Comparatismi 8 2023
ISSN 2531-7547
http://dx.doi.org/10.14672/20232284
La pietà negata
Il romanzo come forma della disempatia
Valeria Cavalloro
Abstract • Negli ultimi decenni studiosi di teoria letteraria e neuroscienze hanno confermato
il legame tra finzioni narrative e sollecitazione empatica, segnalandone anche aspetti paradossali
e controversi (Keen, Hoffman e Gottschall), come il pericolo della sovrattivazione empatica e
delle reazioni negative alle tecniche letterarie empatizzanti. A partire da queste osservazioni, si
avanza la proposta di leggere il genere romanzesco come spazio per la rinegoziazione e la
disattivazione selettiva dei rapporti empatici e di cura reciproca precedentemente sanciti dalla
norma cristiana, e diventati insostenibili con la fusione delle secolari comunità locali in una
sconfinata comunità globale.
Parole chiave • Empatia; Disempatia selettiva; Teoria del romanzo; Poetica cognitiva; Personaggi secondari.
Abstract • Over the last few decades, Theory of Literature and Neuroscience scholars have
been proving the connection between fiction and empathic response, pointing out the paradoxical and controversial aspects of this link (Keen, Hoffman, and Gottschall), such as empathic
overarousal and negative reactions to empathetic narrative techniques. Taking such remarks
as a theoretical starting point, the novel as a genre can be explained as a symbolic space that
serves to renegotiate and selectively de-activate old obligations of social empathy and mutual
care. Obligations that were previously imposed by Christian doctrine, and then made unsustainable by the expansion of limited local communities in a single global-scale community.
Keywords • Empathy; Selective Disempathy; Theory of the Novel; Cognitive Poetics; Minor
Characters.
La pietà negata
Il romanzo come forma della disempatia
Valeria Cavalloro
1. Una lama a doppio taglio: doomscrolling effect
A fine 2020 l’Oxford Dictionary ha registrato come nuova entrata, e poi selezionato come
Word of the Year, la voce doomscrolling: “the action of constantly scrolling through (=
moving down through text on a screen) and reading depressing news on a news site or on
social media, especially on a phone” (OALD, 2020). Osservato speciale nell’anno della
pandemia, questo fenomeno ha attirato l’attenzione di sociologi e psicologi, che ne hanno
riscontrato il forte impatto negativo non solo sul piano mentale, ma anche su quello fisico,
legato a “emotions of intense anxiety, uncertainty, apprehension, fear, and feelings of distress which in turn lead to difficulties in the initiation of sleep, poor quality of sleep, decrease in appetite, decreased interest in activities and low motivation to continue with tasks
of the day” (Anand et al., 2021). In poche parole, il doomscrolling è l’effetto di malessere
che proviamo quando siamo esposti al male del mondo, che grazie a uno scatto tecnologico
compie un salto di quantità e diventa un affresco globale, sconfinato, incommensurabile
rispetto alle nostre energie emotive individuali. La pervasività dei mezzi di comunicazione
ci sommerge con un flusso costante di informazioni, il filtro dei social network massimizza
la nostra risposta emotiva, la preferenza per elementi negativi1 indirizza questa risposta
nelle regioni della pietà e della sofferenza vicaria, provocando un’emorragia di risorse empatiche che ci lascia sfiniti e può spingerci a reazioni paradossali di apatia e persino di
rabbia verso le vittime. Per quanto sia strettamente legato alle condizioni del mondo globalizzato del ventunesimo secolo, i tratti generali di questo scenario non sono inediti.
Le circostanze che viviamo oggi sono nuove per dimensioni, ma corrispondono per qualità a quelle che l’Occidente sperimenta a partire dal Settecento, quando la frontiera del
mondo inizia a chiudersi, cancellando l’idea di “terra sconosciuta” e stabilendo la presenza
della civiltà umana su tutti gli angoli del pianeta (Kern, 1988), dai quali il rapido sviluppo
dei mezzi di comunicazione e di spostamento permette l’arrivo di notizie in tempi sempre
più rapidi. La società occidentale diventa provincia di una comunità parlante planetaria,
aperta su ogni lato all’inondazione di notizie, a volte insolite e curiose, più spesso cupe e
drammatiche. Una instabile fusione di tolleranza cosmopolita e suprematismo euro-nordamericanocentrico entra nei discorsi che cercano di trovare un senso a questo nuovo affollamento del mondo, come è testimoniato da una delle pagine forse più strane della letteratura settecentesca, il passaggio in cui Robinson Crusoe riflette sulla moralità dei selvaggi
cannibali e sospende il giudizio sulle loro pratiche raccapriccianti in nome di un eclettico
relativismo culturale a base cristiana.2
1
“La vicenda storica dell’industria dell’informazione mostra che di fatto c’è poco mercato per le
notizie in sé, e non c’è mai stato. C’è solo mercato per i drammi. E, fin dall’inizio, il business delle
notizie è stato soltanto un ramo del business del dramma” (Gottschall, 2021, p. 118).
2
Dove la capacità di accettare l’esistenza di scale di valori completamente altre convive paradossalmente con l’assimilazione forzata di questa alterità alla cornice di senso del cristianesimo: “Di
Valeria Cavalloro • Il romanzo come forma di disempatia
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Non è un caso che sia proprio un romanzo a conservare una traccia così precoce (con
Robinson siamo nel 1719) dell’effetto destabilizzante di questa realtà in rapida affermazione: la cronologia dei mutamenti epocali che nel XVIII secolo avviano il processo di
globalizzazione è la stessa che vede nascere “la particolare attenzione della filosofia per
ciò che noi oggi chiamiamo coscienza” (Damasio, 2000, p. 231) e che vede emergere il
genere romanzesco come forma letteraria, due “manifestazioni parallele di un più vasto
cambiamento della civiltà occidentale” (Watt, 2009, p. 28) che cercano di dare una risposta
simbolica alle inquietudini del tempo. Inquietudini tra le quali, secondo l’ipotesi che si
presenterà qui, c’è il panico collettivo di fronte a una domanda di empatia che oltrepassa le
proporzioni umane.
