UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CAGLIARI
Pubblicazioni del Dipartimento di Giurisprudenza
Serie II
4
I volumi della serie Pubblicazioni del Dipartimento di Giurisprudenza
dell’Università degli Studi di Cagliari sono sottoposti alla preventiva
valutazione scientifica di due referees anonimi di volta in volta designati dal responsabile della Collana nominato dal Consiglio di Dipartimento.
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CAGLIARI
PUBBLICAZIONI DEL DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA
Serie II
ANTROPOLOGIA
DELLA VENDETTA
a cura di
Giuseppe Lorini e Michelina Masia
Edizioni Scientifiche Italiane
n.s. 4
Il presente volume è stato pubblicato con un contributo della Fondazione
Banco di Sardegna.
Lorini, Giuseppe; Masia, Michelina (a cura di)
Antropologia della vendetta
Collana: Pubblicazioni del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Cagliari
Serie II, 4
Napoli: Edizioni Scientifiche Italiane, 2015
pp. XVI+312; 24 cm
ISBN 978-88-495-2863-3
© 2015 by Edizioni Scientifiche Italiane s.p.a.
80121 Napoli, via Chiatamone 7
Internet: www.edizioniesi.it
E-mail: info@edizioniesi.it
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(compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.
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aie, sns e cna, confartigianato, casa, claai, confcommercio, confesercenti il 18 dicembre 2000.
INDICE
La vendetta: istinto o istituzione?
Introduzione di Giuseppe Lorini e Michelina Masia
Ringraziamenti
IX
XV
La vendetta nel mondo
Laura Nader, Vendetta, barbarie e Osama bin Laden. Al
punto di partenza
3
Fabio Botta, La vendetta come officium pietatis
11
Giorgio Fabio Colombo, Chu\shingura: la vendetta fra
diritto e immaginario popolare nel Giappone premoderno
39
Domenico Francavilla, La vendetta in India: dharma
ed effetti dell’azione nelle concezioni tradizionali hindu
51
Wojciech Żełaniec, La vendetta nei paesi nordici all’epoca dei Vichinghi
71
La vendetta in Barbagia
Paolo Di Lucia, La vendetta in Sardegna: un’ipotesi ermeneutica
83
Michelina Masia, Rappresentazioni e mistificazioni della
vendetta barbaricina
91
Stefano Colloca, Vendetta barbaricina e pluralità degli
ordinamenti
111
Maria Grazia Cugusi, La vendetta barbaricina nelle riflessioni di due penalisti sardi
117
VI
Indice
Le categorie della vendetta
Amedeo Giovanni Conte, Némesis. Filosofia della vendetta
135
Edoardo Fittipaldi, Vendetta della vittima vs. vendetta
di vergogna
143
Giuseppe Lorini, Il linguaggio muto della vendetta
155
Lorenzo Passerini Glazel, La semantica nomotrofica
della vendetta
169
Vendetta e reciprocità
Rodolfo Sacco, Vendetta
183
Filippo Aureli, Roberto Cozzolino, Carla Cordischi, Stefano Scucchi, Reindirizzamento dell’aggressione contro i parenti dell’aggressore tra i macachi giapponesi: espressione di un sistema vendicatorio?
187
Raffaele Caterina, La reciprocità: alle origini della vendetta e dello scambio
205
Olimpia Giuliana Loddo, Reciprocità di aspettative e
aspettative di reciprocità nella vendetta
217
Vendetta e sanzione
Venanzio Raspa, Crimine, punizione, destino. Per un superamento della vendetta
231
Cristiano Cicero, Tra vendetta e sanzione. Il problema
delle pene private
251
Gaetano Riccardo, Oltre la giuridicità: la vendetta come
fatto sociale totale
257
Ilenia Ruggiu, Vendetta e multiculturalismo
271
Indice
VII
Appendice
Amedeo Giovanni Conte, Onomasiologia della vendetta
291
Indice dei nomi
297
Fabio Botta
LA VENDETTA COME OFFICIUM PIETATIS
1. Parlare di vendetta, per lo storico delle istituzioni e delle società, prima che per lo storico del diritto e per il giurista, significa
attingere ad un concetto che si colloca naturalmente nell’area della
reciprocità, della sinallagmaticità, della restituzione di equilibrio ad
una data situazione di fatto alterata da un precedente illecito.
Vendetta è infatti composizione o, meglio, ricomposizione, sia
quando appare unilaterale e libera nelle modalità esecutive e nella
“misura” della retribuzione, sia quando è invece guidata da norme
finalizzate alla tenuta di una compagine sociale politicamente e giuridicamente organizzata1.
Soprattutto nelle società arcaiche essa è infatti il dente per dente,
l’occhio per occhio, il sangue per il sangue.
Siamo abituati a collocare le locuzioni ora utilizzate all’interno
della nozione di talio, di taglione, che esprime esattamente la retribuzione, la sinallagmaticità propria della vendetta, prima e più naturale forma di reazione contro il torto arrecato all’individuo2.
1
Non a caso, il tema della vendetta, ampiamente frequentato in passato da penalisti e processualpenalisti, soprattutto come referente storico nello sviluppo del diritto e del processo criminale, ha riacquisito assai di recente capacità di attrarre l’attenzione anche di sociologi e filosofi del diritto, in particolare per il collegamento
che esso mostra di avere con la giustizia retributiva e cioè offrendosi, da un lato,
come referente indispensabile nella messa a punto tecnica e, più latamente, nell’“ideologia” stessa, della conciliazione-mediazione (vd. Bouchard – Mierolo 2005, 1 ss. e,
ora, Cosi 2014, 1 ss.) e, dall’altro, come esperienza fondativa della più recente tendenza nordamericana della “restorative justice”, utilizzata, tanto per il diritto interno,
quanto per quello internazionale (e specificamente per la persecuzione dei crimini
contro l’umanità), dai cultori teorici e pratici di common law criminale (per tutti, da
ultimo, vd. Haque 2005, 273 ss. Già così Cantarella 2009, 134 ss.).
2
Sul termine talio, quale significante di vendetta, nella cultura arcaica romana,
vd. Milani 1997, 12 ss. (cui si rinvia per tutti i riferimenti alla letteratura sugli etimi).
Per l’esperienza veterotestamentaria (immediato referente comparativo tra le culture
antiche), specialmente in Ex. 21.22-27; Lev. 24.17-22; Deut. 19.15-21 (che si riflet-
12
Fabio Botta
Ancora tra sesto e settimo secolo d.C., infatti, dall’erudizione di
Isidoro di Siviglia si ottiene la seguente definizione di talio connessa
esattamente e direttamente a quella di vendetta:
Isid. Orig. 5.24: Talio est similitudo uindictae, ut taliter quis patiatur,
ut fecit. Hoc enim et natura et lege est institutum, ut ledentem similis
uindicta sequatur.
Il taglione, dunque, essendo similitudo uindictae ne rappresenta
la sua proiezione pratica, cioè la sua giusta misura, derivando da ciò
che ogni reazione al torto che non sia talio (cioè ut taliter quis patiatur, ut fecit) necessariamente non è natura et lege […] institutum,
ma altro, inidoneo alla composizione e, anzi, all’inverso destinato ad
essere a sua volta compensato con l’ulteriore esercizio di un’azione
vendicatoria3, affinché, in definitiva, ledentem similis uindicta sequatur4.
E ciò è, per Isidoro, fondato tanto sulla natura quanto sulla legge;
quest’ultima pertanto riproducente, sul piano del diritto positivo, un
precetto dell’altra.
Se questo è vero, però, significa la conferma, anche per la cultura giuridica romana, della tesi che colloca lo sviluppo della nozione
di vendetta all’interno di un fenomeno storico e culturale che prevede come fatto costitutivo di una qualunque compagine statuale
quello che determina l’esproprio della vendetta dalla disponibilità dei
privati e dei gruppi per avocarla a sé5.
tono in Mt. 5.38-42), vd. da ultimo Davis 2005, 37 ss., ove precedente esaustiva letteratura.
3
Herdlitczka 1932, 2069; vd. Gell., N.A., 20, 1, 16; 19. Cantarella 1991, 321.
4
Vd., come possibile modello negativo di Isidoro, Gen. 4.23-24.
5
In termini di estrema sintesi vd., da ultimo, Whitman 1995, 46: «Stage one is
the stage of the state of nature. This is the stage of ordered vengeance and vendetta.
