A cura di Roberto Mette
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A cura di Roberto Mette
dall’esame fattosene del suo corpo, troviamo in questo due ferite, ovvero buchi rotondi della circonferenza ambi quanto
una moneta d’un cagliarese, le quali per detta configurazione
d’essere fatte con palle di piombo uscite da qualche arma da
fuoco come schioppo, pistola o simili, ad impulso e violenza
di polvere da sparo, e di quelle di dodici che sogliono vendersi
nelle botteghe; collocate tali ferite una nella parte anteriore e
direzione del tronco del lato sinistro distante dall’orlo anteriore della scella di detta parte un dito transverso, quale li
taglia primariamente tutti li tegumenti, vene ed arterie, e la
quarta costa vera, e penetrando nella cavità vitale in linea
transversale li taglia vene ed arterie brunchiate e passando i
muscoli intercostali nella parte posteriore di detto tronco dello
stesso lato sinistro con offesa pur di vene e nervi, viene a fermarsi la palla tra la pelle e muscoli della scapola di essa parte,
distante in linea retta dalla spina tre dita transverse, e
dall’angolo inferiore di detta scapola due dita transverse; e
l’altra trovasi collocata distante dalla prima inferiormente tre
dita transverse nello stesso lato sinistro di detta scella tre dita
transverse, quale li taglia similmente tutti i tegumenti, vene
ed arterie, e penetrando tra la quinta e sesta costa vera in
linea transversale nella stessa cavità li offende i polmoni, e li
taglia i muscoli intercostali della parte posteriore e mezzana
del tronco di detto lato ed il branco posteriore della sesta costa
vera, viene a fermarsi la palla tra la pelle e muscoli, distante
dalla spina un dito transverso, e quattro dita inferiormente
distante pure dalla prima e ciò lo giudichiamo dal tumore e
rossore che osservasi nelle parti suddette, ed altri per palparle
colle nostre dita essendo dalle stesse ferite scorgato, come scorga
presentemente, gran copia di sangue per aver offeso delle vene
ed arterie e cagionato altresì stravacamento interno; e per esser
le stesse ferite tuttora grondanti sangue e fresche, giudichiamo
inferte da sei o sette ore in questa parte, le quali per la loro
prossimità ed eguaglianza tanto nell’ingresso che della loro
direzione interna giudichiamo esser state inferte da un solo
sparo, e molto da vicino; le stesse ferite per aver interfatto
gravemente ed offeso le suddette parti troppo essenziali alla
vita umana, le giudichiamo pericolosissime della vita umana.
1810 – L’omicidio del sindaco forestiero
Il 1810 è un anno pessimo per l’ordine pubblico: in paese vengono segnalati più volte dei moti
di rivolta e la popolazione esasperata per la fame e
per le prepotenze dei coloni buddusoini arriva addirittura a occupare il demanio pubblico in segno di
protesta. In questo frangente esplosivo si inserisce
il brutale assassinio di Simone Lucianu, nativo di
Calangianus e coniugato ad Alà, al tempo sindaco
appena nominato del paese. Arrivò dalla Gallura a
cavallo tra i due secoli, in qualità di segretario comunale, e si sposò in paese con Maria Nieddu Pinna,
che gli diede cinque figli.
Fu colpito da due colpi d’arma da fuoco
all’alba del 18 maggio 1810, mentre da casa sua, nel
quartiere di Santu Giuanne, si spostava verso il tancato di Giovanni Pinna, in località Tatinuri, dove
aveva il suo cavallo al pascolo. Immediatamente avvertita, la Curia giudiziaria di Buddusò si occupa del
caso, e il giurato Giuseppe Rochitu convoca il
giorno stesso il chirurgo ozierese Filippo Ruggiu,
operante a Buddusò, che si precipita a visitare la vittima dell’agguato. La stessa azione è posta in essere
dal giurato di giustizia alaese Raimondo Erre, che
convoca per lo stesso scopo il flebotomista di Alà
Francesco Longu. La loro relazione giurata è la seguente: l’uomo che presente abbiamo e ci è stato dimostrato,
conosciamo benissimo esser la persona di Simone Lucianu,
sindaco attuale di questo paese, nativo però del luogo di Calangianus, e domiciliato in questa villa già da alcuni anni,
avendolo più volte ambi noi visto, parlato e trattato, e
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siasi recato. Gli surriferiti Giovanni ed Antonio Martino
fratelli Ghisu, ripeto, sono stati gli autori degli spari fattimi,
e gli ho conosciuti benissimo, già per il chiaro giorno, già per
la vicinanza in cui li viddi, all’atto che mi fecero li suddetti
spari dalla parte di dentro del succitato chiuso, ed ignoro affatto per qual motivo siansi determinati a darmi la morte in
questa mattina.
Pur in gravi condizioni il sindaco alaese è in possibilità di poter parlare e interrogato su come si sono
svolti i fatti dichiara: mentre verso le ore cinque, a mio
credere, di questa mattina mi ero recato da questa mia casa,
ed inerme, al chiuso denominato Tatinuri, posto in vicinanza
di questo abitato, e proprio di Giovanni Pinna, di questa
villa, per visitare il cavallo che ivi vi avevo al pascolo, nel
mentre che mi restituivo da quello ed appunto quando sortivo
nell’addito di esso chiuso per pigliare il viottolo denominato
anche di Tatinuri, viddi che Giovanni Ghisu di questo
stesso luogo si alzò in piedi al di dentro del chiuso di Sebastiano Satta, che è corrispondente allo stesso viottolo, e senza
più ne meno, mi fece contro uno sparo d’arma da fuoco col
suo schioppo di cui era munito, e siccome mi credevo ferito,
per avermi tirato in poca distanza, e non più di dieci, dodici
passi legali, temendo di raggiungermi, io come inerme con
arma bianca, procurai di scapparmi, fuggendo verso lo stesso
viottolo credendo di liberarmi di vita, ma tutto mi fu inutile,
perché nello stesso atto che mi scappai fuggendo per venire in
popolato, viddi alzarsi, anche lui dentro del chiuso del suddetto Sebastiano Satta e dal muro della parte di dentro, Antonio Martino Ghisu di questo stesso luogo, fratello del
surriferito Giovanni, che all’ingiù di questi trovasi impostato,
il quale anche senza la minima parola ne questione, nel passar che facevo in detto viottolo fuggendo, mi scaricò contro il
suo schioppo di cui era armato, molto da vicino che quasi mi
toccò la persona colla punta della canna, ed a causa di
quest’ultimo sparo sono rimasto gravemente ferito, ma non
cascai sul posto, anzi fuggivo sempre verso la villa chiedendo
al alta voce aiuto e soccorso, perché temevo d’inseguirmi, ed
uccidermi del tutto li surriferiti fratelli, e in questo mentre,
viddi venire dalla parte del villaggio Salvatore ed Angelo fratelli Porcheddu, ambi di questa villa, ed inermi, ed avendomi
ritrovato in tal maniera, si compiangono di farmi compagnia,
e di condurmi alla bella meglio che hanno potuto nella presente casa in cui mi trovo, non sovvenendomi che in quell’atto
siasi concorso altra persona fuorchè Giuseppe Dudda, di questa villa, in seguito a me nello stesso viottolo solo ed inerme,
ma lo viddi retrocedere nel medesimo, ed ignoro in qual luogo
Il ferito però poi qualche movente lo ipotizza: non volevano soffrire d’esser io stato fatto per sindaco,
come mi trovo nel corrente anno, non volendo esser comandati
da un forastiere. Egli giudica i fratelli Ghisu come dei
prepotenti, come Giò Maria Cocco Stara di questo
medesimo luogo, suocero del surriferito Giovanni Ghisu, non
volendo a farsi la nuova dirima del regio donativo, perché in
qual caso pagherebbe il doppio di quel che pagò nel percorso
anno, e perciò mi dà a credere che questi abbia avuto parte
nelle ferite infertemi, ed abbia stimolato il suddetto suo genero
e fratello Antonio Martino per uccidermi. Giovanni Maria
Stara Cocco non aveva in simpatia il sindaco Lucianu che infatti rincara la dose: sin da quando ho preso
domicilio in questo villaggio, mi ha badato sempre di cattiva
grazia, opponendosi sempre ad ogni minima mia proposizione, ed oltre di ciò soggiungo che mi voleva del male, perché
le sue vacche sogliono entrare in un chiuso della mia suocera
chiamata Maria Filippa Pinna e perché io li cavavo fuori
dallo stesso chiuso, posto in Padentes, territorio di questa villa,
non voleva ciò soffrire, e sparlava non poco contro di me, e
della stessa maniera non voleva soffrire perché in detto luogo
vi chiudevo una vigna di terreno mio proprio, in fatti che essendo ivi passato lo stesso Cocco Stara nell’ottobre del 1808,
salvo errore, in compagnia d’un suo piccol figlio, e trovatomi
ivi chiudendo, mi minacciò che quella vigna ne pianterebbe
un’altra, il tutto con aria molto bruna, e pieno di furia, come
soleva fare sempre in mia presenza; nello stesso sito pure mi
ricordo benissimo che quando mi trovavo chiudendo la suddetta vigna, essendo ivi passato un giorno Antonio Martino
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Lo stesso giorno viene chiamato Michele
Erre, capo consigliere del consiglio comunitativo di
Alà, e con lui Raimondo Erre, in qualità di luogotenente di giustizia, affinché possano entro un mese
provare e arrestare i delinquenti che hanno sparato
al sindaco Simone Lucianu. Il tutto in presenza dei
testimoni Giovanni Agostino Scanu e Giò Maria
Pinna. Nel testo il luogo del delitto viene chiamato
Tatinuri, territorio del prato di Siddu.