L’idea di un rapporto tra narrazione e sollecitazione empatica del lettore-spettatore esiste in Occidente fin dai tempi di Platone, ma diventa un fatto scottante quando i primi
romanzieri, alle prese con una forma ancora in via di legittimazione e travagliata da contenuti considerati moralmente problematici, ricorrono allo spazio delle prefazioni per assicurare preventivamente la correttezza etica e il valore pedagogico delle loro opere. Autori
come Fielding, Richardson, Sade e Chaderlos de Laclos giustificano la rappresentazione di
vizi e gesti immorali appellandosi al valore formativo, e per così dire socialmente terapeutico, dell’esposizione del male come occasione per spingere i lettori al bene. Questo gesto
ha senso solo sulla base di una convinzione implicita comune a ogni cautionary tale: quella
per cui il pubblico stabilisce una naturale relazione empatica con i protagonisti e le protagoniste sofferenti, in nome della quale è spinto ad attivare i comportamenti virtuosi – di
solidarietà, aiuto, cautela, compassione, onestà e generosità – che possono prevenire i mali
osservati nelle storie. A prescindere dall’opportunismo editoriale che motivava queste prefazioni (per non parlare di quelle apertamente ironiche e parodizzanti), resta il loro valore
di testimonianza: già alle origini del genere, il rapporto romanzo-empatia è non solo un
dato di fatto, ma uno strumento nelle mani dell’autore, e il suo potere è stato rivendicato
come serio impulso poetico nel secolo successivo (Dickens, George Eliot e Tolstoj lo dichiarano apertamente), cementando la convinzione, tuttora ampiamente condivisa dentro e
fuori la critica letteraria, per cui “il rispetto per gli altri, l’empatia, è il fulcro del romanzo”
(Nafisi, 2020). Negli ultimi vent’anni, la collaborazione interdisciplinare tra studi linguistico-letterari, teorie della finzione, psicologia evolutiva e neuroscienze ha consolidato questa tesi fornendone riscontri sperimentali grazie allo studio dello sviluppo della mente nei
bambini e alla fondamentale scoperta dei neuroni specchio. L’insieme di queste ricerche
ha portato a un’ipotesi solida sulla natura della fiction come palestra cognitiva innata, fondamentale nell’evoluzione della specie umana (cfr. Cometa, 2017; Gottschall, 2018; Calabrese, 2018 e 2020), che tra le altre cose ha la funzione di addestrarci all’interazione sociale
tramandandoci strutture di intuizione, comprensione e temporanea adozione dell’interiorità
altrui. Secondo David Lodge, addirittura, “si potrebbe suggerire che l’abilità propria del
romanziere di creare personaggi, personaggi spesso molto diversi da se stesso, e di dare un
rendiconto plausibile della loro coscienza, è un’applicazione speciale della Teoria della
Mente. È qualcosa che ci aiuta a sviluppare capacità di simpatia ed empatia nella vita reale”
(Lodge, 2011, p. 48).3 Un’ipotesi che coincide peraltro con l’intuizione esposta fin dagli
quale diritto, di quale autorità fruivo per reputarmi autorizzato a giudicare e condannare a morte
questi uomini, considerandoli alla stregua di criminali, quando il Cielo da tempo immemorabile
aveva decretato di lasciarli impuniti, e di lasciare ch’essi fossero, per così dire, gli esecutori materiali
delle Sue sentenze l’uno nei confronti degli altri?” (Defoe, 2012, p. 182).
3
“La Teoria della Mente o ToM (acronimo di Theory of the Mind) rappresenta un set di capacità
innate, inapprese e geneticamente presenti sin dalla nascita, che portano già il neonato, nel corso del
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anni Cinquanta da Käte Hamburger, secondo cui “la finzione epica è l’unico luogo conosciuto in cui l’io di una terza persona può essere presentato nella sua soggettività” (Hamburger, 2015, p. 106), ma che va ancora oltre, elevando quello che Hamburger poneva come
specifico effetto della narrativa a più generale meccanismo di “collective sensemaking
function”, condiviso dall’intera specie umana (Bietti, Tilston, Bangerter, 2018).
La consapevolezza del potere che le storie hanno sulla sfera emotiva del loro pubblico
di lettori e spettatori, unita a una certa pregiudiziale pedagogica e all’insistenza più o meno
interessata di autori e critici su questa caratteristica, ha portato nel corso del tempo alla
nascita della “tesi che le storie facciano funzionare meglio le società perché ci spronano a
comportarci eticamente” (Gottschall, 2018, p. 150). Forme di questo corollario esteticomorale, che vede nella letteratura non solo una macchina attivatrice delle nostre reazioni
empatiche, ma addirittura un motore di comportamenti prosociali capaci di influenzare positivamente la realtà, tendono, riassumendo quanto è stato esposto da Suzanne Keen (2007)
nel suo esaustivo studio Empathy and the Novel, a forzare la connessione tra correlazione
e causa. Martha Nussbaum, ad esempio, sostiene che l’immaginazione narrativa abbia un
impatto positivo diretto sull’etica collettiva perché l’esperienza finzionale “inspires intense
concern with the fate of characters and defines those characters as containing a rich inner
life, not all of which is open to view” (Nussbaum, 1997, p. 90), mentre per la storica Lynn
Hunt, l’affermazione del genere romanzesco nel Settecento sarebbe addirittura alla base
della rivoluzione dei diritti umani che democratizza l’Occidente, avendo addestrato i lettori
a “new forms of empathetic identification with individuals who are now imagined to be in
some fundamental way like you”, e avendo quindi “disseminated a new psychology and a
new social and political order” (Hunt, 2000, pp. 13-14). Per quanto simili affermazioni
sembrino condivisibili e vengano spesso considerate un valido strumento per rivendicare
l’importanza sociale della letteratura, la funzione prosociale dei racconti non solo non è (ad
oggi) provata da nessuno dei tentativi di riscontro sperimentale che sono stati avanzati, ma
richiede una volontaria e problematica restrizione del campo dei racconti stessi. Come nota
Keen commentando specificamente la tesi di Hunt, “anyone who has read a fair number of
eighteenth-century novels will be able to think of examples of stigmatized characters who
are held up for ridicule and humiliation, to the delight of protagonists and implied readers
alike” (Keen, 2007, p. xix).
Gli studi neuroscientifici ci dicono anche un’altra cosa sulle storie, l’empatia e il funzionamento dei neuroni specchio, ovvero che proprio la sovrapposizione di esperienza
compiuta ed esperienza osservata ci espone a qualcosa di molto simile al doomscrolling
effect, cioè al sovraconsumo di risorse emotive e al versamento forzato del costo energetico
richiesto dalla gestione delle esperienze negative – costo psicologico ma anche fisico.4 Si
tratta di un fenomeno che può condurre a quella che lo psicologo Martin Hoffman ha definito “sovrattivazione empatica” (empathic overarousal), ovvero il drenaggio emotivo che
si subisce quando l’esposizione alla sofferenza altrui è troppo intensa, e che può spingerci
a reazioni paradossalmente opposte alla grammatica dell’empatia:
suo sviluppo cognitivo, a mettere in atto responsi empatici nel progressivo relazionarsi alla realtà
circostante” (Calabrese, 2020, p. 63).
4
Gottschall descrive gli effetti fisici della suspense e dell’immedesimazione in personaggi finzionali
che si trovano in situazioni negative (Gottschall, 2021, pp. 31-34). Nel commentare l’esperimento
terapeutico compiuto sui sopravvissuti di un disastro aereo, Valentina Conti riporta che “in alcuni
casi, attraverso i neuroni specchio fotografati in modalità neuro-imaging, gli intervistatori hanno
addirittura riportato un trauma secondario come risultato dell’attività di ascolto” (Calabrese, 2020,
p. 111).