In the first stage, clans and/or individuals exact vengeance, in a systematic and rulegoverned way, when injured by other clans and/or individuals; in particular, they
exact talionic vengeance, seeking, in the famous biblical phrase, “an eye for an eye,
a tooth for a tooth”. In stage two, the early state emerges. This early state does not,
however, attempt to prevent violence. Rather, it sets out to supervise the existing system of vengeance. Thus, the early state assumes a kind of licensing power over acts
of talionic vengeance, requiring that injured parties seek formal state sanctions before
avenging themselves. In stage three, the early state itself begins to function as enforcer, taking vengeance on behalf of injured clans; in Weber’s phrase, the early state
of stage three monopolizes the legitimate use of violence. Only in stage four does the
early state at last move to eliminate private violence».
La vendetta come officium pietatis
13
Sebbene a siffatta soluzione si dovrebbe giungere analizzando la
definizione festina di talio, che alla sola lex, cioè alla sola norma di
diritto positivo, rimette la fissazione della regola della retribuzione
riequilibrante (Fest. [L. 496] s.v. Talionis …. talio esto. neque id quid
significet, indicat, puto quia notum est; permittit enim lex parem uindictam), non deve escludersi che, come può ricavarsi dalla definizione
isidoriana, quell’esproprio – che pur non può non riscontrarsi in una
determinata fase dello sviluppo di qualsiasi “diritto penale statuale”
– sembra essere in origine finalizzato non ad escludere la vendetta
come naturale reazione all’illecito ma invece a permetterla e cioè, riconoscendola necessaria al fine di ripristinare l’equilibrio che il torto
commesso aveva in precedenza spezzato, a moderarne gli impatti sul
corpo sociale, normativizzando il conflitto – inteso come inevitabile
– tra individui o tra formazioni sociali intermedie composte da quei
medesimi individui.
Ciò significa però anche ripercorrere la strada, certamente non
ignota agli studiosi, che va dalla vendetta alla pena, e cioè la strada
che va dalla libera determinazione affidata agli individui e ai gruppi
di bilanciare il torto con l’azione riequilibratrice, al riconoscimento
della necessità di quel riequilibrio che un ente statuale sovraordinato
opera attraverso l’imposizione di una norma che a quel bilanciamento
e a porre limiti nei quali quel bilanciamento deve avvenire si indirizza6.
Facendo perno sulla cultura arcaica romana, viene in aiuto a
quanto si afferma già l’etimo dei termini utilizzabili per esprimere
vendetta e pena:
Per vendetta, accanto al lemma generalmente utilizzabile – “ultio, ulcisci” – v’è infatti il sinonimo “vindicatio/vindicare” che esprime
in sé insieme vendetta e rivendicazione, e cioè potenza ed effetto,
pretesa e insieme necessità del riequilibrio del torto subito7.
D’altra parte, nel termine poena sono espresse insieme la nozione
di «prestazione in funzione riparatoria» e quella di «pagamento del
prezzo del sangue»8.
6
Per tutti, vd. Santalucia 1988, 427 ss.
Vd. Noailles 1940/41, 15; D’Avino 1962, 87 ss. e soprattutto Milani 1997, 13
ss. (ove ancora esaustiva ricognizione di studi e riferimenti etimologici). Altre osservazioni sull’utilizzazione, nella lingua letteraria tardorepubblicana, dei termini ultio/ulcisci e vindicare/vindicatio, in Thomas 1984, 68 e 92 nt. 38.
8
Lamacchia 1970, 135 ss.
7
14
Fabio Botta
Pretesa e insieme necessità del riequilibrio del torto subito (vindicatio/vindicta), si diceva, ma anche “prestazione in funzione riparatoria” e “pagamento del prezzo del sangue” (pena). Vendetta e pena
tendono dunque a equivalersi quanto agli effetti sull’offensore e sull’offeso e a sovrapporsi, l’una (la vendetta) assumendo le forme dell’altra (la pena statuale) in quanto permessa dalla norma positiva, l’altra (la pena) avvalendosi, nella sua funzione di emenda, dell’azione
vendicatrice in quanto necessitata dalla norma di natura che la impone.
Se vi è, in questa fase, una differenza tra pena e vendetta, questa è data solo – e quanto però questa distinzione sia rilevante, viene
subito agli occhi – per l’intervento della norma statuale che fissa le
modalità con le quali la pretesa al riequilibrio (sia essa esazione del
sangue o meno) viene introdotta e soddisfatta. È la norma statuale
che limitando e “modalizzando” pretesa ed effetti della vendetta, e
cioè individuando i soggetti legittimati alla pretesa della vendetta e
quelli legittimati ad eseguirla – subordinandola all’accertamento del
se e del quanto sia effettivamente necessario per la retribuzione del
torto commesso – ottiene il risultato di “procedimentalizzare” la vendetta per trasformarla in pena.
2. In definitiva può dirsi che, circa la fase nella quale può affermarsi coesistente e/o coincidente la poena statuale con la vendetta
privata (vista la prima come diritto e la seconda come dovere, entrambe riconosciute al gruppo di appartenenza della vittima) l’esperienza del diritto arcaico romano si presenta, rispetto ad altre9, singolare proprio per le modalità di formazione della norma imperativa
e della compagine statale stessa, uniche e peculiari della civitas.
Se infatti non può assumere carattere di particolarità il fatto che
in una qualsiasi esperienza giuridica venga in esistenza una norma,
qualunque norma, destinata a compiere l’operazione di rendere rilevanti sul piano di un diritto statuale precetti che si radicano invece
assai più profondamente, direi naturalmente, su un piano pre o extra giuridico10 (che, affermandosi come precetti di “doverosità”, nell’articolazione dei rapporti interpersonali in una società storicamente
Si vd., ad es., Pollock-Maitland 1898, 449 ss.
Così Cantarella 1991, 321: «la regola del taglione può derivare da una pratica sociale spontanea, e tradursi in una regola consuetudinaria che limita la vendetta
ancor prima che lo Stato sia nato». Vd. ibidem, 333.
9
10
La vendetta come officium pietatis
15
e culturalmente definita, possono essere ricondotti, anche o prima di
collocarsi nel diritto “positivo”, a una sfera etico-religiosa)11, c’è anche da dire che, nell’esperienza romana arcaica si ha la possibilità –
particolare – di conoscere di siffatte norme consistenza e portata e
di dedurne le rispettive collocazioni cronologiche, anche riconoscendo
le possibili rispondenze che tali norme “statuali” mostrano rispetto
alle “norme” regolanti realtà sociali sub o pre statuali.
È noto infatti che la civitas nasce da un fenomeno federativo non
di soggetti ma di gruppi organizzati collettivisticamente, le gentes,
portatori di un’organizzazione politica e giuridica interna, articolata
sui mores come regole consuetudinarie di convivenza, che si subordinano, nel momento federativo, alla potestà normativa, nuova e autonoma, della civitas, produttrice di prescrizioni idonee a regolare con
un grado sovraordinato i rapporti tra quei gruppi e, solo di conseguenza, tra i soggetti che ne fanno parte.
Orbene, benché non riesca a risultare ancora particolarmente
chiara la relazione che, sui singoli rapporti oggetto di regolamento,
sia intercorsa tra i mores gentilizi e quelli cittadini, o meglio quanto
siano difficilmente riconoscibili le tracce che dei primi (almeno in relazione alle singole gentes) possono rinvenirsi nei secondi – premesso,
tuttavia, che «i mores manifesterebbero un ordinamento insito nelle
strutture stesse della società civica e precivica […] che corrispondeva
[…] alla natura delle cose»12 – riesce difficile negare che la vendetta
fosse tra gli oggetti plausibili dei mores maiorum (secondo la definizione di De Francisci13) quali ordinamento giuridico delle gentes, «primitiva forma di controllo sociale dei comportamenti individuali pericolosi per il gruppo» e che esistesse dunque un insieme di norme,
11
Non a caso, proprio la vendetta di sangue è individuata da Gernet 2000, 4
ss., come uno dei principali assi su cui costruire la sua (suggestiva ma controversa
e forse non del tutto utile) teoria del “prédroit”, attagliata alla particolare dimensione degli arcaici diritti greci e articolata proprio sulla dialettica tra un prima e un
dopo, rappresentati dalle pratiche procedurali magico-religiose e dal sorgere di un
diritto sostanziale. Così per il nostro tema «lo stadio anteriore della città», come lo
definisce l’A., è caratterizzato anche nel suo «tratto più evidente, se non quello rivelatore» dal fatto «che i gruppi familiari, opposti l’uno contro l’altro, regolano i
loro conflitti mediante l’intervento di un’autorità sovrana: è il regime della vendetta
di sangue». Il processo, che risolve il conflitto, è, pertanto, guerra, laddove (e il richiamo agli sviluppi giuridici anche nel mondo romano sono notevoli) «la pace è
connessa con il contratto (pax-pactum)».
12
Talamanca 1989, 30.
13
De Francisci 1967, 613 ss.