Ghisu mi minacciò pur questi della morte, e proferì tali minacce in presenza di Giuseppe Simone Scanu e Leonardo
Muzu di questo stesso luogo.
Il giorno dopo vengono convocati ad Alà i
fratelli Salvatore e Angelo Porcheddu, rispettivamente di 22 e 25 anni, pastori di vacche, figli del fu
Sebastiano. Che affermano che il giorno dell’agguato loro di buon mattina stavano raggiungendo il
loro vaccile, e nel punto dove iniziava il muro della
vigna di Giò Maria Pigozzi Stara, in località Mendadores, intesero lo scoppio di un colpo d’arma, proveniente dal viottolo di Tatinuri, ed in seguito udirono
la voce di un uomo che diceva: pisti, mortu so!
Avendo riconosciuto la figura di Simone Lucianu,
agitato e ferito, con il sangue che gli usciva dalla
bocca, essi gli diedero assistenza e lo portarono immediatamente a casa sua. Essi chiesero anche degli
autori dell’agguato, ma il sindaco del paese non indicò alcun nome. Nel pomeriggio dello stesso
giorno i fratelli Porcheddu vennero nuovamente
convocati per fare un sopralluogo nel luogo dell’agguato. Vennero convocati come periti per ricostruire la scena del crimine Giuseppe Simone
Scanu e Aurelio Satta, i quali affermano circa il
viottolo di Tatinuri ormai riconosciuto come luogo
del delitto: si osservano in mezzo alcune gocce di sangue
vivo, che pare esser molto rosseggiante, lo giudichiamo sangue
umano, uscito da qualche persona che essersi ivi stata ferita,
mentre le gocce di esso sangue si ravvisano lontane una dall’altra, e visibilmente nell’addito del chiuso di Giovanni Pinna
troviamo ed osserviamo in una gran pietra, il segno di una
palla della circonferenza di tre cagliaresi, molto fresca, la
quale la giudichiamo per esser stata sparata da dentro il
chiuso di Sebastiano Satta, perchè è dirimpetto allo stesso
addito. Gli stessi periti definiranno tale sentiero non
un cammino reale, bensì un viottolo per cui si va e viene dalla
villa di Alà ad alcuni ovili e possessi, non a vidazzoni ma
bensì prato di Siddu, che dicono della suddetta villa di Alà.
Purtroppo però il 25 maggio Simone Lucianu lascia questo mondo, e subito la Curia di Buddusò richiama i medici Filippo Ruggiu e Francesco
Longu per effettuare l'autopsia sul cadavere. Che
nel frattempo è stato spostato nella chiesa di Santa
Maria, per cui occorre l'autorizzazione, che arriverà,
da parte del rettore Don Antonio Mannu. Con tale
permesso Giò Angelo Seche e Raimondo Erre
porteranno il cadavere, adagiato su una lettiga e vestito di un abito di tela bianca - in regione Masullà luogo immune da ogni giurisdizione ecclesiastica - per la visita dei medici. Che confermano le ferite rilevate
nella loro prima analisi a seguito del ferimento.
Il 28 maggio Giovanni Ziccheddu, giurato
di giustizia della Curia di Buddusò manda a chiamare Giuseppe Dudda, che però non vuol comparire. Il 5 giugno viene dunque constituito nei ceppi nella
casa del maggiore di giustizia Giovanni Satta Guiguine. Ma
siccome ciò nonostante nulla se ne può tirare dal medesimo, il 7 giugno Giuseppe Dudda viene rimesso in
libertà, previo interrogatorio. In tal occasione si dichiara figlio del fu Gosme Dudda, dell'età di 28 anni,
pastore di porci. E dice di conoscere bene in vita
Simone Lucianu, per averlo in gran pratica. Circa le circostanze che portarono al suo ferimento dice: essendo io testè partito da quella villa di buon mattino verso il
nascere del sole in quel giorno più non mi sovviene, per espri-
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mermi in quanto si contasse, era bensì verso la metà del passato mese di maggio, recarmi alla custodia dei miei porci, che
li avevo nella regione detta S'adde de Urchi, territorio della
detta di Alà, al salir che feci da quello abitato in detto mattina incontrai nell'addito della vigna di Giò Maria Pigozzi
Stara ivi Salvatore e Angelo fratelli Porcheddu di detta di
Alà, i quali mi dissero che andavano al loro vachile ed io
intanto avendo preso il viottolo di Tatinuri, per recarmi al
luogo suddetto in cui trovansi i suddetti porci, solo ed inerme,
nell'entrare che feci nello stesso viottolo si mi tagliò il legame
di una scarpa, ossia scarpone ed essendomi inclinato per accomodarmi esso stesso legame, udii in quel mentre verso la
parte di sopra di quel viottolo, una schioppettata e quindi in
seguito un'altra ne udii, per fare nello stesso sito, ed una voce
di un uomo, che diceva “pisti, mortu so”, in vista di che mi
raddrizzai immediatamente in piedi, ed avendo preso lo stesso
viottolo per recarmi al luogo in cui mi parvero fatti ambi detti
spari, viddi di scendere correndo da quella svolta, e nello stesso
viottolo l'in oggi defunto Simone Lucianu, che si accorse che
io andavo ad incontrarlo, non fece altro che tirarsi del coltello
di cui solamente era munito, ciò mi fece a credere che temeva
che io non l'offendessi, alla qualcosa procurai di lasciarlo passare perché temevo di darmi sopra col suddetto coltello, e testè
lo seguitai dicendo che mi avesse detto chi l'aveva ferito, ed in
questo mentre viddi spuntare un quel viottolo ambi due li
fratelli Porcheddu, ed avendo fatto incontro col detto Lucianu,
lo fermarono e lo presero al braccio, dandoli aiuto e assistenza.
aveva l'ordine di presentarsi la mattina e la sera in
Curia a Buddusò, non potendosi allontanare se non
per curare i suoi maiali. Incalzato dagli inquirenti
Dudda cade in contraddizione, e dichiara che dopo
il delitto, avendo avuto paura, non passò come inizialmente affermato, dal viottolo di Tatinuri, ma da
quello di Mendadores, per poi arrivare a S'adde de Urchi
e li fermarsi tutto il giorno. Interrogato se sapesse
di un eventuale fuga da parte dei sospettati, ripete
che essendo obbligato a stare due volte al giorno a
Buddusò, non ha conoscenza dei recenti fatti di Alà,
comprese queste informazioni che i giudici gli chiedevano.
Il 3 luglio la Regia Prefettura di Ozieri ordina ai ministri della Curia buddusoina che venga
ascoltata Maria Nieddu, vedova di Simone Lucianu. Essa dopo essersi rammaricata del fatto che i
sospettati non sono stati ancora assicurati alla giustizia, conferma tutto quello che il suo defunto marito aveva dichiarato agli inquirenti il giorno stesso
del delitto.
