell’essere incluso come tutto nel limite del cielo. 63 L’atto che precede la potenza ed è atto
puro (separato, ed essere completo e compiuto) dunque muove restando immobile (è motore
immobile). Ma ciò che muove senza essere mosso a sua volta da altro è solamente l’oggetto
dell’intelligenza o del desiderio. Nell’atto puro questi due oggetti coincidono e si fondono:
la considerazione (il pensiero) circa la bellezza dell’oggetto muove la volontà ed il
desiderio.
Questo oggetto dell’intelletto e della volontà è atto nella sua più alta ed ottima semplicità:
il fine che non si modifica ed è la fonte del movimento d’amore. Esso non trasferisce
movimento, ma piuttosto lo causa. Causa immobile ed immodificabile del movimento, è
indicata necessariamente dal movimento stesso come necessità assoluta: come Ottimo e
Principio.64
Da un tale Principio dipendono il cielo e la natura. Esso vive in una condizione di piacere
e felicità eterne: come perfezione che sta sempre con se stessa (essere completo e
compiuto), essa è l’attività più perfetta, elevata al suo più alto grado. Il pensiero che pensa
se stesso pensante.
62
Aristotele, Metafisica, XII, 1072a 25 - 26. Il motore primo ed immobile viene concepito come atto agente: invece
l’anima di Platone (ciò che ha movimento in se stesso), oppure la Notte dei poeti, od anche lo Sfero dei fisici ionici non
sono altro che o atto impuro, non separato, o pura potenza, senza atto. Anassagora ed Empedocle, invece, con la Mente
o con l’opposizione fra Amore ed Odio, seppero premettere un atto (o due atti) completo. Vedi Aristotele, Metafisica,
XII, 1072a 5 e segg.
63
Aristotele sottintende (Metafisica, XII, 1072b 5 e segg.) che una potenza che preceda l’atto non avrebbe mai la
necessità di passare all’atto: essa porrebbe un’entità che rimarrebbe indeterminata, senza decretare alcun ordine attuale
(espresso, nella speculazione aristotelica, attraverso il cielo). Essa infatti mancherebbe di indicare una causa od una
ragione eminente e prioritaria, che fosse origine del proprio determinarsi.
Se, al contrario, l’atto precede la potenza, tutto ciò che diviene potrebbe divenire egualmente, oppure con variazione:
se diviene egualmente, come sopra si sosteneva, vi è un agente che opera sempre allo stesso modo, con una materia che
offre un luogo soggetto per la variazione (e qui si situa la generazione e corruzione, che riguarda solamente il
numerabile). Quest’agente risulterà così diviso fra se stesso e ciò che è sempre diverso: ma sarà capace di allungarsi e
toccare sia l’immodificabile (il cielo) che il variabile (il mondo sublunare, soggetto all’influenza delle variazioni di
posizione del sole).
64
Aristotele, Metafisica, XII, 1072a 26 – 1072b 13.
36
Osservazioni sul rapporto fra la Metafisica aristotelica e la posizione bruniana
Il rapporto dell’intelligenza con ciò che la origina allora fonde sempre più il soggetto
all’oggetto, trasformando quest’ultimo in entità non più inerte ma viva e vitale, vitalizzante.
L’intelligenza diventa atto e l’atto si fa intelligenza vivificante. Nasce il dio che è atto,
intelligenza e vita che non decadono mai.65
L’affermazione, dunque, della perfezione che se ne sta sempre con se stessa diventa
coestensiva alla posizione della sostanza separata, immobile ed eterna: la sua indivisibilità le
impedisce di avere parti e dunque grandezza, la sua separatezza ne impedisce il contatto con
la sensibilità, determinandone l’impassibilità e l’inalterabilità.66
Nello stesso tempo, come perfezione, essa non può essere distaccata da tutto ciò che
partecipa, in diverso grado, di essa. In questo senso principio e principiato non possono
essere disciolti, separati e contrapposti, come ad Aristotele pareva che avvenisse per il Bene
platonico. In questo modo tutta la partecipazione dell’essere ordinato deve costituire un
complesso organico ed unitario. Tutti i diversi movimenti dei diversi esseri celesti devono
essere giustificati sulla base di una molteplicità organizzata e gerarchizzata di intelligenze
celesti: se l’essere primo determina il movimento primo, allora Dio determina il movimento
eterno del primo mobile (il cielo delle stelle fisse); a sua volta il movimento eterno dei
pianeti viene determinato da altri motori egualmente eterni. Questi sono sostanze immobili e
senza grandezza, come Dio. Sono poi ordinati seguendo lo stesso ordine che risulta
visibilmente dall’ordinamento digradante dei pianeti verso il centro della Terra.
Le direzioni pensate sulla base dei movimenti degli astri costituiscono l’apparire della
totalità dei fini dell’universo. Non sussistono altri fini. Essi, tutti insieme, partecipano
dell’Ottimo e, tutti insieme, costituiscono il termine (limite) del movimento di ogni cosa in
movimento. Ogni sostanza, così, accompagna il proprio corpo celeste, costituendone la
forma attuante, l’immediato fine attuoso (la perfezione).
Se il Principio è uno, non può avere molti luoghi nei quali esplicarsi come motore
immobile: se, infatti, avesse molti luoghi nei quali esprimersi come tale, esplicherebbe una
potenza molteplice. Ma esso è atto puro, che fonda l’accostamento di se stesso e di un’unica
65
Aristotele, Metafisica, XII, 1072b 13 – 30. La perfezione che se ne sta dunque con se stessa permette allora
l’accostamento dell’atto e della vita. Di fronte all’affermazione della perfezione come unità più profonda, Aristotele
riporta in campo la possibilità dell’essere e dell’uno platonici, togliendo però a loro ogni reciproca virtù dialettica:
secondo la sua concezione infatti ora l’essere e l’uno sono il medesimo essere che risulta dalla fusione della causa con il
principio, a costituire un indivisibile assoluto quale fonte dell’espressione universale. In questo modo si può dare atto
all’ordine attuale dell’universo, superando le difficoltà frapposte dalla proposta atomista (l’apertura e la diversificazione
illimitata) e platonica (la scissione apparente dovuta al movimento interno all’essere). Applicando l’ordine attuale
Aristotele ha così buon gioco nel considerare impossibile (non necessario) il passaggio da un’entità caotica e tutta
mescolata (ora non più esistente) al cosmo bello ed ordinato. Vedi Metafisica, XII, 1072b 30 e segg.