Fabio Botta
16
assunte, pertanto, come preesistenti alla civitas, «quasi mai peculiari
ad una sola gente, a un solo villaggio, ma […] un patrimonio comune che, in misura crescente veniva saldando insieme in una struttura culturale omogenea più villaggi e più gruppi originariamente distinti», divenendo, quindi, in larga misura, «con il sinecismo cittadino
[…] il sustrato di tutta la città»14.
Su questo sfondo, è di grande interesse la testimonianza del grammatico Prisciano che, tra quinto e sesto secolo d.C., ricordando le
Origines di Catone, riferisce di una norma del tutto anomala nel panorama di quelle normalmente richiamate per la repressione originaria dell’iniuria:
Priscian., Gramm., 6.13.69 (Hertz, II, 254): Cato tamen os protulit in
IIII originum: “Si quis membrum rupit aut os fregit talione proximus
cognatus ulciscitur”.
La norma ricordata differisce notevolmente da
XII Tab. 8.2 (S. Riccobono, FIRA2, I, 53): Si membrum rup[s]it, ni cum
eo pacit, talio esto15
e da
Gai 3.223: Poena autem iniuriarum ex lege XII tabularum propter membrum quidem ruptum talio erat; propter os uero fractum aut conlisum
trecentorum assium poena erat, si libero os fractum erat; at si seruo, CL;
propter ceteras uero iniurias XXV assium poena erat constituta. et uidebantur illis temporibus in magna paupertate satis idoneae istae pecuniae poenae esse16.
Non soltanto, infatti, in Prisciano la talio è retributiva tanto del
membrum ruptum (come in Gellio, in Verrio Flacco/Festo e in Gaio)
quanto dell’os fractum – cui, invece, per Gaio (e Paolo), che cita(no)
le XII tavole, non è connessa quella sanzione, risarcendosi l’offeso
con la pena pecuniaria fissa – ma altresì è dato non al (solo?) soggetto leso, ma (anche?) al cognatus proximus, il diritto di pretendere
(o eseguire) il taglione a fronte dell’uno e dell’altro illecito e senza
14
15
16
Capogrossi Colognesi 1990, 49.
Fest. s.v. Talionis (L. 496, 15 ss.); Gell., N.A., 20.1.14.
Cfr. Paul. (l. sing. et tit. de iniuriis) Coll. 2.5.5.
La vendetta come officium pietatis
17
che sia prevista, nemmeno in caso di membrum ruptum, la possibilità stessa della pactio.
Se la prima delle due anomalie presenti nel passo di Prisciano/Catone qualche interesse ha suscitato in dottrina17, scarse mi
risultano le reazioni degli studiosi rispetto alla seconda, per noi qui,
invece, assai più rilevante.
E tuttavia, già l’analisi della prima parte della norma riferita da
Prisciano indirizza verso una soluzione che non può non far sì che
si legga quella norma in una logica di anticipazione cronologica rispetto a quella riferita alle XII tavole18. Poiché può supporsi con ragione che la pena pecuniaria, prevista per l’os fractum, sia stata preceduta da una sanzione per quell’illecito esclusivamente imperniata
sulla talio19 e poiché, come s’è detto, la stessa pactio non è nominata
in caso di membrum ruptum, può ben darsi che la norma si collochi in quella fase dei rapporti tra vendetta e pena nella quale la prima
è l’unica forma retributiva prevista o, al limite, l’unica tollerata e permessa da un nascente e gracile ordinamento statuale20. In quest’ottica
di successione cronologica tra le norme, rappresentative di fasi di sviluppo sociale e ordinamentale, viene a chiarirsi meglio il riferimento
al cognatus proximus che talione ulciscitur, presente in Catone/Prisciano ed espressivo dell’imputazione al gruppo parentale della pretesa al risarcimento sotto forma di vendetta di sangue (il richiamo
alla cognatio, come l’uso di ulcisci, mi sembrano, perciò, fortemente
significativi), che si contrappone all’impersonale talio esto di XII tab.
8.2, rappresentativo, a mio avviso, dell’evoluzione di una società civile ormai centrata per lo più sull’individuo che, quando offeso, può,
17
Vd. Herdlitczka 1932, 2070 s., (che, pur tra molti dubbi, giunge a considerare membrum ruptum come «die schwereren Fälle des os fractum» e dunque a vedere perciò giustificata l’equiparazione catoniana di os fractum al più grave caso e
la sua riconduzione alla lex talionis); Mommsen 1899, 115; 809 nt. 2; Kaser 1949,
210 nt. 214 (entrambi fanno riferimento a un «latinisches Stadtrecht»); Amirante 1991,
64 s.; Diliberto 1992, 210 s.
18
Così Di Paola 1947, 279; Santalucia 1988, 428.
19
Manfredini 1977, 73.
20
Völkl 1984, 23 ss. suggerisce conclusioni analoghe a quelle in testo sulla base
anche della considerazione che, poiché Gellio, fonte primaria della ricostruzione del
testo di XII tab. 8.2, certo cultore della letteratura repubblicana, non utilizza il passo
catoniano al fine della ricostruzione del versetto decemvirale (forse invece ricavato
da Labeone: Diliberto 1992, 211), è legittimo che si dubiti che «Cato auf das Recht
der Zwölftafeln bezog».
18
Fabio Botta
anche senza la mediazione del gruppo d’appartenenza, addivenire alla
pactio o, in mancanza, esigere (o eseguire) la talio21.
3. Aggiungendo ancora una notazione filologica, e cioè che permarrà ancora per secoli – in Cesare, Livio e Petronio – un valore
vindicatorio/risarcitorio del verbo “parentare”22, può dedursi che per
l’originario diritto romano, in similitudine con la quasi totalità degli
antichi diritti mediterranei, l’iniziativa alla vendetta sia prima del
gruppo intermedio, della gens, del clan, della tribù e solo poi dell’individuo.
Della rilevanza del gruppo nella retribuzione vendicatoria è ovviamente assunto paradigmatico la repressione dell’omicidio, non a
caso riferita dagli annalisti a due delle prime norme prodotte da Roma
come compagine statuale e attribuite al secondo dei leggendari re di
Roma, Numa Pompilio, il re legislatore, il quale così avrebbe composto i possibili conflitti tra i gruppi. Questo apparato normativo
verrebbe così a rappresentare, per ormai consolidata dottrina, «un
momento di decisivo progresso nell’evoluzione del diritto criminale
romano, […] in quanto apre […] la strada all’avocazione allo stato
della persecuzione dell’omicidio»23.
L’affermazione è ovviamente per larga parte condivisibile e tuttavia merita, anche alla luce di quanto finora si è sostenuto, una qualche veloce rivisitazione.
Si afferma ormai tralatiziamente che con la prima di tali norme
Fest. (Paul. Diac.) s.v. parrici‹di› quaestores [L. 247]: […] nam parricida
non utique is, qui parentem occidisset, dicebatur, sed qualecumque hominem indemnatum. ita fuisse indicat lex Numae Pompili regis his com-
Non v’è riferimento alcuno nelle norme (né in quella ricordata da Prisciano,
né in quelle riferibili o riferite alle XII tavole) che la controversia relativa al membrum ruptum o all’os fractum si risolvesse in un “processo”. Certo, non può negarsi una qualche plausibilità alla deduzione di Cantarella 1991, 322, che accertamento dell’iniuria e retribuzione vendicatoria dovessero (potessero?) svolgersi sotto
il «controllo pubblico». Questo, a parere dell’A. sarebbe stato «duplice», un primo
solo eventuale finalizzato all’asseveramento della fondatezza delle ragioni di chi si
lamentava leso – qualora l’offensore negasse l’addebito – e un secondo inevitabile
per verificare che la vendetta si limitasse alla misura del taglione.
22
Caes. B.G., 7.17.7; Liv. 29.21.2; Petr., Satyr. 81, su cui vd., tra gli altri, Voci
1967, 57 nt. 153 e Thomas 1984, 71 e 93 nt. 63.
23
Così Santalucia 1998, 16 ss. ove altresì esatta e esaustiva ricognizione della
principale dottrina sul tema (assai frequentato da romanisti e filologi classici).
21
La vendetta come officium pietatis
19
posita uerbis: “si qui hominem liberum dolo sciens morti duit, paricidas
esto”
si punisca l’omicida volontario – colui che ha agito dolo sciens – con
la sanzione del “paricidas esto” e cioè, secondo quella che ormai è
lezione dominante tra i romanisti, con il “sia parimenti ucciso”, dietro la quale sembra palesarsi l’autorizzazione della città a che si svolga,
senza legittima opposizione del gruppo d’appartenenza24, l’esazione
per vendetta del sangue dell’uccisore da parte dei parenti dell’ucciso,
impedendo, di conseguenza, (o comunque non considerando la possibilità) che nella situazione di impurità derivante dal sangue versato
essi si appagassero di una compensazione pecuniaria25.