Il 30 agosto vengono convocati Giò Agostino Scanu, Giuseppe Simone Nieddu, Antonio Senes e Aurelia Satta. Viene sentito prima Giovanni
Agostino Scanu, cinquantenne figlio del fu Lorenzo, fabbro di professione. Egli conferma la pubblica voce che condanna i fratelli Ghisu, Giuseppe
Seddaju e Santino Bua come esecutori dell'omicidio
e Giò Maria Stara mandante, in quanto quest'ultimo fu
a ciò indotto atteso che soffriva male l'interfatto Lucianu come
sindaco; e tanto è ciò vero, che tempo prima, non ricordandomi
del mese e del giorno, dopo aver preso lui l'amministrazione
ed il governo del suo sindacato, fu dal detto Stata minacciato,
appunto quando stavamo facendo il riparto nuovo del quartiere, che finirebbe male detto suo sindaco, avendo avuto detto
una forte contesa, siccome mi venne tutto questo riferito ed
assicurato da Michele Erre, Antonio Senes ed altri che vi
A seguito di ciò Dudda andò dunque per la
sua strada: procurai di retrocedere e recarmi alla custodia
dei miei porci, avendo lasciato il detto ferito in mani dei suddetti fratelli Porcheddu. Il testimone dichiara di non
aver visto chi ha sparato, poiché era chino per legarsi la scarpa e poiché il viottolo è assai lungo. Ma
che ha sentito che la stessa vittima rivelò i nomi dei
fratelli Ghisu, mentre le voci popolari parlano di un
coinvolgimento di Giuseppe Seddaju e di Santino
Bua. Riguardo i motivi dice di non sapere e di non
aver sentito nulla, in quanto egli in quel periodo
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erano presenti. Giò Agostino Scanu si dichiara certo
della responsabilità dei cinque sospettati in quando
subito dopo l'agguato di resero tutti diffidenti dalla
giustizia, ossia latitanti. Egli da un ulteriore indizio
però: pare che Giuseppe Seddaju, i giorni prima del ferimento di Lucianu, si sia fatto prestare da Franceschino
Longu uno schioppo, giustificandosi col il fatto che le occorreva
per uccidere un bue. Il flebotomista alaese, ma bonifacino di origine, pare abbia dato il suo fucile a Seddaju, che però non glielo restituì. Importante è anche il giudizio che esprime sui sospettati: Stara è sempre citato e reputato un uomo prepotente non volendosi come
dissi portare a corresponsione alcuna dei soliti detto, bramando che venissero oppressi i poveri, e venirne lui esente. Gli
altri sono tutti poi diffamati come ladri, egualmente il Bua e
il Seddaju.
comunitativo in assemblea con alcuni probi uomini
del paese, spesa la cui ripartizione non andava bene
allo Stara. E’ lo stesso Nieddu ad aver ricevuto, una
mattina a casa sua, la minaccia al sindaco da parte di
Stara e di Giovanni Ghisu.
Giuseppe Simone Nieddu, interrogato sulle
qualità morali dei sospettati, da alcune interessanti
informazioni sul passato di alcuni di essi: i suddetti
Stara e fratelli Ghisu sono d'un indole sanguinaria, provocativa, rissosa, dominante, non volendo soffrire che li altri avvantaggiarsi in qualche maniera, avendo sentito pubblicamente che il detto Stara uccise ora quindici anni e più un
uomo di questo villaggio di Buddusò ed un altro di Bitti, di
cui nome e cognome ignoro, profittava dei porci che stavano
ritirandosi dalle ghiande; siccome fece uccidere ora dieci anni,
salvo errore, da Giovanni Cocco del villaggio di Perfugas, suo
nipote, dentro il popolato a Giammaria Casu, per invidia
mentre era un uomo benestante al pari di lui; tutti però sono
di cattive qualità personali, e diffamati ladri di ogni specie di
bestiame, avendo come intesi pubblicamente, che essi detti fratelli Ghisu rubavano dai territori di Bitti un branco di pecore,
che tuttora conservano, come ne rubarono del pari ora tre anni,
salvo errore, la casa di Giò Maria Pigozzi Sanna, avendovi
portato via vari oggetti, e somme di danaro; come tali sono
reputati tra la maggior parte di detti abitanti, che tengo e
reputo anche io.
Curiosi alcuni particolari evidenziati dal teste, secondo cui Antonio Martino Ghisu, viveva separato da anni dalla moglie Maria Luigia Casu, ed essendosi ammalato, in tale condizione promise di tornare con la
consorte, ma uscito dall'infermità che lo rendeva malato, mai
rispettò tale pubblica promessa. Su Giò Maria Stara, lo
Scanu ribadisce il suo essere prepotente e rissoso, e
siccome è benestante può a suo avviso facilmente rendere esecutive le sue minacce. Inoltre, ora che è suocero di Giovanni
Ghisu, la sua prepotenza è addirittura aumentata.
Compare dunque dinanzi agli inquirenti
Aurelio Satta, del fu Giuseppe, nato a Bono, circa
cinquanta anni prima. Che torna all'episodio della
carne inviata a Nule: mi ricordo molto bene che nel detto
riparto si presero delle parole Giò Maria Stara con Simone
Lucianu, sindaco era allora, concernenti il detto riparto, non
so però presente che ci siano state delle minacce, mentre nel
migliore dovetti io abbandonarli.
Dopo questa deposizione fiume, è il turno
di Giuseppe Simone Nieddu, anche egli fabbro,
di 35 anni, figlio del defunto Giò Giuseppe. Che
conferma quanto detto in maniera molto prolissa da
chi lo ha preceduto, ma rivelando alcuni indizi rilevanti. Infatti pare che Seddaju e Bua abbiano partecipato all'agguato poiché pagati dallo Stara con la
somma di centocinquanta scudi. Riguardo il possibile movente, Nieddu conferma il contrasto circa il
donativo per l’acquisto della carne per una brigata
di dragoni acquartierata a Nule, deciso dal consiglio
Per ultimo interviene il pastore cinquantenne Antonio Senes Sanciu, del fu Angelo, secondo cui il motivo di tal omicidio altro non se ne crede se
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non la vigna ossia chiuso esistente in questo territorio e preciso
luogo denominato Padentes, ora un anno e mezzo circa, nella
quale seppi dallo stesso detto Stara, essendo ragionando da
soli a soli, che non di buon animo potea quello tollerare d'aversi serrato un tratto di terreno, in cui solea pascere il suo
bestiame, e ciò di come in tal epoca demolito per fatto intendere che non avrebbe del medesimo goduto, in quanto sarebbe
stato ucciso da lui, e non contento d'aver quella volta dovuto
prorompere in tali minacce alla mia presenza, pur nell'ultimo
scorso carnevale d'essersi liquidato il riparto che era dovere
fare dal Consiglio e probi uomini, per somministrare quei
vassalli la carne ai Cavalleggeri in Nule acquartierati, ricordandomi benissimo d'aver detto in aria minaccevole al prefatto Lucianu di dover ben procurare il modo di ripartire poiché in difetto non avrebbe ultimato il suo sindacato; quali
parole vennero, se non mi inganno, pronunciate nanti Antonio Pinna, ed altri che non ho presente. Antonio Senes
conferma i centocinquanta scudi dati a Seddaju e
Bua, al fine di procurare lo schioppo, che essi chiesero poi in prestito a Francesco Longu.
L'ultimo giorno di agosto viene convocato
Domenico Nieddu, massaio cinquantenne, figlio
del fu Giovanni, cognato di Simone Lucianu. Egli
ritorna sull’episodio della vigna di Padentes: mi ricordo
che trovandomi nell'ottobre, salvo errore, del 1808, in compagnia dello stesso Lucianu, nella predetta sua vigna, volendo
noi scacciare alcune vacche che erano proprie del detto Stara,
sopraggiunse questi al posto, collo schioppo e arrivato verso
detto Lucianu minacciandolo fortemente che mal lui era d'aver chiuso detto terreno che poco lo godrebbe; in quell'atto vi
era anche Giuseppe Venturo Pilosu.