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in generale, ci aspettiamo che l’intensità dell’attivazione empatica sia maggiore quanto più
intensa e saliente è la sofferenza della vittima; quanto più intensi e salienti sono i segnali di
sofferenza, tanto più intensa sarà anche la sofferenza empatica dell’osservatore. Se però questi segnali sono troppo intensi e salienti, la sofferenza empatica dell’osservatore può diventare così avversiva da trasformarsi in un sentimento di sofferenza personale (Hoffman, 2008,
pp. 233-234).5
Se avvertiamo la possibilità di essere sopraffatti da un’esperienza eccessivamente dolorosa, sviluppiamo un senso di avversione per la situazione che ci minaccia e per la vittima
stessa che ci trascina nel suo cerchio di sofferenza: “Recognition of evil was balanced by
fear of becoming involved. Sympathy was transformed, not into action, but into withdrawal” (Williams, 1983, p. 109). Le reazioni – etimologicamente rivelatorie – che sfoderiamo come meccanismo autodifensivo non sono più di empatia e compassione ma piuttosto di insofferenza, apatia, risentimento.
A prevenire e compensare questa risposta automatica sembra intervenire un meccanismo di contenimento che gli psicologi hanno individuato attraverso gli studi sul confronto
delle capacità controfattuali di bambini e adulti, e che sembra suggerire l’attivazione di un
principio, per così dire, di economia cognitiva:
crescere significa “potare” i percorsi meno frequenti e rafforzare quelli più battuti: i bambini
eccellono nella creazione di nodi neuronali nuovi, periferici, anomali; gli adulti stabilizzano
le conoscenze in un numero limitato di autostrade sinaptiche che danno come risultato finale
l’idea di realtà e normalità. […] Potremmo dire che essere adulti significa limitare (“inibire”)
quell’immaginazione predittiva e controfattuale che, al contrario, produce abbondanti esondazioni in età infantile (Calabrese, 2020, pp. 32-33).
Riflettiamo sulle implicazioni di questi meccanismi di limitazione o inibizione. Da un
punto di vista di dinamiche evolutive, sembra sensato valutare almeno la possibilità che, in
un mondo in continua espansione, in cui la quantità di conoscenza sullo stato degli altri
esseri umani aumenta esponenzialmente e ci espone al pensiero di sofferenze e ingiustizie
umane incalcolabili, l’elemento empatico possa subire una disattivazione selettiva perché
eccessivamente dispendioso in termini di energie vitali e di costo cognitivo. Possiamo applicare questo insieme di considerazioni al quadro della storia letteraria e al romanzo come
genere?
2. Il bisogno di restringere il campo
Se l’ipotesi di Lynn Hunt sul ruolo attivo del romanzo nel promuovere la rivoluzione dei
diritti umani è suggestiva e coerente con quello che sappiamo sul funzionamento della
mente umana, lo stesso insieme di premesse su cui si basa può essere usato anche per sostenere, non paradossalmente, una tesi opposta e complementare. La tesi è che il romanzo
non sia solo un’indiscriminata macchina dell’empatia, ma anche, allo stesso tempo e per le
stesse ragioni, un dispositivo di distribuzione della crudeltà, dell’indifferenza e della disempatia, che amministra l’allocazione delle risorse empatiche in modo da rilasciare solo
una tollerabile quantità coinvolgimento, comprensione e compassione.
5
Keen analizza la rappresentazione letteraria di questo stesso fenomeno in narrazioni distopiche che
hanno enfatizzato il risvolto fisiologicamente debilitante, o addirittura invalidante, della facoltà empatica, inserendo nella finzione narrativa personaggi affetti da una condizione di “hyperempathy”
(Keen, 2007, pp. 148-152).
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Per iniziare a fondare questa ipotesi, una prima domanda a cui è opportuno tentare di
rispondere è: come funziona questo dispositivo?
Come sintetizza efficacemente Keen incrociando gli studi psicologici e neuroscientifici
con i risultati di una vasta selezione bibliografica (prevalentemente di area narratologica,
ma non solo, con riferimenti che vanno da Propp e Šklovskij a Genette e Dorrit Cohn), le
principali strategie formali coinvolte nell’attivazione della risposta empatica si possono
raggruppare in due ambiti: la character identification (“specific aspects of characterization,
such as naming, description, indirect implication of traits, reliance on types, relative flatness or roundness, depicted actions, roles in plot trajectories, quality of attributed speech,
and mode of representation of consciousness”) e la narrative situation (“the nature of the
mediation between author and reader, including the person of the narration, the implicit
location of the narrator, the relation of the narrator to the characters, and the internal or
external perspective on characters, including in some cases the style of representation of
characters’ consciousness”; Keen, 2007, p. 93). Questo doppio repertorio di risorse formali
ricorrenti, a cui ogni lettore-ascoltatore è addestrato fin dalla nascita, “agisce come un ‘segnale’ che consente al fruitore di riconoscere immediatamente il genere discorsivo, attivando le mappe neuronali adeguate alla sua interpretazione” (Calabrese, 2020, p. 25). In
altre parole, sono le istruzioni invisibili che ci dicono chi sono i personaggi principali, chi
i secondari, che cosa aspettarci, e soprattutto con chi immedesimarci. Ma che cosa succede
se questo segnale è ambiguo, o instabile, o multiplo? Sappiamo che nella letteratura per
l’infanzia, nelle fiabe, e in misura variabile nei poemi epici e nei romanzi cavallereschi,
l’emissione di questi segnali tende a mantenere un tasso di coerenza abbastanza alto, che
rispecchia la solidità e la chiarezza del sistema di valori proiettato sui personaggi. Sappiamo anche che nel romanzo accade più spesso l’esatto opposto. Che cosa succede se la
letteratura ci mette in una condizione di conflict of signals? L’autore di solito ci suggerisce
qual è l’individuo o il conflitto su cui dobbiamo concentrarci mettendo in campo una codificazione strutturale (cioè marcando la differenza tra il protagonista, l’antagonista e i personaggi secondari, e la rilevanza dei loro rispettivi problemi) e stilistica (cioè usando precise strategie verbali per farci capire se il tono della storia è comico o serio o tragico o
altro). Ma l’autore potrebbe decidere intenzionalmente di offrire una codificazione ambigua, creando più elementi di pari statuto che entrano in competizione tra loro, oppure potrebbe iniziare a costruire un’indicazione e poi cambiare rotta.
Nel grande edificio del tribunale, durante una pausa dell’udienza sul caso Mel’vinskij i giudici e il procuratore si erano riuniti nello studio di Ivan Egorovič Šebek e avevano preso a
parlare del celebre affare Krasovskij. Fedor Vasil’evič si infervorava a sostenere l’incompetenza a procedere, Ivan Egorovič restava della propria idea mentre Petr Ivanovič, che non era
mai entrato nella discussione, continuava a restarne fuori e sfogliava il «Messaggero» appena
arrivato.
- Signori! – esclamò ad un tratto, - è morto Ivan Il’ič.
- Davvero?
- Leggete qui, - disse Fedor Vasil’evič, porgendogli il giornale fresco che profumava ancora
di stampa.