Trattasi come può facilmente notarsi leggendo l’excerptum festino, tuttavia, di deduzioni che discendono non dalla diretta interpretazione dello scarno e criptico testo, ma esclusivamente dalla luce
che su di esso getta, secondo la dottrina maggioritaria, la seconda
È su questo punto, io credo, che si gioca la più rilevante possibilità di vedere la norma numana (prima ancora, cioè, che per le altre ragioni che considererò
oltre) come rappresentativa di un principio espressivo di una fase precedente a quella
della compiuta formazione della civitas. Ciò vale, cioè, quando si consideri, sulla
scorta del classico saggio di De Visscher 1947, 27 ss., che il delitto di sangue, nel
quale vittima e offensore appartenessero a gruppi differenti, è naturalmente idoneo
a generare conflitto tra questi ultimi, mossi da contrapposti doveri solidaristici verso
i soggetti coinvolti nel fatto. Tale solidarietà, che comporta responsabilità ricadente
sul gruppo (dell’offensore) nel suo complesso e sui singoli componenti dello stesso
– così come ciascun membro del gruppo dell’offeso può (anzi deve) rendersi solidaristicamente esecutore della vendetta –, può, anzi deve, spezzarsi con un atto che
avrebbe i caratteri dell’“abbandono nossale” del colpevole. Per le ragioni di ripristino dell’equilibrio politico e religioso cui tende la vendetta e senza che la regola
che così viene in rilievo importi di per sé l’esistenza di alcuna relazione giuridica tra
i due gruppi, cioè il loro appartenere al medesimo ordinamento politico-giuridico
(poiché siffatta idea è inevitabilmente «familière à tous les clans»), la «livraison effective du coupable à la victime ou à ses parents» o, forse, il semplice allontanamento
dell’offensore dal gruppo, «apaise les vengeurs et facilite la reprise des relations pacifiques des deux clans» e «épargne au clan de l’offenseur […] la souillure que lui
inflige la présence funeste du coupable», nel mentre che trasforma la responsabilità
solidale del gruppo in responsabilità individuale del singolo. Sui possibili rapporti
tra allontanamento dal gruppo del colpevole, la sua qualificazione come homo sacer,
la notazione di Fest s.v. Sacer mons [L. 424], per la quale chi uccide quest’ultimo
“parricidi non damnatur”, vd. Garofalo 1997, 20 ss. e ntt.; Fiori 1996, 61 ss., ove è
discussa la precedente letteratura.
25
Santalucia 1981, 43.
24
20
Fabio Botta
delle norme riferite a Numa, quella che punisce l’involontaria uccisione di un uomo:
Serv. in Verg. buc., 4.43: sane in Numae legibus cautum est, ut, siquis
inprudens occidisset hominem, pro capite occisi et acnatis eius in cantione offerret arietem.
Benché in entrambe le norme numane non si faccia espresso riferimento alla vendetta, la lex sull’omicidio involontario, se letta nell’ottica dell’antropologia della vendetta in Roma arcaica, risulta dotata di maggiore perspicuità e interesse26. È un interesse che sorge indirettamente dalla difficoltà di lettura nel manoscritto originario del
commentatore di Virgilio nel quale una locuzione, in cantione, non
altrimenti provvista di senso, è stata emendata, nel corso del tempo
con le apparentemente più congrue in cautione, in contione, in catlitione27.
Ne consegue che, per Numa, nel caso di imprudente uccisione
di un uomo, l’uccisore, in cambio del caput dell’ucciso, dovrà offrire
(anche28) agli agnati di costui il sangue di un ariete, e ciò dovrà fare
in cautione, o in contione o in catlitione.
È a ben vedere un felice dubbio quello che affligge i filologi e
gli storici circa l’effettivo contenuto della fonte, perché permette di
esemplificare, nei tentativi effettuati di ricomporre il testo nella sua
esattezza, tutti i significati della pena come sostituto statuale della
vendetta privata.
Se si adotta la lettura di “in cautione”, infatti, si attribuisce alla
dazione dell’ariete la funzione di corrispettivo e di compensazione
che certamente essa deve aver avuto.
Funzione che però non si perde anche se si leggessero nel manoscritto gli altri due lemmi.
Se vi si legge “in catlitione”, infatti, si mantiene come detto la
26
Vd. Melis 1988, 135 ss.
Per il testo del commentatore di Virgilio, vd. G. Thilo-H. Hagen, Servii
grammatici qui feruntur in Vergilii carmina commentarii, B.G. Teubneri, Lipsiae
1887, viii ss. Per le diverse recensioni dello stesso vd., diffusamente, Tondo 1973,
110 ss. e, sinteticamente, Fiori 1996, 14 nt. 54.
28
Tondo 1973, 112 s. e nt. 68, cioè non solo ai sui, ma in mancanza di questi
anche agli agnati. Starebbe qui la ragione per la quale Servio fa rifermento agli agnati
in caso di omicidio e Prisciano/Catone ai cognati per la membri ruptio e l’ossis fractio.
27
La vendetta come officium pietatis
21
funzione compensativa dell’offerta dell’ariete in cambio del caput dell’ucciso, ma si svaluta l’effetto “negoziale” che è nella prima lettura.
Infatti “catlitio” è il periodo dell’anno nel quale, a parere di Tondo,
nella Roma arcaica, si concentrava il culto dei morti, sulle tombe dei
quali era dovere dei parenti sacrificare animali. L’uccisore, patendo la
pena statuale di offrire l’ariete, sollevava gli agnati dalla remissione
economica conseguente all’adempimento dell’officium pietatis, dal dovere della pietas per il defunto, di fatto adempiendo in loro vece a
quel dovere. Il sangue dell’ariete, così sacrificato, sostituiva, per volontà della norma statuale, il sangue dell’uccisore permettendo l’adempimento degli officia pietatis proprio dei parenti di versare il sangue dell’omicida e, insieme, di sacrificare sulla tomba del morto29. Insieme, si autorizzava l’omicida a sostituirsi ai parenti nel (l’esborso
necessario al) sacrificio, facendosi sostituire dall’ariete nel sacrificio
dovuto30.
Il pagamento del prezzo del sangue, proprio degli originari significati tanto di vendetta quanto di pena, era contemporaneamente
adempiuto.
Alternativa, e ormai divenuta quasi tralatizia, è la lettura nel manoscritto del termine “in contione”. Significherebbe intendere che l’offerta dell’ariete avvenisse davanti al popolo riunito, appunto, in contione, così che esso fosse testimone della compensazione avvenuta,
dello spargimento del sangue del sostituto nella pena, l’ariete, della pacificazione tra i gruppi e dunque dell’illegittimità di ogni altra residua
reazione di un gruppo sull’altro. Ma anche che fosse giudice nell’accertamento dell’involontarietà del fatto, dunque della legittimità del
versamento della pena sostitutiva all’esazione del sangue dell’omicida.
Ne discende che, letta in ognuno dei modi suddetti e in particolare in forza dell’ultima integrazione “in contione”, la norma sull’omicidio involontario (e solo alla luce di questa quella sul paricidas)
manifesti l’avvenuto consolidamento del monopolio statuale nella repressione dei crimini, di modo che l’esercizio della vendetta (o la sua
esclusione pattizia) da parte dei parenti della vittima si svolga sotto
il controllo della collettività, implicitamente limitandola, ma anche di
impulso o meglio di imposizione della vendetta di sangue, normativizzata, qualora l’omicidio fosse ritenuto volontario31.
29
30
31
Cantarella 1991, 332.
Fest. (Labeo) s.v. subigere arietem [L. 476].
Cantarella 1991, 325.
22
Fabio Botta
Ma proprio perciò non può escludersi la suggestione dell’antica
tesi di Lenel che, vedendo in paricidas il soggetto dell’apodosi, lo
rende come “Bluträcher” (o meglio, come, «der die Blutrache gegen
die Sippe des Mörders vollzieht») e traduce l’intero imperativo come
«es soll ein Bluträcher sein»32. Con il che non si nega che con paricidas esto si indichi la sanzione della morte “parimenti” data, ma se
ne esprime più nettamente la funzione e la natura di vendetta, individuandone nel gruppo parentale dell’ucciso l’esecutore e in quello
dell’uccisore (benché ovviamente nella persona di costui, ma come
membro del gruppo) l’esecutato. In definitiva, se con paricidas esto
si esprime la particolare forma di talio propria dell’omicidio, coinvolgente i gruppi e la regolamentazione dei loro rapporti33, la norma
che contiene quella sanzione può collocarsi in una fase evolutiva dei
rapporti tra vendetta e pena precedente a quella nella quale può situarsi la norma sull’omicidio involontario, connotata, all’inverso, dalla
pactio e dall’evidente statualizzazione della repressione34.