66
Ibidem.
37
Osservazioni sul rapporto fra la Metafisica aristotelica e la posizione bruniana
potenza: la possibilità d’essere, senz’altro, del cielo. Ma un’unica potenza ha un oggetto
unico nel quale realizzarsi. Perciò il cielo ed il mondo è uno ed uno solo. 67
La vita dell’intelligenza è attività pensante al massimo grado, indegradabile: se fosse
mossa da altro, non sarebbe più al massimo grado e verrebbe così condizionata e
subordinata. Verrebbe degradata e non potrebbe più far coincidere la propria eccellenza con
l’autonomia e la libertà.
Allora essa pensa se stessa come il termine e la radice più divina di ogni libera ed
immodificabile produzione: si pensa come essere in atto d’agente. Essere che è tale
immediatamente, dunque semplicemente (senza tempo ed eternamente). Bandita da Dio la
riflessione e l’opera consapevole, si assiste alla dichiarazione della impresentabilità della
materia, nella forma della ricerca razionale e della sua applicazione. Allora, se la materia è il
poter-essere-altro (il poter-essere che origina dall’altro), Dio ne è la negazione: tutto e solo,
immediatamente, con se stesso, esso fa coincidere il necessario e la necessità. Anzi, si
potrebbe o dovrebbe dire che è la stessa necessità, senza necessario.
Senza sdoppiamenti è l’identità assoluta: tutto perciò porta verso quella convergenza che
è il suo essere con se stesso sempre, il suo essere pensiero pensante sé come pensante per
l’eternità.68
Intelletto e volontà sono dunque portati ad essere coincidenti in Dio. Il progredire di
questa coincidenza è l’effetto dello stesso ordine attuale, che è uno. Se l’ordine attuale è
uno, esso però si manifesta attraverso specie diverse, che apparentemente sembrano porre
delle finalità diverse. Esse però non sono scisse e separate le une dalle altre, ma sussistono
dei rapporti che le collegano. Anzi, di più, si deve dire che tutte le finalità convergano verso
uno scopo superiore, unico e primo (principale).69
Sembra dunque che Aristotele paragoni già il cosmo ad un esercito, dove il generale
(Dio) componga l’ordine, poi reso presente effettivamente e materialmente attraverso degli
opportuni elementi direttivi. In tal modo distinzione ed interezza non vengono opposte, ma
la prima è posta nella seconda. In fondo, solamente se la distinzione è presente nell’intero
tutte le cose potranno essere comprese entro opposti contrari, che si distinguono e si tengono
reciprocamente isolati, tramite un essere medio che si sdoppia, verso l’uno o verso l’altro.
La materia aristotelica è, infatti, l’elemento rovesciabile.70
67
Aristotele, Metafisica, XII, 1073a 14 – 1074b 14.
Aristotele, Metafisica, XII, 1074b 15 – 1075a 10.
69
Aristotele scrive: “tutte le cose, necessariamente tendono a distinguersi; per altri aspetti, invece, avviene che tutte
tendano all’intero.” Metafisica, XII, 1075a 25.
70
Aristotele scrive: “la materia, secondo noi, non è contraria a nulla.” Metafisica, XII, 1075a 34.
68
38
Osservazioni sul rapporto fra la Metafisica aristotelica e la posizione bruniana
Se il Bene non si diffondesse, e fosse solo l’Uno platonico, separatamente, allora tutte le
cose sarebbero male, comunque e necessariamente. Ma il bene aristotelico invece si
diffonde: o meglio, può diffondersi, se la potenza che è la materia non viene distolta dalla
terminazione posta dall’assoluto.
Aristotele scrive: “Coloro che dicono che il bene è principio, hanno ragione, ma non
spiegano come il bene sia principio: se come causa finale, o come causa motrice, o come
causa formale.”71 L’Unità come principio (causa motrice) e relazione (causa materiale) di
Empedocle non ammette una congiunzione formo-finale. L’Intelligenza di Anassagora è
motore, animato però da un fine estrinseco.
Sembra, dunque, che Aristotele voglia costituire la possibilità di una congiunzione fra ciò
che è motore (il bene in quanto principio) e ciò che viene mosso ed ha relazione con esso (la
materia, in quanto potenza di essere altro, in virtù di altro): e che questa congiunzione sia la
costituzione di una forma finale interna (o intrinseca), rispetto alla quale pone, quale
contraltare, la privazione.
In questo modo la distinzione fra questa forma finale e l’opposta direzione indicata dalla
privazione renderebbe conto della differenza fra incorruttibile e corruttibile: l’essere che può
essere eternamente e che non si sviluppa (il cielo etereo e gli astri) lasciano alla materia
terrestre il campo ed il luogo del divenire e della corruttibilità. Senza bisogno di un Uno
superiore, dal cui infinito spazio provengano gli esseri, né di affermare all’opposto il
passaggio dall’assoluto non essere all’essere, il dominio degli opposti aristotelico resta
come luogo sospeso, governato da questa interna forma finale. È essa che è capace di
mediare a sé e così di mostrare ed indicare l’eternità (il non venir mai meno) della
generazione (continua ed uniforme) e, dunque, della corrispettiva ed opposta corruzione,
come forme di immedesimazione nell’eterno.
Coloro che non ammettono un unico principio, come invece fa Aristotele (componendo
insieme il fine, la forma e la causa efficiente), ma separano – senza medio apparente –
l’elemento positivo da quello negativo, sono poi costretti a porre l’origine dell’elemento
positivo (presso i platonici il Bene, che muove e congiunge i sensibili alle forme-idee). Ma
questa origine resta fuori dell’essere e del sapere. Il principio aristotelico invece non ha
estraneità, possedendo tutta la materia. Quest’ultima può così essere definita razionalmente
come l’astratto, che può essere termini opposti, i quali vigono a livello potenziale, non
attuale.
71
Aristotele, Metafisica, XII, 1075b 1.
39
Osservazioni sul rapporto fra la Metafisica aristotelica e la posizione bruniana
La limitazione costituita da questo essere astratto permette la determinazione progressiva
del principio: l’ordine, il movimento dei cieli, la continuità ed uniformità della generazione.
