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Palestinesi, arabi ed ebrei
Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/palestinesi-arabied-ebrei/
Mappa della Palestina, 1851
Mappa della Palestina, 1851 ( da FRONTIERE)
di Lorenzo Kamel
1
Imperialismo, antisemitismo, ragioni umanitarie, perdurante influenza delle Sacre
Scritture: ognuno di questi fattori giocò un ruolo decisivo nel crescente impegno
profuso dalle autorità britanniche nei primi anni del Novecento.
Tuttavia, ciascuno di questi aspetti non contemplava, o lo faceva in maniera molto
marginale, la popolazione palestinese locale: la schiacciante maggioranza (circa il 90
percento) del totale presente al tempo in Palestina. Analizzando le fonti primarie
dell’epoca è facile comprenderne le ragioni. Non solo veniva talvolta sostenuto che i
palestinesi (termine usato già nel X secolo, con accezione identitaria, dal geografo
gerosolimitano Al-Muqaddasi) [1] – definiti «corpi di uomini [bodies of men]» dal
colonnello George Gawler (1795–1869) – non mostrassero alcuno stimolo patriottico
(un concetto al tempo irrilevante nella regione), ma era altresì diffusa la percezione
secondo cui essi «detengono i loro possedimenti come fossero stranieri [hold their
possessions as foreigners], o come semplici locatari a tempo indeterminato [mere
tenants-at-will]» [2].
Il disinteresse per una qualsiasi forma di patriottismo da parte della popolazione
locale era un’onta ancora più marcata agli occhi di quanti notavano che esso, il
patriottismo nei riguardi della Palestina, era al contrario più vivo che mai nella
lontana Inghilterra:
«Questa Terra Santa, sebbene non sia più oggetto di sanguinarie ambizioni,
non ha perso nulla del profondo interesse attraverso cui un tempo ispirava il
più veemente crociato. Le prime impressioni dell’infanzia sono legate a quello
scenario; e le labbra dei bambini nelle prospere case dell’Inghilterra
pronunciano con riverenza i nomi della desolata Gerusalemme e della
Galilea. Sperimentiamo ancora oggi una sorta di patriottismo nei riguardi
della Palestina [We still experience a sort of patriotism for Palestine], e
sentiamo che le scene vissute in questi luoghi siano interpretate a beneficio
dell’intera umanità. Per quanto stretti siano i suoi confini, ne possediamo
tutti una parte: ciò che una chiesa è per una città, la Palestina lo è per il
mondo» [3].
Anche l’arcivescovo di York era stato chiaro nel corso della riunione inaugurale del
PEF (1865): «[La Palestina] è la terra verso la quale possiamo guardare con lo stesso
genuino patriottismo che riserviamo alla nostra cara vecchia Inghilterra [as true a
patriotism as we do to this dear old England]» [4]. Ne consegue che gli arabopalestinesi fossero generalmente dipinti come stranieri sulla loro stessa terra; un
modo di filtrare la realtà peraltro diffuso in tutto il mondo attraverso celebri libri –
non di rado letti fuori contesto e dunque male interpretati – come il The Innocents
Abroad (1869) di Mark Twain (1835-1910) [5] .
Anche in numerosi altri contesti storici e geografici gli ‘altri’ – “gialli”, “neri” o
“mulatti” che fossero – occuparono ruoli molto marginali nella produzione
bibliografica della schiacciante maggioranza dei viaggiatori e degli uomini di lettere
del vecchio continente [6]. Allo stesso tempo in molti altri scenari del mondo le
popolazioni autoctone furono ‘romanticizzate’, descritte come “amorali”, o dipinte
come “impermeabili al progresso”. Tuttavia, il valore simbolico della Terra Santa
aggiunse un risvolto religioso unico nel suo genere. È solo in questo quadro che è
possibile comprendere il motivo per il quale la presunta esigua presenza dei
palestinesi – che non era tale se analizzata in un’ottica regionale comparata [7] –
rappresentasse per alcuni un’ulteriore prova di un preciso disegno divino: «Il volere
dell’Onnipotente», scrisse Lord Lindsay (1812-80) nell’influente libro Letters on
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Egypt, «prevede che i moderni occupanti [della Palestina] non debbano mai essere
tanto numerosi da invalidare la profezia secondo cui la terra è in grado di godere dei
suoi Shabbat fintanto che i suoi legittimi eredi rimangono sul suolo dei loro nemici
[...] la terra ancora gode dei suoi Shabbat, e non aspetta altro che il ritorno dei suoi
figli esiliati» [8].
Una conseguenza di ciò era che, in linea con quanto evidenziato in precedenza, la
terra sulla quale queste persone vivevano non dovesse essere considerata come
realmente abitata da legittimi residenti: «La terra sulla quale abitate», scrisse nel
1854 il cartografo C.M.W. van de Welde (1818-98) riferendosi agli arabi di Palestina,
«non è vostra. I vostri padri se ne impadronirono come ladri e saccheggiatori [...] ma
arriverà sicuramente il tempo in cui [Dio] vi verrà a cercare per chiedere conto delle
iniquità dei vostri padri, e vi scaccerà dalla Sua presenza, affinché la terra possa
essere restituita a coloro ai quali Egli l’aveva data» [9].
Il «basso livello di moralità riscontrabile tra i musulmani» [10], per usare
un’espressione dell’Arcivescovo di Canterbury Archibald Tait, sommata a ciò che
James Parkes (1896–1981) definì «l’intolleranza dell’Islam e la ferocia degli abitanti
locali [savagery of the local inhabitants]» [11], erano i maggiori indiziati per quella
perdurante «fatalistica indolenza» che Claude Reignier Conder (1848-1910), una
delle figure chiave della Palestine Exploration Fund, indicò come la base di gran
parte dei problemi: «L’energia, l’operosità, il tatto, così notevoli nel carattere ebraico,
rappresentano qualità inestimabili in un Paese i cui abitanti sono sprofondati in una
fatalistica indolenza; e la Palestina è ancora oggi un Paese così a buon mercato che
potrebbe facilmente attrarre l’attenzione della classe media dei suoi legittimi
proprietari [its rightful owners]» [12].