32
Lenel 1930, 7 ss.
Pisani 1965, 189 ss.
34
E ciò senza tener conto della ulteriore testimonianza di Serv. in Verg. georg.
3.387: apud maiores homicidii poenam noxius arietis damno luebat: quod in regum
legibus legitur, in forza della quale la sanzione della dazione dell’ariete (dunque una
sanzione, in fin dei conti, solo patrimoniale; ma, sul punto, vd. le notazioni di Fiori
1996, 15 e, contra, di Tondo 1973, 113 s. e ntt.) sembrerebbe essere (divenuta?) generale poena homicidii, senza specificare se essa corrispondesse o meno all’involontarietà del fatto delittuoso. Il che risulterebbe logico accettando l’ipotesi di Pagliaro
(1960, 70 ss.), per il quale l’uccisione dell’offensore sarebbe stata legittimata solo dal
mancato accordo risarcitorio tra le parti. D’altra parte, l’intera argomentazione in testo è – come la quasi totalità di quelle che sul tema si sono finora succedute in dottrina – totalmente dipendente dalla convenzionale asserzione di riferibilità all’età regia delle norme di Numa, i cui testi, invece – e in particolare le locuzioni che in
essi esprimono l’elemento soggettivo dell’illecito di omicidio – si fanno più facilmente collocare in una temperie culturale assai più tarda. Deve infatti convenirsi con
Magdelain 1984, 568, che, da un lato, l’omicidio involontario risulta regolamentato
– con attribuzione a Numa – in forma generale e astratta, laddove lo stesso principio (comprensivo della sottoposizione alla stessa sanzione) è invece espresso nelle
XII tavole, secondo plurime testimonianze ciceroniane (Top. 17.64; pro Tull. 21.51;
de or. 3.39.158), con un «cas d’espèce»: XII tab. 8.24a (S. Riccobono, FIRA2, I, 62):
Si telum manu fugit magis quam iecit, aries subicitur; mentre dall’altro, la norma sul
paricidas risulta “sospetta” per l’uso proprio di dolo sciens, «clausule qu’ils ignorent
qu’on retrouve rajeunie sous la forme sciens dolo malo dans les lois des derniers siècles de la République». Al di là del problema del testo, tuttavia, e pur con la consapevolezza che siano perlomeno lacunose le informazioni pervenuteci circa la riflessione giuridica sull’elemento soggettivo dell’omicidio nell’intera esperienza del di33
La vendetta come officium pietatis
23
Per mezzo di quella norma, dunque, la compagine statuale, poiché e quando inevitabilmente la recepisce, non vuole la scomparsa
della vendetta, né vuole sottrarla ai gruppi per esercitarla in nome
della res publica, ma vuole regolarla e graduarla, e in più esigerla e
imporla, avendola riconosciuta come dovere ineliminabile del gruppo
parentale, perché adempimento necessario alla ricostituzione della perduta purezza dell’intera comunità35.
In conclusione l’apparato normativo “statuale” regolativo dell’omicidio, le leggi di Numa, manifestano, nel loro insieme, al massimo
grado la normativizzazione e la procedimentalizzazione della vendetta
poiché la limitano al riequilibrio del torto e (qualora si accetti la lectio facilior di leggere “in contione” nel testo corrotto di Servio) la ancorano all’effettiva ponderazione di tipo processuale – poiché si tratterebbe così di un accertamento pubblico di cui il popolo intero è
chiamato a giudice – del grado di rimproverabilità della condotta omicidiaria.
Si continua a riconoscere effettività al dovere solidaristico in capo
ai gruppi, ma lo si instrada verso la pacificazione tra i gruppi stessi.
Lo strumento usato a questo fine è il processo nel quale, quindi, quel
dovere di vendicare, quella solidarietà necessitata dal legame di sangue, l’officium pietatis, nell’applicazione della medesima norma statuale repressiva dell’omicidio, diviene insieme pretesa alla pena ed esecuzione della pena stessa.
4. Anche con il definitivo consolidamento del monopolio pubblico della repressione criminale, e, addirittura, a partire dalla tarda
repubblica, quando si afferma un sistema processuale criminale di tipo
dichiaratamente accusatorio, la vendetta di sangue, quale officium pietatis, mantiene un rilevante valore, se non, certo, come esecuzione
della pena, come pretesa alla stessa.
Come ho comunque già avuto modo di sostenere36, tale rilevante
valore non può, però, essere esteso fino a rendere la vendetta elemento strutturale delle forme processuali di età repubblicana e, poi,
imperiale. È di Kunkel, all’inverso, la tesi che giunge ad identificare,
ritto romano, risulta difficile togliere ogni verisimiglianza all’arcaicità perlomeno dei
“principi” espressi nelle leggi attribuite a Numa, il che, per gli scopi “antropologicogiuridici” che qui ci si è prefissi, spero sia sufficiente.
35
Cantarella 1991, 332 s.
36
Botta 1996, 105 ss.; praecipue, sul punto, 142.
24
Fabio Botta
appunto, nella vendetta privata la finalità propria del processo criminale in ogni sua fase evolutiva, tanto da ridurlo a «Instrument der
Rache»37 e, sulla sua scia, è di Cantarella l’affermazione per la quale
«la permanente concezione del processo criminale come strumento
della vendetta è evidentissima»38.
Difatti, già dall’avvento del processo comiziale non v’era più spazio per dubitare che ogni procedura finalizzata all’irrogazione di una
pena fosse pubblica. Il fatto che – con l’introduzione dei publica iudicia – iniziatore del procedimento debba essere necessariamente il
quivis e populo (data l’assenza di un organo della pubblica accusa nell’ordinamento processuale romano del periodo), non privatizza la natura dell’azione introduttiva e del processo, nemmeno quando all’accusa venga la vittima o il parente della vittima del crimen, cioè quando
si esercita la “vendetta” privata, come pretesa processuale alla pena.
E ciò anche quando trattasi di vendetta di sangue – e in particolare
nel caso del crimen di omicidio – attorno alla cui persecuzione “privata” Kunkel articola la sua idea di un «privates Kapitalverfahren»
in età repubblicana39.
Poiché, nella quasi totalità delle procedure ex legibus iudiciorum
publicorum, tanto la vittima quanto i parenti di questa vengono alla
postulatio dell’accusa in qualità di quivis e populo, l’interesse (privato)
di ciascuno di questi all’iniziativa processuale, concorrendo con quello
pubblico (essendo anche il soggetto leso, in quanto civis, “Gemeindevertreter”40), viene solo valutato dal magistrato che presiede il tribunale in termini di possibile prevalenza del suo portatore su tutti i
terzi che si propongano in alternativa.
Viene così a collocarsi la vendetta tra le causae accusationis (suis
37
Kunkel 1962, 125.
Cantarella 1991, 311.
39
Kunkel 1962, 94 e 121 ss.; Kunkel 1974, 111 ss.
40
Colui il quale esercita l’accusa assume, per Mommsen 1899, 366, una «quasimagistratische Gemeindevertretung». Il processo accusatorio si fonda, cioè, sulla
rappresentanza, assunta «nicht von Amtswegen, sondern aus freiem Entschluss», da
parte di un civis, di un torto subito dalla comunità. L’accusa del cittadino, quindi,
«nicht sein Interesse vertritt, sondern das der Gemeinde», e ciò perché il civis-accusatore si rende portatore dell’interesse pubblico alla persecuzione del reo (ibidem,
189 nt. 6; 192 e nt. 4, ove l’accusator è definito «freiwilliger Staatsanwalt»: vd. Cic.
in Caec. divin., 16.50: l’accusatore è «de populo subscriptor»), sia esso interessato o
meno: è, quindi, comunque gestore di un interesse alieno e tale interesse è qualificabile come pubblico.
38
La vendetta come officium pietatis
25
iniuriis o ulciscendi gratia, rei publicae o patrocinii causa41), ponderabile con le altre nella divinatio destinata alla scelta del più idoneo tra
gli aspiranti accusatori42.
Considerando, però, che anche il dichiararsi portatore di una
causa accusationis diversa dall’ultio, comporta di per sé il lamentarsi
comunque soggetto passivo di un’iniuria, direttamente come parte
lesa o indirettamente come civis offeso dalla stessa commissione del
crimen, mi sembra che si possa ancora dire che la comparazione tra
le iniuriae subite dai diversi postulanti in sede di divinatio si dimostri null’altro che la ponderazione tra differenziate istanze di vendetta.
In questo senso è ben possibile che il consenso e l’approvazione
che riscuoteva sul piano sociale e culturale43 rafforzava, in quella fase
preprocedimentale di selezione, la già esposta possibile prevalenza dell’ultio, sempre ribadita nelle fonti giuridiche e retoriche del periodo
quale plausibile garanzia per la migliore soddisfazione dell’interesse
pubblico alla punizione del reo.