Un annuncio cerchiato di nero diceva: «Praskov’ja Fedorovna Golovina annuncia con profondo cordoglio, a parenti e amici, la scomparsa dell’amato consorte, avvenuta il 4 febbraio
1882. Il funerale avrà luogo venerdì alle ore 1 pomeridiane».
Ivan Il’ič era collega dei signori lì riuniti e tutti gli volevano bene. Era ammalato già da diverse settimane; si diceva che avesse un male incurabile. Gli avevano conservato il posto col
tacito accordo che, in caso di morte, sarebbe subentrato Alekseev, mentre il posto di Alekseev
sarebbe passato a Vinnikov o a Štabel. Così, alla notizia della morte di Ivan Il’ič il primo
pensiero dei signori lì riuniti si concentrò sulle implicazioni che quella morte avrebbe avuto
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su eventuali trasferimenti o promozioni che riguardavano loro stessi o i loro conoscenti. […]
Oltre alle varie considerazioni su trasferimenti e possibili miglioramenti di carriera che da
quella morte potevano derivare, il fatto stesso della morte di una persona conosciuta e vicina
suscitava in tutti coloro che ne venivano informati, come sempre, un sentimento di soddisfazione, giacché a morire era stato lui e non loro (Tolstoj, 1999, pp. 21-22, corsivi miei).
Se osserviamo l’incipit della Morte di Ivan Il’ič tenendo in considerazione le due leve
formali dell’empatia (la character identification e la narrative situation), vediamo che Tolstoj apre la storia con uno sdoppiamento di prospettiva. Da un lato, sappiamo dal titolo che
un individuo di nome Ivan Il’ič è il protagonista della storia, e osservare l’effetto antitragico che la notizia della sua morte provoca sui colleghi ci sollecita un senso di compassione per lui e di biasimo per il generale cinismo del suo vecchio posto di lavoro. Ma
dall’altro lato, allo stesso tempo, mentre di Ivan Il’ič sappiamo soltanto due cose (il suo
nome, e che è morto), dei colleghi che stanno commentando la sua morte Tolstoj ci mostra
il punto di vista, le ragioni, le dinamiche psicologiche profondamente umane dalle quali
non possiamo dichiararci estranei (compresa l’idea che la vicinanza della morte altrui ci
spinga irrefrenabilmente al sollievo verso la nostra non-morte). Per le prime due pagine, la
character identification dei colleghi è più forte di quella di Ivan, e la narrative situation
mette il loro punto di vista al centro del discorso: la voce narrante si sofferma persino a
dirci che “tutti gli volevano bene”, impedendoci di liquidare la reazione di questi personaggi come una prova del loro essere crudeli verso il protagonista. E sottolinea deliberatamente che il loro senso di sollievo si manifesta “come sempre” nel rapporto degli individui
con la morte. Nessuno qui è spietato perché è cattivo. Se un atteggiamento disempatico si
manifesta, è perché questo atteggiamento fa parte della natura umana, come il movimento
delle barre di grafite che tengono sotto controllo il nostro personale reattore nucleare emotivo. La narrazione non ci autorizza a pensare male dei colleghi di Ivan, ma ci mette in una
condizione di conflitto e incertezza sul nostro allineamento morale e psicologico: la nostra
pietà istituzionale per il defunto è più o meno forte della nostra immedesimazione con i
vivi di cui stiamo ascoltando discorsi e pensieri? Possiamo rispondere a questa domanda o
siamo davanti a un’aporia radicata nel nostro stesso essere vivi e nel poter avere esperienza
della morte solo dall’esterno? Siamo nell’incipit, la rappresentazione della dolorosa discesa
verso il trapasso di Ivan Il’ič non è ancora iniziata, ma di lì a poco la nostra prospettiva sarà
riposizionata per concentrarci su di lui, ed è lì che retrospettivamente accade l’ingiustizia
simbolica. La narrazione non ci autorizza a pensare male dei colleghi di Ivan, ma lo faremo
comunque: dichiareremo con sentenza postuma che i colleghi di ufficio sono cinici, gretti,
egocentrici e interessati a registrare la morte di un uomo solo nella misura in cui può influire sulle loro carriere.
Poco importa che più avanti nel racconto, dalla prospettiva dello stesso Ivan Il’ič, Tolstoj arrivi a formulare come legge universale e addirittura come necessità logica questa
stessa impossibilità di empatizzare con la morte altrui, scagionando di fatto i colleghi:
“L’esempio di sillogismo che aveva studiato nella logica di Kizeveter – Caio è un uomo,
gli uomini sono mortali, quindi anche Caio è mortale – gli era sempre parso giusto, ma solo
in relazione a Caio, non a se stesso. […] Certamente Caio era mortale ed era giusto che
morisse, ma non lui” (Tolstoj, 1999, pp. 62-63, corsivo mio). Così come vale per Ivan Il’ič,
che per tutta la vita ha normalizzato la morte degli altri riportandola sotto l’ombrello di una
ovvia legge della natura e della logica, allo stesso modo dovrebbe valere per i suoi colleghi
la giustificazione prospettica che solleva dall’accusa di cinismo chi si ritrae dall’impossibile immedesimazione con un defunto. Eppure, a ogni rilettura, tendiamo comunque a giudicare quei personaggi con la bussola distorta in cui il Nord non è la giustizia morale o la
spassionata valutazione dei tratti caratteriali, ma lo status di protagonista.
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Il peso dell’essere o non essere il protagonista supera di innumerevoli ordini di grandezza il peso dell’essere o non essere moralmente accettabile per il lettore, o dell’essere o
non essere comprensibile nelle proprie motivazioni più profonde. Confrontiamo la morte
di Ivan Il’ič con la morte di Hélène Bezuchova: anche la sua avviene fuori scena ed è comunicata attraverso le parole e il punto di vista di altri, ma con la differenza che il suo
punto di vista non viene mai recuperato. La sua scomparsa è solo una delle notizie del
giorno, e non la più importante, perché la guerra contro Napoleone è in una fase critica, e
il vero argomento caldo, persino per il suo stesso padre, il principe Vasilij, è la posizione
del generale Kutuzov e dell’imperatore.
Anche il principe Vasilij, quel giorno, non si vantava più del suo protégé Kutuzov, ma rimaneva in silenzio quando il discorso cadeva sul comandante supremo. La sera di quello stesso
giorno, inoltre, tutto parve combinarsi per gettare nell’allarme e nell’inquietudine gli abitanti
di Pietroburgo: al resto si aggiunse la terribile notizia che la contessa Elena Bezuchova era
prematuramente spirata per un terribile attacco di angine pectorale. Nei circoli intimi ci si
raccontavano a vicenda i dettagli, e cioè che le médecin intime de la Reine d’Espagne aveva
prescritto a Hélène piccole dosi di un certo medicamento, destinato a produrre un certo effetto, ma Hélène, tormentata dai sospetti che il vecchio conte aveva su di lei, e dal fatto che
il marito (lo sciagurato, il dissoluto Pierre) – al quale aveva scritto – non le aveva risposto,
improvvisamente aveva preso un’enorme dose della medicina prescrittale ed era morta fra
atroci sofferenze prima che potessero soccorrerla. […]
Il terzo giorno dopo il rapporto di Kutuzov a Pietroburgo, arrivò un possidente da Mosca, e
per tutta la città si sparse la notizia che Mosca era stata abbandonata ai francesi. Era spaventoso! In che situazione veniva a trovarsi l’imperatore! Kutuzov era un traditore e il principe
Vasilij, durante le visites de condoléance, che gli facevano per la morte della figlia, parlando
di Kutuzov, che prima egli stesso aveva tanto lodato (e nel suo dolore gli si poteva perdonare
di aver dimenticato ciò che aveva detto fino a pochi giorni prima), affermava che non ci si
poteva aspettare altro da un vecchio cieco e depravato (Tolstoj, 1982, pp. 1409-1410).