Viene dunque sentito Michele Erre, massaio quarantenne, figlio del fu Giacomo. Che disse
che i sospettati mal soffrivano che Lucianu fosse
stato nominato sindaco, e che lo Stara non era stato
soddisfatto dalla ripartizione dei contributi, per la quale non
c'era stato un occhio di riguardo verso di lui. Anche Erre
conferma la voce su un corrispettivo, di cui non conosce l'entità, dato a Seddaju e Bua per la loro partecipazione all'agguato. E fornisce ai giudici un altro
movente: trovandomi in un giorno di marzo, se non mi inganno, che non so quanti, mi consta che discorrendo degli affari della giunta col detto Antonio Martino Ghisu, ebbe questo a minacciare l'interfatto Lucianu con dire che era vergognoso che essero stati perposti i nativi ad un forastere, ma che
mi assicurava che quelli non terminerebbe certo il suo sindacato, facendo con ciò intendere che era intenzionale d'ucciderlo.
Circa lo Stara, racconta che fece uccidere mediante
il suo nipote Giovanni Cocco Perfughesu, l’alaese Giò
Maria Casu. Mentre su Seddaju e Bua dice che trattasi di giovani di poco giudizio e facili a manovrare.
Giò Antonio Pinna, detto Totoi, è figlio del defunto
Antonio, fa il pastore ed ha 40 anni circa. Presente
alla riunione per la ripartizione del donativo ai Cavalleggeri di Nule, dichiara che in mezzo al vociare
sentì le minacce di Stara verso Lucianu, al quale fu
garantito che non avrebbe terminato il suo mandato
da sindaco.
A seguito di queste deposizioni, lo stesso
giorno la Curia di Buddusò convoca Michele Erre,
Franceschino Longu, Domenico Nieddu e Giò Antonio Pinna. Si presenta per primo il flebotomista,
nato a Bonifacio dal defunto Erasmo Longu. Il quarantacinquenne originario della Corsica viene interrogato riguardo il suo schioppo che probabilmente
ha sparato verso il povero Lucianu. In particolare
sui suoi rapporti con Giuseppe Seddaju egli dice: ci
visitavano vicendevolmente, ed io anche frequentavo la sua officina; mi ricordo molto bene d'avermi lui chiesto in un giorno
dei primi giorni di maggio ultimo scorso il mio schioppo, dicendomi che li serviva per essere il suo in Calangianus accomodandolo, siccome infatti, essendo venuto alcuni giorni dopo
in mia casa, glielo feci consegnare da mia nipote chiamata
Tomasina Longu.
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lo riporto dentro casa. Uno dei due presenti a quest'ultima situazione che Pirotti non ricordava era
Giovanni Serra, che conferma l'episodio e lo data al
primo marzo 1810. Il notaio e scrivano della Curia
Giorgio Mundula di Ozieri depone più o meno
alla stessa maniera. Aggiungendo però che Antonio
Martino Ghisu durante le sue minacce metteva il
suo indice sotto il naso del sindaco in segno di sfida.
Il 7 settembre vengono convocati a Buddusò Giò Maria Manca, Giò Maria Pigozzi Stara,
e nuovamente Aurelio Satta. L'interrogatorio inizia
con il Manca, pastore cinquantacinquenne, figlio del
fu Giuseppe. Il quale dichiara che al momento
dell'agguato stava dirigendosi verso il suo ovile a
Norile, passando dal viottolo di Tatinuri, nel quale
però vide solo una calca di gente a seguito dei due
spari, uditi anche da lui, tra cui non riconobbe nessuno se non Maria Nieddu, moglie di Simone Lucianu. Dopo di lui viene sentito il sessantenne Giò
Maria Pigozzi Stara, del fu Gregorio. Egli è componente della Giunta Comunitativa di Alà, e quindi
partecipò alla riunione per accordare la carne ai cavalleggeri di Nule. Della quale offre qualche dettaglio inedito: si svolse in casa del maggiore di giustizia Giò
Antonio Pinna e vi partecipò la giunta composta da lui stesso,
da Michele Erre, da Antonio Senes Sanciu, e dal sindaco.
Oltre a quattro uomini benestanti, tra cui ricorda
solo lo Stara e Aurelio Satta.
Dopo queste deposizioni non programmate,
si riprende con i testi convocati. Viene nuovamente
sentito dunque Aurelio Satta. Che oltre a confermare la sua precedente testimonianza, dichiara che
una decina di giorni prima dell'agguato aveva notato
un’inedita frequentazione tra i sospettati.
Il 2 settembre la Curia si trasferisce ad Alà
per sentire Tomasina Longu e Domenico Nieddu.
La donna ha appena 16 anni, è nata a Tempio dove
risiede, da Pietro Longu, bonifacino fratello del già
più volte citato Franceschino Longu. Con cui Tomasina convive e a cui dà cura. Essa dichiara che lo
zio aveva uno schioppo ma di non averlo più, in
quanto essendo stato dato in prestito a Giuseppe
Seddaju, non fu da lui mai restituito. Fu la stessa
Tomasina che lo consegnò a Seddaju che affermò
di doverselo portare all'isola di La Maddalena. Domenico Nieddu fu interrogato riguardo ad altre
minacce subite dal suo defunto cognato. Egli confermò che oltre all'episodio a Padentes altre volte ci
furono minacce generiche a seguito della nomina a
sindaco di Simone Lucianu.
I giudici chiamano il ventiquattrenne Salvatore Pirotti, di Buddusò, figlio del possidente Angelo Maria. Egli fu infatti testimone di un episodio
importante che infatti racconta: mentre con lo scrivano
di questa Curia Giorgio Mundula, ed altri che non ho presente, passavamo nella contrada ove abita e tiene la sua casa
Antonio Martino Ghisu, appena vidde che il medesimo interfatto Lucianu, sortì furiosamente da detta sua casa, e voltandosi contro di lui con aria brusca e minaccevole si fece dire
per qual motivo avesse fatto alloggiare uno dei soldati, che
conduceva per essa scorta, nella casa d'una vedova, nonché
sua parente; e sebbene gli avesse quello risposto che avendo
concesso alloggio tutti li individui di quel villaggio, era ragionevole che anche colei vi partecipasse, niente di tal risposta
soddisfatto il Ghisu, aggiunse e proseguì dicendo che pensasse
bene a qual cosa faceva, mentre fin allora non cominciava
niente bene, e simili minacce. Lo stesso Mundula intimo
a Ghisu di tacere, e Pirotti lo prese per il braccio e
Una nuova serie di interrogatori viene inaugurata dal massaio sessantenne Leonardo Muru di
Monti, che un anno e mezzo prima si trovava nella
vigna di Giuseppe Simone Scanu a Padentes, a sollevare il muro di confine con il terreno dei Nieddu,
affini di Lucianu. Il quale però non seppe, o volle,
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Depone quindi nuovamente Antonio Senes Sanciu che prima di rispondere ai giudici
chiede che gli venga letta, in lingua sarda, la sua precedente testimonianza. Dopo averla egli confermata,
allo stesso viene chiesto se in qualche occasione abbia parlato con Giuseppe Simone Nieddu dell’omicidio del sindaco Lucianu. Egli risponde così: mi ricordo benissimo d’aver inteso dal Giò Maria Stara Cocco,
incontro in un giorno delli precedenti a quello in cui parlai col
detto Nieddu, era passando nella contrada del primo, posta
all’entrata di questo popolato, alchè stava dicendo non so a
chi, che la notte immediata antecedente quasi quasi aveano
sparato, che è lo stesso di dire di esser stato impostato, oppure
aver tentato di ucciderlo, ciò come si diceva pubblicamente che
il suddetto Seddaju si presentò all’agguato del medesimo unitamente a Santino Bua, aprendice era del medesimo, mediante la promessa di scudi centocinquanta, giudicai io allora,
che il detto Seddaju fosse quello di cui intendea parlare l’accennato Stara; il che tutto confidai al detto Nieddu, ed è appunto quando col medesimo venni a parlare dell’omicidio del
prefatto Simone Lucianu.