Attribuita la funzione di pubblico accusatore a qualsiasi cittadino, cioè, l’ordinamento tende generalmente a riconoscere prevalenza
nell’aspirazione a quel ruolo a chi sia maggiormente interessato all’irrogazione della pena, obiettivo primario dell’ordinamento, e con
ciò, ad ampliare l’area di costoro oltre a quella di chi intende vendicarsi, con il processo, del torto subito con la commissione del reato
per cui si accusa, fino ad includervi quella di chi intende vendicare
in tal modo un qualsiasi torto subito in precedenza e addirittura dissapori fondanti consolidate e risalenti inimicizie familiari44.
Solo in questi limiti, (e, cioè, tenendo conto che è definito ultor
anche chi accusa per un crimen non di sangue per cogenti doveri morali – officia – che trovano fonte nelle regole proprie di rapporti interpersonali non necessariamente connessi alla famiglia45) può concordarsi con Yan Thomas circa l’esistenza di un collegamento funzionale tra accusatio e vendetta, per cui l’accusa, rappresentando il
41
Cic. de off., 2.49-50; Quintil. inst. or., 12.7.1-3 (ove l’esercizio dell’accusa è
definito officium). Sulle causae rationales, o causae accusationis, vd. principalmente,
Mantovani 1989, 102 ss. e Botta 1996, 124 ss.
42
Cic. part. or., 98; Cic. div., in Q. Caec., 3.10; Quintil. inst. or., 7.4.32-33;
Gell. noct. att., 2.4.5. Vd., per tutti, Venturini 1979, 421 nt. 54.
43
Plut. Cato maior, 15.3; Luc. 1-2; Val. Max. 5.4; Cic. pro Sulla, 49-50; 88-90.
44
Cic. div. in Q. Caec., 20.64-65. Letteratura in Botta 1996, 120 s. nt. 202; 134
e nt. 227.
45
Cic., div. in Q. Caec., 16.54.
Fabio Botta
26
momento di «laïcisation des pratiques vindicatoires»46, si presenta come
una semplice modalità della vendetta, tanto da essere configurata come
una «vengeance reglée sur une procedure»47, da affidare dunque preferibilmente al parente più stretto.
Nell’ambito di quanto fin qui detto deve effettivamente considerarsi «theoretische Äusserung über die Rache»48 l’assunto espresso
in
Cic. de inv. 2.66: […] ‘vindicationem’, per quam vim et contumeliam
defendendo aut ulciscendo propulsamus a nobis et nostris, qui nobis esse
cari debent, et per quam peccata punimur.
La necessità di vendicare un torto subito è radicata nel desiderio di ritorcerlo contro il reus. La vendetta, ora solo processuale, è
legittima sia quando si sono direttamente subìte le conseguenze di un
illecito, sia quando si difendono le ragioni di un soggetto racchiuso
in una cerchia più o meno ampia di persone collegate da vincoli di
sangue o più latamente etici con colui che se ne fa carico (i nostri,
qui nobis esse cari debent).
Ciò significa altresì, che, quando la vindicatio si sostanziasse in
un’accusa pubblica, essa si indirizzerebbe a soddisfare un interesse
personale diretto (vendicando un torto personalmente subito) o di
uno indiretto di ripagare l’offensore della sofferenza patita dai nostri.
Che in quest’ultimo caso si tratti di un dovere cui il civis è chiamato, sta già nel “debent” utilizzato da Cicerone nello specificare l’area di chi è necessario defendere e ulcisci; che, poi, si tratti effettivamente di un officium e che tale officium sia sostanziato dalla pietas
che si nutre per chi è racchiuso in quall’area di soggetti, si deduce
da quanto immediatamente precede nel discorso ciceroniano:
Cic. de inv. 2.66 […] ‘pietatem’ quae ergo patriam aut parentes, aut
alios sanguine coniunctus officium conservare moneat.
Così lo stesso Cicerone, pur difendendo Celio da un’accusa di
omicidio, scusa l’accusatore Atratino, figlio del defunto, perché «si
voluit accusare, pietati tribuo»49. Ed è sempre lo stesso Arpinate che,
46
47
48
49
Thomas 1984, 73.
Thomas 1984, 68 e 92 nt. 42.
Kunkel 1962, 126 e nt. 457.
Cic. Pro Cael., 1.2
La vendetta come officium pietatis
27
ancora una volta quale difensore (di Aulo Cluenzio Abito) in una
causa di veneficium, giustifica con la pietas l’accusa del suo avversario, il giovane Abbio Oppianico, finalizzata anch’essa a vendicare la
morte del padre50. È l’adempimento dell’antico officium pietatis sotteso alla vendetta che spinge cioè i giovani ad accusare51: ingiustamente per il retore, ma riconoscendo loro in entrambi i casi la medesima iusta causa accusationis che aveva loro permesso di ottenere
da parte dell’autorità giudicante l’autorizzazione a rivestire il ruolo
di accusatore in quella controversia.
Sebbene, dunque, non possa ammettersi – visto il regime di legittimazione diffusa cui si conforma la stessa lex Cornelia de sicariis
et veneficis – che fosse prevista una riserva d’accusa a favore dei parenti dell’ucciso al fine di soddisfare il loro «Racheanspruch»52, l’officium di solidarietà familiare (“pietate”), il cui adempimento, come
s’è visto, tende prevalentemente a motivare l’accusa d’omicidio53, può
effettivamente essere visto come la traccia residua di una situazione
primitiva che, «mentre al cittadino apre la possibilità dell’accusa, ai
congiunti del defunto tale accusa impone, sia pur con obbligo derivante dalla semplice solidarietà di gruppo, e sprovveduto come tale
di pratica sanzione»54. Ciò in virtù di una deduzione imposta, appunto, dalla struttura del processo per quaestiones, il quale, richiedendo l’attivazione di un privato nelle vesti di accusatore, avrebbe,
come detto, vieppiù permesso – quando e nei limiti nei quali fosse
previsto dalle norme di legittimazione delle leggi regolative dei publica iudicia – che il cittadino si facesse promotore della vendetta del
parente.
5. L’officium pietatis incombente sul civis di esercitare l’ultio mortis del congiunto e, pertanto, ratio tendenzialmente prevalente nelle
divinationes di età repubblicana a proposito delle accusationes di omicidio, definito correttamente da Luzzatto quale “obbligo sprovvisto
di pratica sanzione”, è trattato, dunque, ancora dall’ordinamento come
50
Cic. Pro Cluent., 62.172.
Vd. ora Pellecchi 2012, 95 ss. e ntt.
52
Kunkel 1962, 95, ma vd. Pugliese 1963, 589.
53
Vd. ancora Cic. de domo, 49: accusa di Elio Ligo contro Sesto Properzio
per la morte di M. Papirio, fratello del primo. Cfr. David 1992, 212 ss.
54
Luzzatto 1934, 552.
51
28
Fabio Botta
un semplice dovere morale55, perché non espresso in una norma giuridica.
Medesima configurazione è mantenuta alla vendetta (ricompresa
nel più ampio genere dell’interesse personale all’accusa) nelle procedure (causae cognitiones) di età imperiale finalizzate alla scelta dell’accusatore56:
D.48.2.16 (Ulp. 2 de off. cons.) Si plures existant, qui eum in publicis
iudiciis accusare volunt, iudex eligere debet eum qui accuset, causa scilicet cognita aestimatis accusatorum personis vel de dignitate, vel ex eo
quod interest, vel aetate vel moribus vel alia iusta de causa.
Ove la vendetta (“processuale”, ancora suddivisa nella duplice
partizione ciceroniana del defendere aut ulcisci nos et nostros) gioca
un ruolo totalmente innovativo57 del sistema è nel fungere da esplicita (perché probabilmente oggetto di una previsione normativa in
proposito introdotta con la lex Iulia iudiciorum publicorum58) causa
di legittimazione straordinaria per gli incapaci altrimenti esclusi dall’accusa59.
La regola sarà compendiata, in età severiana, da Macro in
D.48.2.8 (Macer 2 de publ. iud.) Qui accusare possunt, intellegemus, si
scierimus, qui non possunt. itaque prohibentur accusare alii propter sexum
vel aetatem, ut mulier, ut pupillus: alii propter sacramentum, ut qui stipendium meret: alii propter magistratum potestatemve, in qua agentes
55
Mera «religiös-moralische Pflicht» per Kunkel (1962, 127) che trova «la sua
migliore sanzione nella morale e nel costume prima che nel diritto» (così Cancelli
1957-58, 368).
56
Per tutti mi sia consentito rinviare a Botta 1996, 109 ss.. Vd., ora, Pellecchi
2012, 111 ss.