Da tali considerazioni ne deriva che gli arabo-palestinesi, come chiarì Laurence
Oliphant (1829-88), membro del parlamento di Sua Maestà nonché occasionale
collaboratore del PEF [13], potessero vantare «un credito di simpatia molto limitato
nei nostri riguardi [very little claim to our sympathy]». Una constatazione che spinse
lo stesso Oliphant a proporre di segregare tali individui in riserve apposite, in scia con
una soluzione che, con le tribù indiane del Nord America, aveva già provato di essere
particolarmente efficace:
«Gli arabi non hanno molti motivi per reclamare la nostra simpatia. Hanno
reso deserto questo paese, mandato in rovina i suoi villaggi, e saccheggiato i
suoi abitanti, fino al punto di ridurre il tutto all’attuale stato; [...] si potrebbe
adottare il medesimo sistema che abbiamo utilizzato con successo in Canada
con le nostre tribù indiane del Nord America, le quali sono confinate nelle
loro ‘riserve’, e vivono pacificamente su esse fra la popolazione agricola
stanziata sul posto» [14].
3
Nella citazione proposta si
sarà notato l’accenno ai “deserti arabi” quale luogo di provenienza degli arabi di
Palestina. Il tentativo di delegittimare la presenza di questi ultimi ha seguito infatti
due strade distinte ma correlate. Da una parte si è cercato di sostenere che tali
persone provenissero da regioni esterne a ciò che i geografi arabi medievali
chiamavano jund Filastīn [15]. Dall’altra, come nel caso di Oliphant e di diverse altre
figure provenienti dalle due sponde dell’Atlantico, si è tentato di argomentare che
sotto la denominazione di “arabi” potessero essere annoverati esclusivamente i
beduini [16], anch’essi peraltro percepiti come indolenti e guerrafondai [17], nonché
«una parte delle classi urbane e dei grandi possidenti terrieri». Per gli altri,
i fellaḥin (contadini), «l’anima della nazione [the soul of the nation]» [18], tale
definizione veniva considerata «inappropriata»: [19] «A occidente del Giordano
[ovvero in Palestina]», notava ancora nell’agosto del 1918 William Ormsby-Gore
(1885-1964), «gli abitanti non erano arabi, bensì solo di lingua araba [were not
Arabs, but only Arabic-speaking]» [20]. Le motivazioni alla base di posizioni tanto
nette è possibile coglierle da un’influente analisi scritta nel 1905 da Ben Borochov
(1881-1917), uno dei padri del sionismo socialista:
«I contadini nella Terra d’Israele sono diretti discendenti di ciò che è rimasto
della comunità agricola ebraica e cananita, con l’aggiunta di una
leggerissima miscela di sangue arabo; è infatti ben noto che gli arabi,
orgogliosi conquistatori, si mescolavano molto poco con la massa dei popoli
da essi assoggettati […]. La differenza etnica tra gli ebrei della diaspora e i
fellahin nella Terra d’Israele non è dunque maggiore di quella che distingue
gli ebrei ashkenaziti da quelli sefarditi. La popolazione locale non è né araba
né turca […]» [21].
La tesi di Borochov era sottesa dalla illusoria convinzione che le affinità etniche tra la
popolazione ebraica e la maggioranza locale, sommate all’arretratezza culturale di
quest’ultima, avrebbero permesso una relativamente facile assimilazione della stessa.
I fellaḥin rappresentavano in questo senso un necessario ponte di collegamento tra
l’antica e la nuova presenza ebraica in Terra Santa. Lo storico Ya’acov Shavit ha
chiarito la questione nei seguenti termini:
4
«Tanto le utopiche, romantiche idee secondo cui gli arabi di Palestina
rappresentano i discendenti dell’antica popolazione ebraica che non andò
mai in esilio ma venne costretta a convertirsi all’Islam, quanto la tesi secondo
cui essi avevano conservato usanze arcaiche dai tempi del Primo e del
Secondo Tempio, furono notevolmente ampliate nei diari di viaggio e in seri
studi di ricerca prodotti nel 19° secolo. Tali idee furono fatte proprie dagli
intellettuali sionisti che si trovarono a dover affrontare il problema di creare
una nuova società di immigrati in un paese che aveva [già] una popolazione
nativa» [22].
L’approccio di Borochov,
problematico nella misura in cui presupponeva che il vero punto di partenza della
storia della regione andasse rintracciato negli antichi israeliti [23] e che tutto il
vissuto antecedente fosse stato da essi ‘assorbito’, faceva riferimento a delle
conversioni forzate di massa ed era sotteso dall’idea che i “conquistatori arabi” del
VII secolo non avessero alcuna affinità con la popolazione locale. Tali posizioni
vennero condivise da personaggi di forte richiamo. È il caso di Yisrael Belkind (18611929), fondatore del movimento dei Bilu’im e come tale un pioniere della haaliyah
harishona (la Prima aliyah). Il movimento dei Bilu, così chiamati prendendo
ispirazione da un verso del Libro di Isaiah, era composto da un gruppo di ebrei che
miravano a creare insediamenti in “Erets-Yiśra’el”. Il loro, non a caso, venne definito
“sionismo pratico”, in quanto mirante a realizzare sul campo le proprie aspirazioni.
Belkind si adoperò, a più riprese, per argomentare lo stesso concetto espresso da
Borochov [24]. Tuttavia aggiunse anche che la tesi della dispersione del popolo
ebraico dopo la distruzione del Secondo Tempio da parte dell’imperatore Tito (39-81)
fosse un errore storiografico che andava corretto [25] .
Ben più di Borochov e Belkind, furono David Ben-Gurion (1886-1973) e Yitzhak BenZvi (1884-1963) [26], rispettivamente futuro primo ministro israeliano e secondo
presidente dello Stato d’Israele, a dare una risonanza senza precedenti a questa
suggestiva idea partorita in Europa [27]. Nel loro libro del 1918 intitolato EretsYiśra’el ba-‘avar u-ba-hove, scritto in ebraico e tradotto dagli stessi autori in Yiddish,
si impegnarono a dimostrare l’origine ebraica dei fellaḥin [28] e a screditare la
pretesa che la popolazione presente nella regione negli ultimi dodici secoli avesse
apportato un qualsiasi contributo [29], spingendosi a minare anche le basi stesse
5
della tesi dell’espulsione in massa del popolo ebraico a seguito della distruzione del
Secondo Tempio:
«Affermare che a seguito della conquista di Gerusalemme per mano di Tito e
del fallimento della rivolta di Bar Kokba gli ebrei smisero di lavorare il suolo
della Palestina vuol dire dimostrare una completa ignoranza della storia e
della letteratura ebraica del tempo [...]. Nonostante l’oppressione e le
sofferenze, la popolazione delle campagne rimase la stessa» [30].
È evidente la dissonanza tra quest’ultima citazione e il messaggio contenuto nel testo
della Dichiarazione d’indipendenza che il 14 maggio 1948 lo stesso Ben-Gurion lesse
sotto un’immagine di Theodor Herzl (1860-1904) al Tel Aviv Museum: «Dopo essere
stati costretti all’esilio dalla loro terra», recitava la Dichiarazione, «le persone hanno
mantenuto la loro fede durante la diaspora».