dare ragguagli importanti agli inquirenti, dichiarando laconicamente, di non ricordare tanto. È il
turno di Giovanni Pinna Murgia, trentenne figlio
del fu Antonio, pastore alaese. Che loda il defunto
sindaco, considerando queste sue virtù un movente
dell'omicidio: essendo come era, nel tempo che venne ucciso,
sindaco, si comportava egli bene con tutti promovendo il vantaggio del pubblico, sollevando i poveri e facendo in modo che
i soliti pagamenti e contributi si corrispondessero da tutti,
proporzionatamente ai loro beni, ed era arrivato egli a provocarsi la benevolenza di tutti i vassalli, ad esclusione dei fratelli
Ghisu, e Stara, i quali li avevano dall'invidia motivo per cui
tentarono di ucciderlo. Il 4 settembre torna dai giudici
Franceschino Longu che viene ascoltato circa un
nuovo movente, stavolta attribuito a Giuseppe Seddaju. Il flebotomista alaese non lesina i particolari:
trovandomi per giorni prima di esser stato ucciso il detto Lucianu, nell'officina del suddetto Seddaju fumando del tabacco,
mi chiese egli del tabacco, e siccome non avea che quel tanto
che avevo nella pipa, non potei dargliele; motivo per cui udii
che disse al suo apprendice l'accennato Santino Bua, che si
recasse per dove lui sapea, che si avesse fatto dare del tabacco;
si portò infatti lo stesso Bua, essendosi restituito, con semplici
sole tre foglie di tal genere, le quali viddi che le prese tra le
mani il Seddaju, mettendole al naso per odorarle ben due volte,
mi disse che tali foglie non le piacevano niente, e che quindi
di credere di esserci qualche cosa. Longu continua col raccontare che Seddaju pensasse che tali foglie fossero
avvelenate, ma che non rivelò chi gliele aveva date.
Solo pochi giorni dopo Longu sentì la pubblica
voce che Lucianu aveva tentato di avvelenarlo. Per
qual motivo? Longo parla di un presunto contrasto,
il periodo in cui Giuseppe Seddaju andò a Calangianus per imparare la professione di ferraio e in quel
mentre egli vendette una piccola vigna a Lucianu,
per poi però ritirarsi prima dell'ufficializzazione
della vendita. Ne nacque una disputa che finì con
minacce reciproche.
Di seguito viene sentito Giò Maria Pinna,
figlio del fu Giò Paolo, massaio benestante ottantenne, che confermò lo stato di latitanti di tutti i sospettati e diede ad uno dei moventi già menzionati
ulteriori dettagli: nell’aver il detto Lucianu chiuso con i
cognati Domenico e Pietro Nieddu, un pezzo di terreno, come
vi formò una vigna, questa dalla sua roba veniva tutta mangiata e devastata, nonchè diroccato il muro, ora due anni circa,
dovette calcolare, se non inganno, in scudi quattro di danno
vale a dire muro e vigna dalla roba dello Stara devastata, che
per ciò ebbe a corrispondere l’importare, ricordandomi benissimo parimenti, che per quel oggetto dovettero rissare con essersi anche proferite delle minacce dal canto dello Stara, non
so se giorni prima o giorni dopo nella suddetta vigna, posta
in luogo detto Padentes, alle quali minacce però io non fui
presente, mentre me le riferì l’indicato Lucianu, e suoi cognati,
i quali egualmente mettevano ivi il loro gregge, difendevano
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quanto Lucianu fu nominato per consigliere e quindi Sindaco, ed essersi a distinguere per buone maniere, fra li abitanti di questa, e si avesse già acquistata la stima del pubblico.
Casu menziona anche altri due possibili motivi di
astio dei sospettati, già citati da altri testi: l’aver Lucianu impiantato una vigna, poi chiusa, in un terreno dove
Stara e i fratelli Ghisu facevano pascolare le loro greggi, e i
dissidi sulla ripartizione delle spese per il sostentamento dei
soldati acquartierati a Nule. Oltre a ribadire l’odio di
Seddaju verso il sindaco calangianese, accusato di
aver tentato di avvelenarlo con delle foglie di tabacco artefatte. Circa la fuga dei sospettati Giò Maria Casu, conferma che dalla sera del delitto non
vide più nessuno, dal momento in cui scorse lo Stara
in prossimità di S’elighedda, dove teneva i suoi alveari.
Giò Maria Stara che Casu reputa l’omicida di Pietro
Manca, assassinato alcuni anni prima nel popolato
di Alà. Il cinque settembre compare davanti ai ministri della giustizia, Angelo Pigozzi, di 45 anni, pastore figlio del fu Gregorio. Il quale dichiara che al
momento dell'omicidio di Simone Lucianu era assente da paese. Ma che seppe da un tale di Buddusò
che lo stesso giorno dell'omicidio si diedero alla
fuga Giuseppe Seddaju e Santino Bua. Su quest'ultimi Angelo Pigozzi afferma: nell'essermi recato verso la
metà, salvo errore, dello scorso agosto, alla villa di Calangianus per mancanza di bestiame, luogo dove incontro. per parte
di mezzodì, entro quel popolato, per dir meglio, all'orlo del
medesimo, con i suddetti Bua e Seddaju, e fra le altre cose che
noi trattavamo fu quella dell'omicidio dell’enunciato Lucianu
di cui ebbi a farli carico mentre a lui e ad altri voleasi imputare, alché il predetto Seddaju alla presenza del suo aprendice
Bua udì avermi risposto d'aver commesso siffatto omicidio - e
nel nominare il suo padre spirituale, detto padrino, volgarmente nonnu, chiamato Giò Maria Stara Cocco - e che avea
avuti bene giusti motivi, avendo il predetto Lucianu dato a
Bua e al Seddaju per fumare alcune foglie di tabacco in cui
vi era del veleno. Mi sovviene benissimo alla mente di esserci,
l’indicato Stara con cui sono molto uniti. Il vecchio massaio parla anche del possibile risentimento personale che poteva avere Giuseppe Seddaju verso il sindaco defunto: si dice in questo pubblico di aver dato l’indicato Simone al medesimo Seddaju alcune foglie di tabacco
seco per fumare, e che vi fosse stato in mezzo qualche poco di
veleno. Sulle qualità morali dei sospettati, il teste conferma la cattiva reputazione degli stessi, specie di
Giò Maria Stara: ho presente d’essersi trovato in alcuni
omicidi anni sono, ed esser stato diffamato nei medesimi; tra
gli altri intesi d’esser stato ucciso per suo impulso ed indicazione Giò Maria Casu con sparo d’arma da fuoco, e Pietro
Manca, ma non posso riferire tutte le circostanze, per trattarsi
di molto tempo. Una novità la offre anche riguardo
Antonio Martino Ghisu: vive in divorzio dalla sua moglie, solito introdurre il suo bestiame nel prato a vidazzone
con dispotismo.
Dopo di che i ministri della Curia di Buddusò interrogano Giuseppe Venturo Pilosu, pastore quarantenne, che rimane molto più abbottonato, specie riguardo la disputa riguardante la vigna
di Padentes, già nota agli inquirenti: essendosi introdotte
delle vacche, ora due anni, salvo errore, trovandosi in detta
vigna Pietro Nieddu, cognato del detto Lucianu, volle questi
scacciare quelle, del che accortosi lo Stara Cocco se ne risentì
a tal uopo. Pilosu continua la deposizione in modo
molto succinto, affermando che a seguito di questa
frizione, non ha sentito che ci sia stato un seguito
spiacevole, né che ci siano state altre occasioni di
contrasto tra loro. Dopo di lui viene ascoltato Giò
Maria Casu del fu Antonio, quarantenne pastore
anche lui. Il quale dice di aver sentito che Giovanni e
Antonio Martino Ghisu, in compagnia di Santino Bua e
Giuseppe Seddaju, il giorno dell’agguato si erano impostati
dietro le siepi dei chiusi del viottolo che conduce a detta regione
Tatinuri, due da una parte e li altri dall’altra. Il motivo
dell’omicidio è, a detta di Casu, l’odio di Stara, mandante dell’agguato, verso la vittima degli spari, in
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dato punto, delle altre persone quando mi fece quella confessione Ma siccome io non ero mai stato nella detta di Calangianus non avevo cognizione di quelle, per cui non posso nominarle; rapporto poi ai motivi che possa avere il Lucianu
per dare a Seddaju quel tabacco avvelenato, devo dire che rimanendo questo debitore che, se non mi inganno, della somma
di scudi 10 a quello, ebbe a dargli il Seddaju una sua vigna
a conto di quel credito se non erro fino tornare da Calangianus ove il predetto Giuseppe si recò ora due o tre anni circa
per apprendere la professione di ferrero; per quale oggetto, quel
danaro li bisognava e siccome poi d'essere venuto da quella
villa chiese nuovo alla stessa vigna oppure il vino che pressapiù ne tirò, il quale mi pare di averla data a Venanzio Casu,
e non avercela voluta vendere o voluto restituire il denaro, ebbero fortemente a rissare e a minacciare alla mia presenza e
di varie altre persone che non ho presente.