57
Sull’inderogabilità delle incapacità all’accusa in età repubblicana, Botta 1996,
233 ss. ove precedente letteratura.
58
Fanizza 1988, 77, nt. 184, Thomas 1984, 84 s. e ntt. 136 ss.; Botta 1996, 289
ss.; 303 ss.
59
Vd. D. 48.2.1 Pomp. 1 ad Sab. (donne); D. 48.2.2 Pap. 2 de adult.; D.
43.29.3.11 Ulp. 71 ad ed.; C. 9.1.12 Impp. Diocl. et Maximian. (a. 293) (donne e pupilli); D. 48.2.4 Ulp. 2 de adult. (infami); D. 48.2.12 Ven. Sat. 2 de iud. publ.; C.
9.1.16 Impp. Diocl. et Maximian. (a. 294) (plurimo accusatore); C. 9.1.8 Imp. Gordianus (a. 238); C. 9.1.10 Imp. Gordianus (a. 239) (milites): vd. Botta 1996, 239 ss.,
297 ss.; 329 ss. (sull’uso di “rem suam” o “propriam iniuriam exequi”); 371 ss. (sull’uso di “suas suorumque iniurias persequi”). Sulle incapacità all’accusa (e, in particolare, di quella di donne e impuberi), ora, attentamente, Pellecchi 2012, 23 nt. 25;
89 ss. e ntt.; 95 e nt. 120. Vd., anche, Resina 1996, 50 ss.
La vendetta come officium pietatis
29
sine fraude in ius evocari non possunt: alii propter turpem quaestum, ut
qui duo iudicia adversus duos reos subscripta habent nummosve ob accusandum vel non accusandum acceperint: alii propter condicionem suam,
ut libertini contra patronos». (eod.) 11 pr. hi tamen omnes, si suam iniuriam exequantur mortemve propinquorum defendunt, ab accusatione
non excluduntur.
Quando, poi, trattasi del solo mortem propinquorum defendere,
l’ultio diviene causa di espressa esenzione dalla poena calumniae di
tutti coloro (capaci o meno) che intraprendono un’accusatio fondata
su quella ratio60. E si ha così l’esatta manifestazione della rilevanza
dell’officium pietatis, cioè della doverosità della vendetta processuale,
nell’ordinamento processualcriminale imperiale. Questo, infatti, è riconosciuto e recepito sul piano del diritto positivo (trasformandosi
dunque da imperativo etico in dovere giuridicamente rilevante), poiché questo non può sottacere la necessità cui risponde quel dovere:
solo infatti chi è tenuto da un dovere ad agire, da un obbligo etico
irrinunciabile e apprezzato dalla compagine sociale, quale la vendetta,
può essere esentato dalle eventuali conseguenze negative derivanti dall’esercizio di quel compito.
Natura di obbligo giuridico in senso stretto61, tuttavia, l’officium
pietatis – ultio mortis ottiene, ancora in età imperiale, con l’introduzione della sanzione dell’ereptio dei bona hereditaria che colpiva l’erede che avesse omesso di vendicare, attraverso l’esercizio di un’accusa, la morte del de cuius.
Per la necessità di tenere distinti obblighi giuridici sanzionati e
doveri morali (quand’anche questi avessero assunto giuridica rilevanza)62, diversamente da quanto si è invece da altri sostenuto, tale
Vd. generaliter Macer 2 publ. iud. D. 47.15.4 e D. 48.16.15.2; specificamente,
poi, D. 48.1.14 (Pap. 16 resp.); C. 9.46.2 pr. (Imp. Alexander [a. 224]); C. 9.46.4
(Impp. Carus Carinus et Numerian. [a. 284]). Per le donne, inoltre, parrebbe vigere
l’esenzione anche dalla pena del SC Turpilliano, onde potessero desistere citra abolitionem quando accusassero “suam suorumque iniuriam” (D. 48.1.16.10 Marcian. l.
sing. ad Sc Turpill.), ma vd. anche D. 48.16.4 pr. (Pap. 15 resp.).
61
Kunkel 1962, 129: «Die Verpflichtung des Erben, die Ermordung des Erblassers durch gerichtliche Verfolgung des Mörders zu rächen […] nicht nur eine religiös-moralische, sondern zugleich auch eine Art Rechtspflicht war»; nt. 468; Nardi
1937, 169 nt. 2: «l’ultio necis va considerata un obbligo che fa il suo ingresso in
campo giuridico con la natura di officium verso il defunto garantito da un’ereptio
fiscale».
62
Nardi 1937, 167 ss.; Kunkel 1962, 129; Dalla 1980, 141 ss.
60
30
Fabio Botta
sanzione non può essere configurata come l’estensione di una pena
precedentemente irrogata, per le medesime ragioni, al congiunto63, in
capo al quale, come si è già detto, l’adempimento dell’officium di vendetta produce gli effetti di legittimazione straordinaria all’accusa, per
l’incapace, o, anche quando capace, di esenzione dal periculum calumniae, ma mai, invece, di costrizione ad un’azione processuale che
resta, anche per il parente, assolutamente facoltativa.
L’accusa coattiva dell’erede sembrerebbe, pertanto, il riflesso sul
piano dell’ordinamento di un officium (pietatis64) – definito nelle fonti
«debitum officium»65 perché chi non lo assolve è «ingratum»66 – parallelo ma di natura diversa rispetto a quello esercitato dal parente
con l’accusatio volontaria67. L’adempimento sotto forma di accusatio
sia dell’uno che dell’altro officium risulterebbe così pienamente funzionale al sistema processuale romano dei publica iudicia, fondato sull’esclusiva iniziativa del civis poiché strutturalmente sprovvisto di organi pubblici preposti all’esercizio dell’azione penale.
Le due diverse tipologie di ultio necis processuale che così vengono ad affiancarsi, quella obbligatoria e sanzionata68, motivata dall’esercizio dell’officium heredis, e quella libera e volontaria con la
quale si esplica l’officium pietatis del congiunto, – con la prima costringendo all’accusa, con la seconda ampliando l’area di coloro i quali
a quell’accusa possono accedere – si rendono parimenti strumenti del
primario interesse “statuale” alla punizione del reo; interesse soddisfatto attraverso il riconoscimento che l’ordinamento attribuisce alla
necessità (e perciò giustificandosi anche la sanzione dell’ereptio, segno del disvalore anche sociale per l’omissione) della soddisfazione
63
Salvo che costui, ovviamente, non fosse anche erede dell’ucciso. D’altronde,
«solo col conferimento dell’eredità si ha un quid che può essere vindicato al fisco».
Così Luzzatto 1934, 565. Contra, non sempre limpidamente, Oliviero 1999, 87 ss.
64
C. 6.35.1 pr. Impp. Severus et Antoninus (a. 204). Vd. Voci 1960, 57 s.; Botta
1996, 278 ss.; 284 e nt. 101 (ove precedente letteratura). Ibidem, 289 nt. 109, sui
problematici rapporti tra obbligo di vendetta dell’erede e repressione ex SC Silaniano. Sul punto, adde, ora, Torrent 2010/2011, 67 ss.
65
D.29.5.21.2 (Pap. 6 resp.).
66
D.29.5.22 (Paul. 16 resp.).
67
C. 9.46.2.1 (Imp. Alexander a. 224) è esplicita, ma le differenze si colgono
anche raffrontando C. 6.35.9 (Impp. Diocl. et Maximian. [a. 291] e 10 (Idem [a.
294]). Vd. Botta 1996, 285 ss. e ntt.
68
Dato che «un vero obbligo di vendetta non era possibile imporlo che a chi
raccogliesse l’eredità del de cuius»: Nardi 1937, 169.
La vendetta come officium pietatis
31
del “naturale” (e privato) ancestrale diritto-dovere alla vendetta di
sangue.
6. Vien dunque da concludere, quale sintesi del nostro veloce (e
sicuramente non esaustivo) excursus sul ruolo giocato dalla vendetta
nello svolgersi secolare dell’esperienza giuridica dei romani, affermando che l’ultio si origina forse già negli ordinamenti precivici come
dovere di solidarietà di gruppo per trasformarsi, procedimentalizzandosi, in ratio rilevante nella scelta dell’accusatore – cioè del “vendicatore pubblico” – nella procedura criminale tardorepubblicana, per
poi, infine, assumere (o tornare ad assumere) definitiva rilevanza giuridica, allo stesso scopo, in quella di età imperiale.
Deve però aggiungersi, poi, che l’esercizio della vendetta, nelle
testimonianze più antiche, sembra rimesso al gruppo quale che sia
l’iniuria patita da un suo componente, laddove, invece, per l’evidente
ragione del dissolversi degli antichi legami gentilizi e della conseguente individualizzazione dei rapporti sociali, tende successivamente
ad articolarsi nella rivendicazione che il soggetto può avanzare a che
si ritorca contro l’offensore il torto (qualunque torto) personalmente
subito e in quella che può esercitare per l’offesa subita dal parente.