Senza di esso la materia sensibile avrebbe e godrebbe di uno slancio infinito, andrebbe
indefinitamente al principio: con ciò non si realizzerebbe l’ordine, il movimento dei cieli, né
vi sarebbe generazione, ma solamente comparsa di enti assolutamente eterogenei.
Le entità separate ideali platoniche, proprio in quanto separate, non permettono invece
alcuna realizzazione: non hanno capacità poietiche, in quanto non riescono a porre in atto
alcun movimento dotato intrinsecamente di un fine agente inseparato. Inestese, non riescono
a comporne la visione, né l’azione. Risultano così eternamente prive di materia,
impossibilitate a possederla attraverso la presenza dell’ordinante. Senza convergenza, le
idee non offrono la via e lo strumento per il raggiungimento dello scopo divino.
Aristotele dice che l’estensione permette il numero, mentre il numero non costringe a
pensare l’estensione: con ciò vuole rovesciare il primato del numero ideale platonico,
puntando lo sguardo verso ciò che invece consente un’estensione universale. Secondo la sua
interpretazione, l’opposizione e la separazione platonica fra idee e sensibili sconnetterà la
possibilità che l’uno o l’altro produca o muova ciò che rimane: questa possibilità
scomparirebbe, e l’azione con essa. La costituzione, invece, all’interno dell’interezza e
totalità dell’essere di una congiunzione fra forma e fine, può presentare quella possibilità di
una causa efficiente che, mentre pone l’altro da sé, pone prima e superiormente (fa
ricordare) l’identità che la genera.72
Ancora: i numeri ideali platonici non permettono il realizzarsi della singola
determinazione. Essa avviene, invece, secondo Aristotele, solamente in virtù della causa
motrice. Ovvero solamente in virtù del Bene che, in qualità di principio muove a sé,
determinando assolutamente il comparire della forma finale. È la presenza del fine
attraverso la forma, la capacità del fine di oltrepassare l’apparenza della forma per giungere
a ciò che la origina (così procedendo all’identificazione della causa motrice con la causa
finale), a costituire il termine univoco di ogni movimento.
Senza questo termine ricomparirebbe la possibilità dell’infinire e le sostanze non
potrebbero essere ridotte ad un unico principio, ma avrebbero, al contrario, molteplici
principi. Sarebbero libere di muoversi e di esistere, senza essere ordinatamente complanari
72
Qui si apre lo squarcio del futuro pensiero teologico cristiano, che cercherà di utilizzare in senso platonico questa
struttura aristotelica. Esso infatti permeerà di specie poietiche lo spazio e l’ambito costituito da codesta unità della causa
efficiente con la causa finale.
40
Osservazioni sul rapporto fra la Metafisica aristotelica e la posizione bruniana
ed essere costrette ad influenzarsi reciprocamente (secondo il modello aristotelico,
rappresentato dalla schiera dell’esercito).73
CONCLUSIONI
La fissità dello spirito divino, criticata da Aristotele nella concezione astratta, rigida e
consequenziale (deterministica) del sostrato platonico, che conduceva il filosofo ateniese ed
i suoi scolari verso l’impossibilità della definizione della sostanza, 74 sembra però venire
ristabilita, quando il filosofo stagirita – dopo aver trasformato l’Uno platonico
nell’individualità delle sostanze attraverso il concetto del termine ipostatico di riferimento,
l’uso strumentale della finalità compositiva e l’affermazione dell’assolutezza del soggetto ripropone l’invariabilità assoluta del modus operandi.75 Questa riproposizione si concretizza
in Aristotele attraverso una particolare forma sensibile: l’immutabile movimento del primo
mobile. Bruno, invece, lega all’apertura ed all’impredeterminatezza della grazia, oltre che la
73
Aristotele, Metafisica, XII, 1075a 11 – 1076a 4.
Aristotele riafferma la dinamicità dei 'contrari', apparentemente fissata ed immobilizzata dall’applicazione rigida ed
uniforme del 'sostrato' di matrice platonica. In questo modo sembra però togliere l’opposizione infinita permessa
dall’unità infinita dell’Uno platonico, riducendo la sua funzione unificante a termine astratto tramite la nozione di
'sostanza'. Il filosofo di Stagira infatti afferma (Metafisica, XIV, 1087a 29 – 1087b 4) che la criticata divaricazione
platonica fra l’universale e le sostanze particolari impedisce la costituzione di due termini opposti in atto (nel caso
particolare, l’Uno e la Diade dei platonici), garantendo invece lo spazio dell’atto e della potenza della materia (sostrato).
L’essere e l’Uno dei platonici è invece principio astratto, che richiede la presenza prioritaria di un sostrato per poter
essere applicato ed esistere (per poter essere predicato). Ma il sostrato, per la verità, tocca ed include i contrari,
impedendo la loro separazione e determinando la presenza di un soggetto o singolarità (positiva o negativa). Il principio
è invece la sostanza, che non ha opposizione.
Se Aristotele considera (Metafisica, XIV, 1087b 4 – 33) materia l’insieme dei contrari, i filosofi accademici ne
separano l’esistenza attribuendola ad un solo termine dell’opposizione: la definiscono l’ineguale od il molteplice, in
opposizione all’Uno, che assume l’attività universale dell’essere formante. Che la materia sia tratteggiata
quantitativamente (attraverso il molto ed il poco), secondo la grandezza (attraverso il grande e piccolo), attraverso la
disuguaglianza (l’eccesso ed il difetto), l’alterità o la molteplicità, essa comunque viene, nell’ambiente accademico,
semplicemente posta accanto all’altro elemento: l’Uno. Senza che vi sia spiegazione della relazione intercorrente. In
realtà, visto che l’Uno è principio, esso non dovrebbe, secondo Aristotele, avere contrario: rimanendo nelle intenzioni
degli accademici invece, deve essere preferito, come contrario, la molteplicità. In questo caso però l’Uno si trasformerà
nella rarefazione della molteplicità, perdendo la propria caratteristica di continuità ed unità.
75
Aristotele riafferma l’invariabilità del modus operandi, quando evidenzia (Metafisica, XIV, 1087b 33 – 1088a 14)
che l’unità dell’Uno è l’unità di base ('misura'), inscindibile ed imperdibile: perciò può essere alienata in ogni diverso
campo d’applicazione, senza perdere la propria immodificabilità profonda. Applicata nel genere però acquisisce la
determinazione portata dal medesimo: una sorta di materia particolare (soggetto inseparato), che viene riferita agli
esseri della medesima classe.