La situazione è quasi identica, ma non proviamo per Hélène lo stesso senso di pietà e
ingiustizia che proviamo per Ivan Il’ič, e non biasimiamo i membri dei circoli pietroburghesi come facciamo con gli impiegati del tribunale. E non soltanto perché Hélène ci è stata
dipinta con tratti caratteriali non particolarmente apprezzabili (anche Ivan ci viene presentato come un uomo dal tessuto morale mediocre), ma soprattutto perché Hélène non è una
protagonista, non riceve mai il beneficio narrativo di riversare la propria interiorità sulla
pagina, non si impossessa mai della prospettiva che orienta la narrazione (se non per il
brevissimo istante in cui, attraverso i suoi occhi, valutiamo la desiderabilità di Nataša come
possibile preda mondana del fratello). La vita e il punto di vista di questa giovane donna
bellissima, ricca, intelligente, desiderata da tutti, data in matrimonio per interesse a un
uomo goffo e distratto che non prova quasi niente per lei e che passerà il tempo del loro
matrimonio a ignorarla non ci coinvolge. Avrebbe potuto essere una Anna Karenina, e invece resta sullo sfondo, e per il suo destino non proviamo nessuna commozione.
In Retorica della narrativa Wayne Booth riflette sul mito dell’impossibile ambizione a
una completa imparzialità dell’autore rispetto ai personaggi e sottolinea come tutte le storie
siano permeate da un ineluttabile principio di “enfasi sleale” che è parte integrante e necessaria dell’esistenza stessa di una narrazione:
Anche fra personaggi di identico valore morale, intellettuale o estetico, tutti gli autori scelgono i loro preferiti. Un’opera viene scritta «su» un personaggio o un gruppo di personaggi.
Non è assolutamente possibile dare uguale rilievo a tutti, indipendentemente dal desiderio di
imparzialità dell’autore. Amleto non è giusto nei confronti di Claudio, e non importa che G.
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Wilson Knight tenti in tutti i modi di convincere i lettori che Claudio è vittima dei loro pregiudizi, né importa che il lettore sia disposto a credere che la storia di Claudio sia potenzialmente altrettanto interessante di quella di Amleto; questa è la storia di Amleto e non si deve
pretendere che renda giustizia al re. Otello non è giusto nei confronti di Cassio; Re Lear non
lo è verso il Duca di Cornovaglia; Madame Bovary è un romanzo ingiusto verso tutti, ad
eccezione forse di Emma; e A Portrait of the Artist as a Young Man [Dedauls] mette in cattiva
luce tutti eccetto Stephen.
Che importa? Lo scrittore che decide di raccontare una storia non può allo stesso tempo raccontarne un’altra. Concentrando l’interesse, la simpatia e l’affetto del lettore su un determinato personaggio, l’autore fa sì che tutti gli altri ne siano esclusi. Da questo punto di vista,
come da molti altri, l’arte imita la vita; proprio come nella vita reale si è inevitabilmente
ingiusti verso tutti eccetto se stessi, o – nella migliore delle ipotesi – eccetto quelli che ci
sono vicini e che si amano (Booth, 2000, pp. 81-82).
Nell’élite sentimentale dei lettori c’è Pierre, non Hélène, così come ci sono Emma e
Dorothea, non Charles e Mr Casaubon, e il nostro allineamento emotivo trascura ogni velleità di giustizia o imparzialità e si dispone, “slealmente”, a favore dei protagonisti e a
sfavore dei personaggi minori, delle comparse, di quelli che abitano nello sfondo della storia. A volte gli autori sono consapevoli di questa distorsione, e giocano con la moltiplicazione dei segnali. Charles Bovary è la persona il cui punto di vista incastona la vita di
Emma: il romanzo si apre sulla sua infanzia, ci dà un resoconto dettagliato della sua vita, e
si chiude sulla sua morte, ma di lui non sappiamo niente. L’unico fatto che ci è presentato
come memorabile nella sua esistenza è la rischiosa operazione chirurgica che porta un ragazzino a subire l’amputazione della gamba. Certo, la presenza solitaria di Charles sulle
soglie della narrazione, dove Emma non c’è ancora o non c’è più, ci obbliga per forza a
considerare la sua prospettiva, a sapere (razionalmente) che la vicenda del suo triste matrimonio è anche la sua storia. Ma tra le due soglie c’è un romanzo che è il romanzo di Emma,
e quella flebile contro-prospettiva è spazzata via proprio come quella dei colleghi di Ivan
Il’ič; anzi peggio, perché nel frattempo, attraverso lo sguardo della moglie, ci siamo abituati
a disprezzarlo: “quell’uomo che mangia senza sospetti, diventa comico e quasi spettrale”,
detestabile causa prima e unica di tutte le cose che infondono sconforto a Emma e che
“appaiono a lei, e dunque anche al lettore, come cose che sono in rapporto con lui, che si
generano da lui, e che sarebbero del tutto diverse, se lui fosse diverso da quel che è” (Auerbach, 2000, p. 257).
Un giorno Charles si recò al mercato di Argueil per vendere il suo cavallo – la sua ultima
risorsa –, e incontrò Rodolphe. […]
“Non ve ne voglio mica,” disse.
Rodolphe rimase senza fiato. E Charles, con la testa tra le mani, riprese con voce spenta e
l’accento rassegnato dei dolori senza fine:
“No, non ve ne voglio più!”
E aggiunse persino una grande frase, l’unica che abbia mai pronunciato in vita sua.
“È colpa della fatalità!”
Rodolphe, che di quella fatalità era stato l’artefice, lo trovò eccessivamente accomodante per
un uomo nella sua situazione, perfino comico e un tantino vigliacco.
Il giorno dopo Charles andò a sedersi sulla panchina sotto il pergolato. Attraverso i tralicci
filtrava la luce del sole; i pampini disegnavano le loro ombre sulla sabbia, il gelsomino odorava, il cielo era azzurro, le cantaridi ronzavano intorno ai gigli in fiore, e Charles si sentiva
soffocare come un adolescente sotto i vaghi effluvi amorosi che gli gonfiavano il cuore dolente.
Alla sette la piccola Berthe, che non l’aveva visto per tutto il pomeriggio, andò a cercarlo per
la cena.
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8 2023 • Comparatismi
Aveva la testa rovesciata contro il muro, gli occhi chiusi, la bocca spalancata, e stringeva tra
le mani una lunga ciocca di capelli neri.
“Dai, papà, vieni!” disse la piccola.
E credendo che lui volesse giuocare, lo spinse con dolcezza. Cadde per terra. Era morto.
Trentasei ore dopo, su richiesta del farmacista, arrivò il signore Canivet. Lo sezionò, ma non
trovò niente! (Flaubert, 2015, pp. 324-325).