quale movente potessero avere i due, e Lacana dice:
ho inteso dire pubblicamente essere stato per essersi lui rifiutato a consegnare al Seddaju una porzione di vigna che tre
anni prima, salvo sbaglio, li avea ceduta nell'essersi portato
al villaggio di Calangianus all'oggetto di imparare ivi la facoltà di ferraio; ed infatti ho inteso che pochi giorni prima di
averlo ferito, fu al Seddaju dato da questo un poco di tabacco
a foglia avvelenato; il Santino poi si vuole per favorire con
piacere il suo mastro, essendo aprendice di ferrero col Seddaju
col quale convive. La deposizione di Lacana risulta incredibile per le accuse che muove, se si pensa che
Giuseppe Seddaju è cugino di sua moglie!
Arriva il turno delle donne. Viene interrogata per prima Maria Lucia Pigozzi alias Murgia,
del fu Antonio, moglie venticinquenne di Giovanni
Seddaju, e dunque cognata del sospettato Giuseppe
Seddaju. Ella dichiara di non sapere dove abiti suo
cognato, ma che prima del ferimento di Simone Lucia, ogni tanto egli, con Santino Bua, si ritrovava
nella sua abitazione e del marito Giovanni per dormire. Riguardo la notte e la prima mattina del 18
maggio Lucia Murgia dichiara: allattando un bambino
di notte, prendendomi il sonno prima di far giorno e dovetti
svegliarmi quando era già sortito il sole in quel lato. mi accorsi che loro non vi erano, credetti di essersi portati al lavoro,
mentre erano soliti di sortire la mattina molto di buon'ora;
non avendoli visti fino al mezzogiorno, in cui mi dissero d'essersi trattenuti appunto lavorando in quella mattina, e che la
sera dovean partire per la festa di Santu Tomeu, celebrata
nella regione denominata Saltos de giosso, e da quel orario
non li ho visti più. Dopo di lei parla con gli inquirenti
Maria Domenica Cocco, cinquantenne figlia del
defunto Giovanni, che spiega di aver saputo del ferimento del sindaco e della responsabilità di Seddaju
e Bua in tal modo: trovandomi il giorno dopo, se non mi
inganno, che si celebrava la festa di San Tomeu, nei salti
cosiddetti in volgare de giosso, insieme a Maria Rubatta di
Lo stesso giorno ad Alà viene sentito il giovane Giovanni Lacana, del fu Francesco, 20 anni,
pastore. Interrogato dove si trovasse al momento
dell'agguato rispose: la mattina del giorno di cui mi chiede
sortì molto di buon'ora per andare in traccia di un bue che
mi mancava, solo e senza compagnia alcuna, e dopo esser
giunto per alcune ore in quei luoghi che a me più parevano
conoscenti, ebbi la sorte di ritrovarlo nel luogo denominato
Lacaralò, pertinenza di questo medesimo villaggio dopo di cui
dovetti restituirmi in villa ove arrivai alle ore 9, poco più o
meno, ed appunto quando seppi d'esser stato ferito, nella maniera e luogo surriferito, l'accennato Lucianu. Ove appunto
ho inteso fatto il primo sparo al suddetto Lucianu, viddi vicino ad un sasso grande che era per parte di dentro di un
chiuso proprio di Giovanna Dela, donna di questa, due
uomini aventi ambi di schioppi e seduti, quali schioppi avevano tra le loro mani ed avendoli bene guardati, e per essere
già allora del tutto fatto giorno, di essere Giuseppe Seddaju e
Santino Bua, ambi di questo, dopo di cui, o due o tre minuti
poco più o meno, lì accennati Seddaju e Bua farvi due spari,
uno successivo all'altro e con poco intervallo. Gli inquirenti
approfittano della prolissità del teste e chiedono
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questa medesima villa, nel mio ovile posto in questa pertinenza denominata Pres'in s'ainu, non sovvenendomi però del
giorno preciso, era però due o tre giorni dopo al più di quello
in cui fu ucciso siccome sopra il detto Lucianu, lì accennati
Seddaju e Bua, per esser essi di ritorno dalla suddetta festa,
ed avendoli noi fatto carico del vociferare siccome di esser gli
autori del suddetto delitto, non ebbe il Seddaju, difficoltà alcuna, alla presenza di detto Santino che non disse nulla in
contrario, di confermar d'esser loro i veri rei del detto delitto,
fornendone una somma contentezza ed allegrezza. Il motivo
dell'astio che sfociò nell'omicidio era, per ammissione in tal
occasione dello stesso Seddaju, il tentativo di avvelenarlo da
parte del Lucianu, con foglie di tabacco adulterate. L'appena citata Maria Rubatta, figlia trentenne di Aurelio Curtu Rubatta, sposa di Angelo Pigozzi, compare quindi davanti ai ministri della Curia di Buddusò. Egli si dichiara residente a Presu in s'ainu e dichiara su domanda specifica che suo marito nel suo
mestiere non ha socio alcuno, mentre vicino alla
loro capanna c'è quella del marito di Maria Apeddu,
di cui non ricorda il nome. Sempre lì vicino abitano
Baingio Bua e sua moglie Maria Domenica Cocco.
giorni dopo il Regio Prefetto relaziona sullo stato
delle indagini: ho dovuto rilevare che i fratelli Antonio
Martino e Giovanni Ghisu, con Giuseppe Seddaju e di lui
aprendice Santino Bua, previa intelligenza, induzione e mandato di Giò Maria Stara Cocco, tutti di Alà e soggetti di
pessime qualità personali, per solo motivo che questo con i
primi due, genero uno e altro consanguineo, mal soffrivano di
aversi chiuso a vigna un tratto di terreno Simone Lucianu
della villa di Calangianus e domiciliato nella detta di Alà,
d'essere stato il medesimo preposto nel corrente anno all'impiego di sindaco, di aver messo del veleno in alcune foglie di
tabacco da pipa date al predetto Seddaju, e per altre pur cause
non giuste, nella mattina buon’ora del giorno 18 maggio ultimo scorso si appostarono, onde appagar le proprie e altrui
brame, viottolo denominato di Tatinuri, territorio vicino a
quella villa, e senza la minor prudenza fecero contro del citato
Lucianu due spari d'arma da fuoco, dalle cui palle, nella
parte anteriore superiore del lato sinistro ebbe a riportarne
due ferite tra loro distanti tre dita traverse ambe con offesa di
tutti i tegumenti, vene e arterie, tra quarta e quinta costa vera,
polmoni, muscoli intercostali della parte posteriore e mezzana
nonché del braccio con pur parte nella sesta costa vera, dalle
quali ferite, comechè particolari, si rese a pochi giorni in fatto
estinto. Querelandomi quindi imminentemente contro li succitati Giò Maria Stara Cocco, fratelli Giò ed Antonio Martino Ghisu, Giuseppe Seddaju e Santino Bua, per il dato
omicidio commesso, ora chiedo d'esser debitamente citati affinché nel termine di giorni dieci dall'immediato seguente a
quello della pubblicazione ed affissione, comparissero per difendersi da quanto sopra.