Così la dinamizzazione dei 'contrari' operata da Aristotele resta confinata nella variabilità dell’applicazione combinata
(tramite la nozione di genere) dei concetti di atto e potenza, senza alcuna infinitezza di movimento. Aristotele infatti
ricorda (Metafisica, XIV, 1088a 15 – 1008b 13) che quella relazione che i platonici istituivano accostando all’Uno la
Diade, sembra doversi costituire identica a quella determinata dall’identità di genere: non è affezione accidentale o
attributo che necessiti di un’entità che venga presupposta, e che venga considerata invariabile e priva di qualsiasi
movimento. È invece soggetta alla variazione ed al movimento, secondo la potenza della materia e l’atto. L’identità di
genere aristotelica resta così preda della distinzione, mentre la relazione platonica viene accorpata ad un’identità
premessa, ad un sostrato immobile ma mobilizzabile. Poi, l’uso della quantità come categoria oppositiva porterebbe
l’Uno ad essere moltiplicato indefinitamente, costituendo un polo sproporzionato rispetto a quello della materia,
impedendo il composto (il numero). Il composto invece può trovare luogo di cittadinanza quando un unico soggetto
esistente (altrimenti non potrebbe nemmeno esistere), può tendere in direzioni opposte, alternative.
74
41
Osservazioni sul rapporto fra la Metafisica aristotelica e la posizione bruniana
necessità dell’opera, l’infinito movimento e variabilità dello Spirito. Se Aristotele, poi,
connette la variazione apparente della generazione e corruzione al ciclico movimento di
allontanamento ed avvicinamento, rispetto alla Terra, del Sole, lungo il perimetro
dell’eclittica, Bruno moltiplica all’infinito il numero dei rapporti creativi e dialettici fra gli
astri solari ed i pianeti terrestri.
Ottimo e principio, l’essere aristotelico si rappresenta come perfezione che se ne sta
sempre e continuamente con se stessa: 76 non vale come oggetto inerte, bensì come attività
più perfetta, elevata al suo più alto grado. Nella definizione aristotelica del Libro XII della
Metafisica: pensiero che pensa se stesso come pensante. 77 Così nell’atto puro aristotelico il
rapporto dell’intelligenza con ciò che la origina fonde sempre più il soggetto all’oggetto,
trasformando quest’ultimo in entità non più inerte, ma viva e vitale, vitalizzante.
L’intelligenza diventa atto e l’atto si fa intelligenza vivificante. Nasce il dio che è atto,
intelligenza e vita che non decadono mai.78
La perfezione che se ne sta dunque con se stessa permette allora l’accostamento dell’atto
e della vita. A questo punto ci si può chiedere se Aristotele in questo modo dia agio
all’Essere ed all’Uno platonici di riemergere e riaffermarsi: attraverso la perfezione che se
ne sta con se stessa, infatti, sembra potersi costituire la profondità di un’unità che genera
76
Dopo aver reindicato (Metafisica, XIV, 1088b 14 – 1090a 15) che la 'sostanza' è il termine distinto della misura
applicabile, secondo una riflessività multivoca (non univoca), e dopo aver ricordato (Metafisica, XIV, 1090a 16 – 1091a
22) che il fondamento delle entità discrete sta nell’affermazione dell’analogia delle 'perfezioni' (essa infatti consente sia
l’unità dell’essere che la sua diversità determinativa), Aristotele si chiede (Metafisica, XIV, 1091a 23 – 1092a 17) se il
Bene debba essere identificato con l’Uno in sé, oppure con ciò che viene posto in relazione ad esso. Gli antichi teologi, i
pitagorici e Speusippo preferiscono la seconda possibilità; i Magi, Empedocle, Anassagora scelgono invece la prima
posizione, affermando che il principio unitario costituisce anche il bene supremo. I platonici, poi, identificano il
principio dell’Uno con l’essenza separata del Bene (Bene in sé).
L’essenza separata della sostanza è il bene: per questo motivo essa può attribuirsi le caratteristiche dell’autonomia e
della sicurezza. La sua immobilità sempre fuori presa fonda la possibilità della variazione dell’atto (dei fini e degli
scopi), e la diversità della potenza (delle numericamente distinguibili realizzazioni). Se la sostanza viene però
identificata con la posizione assoluta dell’Uno, secondo i generi si otterrà la moltiplicazione dei termini positivi. Questi
termini positivi poi costituiranno la possibilità a che, ad essi, si incardinino le determinazioni d’univocità (le idee come
numeri). Ma, in questo modo, la differenza fra termine positivo e determinazione renderà quest’ultima ininfluente;
all’opposto, se si dovesse scegliere quella posizione che annulla questo rapporto, per far valere l’immediatezza
dell’essere (come sostiene Speusippo), allora vigerà la completa indifferenza del bene.
In più: ciò che si oppone al Bene-Uno (la materia, sia essa intesa come molteplicità, oppure come ineguaglianza)
diverrebbe necessariamente e totalmente male. In essa il sorgere della determinazione avrebbe una qualità ancora più
negativa della sua realizzazione concreta nei corpi, facendo si che il bene non si possa realizzare se non attraverso il
male. Così il male diverrebbe causa e strumento d’altro: essere limitato e determinato da altro e, nel contempo, essere
limitante ed assolutamente determinante.
Solamente la possibilità della variazione assicurata dall’atto e la congiunta considerazione del valore della
realizzazione che questa consente (potenza come possibilità d’essere) può rompere questa contraddizione e coercizione.
Solamente in questo modo vi sarà luogo per la continuità assegnata al libero (naturale od artificiale) divenire delle
sostanze. In questo modo ciò che si accosta al Bene è solamente bene in potenza. Non può dunque essere accettata né la
posizione separata dell’Uno effettuata dai platonici tradizionalisti, né la sua negazione, l’ammissione prioritaria di una
sostanza indeterminata ed imperfetta, dalla quale deriverebbe il determinato ed il perfetto, come vuole Speusippo. Al
contrario il determinato ed il perfetto generano ciò che non è disuguale a se stesso.
77
Aristotele, Metafisica, XII, 1072b 18 – 24; 1074b 33 – 35; 1075a 10.
78
Aristotele, Metafisica, XII, 1072b 24 – 30.