La ragione dell’esistenza di due tesi in così forte contrasto su un tema nevralgico
come la galut (la “diaspora”) va rintracciata negli accadimenti verificatisi nei tre
decenni compresi tra la pubblicazione del libro di Ben-Gurion/Ben Zvi e la nascita
dello Stato d’Israele. La progressiva ascesa del nazionalismo palestinese, il massacro
di Hebron del 1929 e la Grande rivolta araba del 1936 avevano infatti mostrato una
volta per tutte la ferma opposizione della maggioranza autoctona a qualsiasi processo
di assimilazione. Una tale presa di coscienza formerà ben presto il retroterra per la
costruzione di un nuovo mito, quello del midbar shemama [31] (“deserto desolato”),
ovvero lo sforzo di inculcare un’idea della Palestina nei termini di un luogo
abbandonato a sé stesso [32] e popolato da una sparuta comunità araba di recente
immigrazione. Una percezione che ebbe un impatto non indifferente sul successivo
sviluppo della regione:
«Da quel momento in poi [i.e. da quando venne abbandonata la tesi
dell’origine ebraica dei fellaḥin] i discendenti dei contadini giudei furono
rimossi dalla coscienza nazionale ebraica; i fellaḥin palestinesi del presente
divennero presto, agli occhi degli agenti autorizzati della memoria,
immigrati arabi giunti in massa nel diciannovesimo secolo in una terra quasi
vuota, per continuare la migrazione nel ventesimo a seguito dello sviluppo
dell’economia agraria sionista che, secondo questo mito, aveva “attratto”
molte migliaia di lavoratori non ebrei» [33].
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Una donna palestinese a Ramallah negli anni Venti del Novecento (Fonte: American Colony Photo Dept.
photographers. G. Eric and Edith Matson Photograph Collection)
Chi sono i palestinesi?
Sette parole servirono al poeta palestinese Mahmoud Darwish (1941-2008) per
chiarire indirettamente gran parte degli ‘equivoci’ finora menzionati: «Chi sono?»,
domandò nella sua Une rime pour les Mu‘allaqāt a proposito delle popolazioni
autoctone soggette all’autorità ottomana, «È un problema degli altri» [34] .
Per molti aspetti era in effetti un problema solo degli ‘altri’, degli ‘esterni’. Per gli
‘interni’ a fare la differenza, oltre alla religione, erano infatti la provenienza da un
dato villaggio (che sovente rappresentava una sorta di “protonazione nella
protonazione”) [35], l’appartenenza a uno specifico ḥamūla (clan familiare), l’uso di
un particolare dialetto, un modo di vestire, un prodotto della terra, un festival
religioso [36] una danza (dabkeh) [37]: tutti fattori peraltro ben presenti anche ai
giorni nostri. In altre parole non era l’identità politica la discriminante
principale [38], bensì l’appartenenza religiosa, nonché quella culturale e sociale.
Sebbene l’identità palestinese abbia avuto negli anni successivi all’occupazione
britannica della Palestina (1917) un periodo formativo cruciale, una parte rilevante
dei suoi elementi culturali e sociali di base, i «rudimenti della nazione» nella
concezione di Anthony Smith [39], sono riconducibili a un passato molto più radicato
che pochi sentivano l’esigenza di interrogare: «L’intero gioco legato alla definizione
dell’identità», notò Meron Benvenisti, «riflette la mancanza di connessione da parte
dell’immigrato. I nativi non mettono in dubbio la propria identità [Natives don’t
question their identity]» [40].
Ma quanti erano e chi erano i palestinesi? Prima di rispondere alla domanda è
opportuno menzionare che da più parti è stato fatto presente che il termine Palestina
non fosse esclusivo appannaggio degli arabi e che dunque una distinzione puntuale
dovrebbe fare riferimento a due distinte realtà: gli arabo-palestinesi e gli ebreipalestinesi. In questo senso è stato sottolineato che dal 1932 al ‘50 il quotidiano
7
ebraico in lingua inglese Jerusalem Post prese il nome di The Palestine Post. La
puntualizzazione è pertinente, e infatti gli ebrei rimasti in loco nel corso dei secoli
possono essere definiti, qualora si senta l’esigenza di farlo, ebrei-palestinesi. La stessa
Carta dell’Organizzazione di Liberazione della Palestina (OLP), un documento di
certo poco incline al compromesso, riconobbe all’articolo 6 che «gli ebrei che
abitualmente risiedevano in Palestina fino all’inizio dell’invasione sionista sono
considerati palestinesi». Ciò significa che prima dell’ascesa del nazionalismo e
l’affermazione della «logica dell’avodah ivrit» (“lavoro ebraico”) non esisteva alcuna
impellenza di definire in modo netto la propria appartenenza etnica [41]. Inoltre,
anche volendo utilizzare un approccio etnocentrico, tale aspetto non cambia in modo
sostanziale, quantomeno da una prospettiva storicamente a noi più familiare, i
termini della questione. Riferirsi a una schiacciante “maggioranza arabo-palestinese”,
o a una schiacciante “maggioranza palestinese”, rispetto a una possibile minoranza
“ebraico-palestinese” o ebraica, è poco più di una disquisizione semantica.
Un “notabile” arabo-palestinese assiste un fellāh (contadino) a compilare un modulo per ottenere una carta
identitaria, Gerusalemme, anni Trenta del Novecento (Fonte: American Colony Photo Dept. photographers.
Visual materials from the papers of John D. Whiting)
Un primo censimento ufficiale venne effettuato in Palestina solo nel 1922, dal
governo mandatario britannico. In quell’occasione venne rilevata una popolazione
totale di 757.182 individui, di cui 590.390 musulmani, 83.694 ebrei, 73,024 cristiani.
Le precedenti rilevazioni presentavano evidenti difficoltà. Le autorità ottomane erano
solite contare, per fini legati alle tasse e al servizio militare, quasi esclusivamente i
maschi adulti o i capifamiglia. Le diverse confessioni cristiane, come anche
il millet ebraico e i consolati via via creati, mantenevano i propri rispettivi registri.
Le stime più attendibili riguardanti il secolo precedente rilevano che nel 1800 la
popolazione totale della Palestina contasse 250 mila individui, per poi raggiungere
quota 500 mila nel 1890 [42]. McCarthy, il decano dei demografi attivi su questo
tema, ha indicato in 411 mila il numero dei residenti in Palestina nel 1860 [43], la
stragrande maggioranza dei quali (circa il 90 percento) arabi.