Maria Rubatta confermò il passaggio di Seddaju e Bua, i giorni successivi alla festa di Santu Tomeu, armati di schioppo, presso il loro ovile, per bere
del latte. Anche lei disse di aver carpito a Giuseppe
Seddaju la confessione del ferimento del sindaco,
con la motivazione del precedente regalo, da parte
di Lucianu, di foglie di tabacco avvelenate. La Rubatta conclude dicendo che probabilmente i due si
fermarono pure nella capanna degli Apeddu e dei
Bua-Cocco. Non resta dunque che sentire Maria
Apeddu, del fu Antonio, che conferma tutto quanto
detto da Lucia Murgia e Maria Rubatta.
Siamo a metà settembre, e tale incarico
viene attribuito alla Curia di Buddusò che il primo
di ottobre si reca quindi ad Alá, per il tramite del
delegato di Giustizia Giovanni Serra, che in presenza dei due testimoni Venanzio Casu e Luigi Bo,
si dirige verso i luoghi di ultima residenza degli inquisiti. Per i fratelli Ghisu si farà anche un tentativo
Essendo vicino il termine prestabilito per le
indagini, la Prefettura di Ozieri, chiede una dilazione di due mesi, che viene subito accordata. Pochi
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presso la loro capanna di Chertosumele, ma senza alcun esito, come per tutti gli altri, oramai ufficialmente latitanti. Ragion per cui si decide la notifica
dell'atto mediante pubblicazione sulla porta di casa,
a seguito di squillo di tromba, suono di tamburo, ed
a voce di grida, con lettura in lingua sarda dell'atto
da parte del banditore. Per lo Stara Cocco, l'affissione avvenne nella sua dimora posta nel vicinato
detto De giosso, dove pure fu fatta ad Antonio Martino Ghisu, e di suo fratello Giovanni. Ma anche
nella sua capanna di Sa laorra, mentre per i due
Ghisu la procedura fu ripetuta al loro ovile di Chertosumele. Per Giuseppe Seddaju e il suo discente Santino Bua, i messi giudiziari si diressero invece verso
il rione detto Sas codinas. Il 13 ottobre fu richiesto
per tutti gli imputati un estratto di battesimo dai libri parrocchiali. Giovanni Ghisu risulta battezzato
il 25 giugno 1784, i suoi genitori sono Giò Maria
Ghisu e Giovanna Sanna (padrino e madrina Stefano Sanna e Margherita Sanna Brundu). Giuseppe
Seddaju, figlio di Giovanni e Lucia Curtu, fu battezzato il 19 dicembre 1786, con padrino Andrea Bartolomeo Ghisu, e madrina Maria Scanu. Per gli altri
non fu trovata alcuna registrazione.
ossia foruncolo, occhi castagnici, capelli neri, barba nera ed
alquanto vagliucolata, naso mediocre. Su Seddaju dice: è
grosso parimenti di corpo, ma alto di statura, ma non ricordo
come ha lungo il naso, di poca barba e nera, del pari che sono
neri i capelli di testa e neri pure gli occhi. Resta da descrivere Giovanni Ghisu, ed Emanuele Casu si esprime
un tal maniera: statura mediocre, ma piuttosto bassa, ha
naso acuto, faccia larga, occhi neri, poco barbuto, e nero, capelli neri. Il massaio trentenne Giovanni Arrica, figlio di Antonio, conferma più o meno le descrizioni
di Emanuele Casu.
Il 25 ottobre si rileva il fatto che nessuno dei
sospettati si sia presentato per difendersi davanti
alla Curia. Si procede dunque al loro processo. Il
verbale viene redatto in questa forma: il risultato del
processo addimostra che l'indicato Stara con i prefatti Ghisu,
tanto per aver chiuso a muro il detto Lucianu un tratto di
terreno, posto in Patentes, che avrebbe voluto incorporato in
una sua tanca oppure libero per il pascolo del bestiame loro,
quanti per essere stato quel forastiere, nativo di Calangianus,
preposto all'impiego di sindaco, venne così violentemente perpetrato un tal delitto; ed il suddetto Seddaju, e Bua, vi ci
determineranno, mediante certa supposta promessa di danaro;
oppure sulla credenza che in alcune foglie di tabacco da pippa,
date dall'accennato Lucianu a quello ci fosse stato del veleno
intruso, ed andasse a farlo in quel modo morire, e per una
piccola vigna, che gli diede e gli riprese, per darla, come la
diede, ad altri. Come succede che non potendo tollerare il menzionato Giò Maria la fatta chiusura, passò con intelligenza
dei loro seguaci, i fratelli Ghisu, a demolirla ed introdurci le
vacche loro, e risentito d'essere state queste scacciate, oltre alle
diverse volte che rissò, segnatamente sta che nell'ottobre del
1808, divenne, dopo una lunga contesa, ad inarcare ed affilare lo schioppo all'enunziato Lucianu, e non potendo poi
impostare la sua rea intenzione, per essersi frapposte delle
persone, lo minacciò di morte, e se ne partì da questo sito
mordendosi le dita e furioso. Risulta poi averlo minacciato
nell'ultimo scorso carnevale, nanti la Giunta di probi uomini,
Le generalità di questi vengono quindi richiesta ai testi Emanuele Casu e Giovanni Arrica.
Il primo fa il pastore di professione e si dichiara figlio del fu Sisinnio. Egli riguardo Giò Maria Stara
Cocco dice che è figlio del defunto Giò Antonio, di età
compresa tra i 42 e i 45 anni, basso di statura, sottile piuttosto di corporatura, barca e capelli alquanto canuti, viso sottile, occhi stretti e neri. Santino Bua a suo dire è figlio del
fu Giovanni, d'anni trenta alla vista, alto, faccia rotonda di
pochi capelli per esser quasi calvo del tutto, occhi castagnici, e
naso aquilino. Su Giò Martino Ghisu, il teste Casu invece dice: è figlio del vivente Giò Maria Ghisu, d'anni
trenta di sua età, basso piuttosto di statura, sottile di corporatura, bianco di faccia, ove tiene una cicatrice di carbonchio,
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pel riparto della carne dovuta al quartiere di Nule, inserendosi contro del suffatto Lucianu, per avendoli sentire di dover
ben pensare al modo di ripartire, che avea da farla con lui, e
non terminava in difetto, come non finì il suo sindacato. Tali
minacce, esternate pel suddetti oggetti, nei quali pur pigliavano parte gli anzidetti Ghisu, per conducendosi anche allo
Stara, ed esser egualmente risentiti a causa del detto impiego,
per il quale promosse anche Antonio Martino Ghisu in parole minaccevoli, non dissimili quasi dalle suddette, prima e
dopo del detto sindacato, essendo ivi concludentemente provate.
Non posso che darmi motivi a presumere della loro reità, or
per chiaro apparire la buona condotta che con tutti costantemente tenga, e per cui da tutti era lodato. La somma intrinsichezza e frequenza tra loro insolita prima e dopo del delitto,
quale si ravvisò con Seddaju e Santino, massimo con i Ghisu;
lo spirito d'opposizione che con suffatto teneano, cui pur odiavano e badavano di mal occhio; or la pubblica voce e fama
istantaneamente insorta contro di tutti, e l'assenza e la latitanza dei medesimi, non menochè le pessime loro qualità, anche in materia di furti; indizi tutti questi che uniti fra sé e
cogli altri, non possono che costituir una pena. Per le stesse
qualità non è difficile l'annunza, ossia mandato, nello Stara.
Quello, avendo sortito dalla natura un genio dominante, pari
era già avvezzo ad intingersi per sé e per altri le mani in
sangue, ben potea ordire anche questa volta un tal reato.
Onde che, stante la vera contumacia, non posso che conchiudere per la pena di anni cinque di galera. Conviene però riflettere in rapporto al Seddaju, che da un teste fu questo col
Bua visto, armati di schioppo, poch'anzi del delitto nel viottolo detto di Tatinuri appostato, e dopo di dieci o dodici minuti, intese ivi due consegutivi spari il medesimo, ed altresì
confessò lo stesso Seddaju, alla presenza del suddetto Bua e
di tre testi, due giorni dopo d'esser stato commesso, che loro
avevano perpetrato l'accennato delitto, di cui anzi si gloriavano, e che per ciò avevano perciò motivi sufficienti; del perché
lo confessarono ad un’altra persona nell'ultimo scorso agosto,
motivo per cui sono in senso di dovervi emettere a medesimi
altri cinque anni di galera. E sebbene il teste che li vidde,
deponga di due soggetti diversi da questi, che conobbe il defunto; e nell'atto che confessarono il misfatto. Non perciò si
deve credere una ripugnanza, nè immuni da pena le altre persone, potendosi allora ben essersi appostate in altro sito.