42
Osservazioni sul rapporto fra la Metafisica aristotelica e la posizione bruniana
l’intera totalità. Ma l’Essere e l’Uno di tradizione platonica, come Bruno ricorderà, sono in
posizione dialettica: vigono come opposizione infinita che pone l’infinita apertura dell’Uno.
L’apertura liberamente ed egualmente creativa, che ha l’amore illimitato come propria fonte
unitaria.79
La tripartizione aristotelica della sostanza in atto, perfezione e vita può invece essere
riassunta entro una particolare corrispondenza con una certa formulazione dogmatica
dell’articolazione trinitaria cristiana: l’atto come il Padre, la perfezione come l’unità del
Figlio nello Spirito Santo, la vita come la realizzazione di questa unità. Ci si può dunque
79
La libertà e l’eguaglianza, unite in virtù e tramite l’amore, potrebbero costituire le due 'stelle' tematizzate da Bruno
alla fine della parte prima dei dialoghi De gli Eroici furori. (Ed. Aquilecchia) pagg. 1061 – 1062: “Aperto si vede ch'è
introdotto Eolo parlar a i venti, quali non più dice esser da lui moderati ne l'Eolie caverne, ma da due stelle nel petto di
questo furioso. Qua le due stelle non significano gli doi occhi che son ne la bella fronte; ma le due specie apprensibili
della divina bellezza e bontade di quell'infinito splendore, che talmente influiscono nel desio intellettuale e razionale,
che lo fanno venire ad aspirar infinitamente, secondo il modo con cui infinitamente grande, bello e buono apprende
quell'eccellente lume. Perché l'amore, mentre sarà finito, appagato e fisso a certa misura, non sarà circa le specie della
divina bellezza, ma altra formata; ma, mentre verrà sempre oltre ed oltre aspirando, potrassi dire che versa circa
l'infinito.” Pag. 1171: “Allor, s'avvien ch'aspergan le man belle / Chiunque a lor per remedio s'avicina, / Provar potrete
la virtù divina / Ch'a mirabil contento / Cangiando il rio tormento, / Vedrete due più vaghe al mondo stelle. // Tra tanto
alcun di voi non si contriste, / Quantunque a lungo in tenebre profonde / Quant'è sul firmamento se gli asconde; / Perché
cotanto bene / Per quantunque gran pene / Mai degnamente avverrà che s'acquiste.” Pagg. 1173 – 1174: “Prese una de le
Ninfe il vaso in mano, e senza altro tentare, offrillo ad una per una, di sorte che non si trovò chi ardisse provar prima;
ma tutte de commun consentimento, dopo averlo solamente remirato, il riferivano e proponevano per rispetto e
riverenza ad una sola; la quale finalmente non tanto per far pericolo di sua gloria, quanto per pietà e desìo di tentar il
soccorso di questi infelici, mentre dubbia lo contrattava, - come spontaneamente, s'aperse da se stesso. Che volete ch'io
vi referisca quanto fusse e quale l'applauso de le Ninfe? Come possete credere ch'io possa esprimere l'estrema
allegrezza de nove ciechi, quando udîro del vase aperto, si sentîro aspergere dell'acqui bramate, aprîro gli occhi e
veddero gli doi soli, e trovarono aver doppia felicitade: l'una della ricovrata già persa luce, l'altra della nuovamente
discuoperta, che sola possea mostrargli l'imagine del sommo bene in terra? Come, dico, volete ch'io possa esprimere
quella allegrezza e tripudio de voci, di spirto e di corpo, che lor medesimi, tutti insieme, non posseano esplicare? Fu per
un pezzo il veder tanti furiosi debaccanti, in senso di color che credono sognare, ed in vista di quelli che non credeno
quello che apertamente veggono; sin tanto che tranquillato essendo alquanto l'impeto del furore, se misero in ordine di
ruota, dove …” L’amore come unità dinamica di libertà ed eguaglianza, pagg. 1176 – 1177: “Dopo che ciascuno in
questa forma, singularmente sonando il suo instrumento, ebbe cantata la sua sestina, tutti, insieme ballando in ruota e
sonando in lode de l'unica Ninfa con un suavissimo concento, cantarono una canzona, la quale non so se bene mi verrà a
la memoria. Giulia. Non mancar, ti priego, sorella, di farmi udire quel tanto che ti potrà sovvenire. Laodomia. Canzone
de gl'illuminati. - Non oltre invidio, o Giove, al firmamento, / Dice il padre Ocean col ciglio altero, / Se tanto son
contento / Per quel che godo nel proprio impero. - // - Che superbia è la tua? Giove risponde; / A le ricchezze tue che
cosa è gionta? / O dio de le insan'onde, / Perché il tuo folle ardir tanto surmonta? - // - Hai, disse il dio de l'acqui, in tuo
potere / Il fiammeggiante ciel, dov'è l'ardente / Zona, in cui l'eminente / Coro de tuoi pianeti puoi vedere. // Tra quelli
tutt'il mondo admira il sole, / Qual ti so dir che tanto non risplende, / Quanto lei che mi rende / Più glorioso dio de la
gran mole. // Ed io comprendo nel mio vasto seno, / Tra gli altri, quel paese ove il felice / Tamesi veder lice / Ch'ha di
più vaghe ninfe il coro ameno; // Tra quelle ottegno tal fra tutte belle, / Per far del mar più che del ciel amante / Te,
Giove altitonante, / Cui tanto il sol non splende tra le stelle. - // Giove responde: - O dio d'ondosi mari, / Ch'altro si
trove più di me beato, / Non lo permetta il fato; / Ma miei tesori e tuoi corrano al pari. // Vagl'il sol tra tue ninfe per
costei; / E per vigor de leggi sempiterne, / De le dimore alterne, / Costei vaglia per sol tra gli astri miei. Credo averla
riportata intieramente tutta.”