In un’ottica eurocentrica tali cifre potrebbero apparire irrisorie. Per rendere l’idea
basti pensare che quando Parigi nel 1846 toccò quota un milione di abitanti,
Gerusalemme ed Haifa ne contavano rispettivamente poco più di 18 mila e poco
meno di 3 mila. Sarebbe tuttavia ancora una volta scorretto scegliere i Paesi del
vecchio continente e non quelli del Mediterraneo Orientale quali termini per una
comparazione attendibile. In questo senso è più sensato confrontare l’Egitto di inizio
8
Ottocento con la Palestina dello stesso periodo. Il primo si stima avesse ai tempi una
popolazione di circa tre milioni di abitanti: ogni ne conta 90 milioni [44]. La seconda,
abitata ai tempi da 250/300 mila persone (quindi 225/270 mila arabi), registra oggi
poco più di sei milioni di individui [45]. In rapporto si tratta quindi di dati che
mostrano un sostanziale accordo tra la Palestina e quello che storicamente è il più
importante nonché il più popoloso tra i Paesi arabi.
Pur essendo presenti importanti minoranze, in particolare cristiane (la minoranza piú
numerosa), sciite e druse, la maggioranza (l’85%) di quei circa 300 mila arabi che
vivevano in Palestina a metà del XIX secolo erano musulmani sunniti. Utilizzavano
come moneta la lira ottomana (prima del 1844, quando la Porta cominciò a stampare
la lira ottomana, era utilizzata un’altra moneta, il kuruş), parlavano l’arabo e vivevano
in una società molto gerarchizzata. Vitale era l’appartenenza ai clan. Oltre i due terzi
di essi erano agricoltori “hypercivilisé”, per usare una definizione di Weulersse
(1905-1946) [46], dediti alla coltivazione dei cereali, della frutta e della verdura,
nonché alla produzione della lana e del cotone. Era presente anche una discreta classe
di professionisti e intellettuali, benché la grande maggioranza della popolazione fosse
composta da analfabeti [47]. Il settore industriale registrava una fase embrionale,
mentre il comparto manifatturiero – connesso soprattutto alla raccolta delle olive e
alla relativa produzione di olii e saponi – rappresentava una risorsa, spesso esportata,
degna di particolare nota. Non è esagerato sostenere che proprio le olive
rappresentassero la ‘spina dorsale’ della vita economica e sociale locale. Non a caso i
matrimoni e le celebrazioni erano sovente organizzati nel periodo dedicato alla loro
raccolta, quando venivano intonate speciali canzoni composte per l’occasione [48].
Alcuni ebrei ortodossi in un mercato della Gerusalemme degli anni Venti del Novecento (Fonte: American
Colony Photo Dept. photographers. Visual materials from the papers of John D. Whiting)
Un potere tangibile, sotto diversi aspetti accresciuto a seguito delle Tanzimât, era
concentrato nelle mani dei grandi possidenti rappresentati da influenti ḥamāyyil (pl.
di ḥamūla) come gli Ḥusaynī, i Khālidī, i Nashāshībī, i Dajāni, i Nusseībeh, i Jārāllah,
i Touqān, e i Nābulsi. La Porta, che in Palestina poteva contare su un numero assai
esiguo di ufficiali ottomani, doveva affidarsi agli a‘yān (notabili) locali per mantenere
un sia pur relativo controllo della regione [49]. In questo senso essi rivestirono a
lungo il ruolo di intermediari tra il governo centrale e la gente del posto.
Nella seconda metà dell’Ottocento, con l’incedere delle riforme e delle nuove scuole
pubbliche create da Istanbul, il potere dei notabili rurali si ridimensionò in favore di
9
quelli basati nei centri urbani (Gerusalemme in primis), i quali trovarono
nelle Tanzimât le condizioni ideali per aumentare la concentrazione di terra sotto il
loro controllo. Tali famiglie, beneficiarie di un prestigio ereditato di generazione in
generazione, un prestigio radicato dunque nei centri urbani e da lì irradiato
sull’entroterra rurale [50], erano poste al vertice di un organigramma che annoverava
all’estremo opposto i contadini (fellaḥin) e i beduini.
A dispetto del loro potere, le famiglie dei notabili rappresentavano una piccola
percentuale della popolazione. La maggior parte della gente di Palestina viveva sparsa
tra circa settecento piccoli villaggi, i quali fino all’epoca delle seconde Tanzimât erano
economicamente indipendenti in relazione alle città. Tali individui, i quali come notò
Elizabeth Finn mostravano di essere legati alla loro terra «with the tenacity of
aboriginal inhabitants» [51], erano dislocati per lo più nelle zone collinari e
montagnose (jebel) che si snodano da Nord a Sud tra la Galilea e Jabal al-Khalil
(Hebron). Ciò era dovuto a motivi legati alla sicurezza e alla salute: le zone
pianeggianti come l’area costiera (sahel) erano infatti più esposte alle periodiche
razzie dei beduini, nonchè alla proliferazione di malattie come la malaria.
La raccolta delle olive nell’area di Nablus (C.E. RAVEN, Palestine in picture, Heffer, Cambridge 1929)
Il resto della popolazione risiedeva in città a popolazione mista come Gerusalemme,
Haifa, Tiberiade, Jaffa e Safad. Oppure in città esclusivamente arabe come Nazareth,
Shefar’am, Nablus (nel XVIII e XIX sec. era stata la città piú prospera della
regione) [52], Jaffa, Beisan, Lydda, Ramla, Ramallah, Beersheba, Beit Jala, Jenin e
Khan Yunis, Gaza, Betlemme, San Giovanni d’Acri, Tulkarem [53]. I beduini, benché
contraddistinti da un nomadismo più o meno spiccato [54], peraltro sempre più raro
a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento, erano ben radicati in quello che da
millenni erano noto come il deserto del Naqab (Negev) e rappresentavano meno di un
ventesimo della popolazione totale [55].
La necessità di ‘interrogare’ l’identità è riconducibile a un fenomeno «largamente
occidentale» [56] che si è sviluppato a partire dal XVIII secolo. L’approccio
costruttivista insegna che le identità sono basate su relazioni sociali che si modificano
nel tempo e nei diversi contesti. In quanto relazioni, le identità non sono dunque
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immutabili: «Gli esseri umani producono e riproducono [le identità] piuttosto che
esserci nati» [57].
