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Anella Puglia
L’AFFLATO RELIGIOSO NELLA POESIA METAFISICA DI GENNARO IANNARONE
A distanza di un anno dalla sua prima raccolta, Vivere balenando in burrasca, il poeta irpino Gennaro
Iannarone licenzia alle stampe, sempre presso la Scuderi Editrice di Avellino, la sua seconda silloge, Quel
foulard giallo-nero. Sul primo volumetto, di cui mi sono già occupata, si sono soffermati, tra gli altri,
l’insigne critico letterario Giorgio Bárberi Squarotti, Carlo Santoli, Anna Maria Picillo, Agostina Spagnuolo,
e, principalmente, Alberto Granese e Michele Bianco (quest’ultimo le ha dedicato un corposo saggio su
«Sinestesieonline» [Anno 4, Numero 12, Giugno 2015] “Le armoniche disarmonie del mondo poetico di
Gennaro Iannarone”) che ne hanno indagato approfonditamente ogni singolo aspetto. Inoltre, con la mia
curatela, Sinestesie è in procinto di pubblicare una nuova edizione della silloge, con una mia Premessa, con
l’Introduzione di Alberto Granese e con un saggio di Michele Bianco, che ne ha effettuato una lettura
metrico-fono-ritmica, sintattica e logico-semantica, destinata soprattutto agli studiosi e agli appassionati di
poesia. In questo breve articolo indugerò, sia pure succintamente, sui caratteri salienti della nuova raccolta
Quel foulard giallo-nero, dal titolo fortemente evocativo ed allusivo di un momento felice della vita del
poeta che, dopo l’iniziale travaglio e le successive vicissitudini, giunge a ricompattare felicemente la propria
esistenza, grazie all’amor di donna, ovvero di una donna, Anna, Musa ispiratrice dei suoi versi. Ciò che
colpisce fin da subito chi – come me – ha investigato la precedente silloge, è l’aspetto nuovo della lirica, che
presenta un affinamento stilistico e una maturazione artistica, in una prospettiva di stampo metafisico, con
una accentuazione religiosa, quantunque di una religiosità tutta francescana e laica, che pone domande più
che dare risposte, e che segna il passaggio dall’iniziale autoconfessione, autoanalisi e autobiografismo del
poeta – di agostiniana e petrarchesca memoria intesa come esigenza di uscire da sé – a una prospettiva di
totalità, ampliando l’orizzonte della ricerca di senso, con uno sguardo mai disincantato, ma sempre vigile e
partecipe degli eventi, persone o cose, che racconta. La laboriosa grazia della tessitura poetica, alta e
consapevole, è distillata in nitide architetture verbali, tra sogno e realtà, e si ascrive all’alveo postermetico in
una riscrittura affatto personale che concilia e sintetizza ermetismo e crepuscolarismo, passando da una
poesia talvolta prosastica, almeno nella fase iniziale, ad in un uso rarefatto ed elegante della lingua musicale,
a una lezione eletta di scrittura engagée, a un momento utopico; insomma, alla rinuncia della negazione da
parte di una personalità d’eccezione, che ha contribuito al processo civile, intellettuale ed artistico della sua
terra, con particolare attenzione alle nuove generazioni, come ci attesta la sua vasta produzione saggisticonarrativa. Leggendo la nuova poesia di Gennaro Iannarone ci si trova davanti a una costruzione armoniosa e
stilizzata alle cui spalle c’è il peso di una lunga e venusta tradizione letteraria; c’è dietro la lettura di molta e
grande poesia italiana (ma anche europea) del Novecento: Quasimodo, Montale, Luzi, e altri. In una
intelaiatura classicheggiante si colgono brillanti rifrazioni che si dischiudono in infinite possibilità. La poesia
di Iannarone è una partecipazione vibrante a situazioni di grazia, a rievocazioni, a epifanie in divenire. Ma
non si trova, nelle sue composizioni, la puntualità simbolico-oggettiva di Montale, perché il poeta si affida
piuttosto alla variazione evocativa della sonorità musicale della parola in una ininterrotta continuità da
d’Annunzio a Bigongiari e Luzi. Il poeta conserva un uso equilibrato del metro, con ampi e sonanti
endecasillabi ben ritmati, scorrevoli e carezzanti, e della retorica, con metafore e similitudini. La lirica
iannaroniana è, brevemente, una auscultazione delle forze segrete del suo animo – il guizzo vitale della
natura è solo rievocato (Cielo arcano, Curve di un fiore) – tramite l’eros, che è esperienza euforizzante
dell’amore come istante di grazia e di pienezza, epifania lampeggiante (Compagna di poesia, Quel foulard
giallo-nero, Sorrisi d’acqua dolce). La sua arte poetica è pura passione dello spirito, come la sua esperienza
di scrittore impegnato che prende, come il gabbiano, il largo nel mare della sua vita, come l’albatro verso la
luce (Nido di gabbiano, Congedo di una silloge). I suoi quaranta componimenti variano da pochi versi, quasi