Aristotele, invece, si chiede (Metafisica, XIV, 1092b 8 – 1093b 29) se, come determinazione d’univocità, il numero
platonico semplicemente applichi la limitazione, immediatamente e senza richiamo ad alcuna ragione che non sia la
separatezza dei termini positivi. Oppure, se il numero stesso valga come insieme delle relazioni di proporzionalità fra
elementi. E allora le singole qualità? Ma Aristotele risponde che il numero riguarda la materia e non la forma: non può
così essere causa delle cose. Solo la forma può esprimere il rapporto di giusta proporzione fra le quantità degli elementi
componenti. Solo la forma, come congiunzione con il fine realizzante, e non l’uso arbitrario di proporzioni di quantità
diverse di elementi, potrà fornire il bene della cosa. Nelle mescolanze o nelle composizioni si realizza poi
43
Osservazioni sul rapporto fra la Metafisica aristotelica e la posizione bruniana
chiedere se Bruno, rigettando la presupposizione di un atto puro separato, 80 rifiuti anche la
possibilità razionale di fondare la suddetta articolazione trinitaria. Non la Trinità in sé, ma
questa particolare formulazione dell’articolazione trinitaria. Infatti quando si sostiene
l’infinità dell’apertura liberamente ed egualmente creativa, che ha l’amore illimitato come
propria fonte unitaria,81 si articolano Padre, Figlio e Spirito Santo in una maniera diversa.
Innanzitutto si identificano le figure del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo con i concetti
della libertà, dell’eguaglianza e dell’amore; poi l’opera universale dello Spirito viene tesa a
mantenere i due capi della libertà e dell’eguaglianza naturale, permettendo nel contempo il
principio della creatività, la possibilità della diversità e la causa dell’unità dell’essere.
La disposizione aristotelica pare invece tendere alla subordinazione e neutralizzazione
delle due figure del Figlio e dello Spirito nell’unica immagine del Padre, assegnando al
primo la funzione dell’uniformità intellettuale, senza variazione e desiderio, ed al secondo
quella dell’obbedienza emotiva e della subordinazione, senza diritto e facoltà.
La fusione aristotelica della causa al principio, a costituire un indivisibile che sia nel
contempo fonte dell’espressività universale (perciò un indivisibile determinante), viene
l’accostamento di materie diverse, senza riferimento ad un primo fattore. Il riferimento arbitrario ad un particolare
accostamento può inoltre agganciare a sé cose diverse, senza rispetto per la differenza. Questo riferimento allora,
nell’arbitrarietà delle analogie che istituisce, potrebbe essere ripetuto o variato senza alcuna certa obiettività. Le
corrispondenze allora che vengono istituite confermano solamente il modo nel quale vengono costruite, attraverso un
particolare genere determinante, e l’analogia può essere estesa ad ogni cosa, con opportune variazioni.
80
Giordano Bruno. De gli Eroici furori. (Ed. Aquilecchia) pagg. 1011 – 1012: “Cicada. Onde procede, o Tansillo,
che l'animo in tal progresso s'appaga del suo tormento? onde procede quel sprone ch'il stimola sempre oltre quel che
possiede? Tansillo. Da questo, che ti dirò adesso. Essendo l'intelletto divenuto all'apprension d'una certa e definita
forma intelligibile, e la volontà all'affezione commensurata a tale apprensione, l'intelletto non si ferma là; perché dal
proprio lume è promosso a pensare a quello che contiene in sé ogni geno de intelligibile ed appetibile, sin che vegna ad
apprendere con l'intelletto l'eminenza del fonte de l'idee, oceano d'ogni verità e bontade. Indi aviene che qualunque
specie gli vegna presentata e da lei vegna compresa, da questo che è presentata e compresa, giudica che sopra essa è
altra maggiore e maggiore, con ciò sempre ritrovandosi in discorso e moto in certa maniera. Perché sempre vede che
quel tutto che possiede, è cosa misurata, e però non può essere bastante per sé, non buono da per sé, non bello da per sé;
perché non è l'universo, non è l'ente absoluto, ma contratto ad esser questa natura, ad esser questa specie, questa forma
rapresentata a l'intelletto e presente a l'animo. Sempre dunque dal bello compreso, e per conseguenza misurato, e
conseguentemente bello per participazione, fa progresso verso quello che è veramente bello, che non ha margine e
circonscrizione alcuna. Cicada. Questa prosecuzione mi par vana. Tansillo. Anzi non, atteso che non è cosa naturale né
conveniente che l'infinito sia compreso, né esso può donarsi finito, percioché non sarrebe infinito; ma è conveniente e
naturale che l'infinito, per essere infinito, sia infinitamente perseguitato, in quel modo di persecuzione il quale non ha
raggion di moto fisico, ma di certo moto metafisico; ed il quale non è da imperfetto al perfetto, ma va circuendo per gli
gradi della perfezione, per giongere a quel centro infinito, il quale non è formato né forma.” Pag. 1132: “Dimanda: qual
potenza è questa che non si pone in atto?” Pag. 1136: “Liberio. Da qua non séguita imperfezione nell'oggetto né poca
satisfazione nella potenza; ma che la potenza sia compresa da l'oggetto e beatificamente assorbita da quello. Qua gli
occhi imprimeno nel core, cioè nell'intelligenza, suscitano nella volontà un infinito tormento di suave amore; dove non
è pena, perché non s'abbia quel che si desidera, ma è felicità, perché sempre vi si trova quel che si cerca: ed in tanto non
vi è sazietà, per quanto sempre s'abbia appetito, e per consequenza gusto; acciò non sia come nelli cibi del corpo, il
quale con la sazietà perde il gusto, e non ha felicità prima che guste, né dopo ch'ha gustato, ma nel gustar solamente;
dove se passa certo termine e fine, viene ad aver fastidio e nausea. Vedi, dunque, in certa similitudine qualmente il
sommo bene deve essere infinito, e l'appulso de l'affetto verso e circa quello esser deggia anco infinito, acciò non vegna
talvolta a non esser bene: come il cibo che è buono al corpo, se non ha modo, viene ad essere veleno.”
81
Giordano Bruno. De gli Eroici furori. (Ed. Aquilecchia) pag. 1138: “Laodonio. Da qua posso intendere come senza
biasimo, ma con gran verità ed intelletto è stato detto, che il divino amore piange con gemiti inenarrabili, perché con
questo che ha tutto, ama tutto, e con questo che ama tutto, ha tutto.”
44
Osservazioni sul rapporto fra la Metafisica aristotelica e la posizione bruniana
invece ridisciolta dall’affermazione dialettica bruniana che, attraverso l’opposizione infinita
fra l’Essere e l’Uno (l’apparente scissione del movimento interno all’essere), ridà il senso
della ricerca infinita dell’universale (teoretico e pratico, dunque produttivo). Se
l’indivisibile aristotelico sottrae la propria estensione e partecipazione alla sensibilità,
l’unità più profonda bruniana non perde invece la propria illimitata capacità di toccare e
comprendere ogni cosa, rendendola affetta tramite il desiderio universale. Tramite l’amore
che si fa eguaglianza e mantiene in sé la libera potenza del creativo.