Le tradizioni e le consuetudini che sono alla base della moderna identità arabopalestinese – un’identità che, nel suo processo di definizione, è stata in parte
“immaginata” e “costruita” come ogni altra identità della storia [58] – affondano le
proprie radici in un passato remoto molto antecedente al 637 d.C. Quest’ultima data
viene spesso percepita come il momento storico della grande invasione/occupazione
araba della Palestina, la quale a partire da questo periodo sarebbe stata popolata da
abitanti prima di allora estranei alla zona [59]. La realtà è molto piú articolata e viene
sovente ‘silenziata’ usando metri di giudizio selettivi. L’ipotesi che esista un qualche
filo conduttore tra gli iracheni e gli antichi babilonesi o tra i libanesi e i fenici (nome
con cui i greci identificavano i cananei) è accettata il più delle volte senza
ostruzionismi, o comunque discussa senza livore. Lo stesso non accade quando si
prova a utilizzare il medesimo approccio per quanto concerne gli arabo-palestinesi.
Gli arabo-palestinesi sono il risultato finale della combinazione di genti con origini
etniche varie, persone influenzate e plasmate dai popoli che nel corso dei secoli si
sono succeduti nelle vesti di conquistatori. Il medico palestinese Tawfīq Kanʻān
(1882–1964), prolifico etnografo e primo pastore arabo della Chiesa luterana locale,
fu l’antesignano nonché il più autorevole studioso delle tradizioni e dei riti della
popolazione autoctona. La sua ampia produzione scientifica, scritta in gran parte in
inglese e tedesco, è ancora oggi una fonte inesauribile di informazioni. A seguito di
decennali studi condotti casa per casa, villaggio per villaggio, già a cavallo degli anni
Venti documentò le tradizioni folkloristiche, i proverbi utilizzati, le canzoni, le
norm7e sociali, le superstizioni, gli amuleti e i manufatti prodotti dai contadini
palestinesi. Una tale mole di dati e materiali gli fornirono gli strumenti per sostenere
la tesi secondo cui essi rappresentassero l’eredità vivente delle culture succedutesi nel
corso dei secoli in Palestina: «Questi stessi fellaḥin della Palestina», argomentò
Kanʻān, «sono eredi e in qualche misura discendenti dei discendenti pagani dei tempi
prebiblici, ai quali si deve la costruzione dei primi luoghi scari» [60]. In sostanza
molte tradizioni popolari degli arabi di Palestina non erano altro che manifestazioni
residuali della vita quotidiana descritta nelle stesse narrazioni bibliche. Nelle parole
David Gilmour: «Ogni invasore fino al Novecento ha, in una certa misura, lasciato la
propria impronta sulla popolazione. […] I Cananei e i Filistei del X secolo a.C. non
furono mai deportati. Essi restarono in Palestina» [61].
Quando si arriva alla conquista araba del VII d.C. ci si trova al cospetto di quella che
può essere indicata come la piú pervasiva – ma anche la meno forzata – tra le
invasioni accennate. Attraverso essa gli arabi introdussero la religione, il tipo di
governo e la lingua che la gran parte degli autoctoni fecero in breve tempo propri.
Quanto finora sostenuto non significa che tale conquista fu accolta dagli autoctoni «a
braccia aperte» [62] e ancor meno che i palestinesi dei giorni nostri rappresentino i
cananei dei tempi antichi. Bensì che la popolazione locale venne arabizzata in modo
naturale, in un processo all’insegna della continuità, mantenendo dunque ciò che in
epoca moderna sarebbe stata definita una propria base culturale. Ciò non solo in
considerazione dell’esiguo numero dei nuovi invasori, ma anche in virtù del fatto che
l’arabo introdotto aveva un suono in tutto e per tutto affine agli idiomi parlati nella
regione [63]. Maxime Rodinson (1915-2004), a lungo impegnato a mettere a nudo gli
approcci semplificatori volti a negare o a minimizzare una qualsiasi continuità nella
storia della regione, affrontò l’argomento con le seguenti parole:
«Un piccolo contingente di arabi provenienti dall’Arabia conquistò il paese
[la Palestina] nel settimo secolo [...] la popolazione locale venne presto
arabizzata sotto la dominazione araba, proprio come prima era stata
11
ebraicizzata, aramaicizzata, in una certa misura anche ellenizzata. Divenne
araba in un modo non comparabile a quando venne latinizzata o
ottomanizzata. Gli invasi si fusero con gli invasori. È ridicolo chiamare gli
inglesi dei nostri giorni invasori e occupanti, sulla base del fatto che
l’Inghilterra fu conquistata ai danni dei popoli celtici per mano degli Angli,
dei Sassoni e degli Juti nel 5° e 6° secolo. La popolazione locale venne
“anglicizzata” e a nessuno verrebbe in mente di sostenere che i popoli che
hanno più o meno preservato le lingue celtiche – gli irlandesi, i gallesi o i
bretoni – debbano essere considerati come i veri nativi del Kent o del Suffolk,
e che possano vantare maggiori titoli su questi territori rispetto agli inglesi
che vivono in quelle contee» [64].
Visti dagli ‘altri’ ai quali faceva riferimento Darwish, il fatto che la maggioranza
presente in Palestina non avesse come priorità quella di autodefinirsi come
palestinese o araba era associato, da una prospettiva eurocentrica, a un suo scarso
attaccamento alla terra. Ciò che nell’Europa moderna veniva sovente indicata come
nazione (dal latino natus, nato entro un determinato territorio) presupponeva infatti
un sentimento di appartenenza a una comunità che si differenziasse in modo più o
meno netto, come risultato di un “contatto reciproco” tra gruppi distinti, a livello
linguistico, culturale e territoriale. Presupponeva in altre parole un confine tra il sé e
l’altro, tra ‘noi’ e ‘loro’: «Si conosce per mezzo dell’altro», scrisse già nel XIII secolo
Tommaso d’Aquino (1225–74), «così per mezzo della luce si conoscono le
tenebre» [65].
Era questo un confine molto più sfumato in Palestina. Mancava infatti un ‘diverso’,
un ‘altro’, chiaramente identificabile. In molti documenti del Settecento e
dell’Ottocento troviamo una distinzione tra ibn ‘Arab (figlio di un arabo) e ibn
Turk (figlio di un turco). Ciò significa che la popolazione locale considerava i turchi
che non parlavano arabo come dei forestieri. Allo stesso tempo, come accennato in
precedenza, la provenienza da un dato villaggio, l’ḥamūla di origine e gli usi locali
erano tutti fattori che marcavano una certa peculiarità tra le varie protonazioni
presenti nella regione.