Mentre la prima delle due tipologie di vindicatio è tuttavia riconosciuta quale legittima pretesa al risarcimento dal diritto penale privato e, insieme, quale causa idonea (e, talvolta, esclusiva) a rivestire
il ruolo di rappresentante della pretesa “statuale” alla repressione dell’illecito nel processo penale pubblico, la vendetta dei nostri, per le
medesime ragioni, tende a configurarsi inevitabilmente come residuale,
trovando esclusiva estrinsecazione nella pretesa alla poena per quegli
illeciti per la cui repressione non può agire il soggetto leso: il “mortem propinquorum defendere” di Macro in D.48.2.11 pr. esprime di
quanto ora detto una pratica (se non totalmente esaustiva69) sintesi.
La vindicatio si specifica così in ultio necis che entra in questa forma,
come si è visto, nello strumentario del legislatore e dei giuristi, che
vi attribuiscono giuridica rilevanza anche per l’evidente strumentalità
che l’esercizio di quella tipologia di vendetta ha per alcuni scopi delDeve infatti aggiungersi all’accusatio per l’omicidio del parente, evidentemente
impossibilitato a vendicarsi da solo, quella per plagium ex lege Fabia: «la meurtre
et la detention comme esclave soient les seuls cas où une femme puisse avoir recours
aux publica iudicia pour défendre ou venger les siens» (Beaucamp 1990, 42). Vd. C.
9.20.5 Impp. Valerian. et Gallien. (a. 259) e cfr. Botta 1996, 383 ss.
69
32
Fabio Botta
l’ordinamento, e in particolare per quelli propri del processo criminale. Ma ciò fanno perché i valori sociali ed etici sottostanti alla vendetta di sangue che entrano in risonanza con quelle finalità ordinamentali palesano radici profonde nella storia dei costumi e nella cultura romane.
In definitiva, al legislatore e alla giurisprudenza di età imperiale
la nozione di ultio (e ancor più quella di officium pietatis) non perviene esclusivamente per mezzo della mera ricognizione della persistenza sociale o etica delle forme arcaiche assunte in Roma dalla Blutrache indogermanica, ma è loro lasciata in dote dal lavorio di retori
e filosofi formati all’insegnamento della media Stoa, nel cui sistema
etico, anzi, essi collocano quelle nozioni ottenendo originali risultati.
Non a caso, Cicerone tratta, nei modi sopra visti, di vindicatio
e pietas (cioè le componenti e i fondamenti dell’ultio necis come officium) quali elementi dello “ius naturae”, la cui cogenza innata non
ammette discussioni70. E altrove, sempre nel de inventione, connette
pietas e officium:
Cic., de inv., 165: pietas, per quam sanguine coniunctis patriaeque benivolum officium et diligens tribuitur cultus.
Del pari, si afferma in
Rhet. ad Her. 2,19: Natura ius est, quod cognationis aut pietatis causa
observatur; quo iure parentes a liberis, et a parentibus liberi coluntur.
Pietas e ultio, che pure non appartengono allo strumentario tipico dei filosofi del Portico (dai quali la cultura della tarda repubblica e del principato mutua il sistema dei doveri interpersonali e sociali nel quale ha posto rilevante l’officium pietatis) specificano e finalizzano, quali esigenze prettamente romane, la nozione stoica di officium71, riversandovi contenuti estranei a quella nozione ma propri
70
Cic. de inv., 2,65: «ac ‘naturae’ quidem ‘ius’ esse, quod nobis non opinio, sed
quaedam innata vis afferat, ut ‘religionem’ ‘pietatem’ ‘gratiam’ ‘vindicationem’ ‘observantiam’ ‘veritatem’».
71
L’officium ciò che, dal punto di vista del logos, è l’azione ragionevole, conforme
a natura e giustificabile con buoni motivi tÕ ¢pÒlouqon ™n b…wi (Frontone SVF
III.493). Vd. Cic. de off., 1.101. Cfr. Pohlenz 1959, I, 209. L’officium che incombe
all’uomo comune è ratio probabilis (Cic. de off. I.2.8 (eÜlogoj ¢polog…a). Così anche per Sen. de ben. 4.33.2, cfr. Moreau 1983, 106), meglio, esso rappresenta in sé
il passaggio, quanto alla sfera etica, tra l’indifferente ed il probabile. Sull’introdu-
La vendetta come officium pietatis
33
della storia e della cultura di Roma, senza, però, corromperne la natura o negarne il fondamento che si rinviene nello ius naturae72.
Non senza resistenza, però, ciò avviene, né contraddizioni.
Difatti l’inserimento dell’idea di vendetta nel sistema morale stoico
si perfeziona nel pensiero romano tra Cicerone e Seneca, cioè tra l’ultima generazione della repubblica e le prime due del principato73.
Mentre infatti ancora nel pensiero del primo non è chiarito fino
in fondo il rapporto tra l’esigenza di ulcisci mortem (che porta ancora con sé le tracce dell’originaria Blutrache) e la filantropia universale cui risponde l’etica stoica74, in Seneca la soluzione si colloca
senza dubbio sul piano dell’officium-kaqÁkon, e dunque dell’“utilità”
della vendetta75: l’officium di defendere parentes, liberos, amicos e cives, è necessitato dalla pietas e guiderà l’uomo iudicans e providens,
non colui, però, il quale sarà “affectus vindicandi cupior”76.
In definitiva, tra il Cicerone del de inventione e il Seneca del de
ira, passa il momento della compiuta elaborazione di pensiero che
permette la definitiva recezione della vendetta tra le regole del diritto
positivo, dopo che la sua giustificazione tra le regole dei doveri eticosociali discendeva per l’Arpinate da una rivisitazione in chiave “romana”, dell’o„ke…wsij stoica77: se, per il pensiero stoico, la legalità difzione del concetto presso l’alto stoicismo se da Teofrasto (cfr. Gell., N.A. 1.3.28) o
Zenone (SVF I.230; III.493), cfr. Pohlenz 1959, 263 ss. e nt. 15; sul suo sviluppo,
379 ss. (Antipatro, Archedemo ed il concetto di télos); 409 ss. (Panezio).
72
Sulla nozione ciceroniana di ius naturae è probabile anche l’influenza dell’aristotelismo (vd. Ritter 1961), ma soprattutto, come detto, della media Stoa e in particolare di Zenone e dei suoi allievi: Johann 1981; Thomas 1991, 201 ss. Il kaqÁkon
(l’officium) è anzi l’obbligazione (morale) tipica del ius naturale (Cic. de fin. 3.20;
ad Att. 16.11.4; 16.14.3; Gell., N. A., 1.13.1) perché è ciò che è preferibile per natura, ma che può anche essere individuato a seconda della cogenza delle singole circostanze di fatto, “kat¦ per…stasin” (Aristone SVF I.361).
73
Brisset 1980, 58 ss. Bongert 1993, 115 ss.
74
Blundell 1990, 221 ss.
75
Ma già Cic. de off., 3.89: «utilitate officium dirigit magis quam humanitate».
76
Sen. de ira, 12. Vd. Pohlenz 1934, 68 nt. 44. Cfr. Sen., de ben., 3.18.1: «officium esse filii, uxoris, earum personarum, quas necessitudo suscitat».
77
Cfr. Engberg-Pedersen 1986, 145 ss. L’o„ke…wsij è concetto cardine dell’intera
filosofia stoica. Oltre ai classici lavori di Pohlenz 1959, I, 232 ss. (ma cfr. anche Pohlenz 1940, 12 ss.), vd. Pembroke 1971, 114 ss.; Inwood 1984, 190 ss.; Engberg-Pedersen 1990; Radice 2000; Lee 2002; Zagdoun 2005, 319 ss.; Vimercati 2007, 573 ss.;
Forschner 2008, 1, 169 ss. La compiuta realizzazione teorica del modello sarà poi con
Ierocle autore (forse ancora nel II sec. d.C.) di una 'Hqik» stoike…osij, vd. Inwood
1984, 151 ss. e Isnardi Parente 1989, 2201 ss. Ora, Delle Donne 1995, 29 ss.
34
Fabio Botta
ferisce dall’etica, così che la legge deve essere commisurata ad una
norma che sta al di sopra di essa e che decide del suo valore e della
sua intima obbligatorietà78, collocare vindicatio e pietas (quali elementi
fondativi di un officium) sul piano dello ius naturae, costringe il diritto positivo a conformarsi a quei valori, pena l’“invalidità” della
norma che sia creata da legislatori che non agiscano in base alla loro
conoscenza della grande legge universale (il Logos) e in quanto non
partecipino della divina ragione universale79.
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