La pietà che proviamo per la morte di Charles è impersonale, dovuta alla morte più che
al morto: non siamo emotivamente coinvolti, abbiamo già riversato le nostre risorse empatiche su Emma e non ci scandalizza vedere quest’uomo morire come se fosse uno degli
insetti che ronzano nel suo giardino, accompagnato dal giudizio sprezzante di Rodolphe
(“comico e un tantino vigliacco”), dall’ironia del narratore (“aggiunse persino una grande
frase, l’unica che abbia mai pronunciato in vita sua”) e dall’autopsia sul suo cadavere che
proietta all’indietro su tutta la sua vita il segno dell’irrilevanza (“non trovò niente!”).
Non è diversa la sorte di Mr Casaubon: anche George Eliot apre una finestra sulla sua
vita che interrompe per un momento la prospettiva dominante del romanzo, quella occupata
da Dorothea e dagli altri giovani protagonisti che non possono fare a meno di vedere nel
vecchio filologo, logorato da una vita di inutile lavoro su un progetto impossibile, una figura di decrepitezza e fallimento. La sua morte è incastonata tra la meschinità della sua
ultima richiesta a Dorothea, una promessa in bianco che la deve vincolare per il resto della
sua vita, e la meschinità dei parenti che leggendo il testamento ne hanno scoperto il contenuto oltraggioso (la perdita di ogni eredità nel caso in cui Dorothea si fosse risposata con
Ladislaw). E anche se il momento della sua morte è descritto come uno shock per la moglie,
che in questo modo trasferisce vicariamente al lettore una parte della drammaticità
dell’evento, sappiamo già da molte centinaia di pagine che la lealtà della protagonista per
il marito è una sorta di masochistica autoimposizione nata da una religiosità un po’ perversa, e non certo da un sentimento di affetto. Non a caso, questo dolore dura solo poche
pagine, fino alla scoperta del vincolo testamentario, descritto con i tratti orrorifici della
mano di un cadavere che si è chiusa intorno alla protagonista e la intrappola con la forza
disturbante del rigor mortis (il titolo del Libro V è The Dead Hand):
Non era più davanti a lei, a destare la sua compassione, l’uomo vivo e sofferente: restava
solo il ricordo di una penosa soggezione a un marito i cui pensieri erano stati più meschini di
quanto lei avesse creduto, le cui esorbitanti pretese per sé avevano addirittura accecato la sua
preoccupazione scrupolosa per il proprio buon nome e lo avevano condotto a sconfiggere il
proprio orgoglio, scandalizzando uomini di comune rispettabilità (Eliot, 2010, p. 495, corsivo
mio).
In più di un’occasione, George Eliot sembra consapevole della distorsione rappresentativa che riserva la pietà ai soli protagonisti, e usa la propria forte voce narrante per denunciarla (“Un mattino, alcune settimane dopo il suo arrivo a Lowick, Dorothea – ma perché
sempre Dorothea? Il suo punto di vista era l’unico possibile riguardo a questo matrimonio?”, Eliot, 2010, p. 289) e addirittura per farne una riflessione di ordine generale sulla
natura dell’egoismo umano:
Sulla vostra specchiera, o su un’estesa superficie di acciaio lucido, fatta strofinare da una
cameriera, si verranno a formare delle striature minute e numerosissime in tutte le direzioni;
ma ora disponete davanti ad essa una candela accesa come fonte di illuminazione, e guardate!
Le striature vi sembreranno disporsi in cerchi concentrici attorno a quel piccolo sole. Si può
dimostrare che le striature vanno imparzialmente in tutte le direzioni, e che è solo la vostra
candela a creare quell’illusione ingannevole di una disposizione concentrica, irradiando la
Valeria Cavalloro • Il romanzo come forma di disempatia
159
luce che opera un’intera selezione ottica. Questa è una parabola. Le striature sono gli eventi
e la candela è l’egoismo di qualsiasi persona (Eliot, 2010, p. 275).
Se la voce narrante è una delle strategie formali che funzionano come segnali di orientamento dell’empatia del lettore, Eliot qui sta scatenando un conflitto di segnali a tutto
campo, volto a contrastare la rappresentazione di Casaubon come arido vecchio incapace
di comprendere il dramma della giovane donna che, accecata da una fantasia di ascetismo
romantico, si è voluta intrappolare in un matrimonio con lui. “Mr Casaubon aveva dentro
di sé una coscienza intensa ed era affamato di spiritualità come il resto di noi”, “Povero Mr
Casaubon! Questa sofferenza era tanto più dura da sopportare perché sembrava come un
tradimento: la giovane creatura che lo aveva adorato con perfetta fiducia si era rapidamente
trasformata in una moglie critica”, “vi sono forse molte situazioni di più tragica sublimità
della lotta dell’anima contro l’esigenza di rinunciare a un’opera che è stata tutto il significato di una vita – un significato che è destinato a svanire come le acque che vanno e vengono dove nessun uomo ne ha bisogno?” (ivi, pp. 289, 423, 427). Tuttavia, è proprio l’insistenza della voce narrante6 a sabotare il possibile effetto correttivo di questi commenti,
che ci arrivano ricoperti da una patina di paternalismo narrativo e si rovesciano rapidamente
in ironia. George Eliot non fa niente per nascondere che Dorothea non è poi tanto migliore
di Casaubon: fin dalla prima pagina ci viene presentata come una Madame Bovary che ha
solo scelto un diverso gusto di delirio romantico (mistico invece che amoroso) e ha insistito
per sposare un uomo che non si è minimamente sforzata di comprendere, salvo poi restare
delusa dalla realtà e coltivare verso di lui un ingiusto rancore represso. Ma la forma del
romanzo ci impedisce di mettere alla pari le ragioni e i meriti di entrambi: “There is satire
on both side, but for some time it is only Dorothea who is shown with sympathy as well as
irony” e anche quando la voce narrante interviene, questo intervento suona come “a rare
movement of sympathy towards an entirely unlovable character”, svuotato da un carico di
“damning irony” (Hardy, 1963, p. 97).
C’è un difetto di giustizia del raccontare che lascia inevitabilmente qualcuno fuori dalla
gloriosa macchina dell’empatia. Vorrei proporre di leggere questo fatto non come una
scelta moralistica o estetica (o almeno non solo, non sempre e non primariamente), ma
come una caratteristica della forma stessa del romanzo, e forse proprio la caratteristica che
ha sancito il suo successo come genere.
3. Amministrare la disempatia: una teoria del romanzo?
Secondo Alex Woloch, il meccanismo di significazione del genere romanzesco si basa su
una dinamica di violenza simbolica che aumenta e concentra l’effetto del realismo di alcuni
personaggi ed eventi, mettendoli al centro della scena e costruendo attorno a loro una cassa
di risonanza fatta di altri personaggi ed eventi schiacciati, come sui margini di una lente
grandangolare, dal peso di una necessaria, consapevole e intenzionale semplificazione allegorica.
Allegorical characterization now comes at a price: the price of human particularity that it
elides. In other words, the realist novel systematically reconfigures its own allegorical reduction of characters through a pervasive awareness of the distributional matrix. This awareness
6
“Negli ultimi anni, i ricercatori hanno scoperto che le storie che contengono messaggi espliciti
sono meno persuasive di quelle nelle quali i messaggi sono impliciti e indiretti” (Gottschall, 2021,
p. 64).