Eppure fino alle ultime decadi dell’Ottocento mancava quell’avvertimento di un
pericolo esterno, di un problema, che quasi sempre è alla base dell’esigenza di un
popolo, piú o meno consapevole delle sue peculiarità, di autodefinirsi in modo netto:
«Una nazione», stando a un antico e provocatorio detto citato da Karl Deutsch (191292), «è un gruppo di persone unite da una comune errata percezione del proprio
lignaggio e da una condivisa antipatia nei riguardi dei propri vicini» [66]. Fatte salve
le dovute differenze, anche nel contesto europeo fu ad esempio la mobilitazione di
massa in chiave antinapoleonica a contribuire a trasformare la Russia in una nazione
non più semplicemente identificabile con il regno degli zar. In Germania, nell’anno
che vide la disfatta degli stati tedeschi (1793) per mano francese, Goethe (1749-1832)
non si rivolse più al Sacro Romano Impero bensì al Volk tedesco [67]. Ne consegue
che lo Stato-nazione dell’epoca moderna – un concetto ancora oggi influenzato dalla
Bibbia ebraica, sia pur attraverso una sua «rilettura secolarizzata» [68] – debba
essere considerato come una tipica creatura hobbesiana che ha avuto come sua
origine pratica e come sua destinazione «la difesa della comunità dalla potenziale
aggressione esterna» [69].
L’ascesa del nazionalismo palestinese non può essere in alcun modo connessa, come
sembrerebbero suggerire diversi studiosi [70], a una mera opposizione al sionismo. È
12
innegabile, tuttavia, che esso abbia, insieme ad altri fattori, accelerato una serie di
processi in atto, favorendo una sorta di omogeneizzazione delle ‘diversità’ presenti in
loco [71]. Prima delle massicce immigrazioni riconducibili alle varie fasi del sionismo,
nonché prima delle dinamiche innescate dall’imperialismo britannico e delle spinte
moderniste imposte dalla Porta [72], non è chiaro per quale ragione gli arabipalestinesi, che ai tempi rappresentavano una sorta di “comunità immaginata in
fieri”, avrebbero dovuto avvertire un pericolo nel far parte (come provincia) di un
Impero ottomano che, almeno fino alla progressiva entrata a regime delle
seconde Tanzimât (1856), lasciava loro ampia libertà [73]. Come rilevò ancora nel
1858 il teologo svizzero Felix Bovet (1824-1903) nel suo pellegrinaggio in Palestina:
«Sono, è vero, i turchi una potenza che regna in Palestina, ma ve ne sono ben
altre accanto a quella. Ogni tribú conserva una specie d’indipendenza, e fa i
propri affari da se stessa. Vi sono dei villaggi intieri che pagano le
imposizioni non al Pascià ma a qualche emiro beduino, e vi han delle
provincie nella Palestina, ove il rappresentante della Porta [dell’Impero
ottomano] non potrebbe rischiare d’inoltrarsi senz’essere infallibilmente
spogliato al pari del primo venuto» [74].
Tra la maggioranza araba di quella stessa Palestina che Bovet, anch’egli protestante,
descriveva come abitata da “tribù indipendenti”, coesistevano diversi sensi di identità
(legati a fedeltà religiose, locali, transnazionali e familiari) senza che fosse avvertita
alcuna contraddizione tra lealtà diverse [75]. Erano infatti identità tanto distinguibili
quanto sovrapponibili. D’altro canto, come notato anche da Barnett e Telhami, uno
dei modi in cui l’intera area differisce da altre regioni «è legato al fatto che l’identità
nazionale ha avuto un carattere transnazionale» [76].
È in questo contesto regionale che è opportuno spiegare l’inconsistenza della tesi
accennata nella prima parte di questo articolo. Il riferimento è all’assunto reso
popolare da Joan Peters nel suo From time immemorial. In esso, attraverso
un’analisi dei processi migratori registrati tanto nel corso dell’Ottocento quanto nel
periodo del Mandato britannico, l’autrice dipinse gli arabi di Palestina come
‘stranieri’ provenienti da “aree esterne” [77]. Più precisamente la Peters, in linea con
quanto pubblicato pochi anni prima dal giornalista Arieh L. Avneri [78], si sforzò di
dimostrare che la Palestina fosse una terra semideserta e che gli abitanti in cui si
imbatterono i primi sionisti fossero in larga parte dei ‘forestieri’ attratti dalle
immigrazioni ebraiche. Ciò a dispetto del fatto che, come confermò nel 1857 Herman
Melville (1819-91) durante un soggiorno in loco, fosse acclarato che ai tempi «tutti
coloro che coltivano la terra in Palestina sono arabi [all who cultivate the soil in
Palestine are Arabs]» [79]. Ovvero che quella stessa .“popolazione rurale” che Noel
Temple Moore (1833-1903), console britannico a Gerusalemme dal 1863 al 1890,
definì «l’osso e il tendine del paese [the bone and sinew of the country]» [80], fosse
già da tempo ben radicata sul posto.
Quando From time immemorial venne pubblicato nel 1984 molti storici e giornalisti
si affrettarono a scrivere che i dati demografici proposti dalla studiosa «potevano
cambiare l’intero scontro arabo-ebraico a proposito della Palestina» [81] Ancora oggi,
nonostante sia stato universalmente ‘squalificato’ nel contesto accademico
internazionale [82], il libro in questione è citato da decine di studiosi, alcuni dei quali
molto noti: «La ridotta e decrescente popolazione arabo-musulmana dell’area [la
Palestina]», ha scritto ad esempio Alan Dershowitz, «era transitoria e migratoria
[transient and migratory], a differenza della popolazione ebraica, che era più stabile,
anche se più contenuta» [83].
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Fino almeno agli anni Venti del Novecento [84] l’aumento della popolazione araba,
peraltro riscontrabile anche in altri contesti mediorientali (in Iraq tra il 1867 e il 1905
la popolazione passò da 1 milione e 250 mila a 2 milioni e 250 mila unità) [85], aveva
in realtà poco a che vedere con l’immigrazione ebraica. Come notò Justin McCarthy,
«la provincia che registrò la maggiore crescita della popolazione ebraica (.035
all’anno), il sangiaccato di Gerusalemme, è stata quella con il più basso tasso di
crescita della popolazione musulmana (.009)» [86]. L’aumento della popolazione
araba in Palestina era in larga parte da collegare all’alta crescita demografica: un
aumento peraltro iniziato già a partire dalla metà dell’Ottocento [87], quindi
antecedente tanto alla haaliyah harishona quanto alla prima società di costruzione
fondata negli anni Sessanta a Gerusalemme da Yosef Rivlin.
Tale crescita demografica si accompagnava a una diminuzione media della mortalità,
posta ben al di sotto dei 40 anni nelle fasi iniziali del Novecento, indotta anche dalle
innovazioni apportate dalla componente ebraica della popolazione [88].