epigrammi (Atteone, Cielo arcano), a testi lunghi, apparentemente poematici, ma sempre intessuti da fili
lirici ed evocativi nel loro carattere descrittivo-narrativo (Quel momento di terrore, San Damiano). Il poeta si
coglie come frammento nel grande pelago dell’essere a cui è celato il Tutto (Itinerario breve); la libertà è
una “prigionia” (Libertà dell’anima) e la bellezza della donna è cangiante nel fluire del tempo (Dentro il
tempo) ed è solo un’illusione pensare che ella non sia sfiorata dall’usura che tutto consuma e trasforma
(Fuori dal tempo). Perché si assapori fino in fondo la sua lirica, il poeta stesso legge e declama i suoi versi,
nella scansione liquida di una melodia monocorde nel ritmo sillabico quantitativo e qualitativo, che
tradiscono gli influssi da Garcia Lorca agli ermetici in una ricomposizione affatto personale di artiere della
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parola che sa scrivere una poesia musicale e pittorica che si incentra sulla luce come immagine epifanica
della fugacità del tempo nascosta dalla dolcezza fonetica dei versi che raccontano la discesa dell’anima in se
stessa nello stame della vita. Frammenti di verità come difficile spazio di libertà. Per tematiche le
composizioni poetiche di Gennaro Iannarone si possono ricondurre a otto distinti nuclei: evocativo, con tono
nostalgico: il passato ha un fascino tutto particolare, appare con i colori della nostalgia, trasfigurato dalla
memoria (Il campanone della cattedrale, La danza macabra, Estate a Salerno, Liberazione e morte, Visione
dell’adolescenza), della memoria-ricordo (Un sarto, Una sarta, Un giardiniere, Marciano, Prima vita
solitaria, Casa derelitta, I Ritorni), religioso (Eretica preghiera, Mamma Schiavona, Sindone del Partenio,
San Damiano, Ali di cera), filosofico (Cielo arcano, Itinerario breve, Libertà dell’anima, Fuori dal tempo,
Dentro il tempo, Curve di un fiore, Sala cinematografica), giuridico (Il colore del diritto, Il colore del
processo, Fama di giudice, Giudice del mio tempo, Cinque borse nere), esistenziale, legato alle vicende
soprattutto tristi degli antichi lutti di famiglia (Quel momento di terrore, O dolorosa gioia), odeporico, che
narra il viaggio della vita (Timore di peregrinare, Nido di gabbiano, Congedo di una silloge), e, infine,
dell’amore per la sua donna, Anna (Compagna di poesia, Quel foulard giallo-nero, Sorrisi d’acqua dolce).
Sono nuclei che si disnodano dalla persistenza del ricordo alla riflessione-interrogazione sul senso delle cose
e sullo scorrere del tempo. Se è interessante il tema della poesia nella vita, per Iannarone lo è ancor più
quello della vita nella poesia, perché la sua stessa vita ora è diventata poesia. Il poeta ha saputo ritagliarsi un
tempo sincronico, quello dello spirito; le sue liriche sono la negazione del vuoto, rompono la forza effrattiva
del banale ordinario, superano la dimensione spazio-temporale e diacronica e si sprofondano in meditazioni
metafisiche e spirituali espresse in un linguaggio metalinguistico. Non potrò trattare tutti gli aspetti elencati
(ad esempio quello del giure; il poeta dedica ben cinque liriche su quaranta ai ricordi dell’esercizio della
professione di magistrato integerrimo ma nel contempo dal volto umano, lamentando l’applicazione solo
formale del diritto, lontano dalla giustizia del caso concreto, auspicandone l’umanizzazione; l’altro delle
rimembranze, spesso associate alla fanciullezza e ai tragici eventi del secondo conflitto mondiale; o ancora il
tema dell’amore, da cui scaturisce la lirica nella sua totalità, per ammissione dello stesso autore) ma mi
soffermerò, invece, velocemente sugli elementi religiosi e metafisici della nuova raccolta. La lirica
iannaroniana, ancorata alla tradizione, ancorché personale ed originale, produce una sensazione visiva (è
musica per l’occhio!) che giunge al cuore del lettore a cui comunica sinesteticamnte il suo messaggio. Se vi
compare la natura non è per carpirne arcani ritmi e intime pulsioni. La luce è sempre dicotomicamente
opposta alle tenebre in una dialettica lacerante e insuperata. Così la luminosità del lido salernitano è associata
alla tragica memoria della guerra e ai suoi residuati bellici: “ampi spazi di cielo” e “La luce di un sole
abbacinante – dice il poeta – mi colse su una spiaggia / invasa / da decine di grossi carri armati arrugginiti
[…] e mi abbagliò dall’onde a specchio del mio primo mare” (Estate a Salerno). E il “blu della notte” è
“Intenso, sempre più oscuro” e egli vorrebbe interrogare le “Luci fredde delle stelle”, il cui “incessante