La vita dell’intelligenza aristotelica è attività pensante al massimo grado, indegradabile:
se fosse mossa da altro, non sarebbe più al massimo grado e verrebbe così condizionata e
subordinata. Verrebbe degradata e non potrebbe più far coincidere la propria eccellenza con
l’autonomia e la libertà. Allora essa deve pensare se stessa come il termine e la radice più
divina di ogni libera ed immodificabile produzione: si pensa come essere in atto d’agente.
Essere che è tale immediatamente, dunque semplicemente (senza tempo ed eternamente).
Bandita da Dio la riflessione e l’opera consapevole, si assiste alla dichiarazione della
impresentabilità della materia, nella forma della ricerca razionale e della sua applicazione.
Allora, se la materia è il poter-essere-altro (il poter-essere che origina dall’altro), il Dio
aristotelico ne è la distaccata posizione comprendente: tutto e solo, immediatamente, con se
stesso, esso fa coincidere il necessario e la necessità. Anzi, si potrebbe o dovrebbe dire che è
la stessa necessità, senza necessario. Senza sdoppiamenti è l’identità assoluta: tutto perciò
porta verso quella convergenza che è il suo essere con se stesso sempre, il suo essere
pensiero pensante sé come pensante per l’eternità.82
Ed il Dio bruniano? È ancora l’ente necessario che non ha altro, che anzi si identifica con
la stessa necessità? La necessità aristotelica si rende intravisibile attraverso la convergenza
totalitaria, l’Uno bruniano è invece invisibile mercé la sua apertura infinita. Tanto quanto il
Dio aristotelico arresta a sé il movimento universale, che così si dice presente entro la sua
assoluta limitazione, altrettanto il Dio bruniano suscita a sé il movimento infinitamente, in
un eterno superamento delle condizioni stabilite. Che sono condizioni stabilite non per
separare, ma per unificare: nella libertà di una amorosa eguaglianza.
Così il Dio bruniano è piuttosto la perfezione del possibile che suscita da se stessa, con
creatività, tutto ciò che apparentemente e momentaneamente è altro, ma non per se stesso e
separatamente, bensì unitariamente e diversamente. Così l’estrinsecazione continua è reale e
82
Aristotele, Metafisica, XII, 1072b 18 – 24; 1074b 33 – 35; 1075a 10.
45
Osservazioni sul rapporto fra la Metafisica aristotelica e la posizione bruniana
solamente apparente, in quanto l’infinitamente perseguibile pone paritariamente l’apertura
creativa, costituendo un ambito universale dell’immaginabile oltre il relativo.
È in virtù di questo ambito che la molteplicità dei mondi bruniana prende forza e vita,
contro l’impossibilità decretata dalla limitazione assoluta (ed assolutistica) aristotelica. 83
La critica di Aristotele, rivolta alla conclusione del Libro XII della Metafisica ai
pitagorico-platonici ed agli atomisti,84 può a buon diritto essere riferita anche a Bruno, ma
tramite la sua speculazione può essere però rovesciata. Se la posizione dei pitagoricoplatonici e degli atomisti esprimeva l’impossibilità radicale di ridurre ogni sostanza ad un
unico principio, per la valenza etico-conoscitiva della molteplicità determinante; se, per
questa concezione, tutte le sostanze erano libere di muoversi e di esistere, senza dover
essere considerate come ordinatamente complanari ed essere perciò costrette a subire
un’influenza tanto reciproca quanto estrinsecamente limitante e determinata, l’atto
(aristotelico) che precede e succede alla potenza – come principio e termine conclusivo della
propria assoluta posizione - insieme alla distinzione dell’egemonico dall’ordinato, non
possono non trovare nella forma finale, mossa e predisposta dalla causa motrice, lo
strumento unico della propria affermazione.
Nella speculazione di Giordano Bruno invece la dichiarazione di nullità che sembra
avvolgere l’atto puro separato vuole poter giustificare lo slancio infinito del sensibile e del
materiale: mentre la corsa infinita al bene accompagna l’aprirsi ed il divaricarsi della
possibilità della diversità, gli enti creati bruniani sono liberi di muoversi e di esistere, senza
essere costretti ad una complanarità che ne esalti funzionalmente l’ordine uniforme. Privi di
un principio che ne necessiti e nello stesso tempo ne riduca e determini la socialità, i
soggetti bruniani sembrano praticare l’estetismo della propria creazione. Nello stesso tempo
non soggiacciono alla solitudine dell’isolamento, perché credono ed agiscono la fede in
un’animazione egualmente ed amorosamente universale. Rivolti alla libertà, crescono
nell’amore per questa eguaglianza: e sia vivono, sia realizzano questa eguaglianza
nell’amore stesso.
83
Aristotele, Metafisica, XII, 1074a 31 – 38. Il Dio aristotelico si pone con l’intelletto e si esprime con la volontà. La
potenza (il potere) permette, allora, la diffusione del Bene, qualora si innesti nella volontà assoluta. In questo modo il
potere viene a costituire quella rappresentazione umana dell’ordine naturale senza la quale non potrebbero ingenerarsi
entità generali dotate di specifica (quindi inalterabile) individualità. Non è difficile vedere, in queste finalità e scopi
(totali e totalitari) dell’umana operazione, i primi germi di quella costituzione assolutistica dello Stato che l’età
rinascimentale perseguirà e farà crescere.
84
Aristotele, Metafisica, XII, 1075b 20 – 1076a 4.
46
Osservazioni sul rapporto fra la Metafisica aristotelica e la posizione bruniana
Il principio aristotelico nella sua assolutezza non può avere opposizione: opposizione è
infatti l’apparenza duplice del sostrato, che può essere rivolto alla positività della forma
oppure alla sua privazione. Il principio bruniano invece è proprio opposizione: opposizione
infinita fra l’infinito dell’Uno (sommamente aperto) e l’infinito della sua manifestazione
(abissalmente esteso).