Quest’ultima, al contrario, si moltiplicava in maggioranza grazie all’immigrazione,
per lo piú incarnata da devoti, spesso perseguitati, provenienti da altri continenti.
È proprio questo uno dei punti nodali che merita una maggiore chiarezza. La grande
maggioranza di quegli arabi palestinesi che Gawler, van de Welde, Peters e diversi
altri esterni definivano come “stranieri” [89], erano in realtà persone che, – pur
mantenendo saldi i loro peculiari retaggi indissolubilmente legati a quella che da
molti secoli era nota alla maggioranza locale come “Filastīn” (Palestina) – vivevano
nel contesto del Bilād al-Shām, ovvero in quella stessa “Grande Siria” che nel 1853
Ashley/Shaftesbury stigmatizzò come «un Paese senza una nazione». Considerare gli
spostamenti interni alla regione come processi migratori tra popolazioni
reciprocamente ‘straniere’ era/è un modo semplicistico di leggere una realtà che di
semplice non aveva nulla. Nelle parole dello storico Adel Manna:
«Un palestinese che si trasferiva nel sud del Libano o un palestinese che
migrava verso la Palestina – o un siriano, oppure un giordano – non è in
alcun modo uno straniero in quanto è parte integrante della cultura della
società del Bilad-sl-Sham, o Grande Siria, dove non esistevano confini tra i
Paesi. […] Era normale e naturale, ad esempio, che un palestinese andasse a
studiare ad Al-Azhar per poi rimanerci. O che un mercante di Hebron
andasse al Cairo per poi viverci; oppure a Damasco o in altri luoghi, sia per
studiare che per vivere […]. Stiamo parlando di un fenomeno naturale» [90].
Le tentazioni manichee sono da sempre foriere di travisamenti, nonché sovente di
grandi sofferenze. L’approccio ‘bianco o nero’ secondo cui o i palestinesi
rappresentavano una nazione ben definita, oppure non erano altro che “arabi”,
quindi persone che sarebbe stato relativamente semplice ridislocare in qualsiasi altra
regione del mondo arabo, è da tempo una semplificazione piuttosto diffusa nella
letteratura prodotta su questi temi. Una semplificazione che, sotto molteplici aspetti,
attende ancora oggi di ricevere l’attenzione che merita.
14
Nablus nel 1857 (F. FRITH, Egypt and Palestine Photographed and Described, 2 v., Londra 1858-9)
Cos’è la Palestina?
Sovente i viaggiatori provenienti da Occidente, arcipelago britannico in primis, si
rapportavano alla Palestina come fosse una semplice ‘espressione geografica’: una
sorta di Siberia del Mediterraneo Orientale. “Espressione geografica”
(“geographischer Begriff”) fu peraltro anche la formula con la quale il cancelliere
austriaco Metternich (1773-1859) apostrofò l’Italia nel 1847 [91].
Una tale attitudine venne in seguito ulteriormente rafforzata dall’influenza di alcune
delle correnti più estreme del sionismo, le quali accostarono l’idea della Palestina a
un concetto astratto, giustificando tale approccio con il fatto che essa non avesse mai
avuto frontiere, bensì solo confini amministrativi. Era questa tuttavia una
predisposizione – sostenuta nel corso dei decenni da diversi autorevoli
studiosi [92] – che per molti versi non trovava riscontri nei sentimenti degli ‘interni’.
Un editoriale pubblicato su Filastīn del 2/15 febbraio 1913 ammonì che«non è più il
tempo dell’Impero ottomano. È il nostro tempo [...] organizzeremo un esercito
speciale per proteggere la Palestina» [93]. Un numero speciale pubblicato l’anno
successivo sul medesimo giornale commentava con le seguenti parole il tentativo di
chiudere il giornale da parte del governo ottomano: «Cari lettori, a giudizio del
governo centrale sembra che abbiamo commesso un atto grave nell’allertare
la nazione palestinese [al-umma al-filistiniyya] contro il pericolo che la minaccia da
parte della corrente sionista. […] siamo una nazione che è minacciata di scomparire
di fronte a questa corrente sionista in questa terra di Palestina [fi hathihi al-bilad alfilistiniyya]» [94].
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Una delegazione di donne palestinesi protesta davanti alla Government House – quartier generale britannico in
Palestina – contro le politiche adottate da Londra in Palestina. Gerusalemme, gennaio 1921 (Fonte: American
Colony Archive Collections, Gerusalemme)
Di esempi simili a quelli appena citati se ne possono rintracciare a profusione: tanto
tra le masse contadine quanto, ancor di più, tra le élite urbane [95]. Nei diciannove
giornali fondati in Palestina tra il 1908 e il 1914, non a caso gli unici sei anni in cui la
stampa locale fu libera [96], i riferimenti a una peculiare “umma palestinese” erano
infatti la norma. Se rispetto ad altri contesti questo sentimento era cresciuto in modo
più repentino ciò era in gran parte riconducibile a due fattori già evidenziati: un
tangibile e crescente pericolo esterno, nonchè un livello di autoidentificazione
relativamente già ben sviluppato. al-Karmil, al-Quds, Filastīn, al-Munadi, alDustur [97], solo per citare i giornali maggiori, rappresentavano in questo senso uno
specchio sul quale proiettare l’amore per la propria terra, nonché i timori che si
prefiguravano all’orizzonte: «La terra [palestinese] – ammonì un editoriale
pubblicato su Filastīn il 6/9 aprile 1913 – iniziò a essere soggetta all’attenzione del
sionismo e fino ad oggi ci sono in Palestina 100.000 ebrei [...] come è possibile essere
certi che questi 100.000 non diventino 200.000 e che essi non raggiungano una
forma di autorità autonoma [...]» [98].
Ma non sono solo i mezzi di comunicazione del tempo – che di certo favorirono il
processo di sviluppo di una «auto-consapevolezza comunitaria [palestinese]» [99] – a
testimoniarci l’autopercezione che gli autoctoni, all’inizio del Novecento, sulla scia dei
primi effetti in loco del nazionalismo, avevano della loro terra. È possibile infatti
affidarsi anche a numerosi documenti, lettere ufficiali e diari privati che facevano
esplicito riferimento a una terra di Palestina con confini che possono essere definiti
relativamente precisi. In tal senso è esemplare il documento di protesta che il 3
febbraio 1919 i partecipanti al congresso arabo palestinese che prese vita a
Gerusalemme inviarono alla Conferenza di pace: «Tutti i residenti musulmani e
cristiani della Palestina, che è formata dalle regioni di Gerusalemme, di Nablus e
dell’Araba San Giovanni d’Acri [...]» [100].