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lies behind the “flatness” that E.M. Forster so insightfully conceptualizes: a flatness that
would seem to go against the basis tenets of realism but, in fact, becomes essential to realism.
[…] We are always aware that a secondary character in one novel might become the protagonist in another. […] But this is not to say that once we acknowledge the significance of the
minor character he suddenly becomes major, breaking out of his subordinate position in the
narrative discourse. This would be to elide the very source through which the minor character
signifies – and is made significant to the reader who strangely remembers (Woloch, 2003,
pp. 20, 36-37).
Lo stesso principio di narrative inequality che è intrinseco al funzionamento del romanzo, e senza il quale il romanzo come genere non potrebbe funzionare, si applica anche
alla distribuzione dell’empatia. Che non è però una distribuzione basata sul punteggio che
ogni personaggio segna lungo l’ascissa del giudizio morale. Ovviamente, la differenza tra
“buoni” e “cattivi” è uno dei motori della nostra empatia: “produrre delle narrazioni significa produrre dei cattivi. Produrre dei cattivi significa produrre rabbia, atteggiamenti giudicanti e divisioni tra gruppi” e nel comporre il cast di personaggi che attivano il conflitto
di una storia “si crea empatia, ma anche insensibilità per coloro che non se la sono guadagnata” (Gottschall, 2021, p. 134, p. 122). Ma se la divisione tra buoni e cattivi è il messaggio esplicito (e quindi meno efficace), il messaggio implicito (e persuasivo) è quello che
corre lungo la linea che separa i personaggi principali, buoni o cattivi che siano, dalle masse
grigie che stanno ai margini e alle quali è riservato il trattamento emotivamente scarico
della rappresentazione. Ovviamente, il coinvolgimento empatico che abbiamo con i protagonisti è di segno diametralmente opposto a quello che stabiliamo con gli antagonisti, ma
in entrambi i casi si tratta di un’attivazione emotiva di forte intensità. Anzi, in alcuni casi
il coinvolgimento che proviamo per il “cattivo” è più forte di quello che proviamo per
l’“eroe”, e non capita per caso che molti memorabili personaggi finzionali siano individui
moralmente dubbi (Amalfitano, 2018; Ercolino, Fusillo, 2022). Se ragioniamo da un punto
di vista di “cecità morale” selettiva, che nega i diritti empatici del gruppo di cui non facciamo parte (Gottschall, 2021, p. 140), il gruppo in questione non è il loro dei cattivi, ma
il tutti gli altri dei personaggi minori: il gruppo che ci lascia moralmente indifferenti,
quando non apertamente inclini al sadismo (se non altro al sadismo rappresentativo), è
quello composto dai personaggi secondari che orbitano nella nostra visione periferica.
Se incrociamo anche su questo punto gli elementi formali con le osservazioni delle neuroscienze sulla Teoria della Mente, l’ipotesi regge ancora: in quanto esito dell’attivazione
dei due tipi di ToM (Calabrese, 2020, p. 64), quella emozionale (che ci fa condividere intuitivamente i sentimenti esposti di qualcun altro) e quella cognitiva (che ci fa comprendere
razionalmente le azioni di qualcun altro lasciandoci vedere le sue motivazioni), l’empatia
non può che essere profondamente ostacolata da una character identification in cui l’interiorità dei personaggi minori non è mai rivelata e da una narrative situation in cui non viene
mai dato spazio alla loro prospettiva.
Non si tratta di buoni contro cattivi, ma di protagonisti contro comparse, trama contro
sottotrama e contro sfondo.
Perché proprio il romanzo sia la forma che si presta a questo discorso sembra quasi
superfluo da spiegare, dopo oltre un secolo di solida teoria letteraria.7 Vale la pena di notare
che l’esplosione del romanzo coincide con la caduta del paradigma cristiano dal trono di
7
Sul rapporto studiatissimo del genere romanzesco con i generi precedenti in un’ottica di lungo
periodo mi limito a citare, solo perché più presenti di altri nel lavoro che ha portato a questo saggio,
Šklovskij (1966), LaCapra (1987), Auerbach (2000), Bachtin (2001), Moretti (2001-2003), Lukács
(2004), Mazzoni (2011), Grifcov (2012).
Valeria Cavalloro • Il romanzo come forma di disempatia
161
unica fonte di morale condivisa, e con il bisogno di nuovi laboratori dell’identità che processino l’emersione dell’individualismo moderno nel blocco culturale europeo-nordamericano (Taylor, 1993; Watt, 1976).8 In particolare, laboratori che elaborino la fine del monopolio morale-narrativo della cornice di senso cristiana (Gottschall, 2021, p. 84), all’interno
della quale un posto rilevante era destinato alla sfera dell’altruismo, della compassione,
della pietà, dell’amore per l’altro e soprattutto di mobilitazione di fronte alle sue sofferenze,
da cui il ruolo centrale di episodi evangelici come la parabola del buon Samaritano e le
sette Opere di Misericordia, variamente intrecciati all’eredità laica e umanistica della pietas
latina (non a caso Virgilio è autore potentemente cristianizzato). Un paradigma che raggiunge il suo limite e diventa insostenibile nell’epoca dell’esplosione della modernità, che
con le navi a vapore, le ferrovie, i quotidiani e poi i telegrafi moltiplica le dimensioni del
mondo e buca le pareti delle comunità locali, rendendo di colpo visibili tutti i mali della
terra. Come si può aderire al comandamento della misericordia se la quantità di sofferenti
si estende in una massa senza fine? Serve uno strumento di controllo che salvi l’individuo
dalla fatale emorragia di forze spirituali che lo colpirebbe immediatamente se anche solo
provasse a pensare alla quantità di afflitti che lo circondano in ogni momento, figurarsi se
provasse a fare qualcosa per loro. Serve un filtro, uno strumento che ristrutturi i circuiti
mentali che regolano l’emissione dell’empatia. Senza dirlo, o meglio dicendolo con la sola
forma, il romanzo crea una rassicurante macchina di salvaguardia dell’individuo dal dissanguamento emotivo: ecco dei protagonisti con cui identificarci e su cui concentrare il
nostro investimento interiore, ed ecco il resto del mondo, che sì, avrà i suoi mali, lo sappiamo, ma lasciamoli all’attenzione di qualcun altro.
Dell’altre lacrime umane, di cui è imbevuta la terra intera, dalla scorza fino al centro, ormai
non dirò nulla: ho volontariamente ristretto il mio tema (Dostoevskij, 2005, p. 326).
L’avrei soccorso se avessi potuto, ma mi era impossibile di confortarlo. Secondo me neanche
chi è più innocente e più disgraziato di Guido merita compassione, perché altrimenti nella
nostra vita non ci sarebbe posto che per quel sentimento, ciò che sarebbe un grande tedio
(Svevo, 2003, p. 306).
In tempi in cui l’anima ha i calli della sofferenza, più che mostrare compassione per le vittime
è facile maledire i carnefici. […] La maggior parte delle persone, però, si sforzava di ignorarli, lei e i suoi figli urlanti: preoccupazioni, disgrazie e dolori non mancavano neppure a
loro (Grossman, 2022, pp. 177-178).