Se l’infinito dell’Uno, la sua somma apertura, viene accostata alla variabilità aristotelica
dell’atto, e se l’infinito della sua manifestazione, l’abisso della sua estensione, viene invece
identificata con la definizione aristotelica del bene in potenza, allora la critica che
Aristotele, nel Libro XIV della Metafisica, rivolge alla determinatezza dell’opposizione,85
può diventare struttura e strumento accolti dalla critica bruniana, quando nei dialoghi De gli
Eroici furori86 tenderà proprio ad accostare Bene e desiderio del Bene, espungendo fra loro
quello spazio astratto che congiunge, a termini assolutamente positivi, determinazioni
assolute d’univocità, combinando la prioritaria determinazione estrinseca con la limitazione
coercitiva dei soggetti.
Qui sta, come si può facilmente vedere, la radice e la giustificazione della critica bruniana
all’assolutismo, così come il germe della futura critica speculativa alla posizione ideologica
dell’alienazione.
85
La traduzione del testo di Aristotele è la seguente: “Tutte queste conseguenze derivano: da un lato, dal fatto che
questi filosofi intendono tutti i principi come elementi, dall’altro, dal fatto che intendono i principi come contrari,
dall’altro ancora, dal fatto che pongono come principio l’Uno, e, infine, dal fatto che pongono i numeri come sostanze
prime, come enti separati e come Idee.” Metafisica, XIV, 1092a 5 - 8.
Bisogna ricordare la critica bruniana, espressa nell’intera opera De gli Eroici furori, riguardante proprio la
combinazione fallimentare fra la determinazione estrinseca e la limitazione e coercizione dei soggetti, ed accostarla alla
posizione aristotelica. Nel Libro XIV della Metafisica (1091a 23 – 1092a 8), infatti, Aristotele rammenta l’articolazione
fra i principi opposti presentata dalla tradizione accademica. Qui ciò che si oppone al Bene-Uno (la materia, sia come
molteplicità od ineguaglianza) diverrebbe necessariamente e totalmente male. In essa il sorgere della determinazione
avrebbe qualità ancora più negativa della sua realizzazione concreta nei corpi, facendo si che il bene non si possa
realizzare se non attraverso il male. Così il male diverrebbe causa e strumento d’altro: essere limitato e determinato da
altro e, nel contempo, essere limitante ed assolutamente determinante. Aristotele allora avverte che solamente la
possibilità della variazione assicurata dall’atto e la congiunta considerazione del valore della realizzazione che questa
consente (potenza come possibilità d’essere) può rompere questa contraddizione e coercizione. Solamente in questo
modo vi sarà luogo per la continuità assegnata al libero (naturale od artificiale) divenire delle sostanze. In questo modo
ciò che si accosta al Bene è solamente bene in potenza.
86
Giordano Bruno. De gli Eroici furori. (Ed. Aquilecchia) pag. 1012: “Sempre dunque dal bello compreso, e per
conseguenza misurato, e conseguentemente bello per participazione, fa progresso verso quello che è veramente bello,
che non ha margine e circonscrizione alcuna. Cicada. Questa prosecuzione mi par vana. Tansillo. Anzi non, atteso che
non è cosa naturale né conveniente che l'infinito sia compreso, né esso può donarsi finito, percioché non sarrebe
infinito; ma è conveniente e naturale che l'infinito, per essere infinito, sia infinitamente perseguitato, in quel modo di
persecuzione il quale non ha raggion di moto fisico, ma di certo moto metafisico; ed il quale non è da imperfetto al
perfetto, ma va circuendo per gli gradi della perfezione, per giongere a quel centro infinito, il quale non è formato né
forma.” Pag. 1136: “Vedi, dunque, in certa similitudine qualmente il sommo bene deve essere infinito, e l'appulso de
l'affetto verso e circa quello esser deggia anco infinito, acciò non vegna talvolta a non esser bene: come il cibo che è
buono al corpo, se non ha modo, viene ad essere veleno.”
47
Osservazioni sul rapporto fra la Metafisica aristotelica e la posizione bruniana
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Jordani Bruni Nolani Opera latine conscripta.
Recensebat
F.Fiorentino.
48
Deinde
recensebant
Osservazioni sul rapporto fra la Metafisica aristotelica e la posizione bruniana
V.Imbriani et C.Tallarico.
Tom.I, Vol. I, Pars 1^ :
1. Oratio valedictoria.
2. Oratio consolatoria.
3. Acrotismus Camoeracensis.
4. De Immenso et innumerabilibus (lib. 1,2,3).
Tom. I, Vol. II, Pars 2^:
1. De Immenso et innumerabilibus (lib. 4, 5, 6, 7, 8).
Tom. I, Vol. III, Pars 3^:
1. Articuli centum et sexaginta adversus huius
tempestatis mathematicos atque philosophos.
2. De triplici minimo et mensura.
Curantibus F.Tocco et H.Vitelli.
Tom. I, Vol. IV, Pars 4^:
1. Summa terminorum metaphysicorum.
2. Figuratio Aristotelici Physici auditus.
3. Mordentius et de Mordentii circino.
Curantibus F.Tocco et H.Vitelli.
Tom. II, Vol. V, Pars 1^:
1. De umbris idearum.
2. Ars memoriae.
3. Cantus Circaeus.
Tom. II, Vol. VI, Pars 2^:
1. De compendiosa architectura et complemento artis
Lullii.
2. Ars reminescendi. Explicatio triginta sigillorum.
Sigillus sigillorum.
3. Centum et viginti articuli de natura et mundo
adversus peripateticos.
Curantibus F.Tocco et H.Vitelli.
Tom. II, Vol. VII, Pars 3^:
1. De progressu et lampade venatoria logicorum.
2. De imaginum, signorum et idearum compositione.
3. Artificium perorandi.
Curantibus F.Tocco et H.Vitelli.
Tom. III, Vol. VIII:
49
Osservazioni sul rapporto fra la Metafisica aristotelica e la posizione bruniana
1. Lampas triginta statuarum.
2. Libri physicorum Aristotelis explanati.
3. De magia. Theses de magia.
4. De magia mathematica.
5. De rerum principiis et elementis et causis.
6. Medicina lulliana.
7. De vinculis in genere.
Curantibus F.Tocco et H.Vitelli.
Neapoli deinde Florentiae, apud Domenico Morano
deinde Typis Successorum Le Monnier, 1879-1891.
Voll. I-VIII.
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I. Il triplice minimo e la misura.
II. La monade, il numero e la figura.
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