brillio” gli suscita “sgomento”. Ma esse restano nel “mistero della solitudine silenziosa” (Cielo arcano). I
suoi “occhi insaziabili di cielo” bramerebbero “contemplare della notte il fondo nero”, ma il suo “cuor
sidereo” è “scintillio senza posa / che per sé brilla e a noi cela il Tutto”. Perciò si contenta “d’un sorridente /
sole, di un’argentea luna” con cui conferire (Itinerario breve). La bella lirica ha un respiro leopardiano. E, se
il suo corpo, ormai anziano, gli impedisce di curvarsi per raccogliere un fiore, si sente comunque “pago
dell’effluvio / di profumo e di colore” e ritorna bambino avvolto nel grembo materno in guisa di un gomitolo
di curve pronto a sbocciare come un fiore “preludio di vita in un gomitolo di curve […] rannicchiato, ancora
in boccio” (Curve di un fiore). Non la calda estate o la gioia primaverile, ma la nebbia autunnale si conficca
nelle membra del poeta – che afferma “né calde estati, / né tripudi di primavera, ma un autunno umido /
d’una sottile bruma che l’ossa mi ha corroso” –, in cerca di un nido di gabbiano, che si augura “che s’alzi il
vento / di ponente […] e spazzi via le nubi di viola, e squarci il cielo” (Nido di gabbiano). I personaggi delle
composizioni sono umili creature, contadini e artigiani: tutta gente che fa del proprio lavoro la sua quotidiana
preghiera. Il sarto Gerardo è rievocato nella sua “piccola sartoria, piena di stufe”, nell’atto di accogliere una
“compagnia infreddolita” “nel calore e nell’allegria” e “nel riso” (Un sarto); mentre un’altra sarta anonima è
ricordata “nel silenzioso […] pudore” mentre sfugge “ogni sguardo / nella stanza intima” (Una sarta).
Gennaro Iannarone si rivela un pittore della parola che sa trasformare i motivi umani in palpiti di vita,
superando le iniziali disforie. Nella sua terra “gli uccelli e i fiori / sono di una bellezza tale da non aver
l’eguale” e egli vuol “godere ancora dei tanti colori / del […] giardino, alzare gli occhi al cielo / […]
guardare solo le stelle” (Un giardiniere). Il ricordo di Marciano, fotografo per passione, è legato al “superbo
vino Taurasi […] in una rustica, sorprendente cantinella, / con rituali, gesti, boccali dal cuore antico”, che
suscitano in lui la memoria di “una infanzia lontana” (Marciano), ma anche alla dipartita della sua amata
Liliana e alla sua vita solitaria in via Tuoro “ultimo asilo alla mia triste libertà”, afferma il poeta (Prima vita
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solitaria). La memoria della morte ritorna negli antichi lutti: quello per la dipartita dei genitori, che non ha
potuto soccorrere “Ma resta – dichiara – incancellabile rimorso d’essere /fuggito via dai luoghi disastrati,
lontano / lasciando il soffrire degli amati genitori” (Quel momento di terrore), e, inoltre, di Liliana, che ora
contempla mentre accresce la luminosità di una stella “Una stella già opaca che ora splende / per sé volle
attrarre la luminescenza / che da te radiava” (O dolorosa gioia). La morte con i suoi enigmi irresoluti
sopraggiunge con l’inevitabile traumaticità che l’accompagna sia per il dolore dei congiunti che per
quell’alone di mistero opposto al soffio da cui è nata la vita; è un evento improvviso, grave e traumatico, che
può aver senso solo cristianamente se si guarda alla Morte del Giusto che ci ha redenti con la sua morte. Essa
fa riflettere sulla centralità degli affetti, soprattutto familiari, cristallizzati nella saldezza dei valori contornati
da un alone di sacralità. Il pensiero poetico di Iannarone è segnato dalla fede e dal confronto con il mistero,
come attestano cinque liriche. Ma non si tratta di una poesia religiosa in senso tecnico o di genere; anche se è
proprio la religiosità di fondo che tutta la percorre a permettere questa qualifica. Perciò l’autore oppone il
Dio Padre giustiziere, anticotestamentario, a Gesù, Dio della misericordia, che dà la vita per i fratelli fino a
scegliere la morte di Croce, massima espressione del suo amore al limite dell’amore. Alla condanna del
Padre Iannarone contrappone l’amore misericordioso del Figlio, da cui scaturisce la sua Eretica preghiera,
affinché Gesù possa “rinnegare il Celeste Padre” (Ivi). Da bambino il poeta vedeva dalla via panoramica
“Limiti di Frigento” il Santuario di Montevergine che, di sera, gli appariva come un unico punto luminoso e,
di giorno, come un punto bianco. Ora che abita alle falde del Partenio, dal suo cuore si dischiudono mirabili
versi mariani a “una splendida stella, incastonata / su un monte […] tanto bella che l’aurora, / mentre uno
dopo l’altro tutti gli astri spegneva, / lasciava ancor brillare il lume fino all’alba” (Mamma Schiavona).