Quindi condannasi li menzionati Giò Maria Stara Cocco,
Giovanni ed Antonio Martino fratelli Ghisu, alla pena di
anni cinque di galera, per l'enunciato omicidio di Simone Lucianu, sindaco di Alà, ed a quella di dieci li Giuseppe Seddaju e il di lui apprendice Santino Bua. Tutti all'indennizzazione verso gli eredi dell'ucciso, e nelle spese. E’ il 25 ottobre 1810, cinque giorni dopo la sentenza è spedita
alla Curia competente per territorio e il 6 ed il 7 di
novembre il banditore Salvatore Figos notificherà
tale atto mediante lettura pubblica in lingua sarda
davanti alle abitazioni dei rei contumaci.
Il 9 ottobre 1811 viene catturato Santino
Bua Todesco nella proprietà di suo cugino Tommaso Antonio Todesco a Calangianus. Il 20 dicembre si svolge l'interrogatorio di Santino Bua, che
si dichiara figlio trentenne del fu Giovanni, pastore
di professione, sebbene in qualità di servo perché
senza beni di fortuna. E immediatamente afferma
di non sapere il motivo del suo arresto da parte di
un contingente di truppa di fanteria. E riguardo Simone Lucianu dice di averlo conosciuto ma di ignorare chi lo abbia ucciso, e nega pure di esser stato
tutto questo tempo contumace.
Lo stesso giorno vengono convocati e sentiti a Tempio Arcangelo Scanu e Giammaria Montesu Achenza. Il primo è figlio del fu Lorenzo, ha
sessantotto anni, e fa il pastore ed il massaio ad Alà.
Egli ripercorre la vita recente di Santino Bua, che
abita ormai da tempo a casa di Giuseppe Seddaju in
regione Sas codinas in paese, mentre prima di essere
apprendice dello stesso, egli risiedeva nei Saltos de
giosso, che distano otto o dieci ore di strada, territo-
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rio dello stesso popolato di Alà. Giommaria Montesu Achenza è figlio del defunto Antonio, ha sessant'anni e fa il pastore ad Alà, dove possiede beni
per più di cento scudi di valore. Su Bua aggiunge
rispetto a Scanu, che egli non aveva beni nel popolato di Alà e quindi doveva abitare necessariamente
a casa di Giuseppe Seddaju. E che prima di essere il
suo discente faceva il massaio, sebbene meschinamente perché senza fondi propri, e allora dimorava in campagna nelli
territori dello stesso di Alà chiamati Saltos de giosso.
mi inganno dell'ultimo scorso ottobre nella casa di mia abitazione questa nel popolato di Alà, contrada denominata Sa
Carrera manna, da molti soldati di questa Guarnigione ed
altri paesani d'Ozieri; il motivo poi altro io non posso credere
se non sì quello di avermi voluto imputare l'omicidio di Simone Lucianu del villaggio di Calangianus, e nella detta di
Alà domiciliato, commesso in quei i territori nel maggio del
1810: per cui fui non solo citato a difendermi ma inoltre contumacialmente condannato alla galera per anni 5, con avvisi
a quell'oggetto affissi certi scritti nella porta della casa di detta
mia abitazione ed anche nella capanna; di quel delitto essendone io innocente ed avendo attribuito a persone odiose soltanto l'avermili voluto complicare, determinai prima di passare in giudicato di presentarmi in carcere, ma ne fui distolto
da alcuni miei parenti. Gli inquirenti gli chiedono se
esista una diversa denominazione del rione in cui
abita, il presunto mandante dell'omicidio Lucianu
dichiara: viene anche comunemente detta Carrera de giosso.
Il sette gennaio 1812, la Regia Delegazione
autorizza a procedere nella via più sommaria a comunicare ufficialmente a Santino Bua la sentenza di
condanna a 15 anni di galera emessa dal Regio Prefetto di Ozieri. E alle due ore e mezza di sera tale
sentenza viene letta al recluso Santino Bua tradotta
in sardo, in presenza, in qualità di testimoni, del condetenuto Giò Antonio Lentinu di Luras e del custode carcerario Baingio De Murtas. La sentenza viene quindi eseguita verso Santino Bua Todesco, con esser stato passeggiato con remo in collo per le contrade pubbliche di questo
popolato.
Per avere notizie dei fratelli Ghisu bisogna
aspettare il 1819 anno di un indulto generale promulgato il 25 febbraio, che spinge Martino Antonio
e Giovanni a costituirsi. La richiesta di indulto viene
ufficializzata il 27 giugno a Buddusò, mediante carteggio redatto dal notaio Salvatore Farris, alla presenza dei testimoni Salvatore Nieddu Casu di Alà
e Antonio Taras di Buddusò, nel quale si chiede oltre di essere ammessi a tal beneficio, anche l'inibizione di molestia per ambedue, ossia la piena assoluzione.
Il nove ottobre 1813 la Real Governazione
di Cagliari chiede che i fascicoli processuali vengano
ad essa trasferiti. Le istituzioni giudiziarie di Sassari
rispondono e immediatamente inoltrano il tutto il
successivo giorno 16. Passano tre anni e il 30 ottobre 1816 tali fascicoli, composti da novantaquattro
pagine, vengono riaperti, visto l'arresto del latitante
Giò Maria Stara Cocco. Che il 21 febbraio 1817
viene interrogato in carcere. Egli dichiara: mi chiamo
Giò Maria Stara Cocco, del fu Giò Maria, nativo e domiciliato nella villa di Alà, conto anni 50 circa di età, professione
pastore ed i miei beni valgono circa duecento scudi sardi. Sono
stato arrestato di notte tempo, nella prima settimana se non
Grazie a tale amnistia essi furono prosciolti
e con loro il Cocco Stara che nell’agosto dello stesso
anno guadagnò nuovamente la libertà.
Roberto Mette
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L’OMICIDIO LUCIANU (1810)
Un anno prima della decisione della Reale Cancelleria di Cagliari sull’annosa vicenda dei terreni
contesi con Buddusò a Binza de martu, il paese è
funestato da un gravissimo episodio di sangue, vale
a dire l’omicidio del sindaco del paese. Simone Lucianu, di Calangianus, arrivò ad Alà negli anni a
cavallo tra il XVIII e il XIX secolo per svolgere il
ruolo di segretario comunale. Il 14 settembre 1802
nasce in paese suo figlio Antonio, avuto dall’alaese
Maria Nieddu Pinna. Accusati del suo assassinio
sono: Santino Bua Todesco, classe 1775, figlio di
Giovanni Bua e della calangianese Paola Todesco;
Giuseppe Seddaju, nato in paese il 21 novembre
1763 da Giovanni Seddaju e Lucia Curtu; i fratelli
- nati a fine secolo da Giò Maria Ghisu e Giovanna
Sanna - Antonio Martino, classe 1784, e Giovanni
Ghisu; infine, il suocero di quest’ultimo, Giò Maria
Stara Cocco, proprietario terriero, nato ad Alà attorno al 1765, figlio di Giovanni Maria Cocco.
[fonte: Archivio di Stato Cagliari – Cause criminali – pandetta 17 – unità 191]
Si rengràtziat chin coro:
La Proloco di Alà è stata
rifondata nel 2011 e nel
corso degli ultimi anni ha
contribuito a rivitalizzare
“su connotu” alaese riportando
in
auge
eventi
quasi dimenticati come
“su
pamentomo”,
stu-
diando le fattezze dei
tanti personaggi della mitologia locale (tra cui “su
mascatzu de sete berritas”),
creando
eventi
come Tenoriades, Boghes
Galanas,
il
torneo
di
murra sarda Santu Pedru,
la distribuzione dei pani
tipici per “Sa fita”, stimolando l’uso della lingua
sarda in ogni possibile oc-
casione, valorizzando l’artigianato e l’enogastrono15
mia locale a fini turistici e
culturali.