Le citazioni elencate qui vengono da un lungo elenco che ribadisce il ruolo del romanzo
come forma che dà un’elaborazione simbolica al nostro bisogno di essere esonerati dalla
responsabilità di reagire allo scandalo (parola morantiana) di una storia umana fatta di dolore. Chi non lo fa manifesta una disfunzione dei circuiti cognitivi, e rischia di finire completamente schiacciato dall’incombere del male del mondo, come ad esempio accade ai
personaggi di Tozzi, il Pietro di Con gli occhi chiusi e l’io semiautobiografico di Bestie.
Se le storie possono “addestrarci nell’elaborare frames e scripts” necessari per “interpretare il mondo secondo attese convenute o per consentirci di riadattare queste attese ai
8
Ipotesi cronologica supportata dall’analisi comparativa di Qi Wang, la maggiore studiosa di manifestazioni del Self, che ha notato la rottura che si presenta in Occidente al passaggio dall’epoca
cristiana-protestante, nella quale “il Sé è ancora fortemente attaccato a un modello esemplare di
devozione, ascetismo mondano e prescrizione divina”, all’epoca romantica, dove “il Sé acquisisce
pienamente il significato di personalità unica, irripetibile, ineguagliabile e ineffabile, tanto da rendere inutili i modelli esemplari di condotta” (Calabrese, 2018, p. 56).
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8 2023 • Comparatismi
cambiamenti della realtà” (Calabrese, 2018, p. 46, corsivo mio), allora il romanzo può
essere visto come il meccanismo simbolico-cognitivo che recepisce l’esigenza moderna di
rinegoziare il rapporto tra individui e male cosmico, evitandoci di affondare in uno stato di
perenne empathic distress (Hoffman, 2008, cap. III). Il romanzo autorizza e sancisce il
nostro bisogno di dirci che non possiamo preoccuparci di tutti, non possiamo soffrire per
tutti, la nostra empatia è una risorsa limitata e abbiamo il diritto di rifiutarla di tanto in
tanto. Poco importa che questo “di tanto in tanto” corrisponda in realtà alla stragrande maggioranza di ciò che esiste: i protagonisti delle storie sono in fondo una ristrettissima élite
di individui privilegiati da un surplus di dignità rappresentativa. La cosa che importa è la
nuova regola generale che viene inserita nella mappa cognitiva che ci guida: nessuno può
farsi carico di tutto il male del mondo, e nel momento stesso in cui viene stabilita la possibilità di separare il male di cui ci curiamo da quello di cui non ci curiamo, la posizione di
questo confine è nelle mani di ognuno, e nessuno può più avere la garanzia di essere ascoltato nella propria sofferenza. Del resto, questa è l’epoca della diffusione della responsabilità (Latane, Darley, 1970), dove l’ingiustizia e la sofferenza è sotto gli occhi di tutti, e
quindi nessuno in particolare può essere chiamato a risponderne o a mobilitarsi. È una condizione che sperimentiamo con triste frequenza quotidiana anche oggi, quando episodi di
razzismo o di sessismo sollevano reazioni violente e autodifensive sulla falsariga del concetto “non siamo tutti così (quindi non chiedeteci di fare qualcosa)”.
La rigorosa distribuzione dell’empatia al ristretto ambito di protagonisti e antagonisti
serve a semplificare metonimicamente lo scenario e a liberarci dell’insidioso problema del
male diffuso e della nostra indifferenza ad esso, che così non rischia più di gettarci nella
empathic guilt di chi si rifiuta di commuoversi (Hoffman, 2008). Certo, i personaggi secondari stanno soffrendo le loro pene, ma i nostri circuiti mentali si sono adattati per silenziare la loro sofferenza. O per lo meno per ignorarla temporaneamente: è infatti probabile
che, tornando in un secondo momento su una storia già letta o vista,9 a immersione mimetica ormai indebolita (o disattivata), ci scopriamo pronti a riconoscere l’infelicità degli altri.
Un’esperienza di riallineamento prospettico da cui scaturiscono anche iniziative creative
secondarie, responsabili di opere come Il grande mare dei Sargassi o dei vastissimi repertori delle fanfiction (cfr. Jenkins, 2011; Meneghelli, 2018; Calabrese, Conti, 2019). Sono
testi che spesso prendono spunto proprio dall’esigenza di lettori-spettatori di “rendere giustizia” a personaggi che non hanno ricevuto un trattamento empatico o rappresentativo adeguato, e meritano una riscrittura che li salvi dal margine disempatico (o forse sarebbe meglio dire disempatizzante) della storia originale.10
Per trasformare questa ipotesi in una credibile teoria del genere romanzesco occorrerebbe toccare ancora gli immensi temi della codificazione della morale e del sé in Occidente, ma l’intreccio di conoscenze di teoria letteraria, psicologia e neuroscienze permette
per ora di proporre almeno l’idea che la fortuna del romanzo riposi sul suo essere un fusibile
dei nostri circuiti cognitivi, che ci addestra a gestire lo spettacolo del male compatibilmente
con una disponibilità empatica vista come risorsa finita, per cui l’io non può fisicamente
farsi carico di tutto il dolore degli altri, ed è autorizzato a ignorarne la gran parte senza che
ciò intacchi la sua integrità morale.
9
Secondo Keen (2007, pp. 140ss), questa postura correttiva del lettore può anche avvenire in tempo
reale quando si producono fenomeni di empathic inefficacy (l’autore non riesce a codificare correttamente le sue indicazioni su quali siano i personaggi con cui il lettore deve empatizzare) o di empathic inaccuracy (il lettore non capisce o decide di ignorare la codificazione fornita)
10
Su questo, nota espressamente Valentina Conti che gli autori di fanfiction sembrano attivarsi “proprio per il ‘bisogno’ di ampliare e movimentare il set narrativo di un racconto che poco soddisfa le
sue esigenze” (Calabrese, 2020, p. 91).
Valeria Cavalloro • Il romanzo come forma di disempatia
163
Questo discorso non vuole entrare nella sfaccettata discussione che riguarda la critica
dell’empatia in quanto tale (su cui vd. Keen, 2007, pp. 145-168), ma raccogliere l’invito
alla cautela che diversi studiosi hanno avanzato rispetto all’ottimistica idea che la lettura
possa, da sola, costituire un fattore di aumento dell’empatia e della coesione sociale. I romanzi ci aiutano certamente a ricordare che dietro le azioni altrui ci sono interi mondi che
non conosciamo, che la fortuna e il caso hanno un ruolo maggiore di quello che ci piace
attribuire ai nostri meriti personali, e che quindi sarebbe più saggio se la nostra tendenza al
giudizio cedesse il passo a una tendenza alla compassione. Ma gli stessi romanzi ci innestano il tic mentale di stabilire che, in quanto protagonisti dell’unica storia che consideriamo valida (la nostra) siamo autorizzati a derubricare gli altri al ruolo di personaggi secondari e comparse di sfondo, e in questo modo selezionare chi, tra quelli che ci circondano, non merita la nostra empatia, con chi possiamo permetterci di essere spietati, o persino di esercitare la nostra crudeltà.
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