Anche la Sacra Sindone, oggetto di venerazione e di fede per i credenti, nascosta a Montevergine alla furia
degli eventi bellici, gli suscita una pensosa e bella lirica. La Vergine scende dal cielo per consolare
l’immedicabile dolore delle mamme per la morte dei loro figli che si sono sacrificati per amor di Patria
“quando son saliti alla gloria del tuo cielo / le anime di giovani immolatisi con vero amore / per ogni umana
libertà, tu sei scesa nelle case / per alleviare lo strazio delle madri” (Sindone del Partenio). Ma del
cristianesimo il poeta vuol cogliere l’aspetto della festa. Il motivo della gioia nella prima versione poetica del
Cantico delle Creature, composto da San Francesco nella Chiesa di san Damiano, che contiene solo otto
laudi, escluse le lasse sul perdono e sulla morte, ne accresce, per Iannarone, i pregi rispetto a quella canonica
da tutti conosciuta. Nella prima stesura, scrive il poeta “Francesco / velò la morte con una rosata lapide di
gioia” (San Damiano). Ormai maturo per il salto nella fede, il poeta nota che gli manca ancora uno spirito
forte e risoluto; si sente un Icaro dalle ali di cera “frantumato nel suo sogno” ed ha paura del suo “spirito non
saldo su di una debole fede” (Ali di cera). Ma la nostalgia del Signore e della sua “solitudine silenziosa” gli
“sgocciola malinconia più arcana di Dio” (Cielo arcano). L’arte vera è, appunto, un esame dello spirito che
si interroga davanti a Dio e ai misteri dell’eterno nell’arcano palpito e nella segreta bellezza dei magici ritmi
della quotidianità elevata, dal poeta, a canto e voce dell’anima che pone domande senza dare risposte. La
poesia laicamente religiosa di Gennaro Iannarone afferma che l’essenza umana partecipa, in Gesù, della deità
immersa nel mondo di cui si fa cantore Frate Francesco. Solo un Dio dal volto umano ci può salvare.
Altrimenti in un clima di vita e di pensiero, come il nostro, in cui l’uomo invece di ritrovarsi per intero si
scopre oscurato e confuso, frammentato e diviso, alienato da se medesimo ed estraneo a se stesso, anche
l’orizzonte della religiosità e della teologia, della fede e della speranza, della metafisica e della filosofia,
dell’arte e del linguaggio, della storia e della civiltà, si avvolge in un velo di problematicità reale, di
insicurezza radicale e di incertezza irresolubile che penetrano dappertutto le scelte di vita del credente. “Solo
un Dio ci può salvare”, sentenzia Heiddeger. E la poesia, suprema sintesi dello spirito, pur nelle sue
contraddizioni, ci rammenta Gennaro Iannarone, la cui visione spiritualistica si estende a tutti gli esseri
viventi. Di qui la sua tesi, sostenuta oggi da alcuni teologi, di un Paradiso anche per gli animali, fedeli
compagni di vita. I suoi cani Fritz, Nobel, Brown hanno manifestato, al contrario dell’uomo, “l’infinita
capacità di amare” (Brown) e perciò ora sono “portati dopo la […] morte in un mondo nuovo […] su una
stella / piccolissima della […] Costellazione, nel cielo / dei cani miti, lassù” (Tommy). Con queste due
liriche, tra le più belle dell’intera silloge, il poeta dimostra una straordinaria sensibilità quale cifra universale
della sua panreligiosità. Con poesie così belle si ritorna davvero “a riveder le stelle”.
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