Per la sua ampia maggioranza musulmana Filastīn, un termine ricollegabile a quella
stessa “Palashtu” a cui fece riferimento il re assiro Sargon II (?-705 a.C) e che in
seguito ritroviamo nella cultura greca dei tempi di Erodoto (484-425a.C.) [101], era in
realtà già da molti secoli una terra facilmente circoscrivibile. Ciò era dovuto alla sua
acclarata unicità. Un ampio numero di fonti islamiche classiche [102] la indicava
16
come Al ‘Arḍ al Muqaddasa (“La Terra Santa”). La consapevolezza e la percezione di
una Palestina, che, in quanto Al ‘Arḍ al Muqaddasa, fosse un’area speciale e perciò
distinta dalla Siria e dal Libano, si suppone presente da sempre nella «coscienza
arabo-musulmana»: «La Terra Santa [Al ‘Arḍ al Muqaddasa]», scrisse nel 1663 il
filosofo marocchino Abū Sālim Al-῾Ayyāshī (1628–79), «è il luogo più vicino al
paradiso che ci sia al mondo» [103]. Per una percentuale minoritaria di studiosi tale
unicità era palese al punto da poter addirittura competere con il ruolo della Mecca e
Medina, le prime due città sacre dell’Islam: «Il Corano», precisò Amir Ali (19372005), fondatore dell’Institute of Islamic Information & Education, «include il
termine ‘santa’ o muqaddasah solo in riferimento alla Palestina. Abbiamo tre
‘harams’ ma solo una terra santa. Non ho mai rintracciato nel corano o in
alcun hadith il termine muqaddas in riferimento alla Mecca o a Medina» [104].
Una delegazione di attiviste palestinesi alla stazione ferroviaria di Lydda (Palestina) in procinto di partire per il
Cairo, 12 ottobre 1938 (Fonte: American Colony Archive Collections, Gerusalemme; l’autore ringrazia Rachel A.
Lev per la segnalazione dell’immagine)
Una conferma di tale specificità era peraltro riscontrabile, con riferimenti geografici
ancora più circoscritti, in un numero cospicuo di fonti prodotte nel corso di un vasto
lasso temporale. Un testo islamico dell’VIII secolo attribuito allo studioso medievale
Abū Khālid Thawr Ibn Yazīd al-Kalā‘ī (764–854), un fiero sostenitore dell’idea che le
donne dovessero avere la facoltà di servire come imām (“Guida spirituale”),
argomentava che «il luogo più sacro [al-quds] della terra è la Siria; il luogo più sacro
in Siria è la Palestina; il luogo più sacro in Palestina è Gerusalemme [Bayt almaqdis]» [105]. Cenni circostanziati alla Palestina, non necessariamente di carattere
strettamente religioso, li ritroviamo nel Kitāb al-Buldān (“Il libro dei Paesi”) dello
storico sciita Al-Ya‘qūbī (?-897) [106] e nel Kitāb al-masālik wa al-mamālik (“Libro
delle vie e dei regni”) del geografo persiano al-Istakhri (?-957): «Filastīn», scrisse alIstakhri, «è la più fertile delle provincia siriane […] Nella provincia di Filastīn, a
dispetto della sua ristretta estensione, ci sono circa venti moschee […] Al massimo
della sua lunghezza [Filastīn va] da Rafh [odierna Rafah] fino al confine di Al Lajjûn
(Legio), a un viaggiatore occorrerebbero due giorni per transitarla; e [questo è] il
tempo verosimilmente [necessario] per attraversare la provincia nella sua larghezza
da Yâfâ (Jaffa) a Rîhâ (Jericho) […]» [107]. Contenuti simili sono presenti anche
nel Kitāb Ṣūrat al-’Arḍ (“Il libro della configurazione della Terra”) [108] del
mercante bagdatense Ibn Ḥawqal (X sec.), nella Ahsan at-Taqasim fi Ma’rifat il17
Aqalim (“La migliore divisione per la conoscenza delle regioni”) del geografo
gerosolimitano Al-Muqaddasi [109] e più in generale in ampi settori della letteratura
araba del Basso Medioevo. Esemplare a questo riguardo il genere letterario dei
“Meriti di Gerusalemme” (Faḍā‘il al-Quds), composto a metà dell’XI secolo e
contenente molti materiali riconducibili al VII e all’VIII secolo. Nei Faḍā‘il al-Quds,
ancora una volta, venivano descritte in tono esaltatorio le bellezze di alQuds (Gerusalemme) e delle località più sacre ed importanti del Paese [110].
In virtù di tali considerazioni non stupisce che anche in un’epoca più tarda ci fosse tra
i suoi abitanti una percezione più o meno definita della Palestina. Un’analisi
dettagliata dei testi del muftì Khayr al-Dīn al-Ramlī (1585-1671), influente giurista
islamico nella Palestina ottomana del XVII secolo, nato e morto nella città da cui trae
origine il suo cognome (appunto Ramla), conferma ad esempio che il concetto
di Filastīn, da lui indicata come “bilādunā” (“il nostro paese”) [111], fosse molto più
di un’idea astratta. Si tratta di un sentire comune peraltro confermato anche da
quello che è considerato uno dei più noti classici della storia gerosolimitana del
Medioevo: al-Uns al-Jalil bi-tarikh al-Quds wa’l-Khalil (“La gloriosa storia di
Gerusalemme ed Hebron”). Nelle pagine del manoscritto, composto intorno al 1495,
il suo autore, il qadi di Gerusalemme Mujīr al-Dīn al-‘Ulaymī (1456–1522), fece un
uso sistematico (22 citazioni) del termine “Filastīn” [112], alternato sovente con Al
‘Arḍ al Muqaddasa. L’indicazione “Siria meridionale”, per contro, non fu mai
menzionata.
Ancora una volta non dovrebbe dunque sorprendere che “Arz-i Filistin” (la “Terra di
Palestina”), coincidente all’area posta a occidente del fiume Giordano, fosse la
denominazione che le autorità ottomane usavano nel XIX secolo nella corrispondenza
ufficiale per indicare la Palestina. Essa, la “Arz-i Filistin”, non rappresentava un’area
politicamente autonoma, anche se manteneva, tanto nell’uso popolare quanto in
quello ufficiale, un’accezione peculiare non trascurabile. Non a caso la formula “Arz-i
Filistin ve Suriye” (la “Terra di Palestina e la Siria”) era utilizzata di frequente nella
corrispondenza ufficiale ottomana [113], così come nelle mappe stampate a Istanbul
nel 1729 dal tipografo del sultano Ibrahim Müteferrika (1674–1745) [114]. Non è
dunque una coincidenza, come ha notato Beshara Doumani, che il governo centrale
ottomano «stabilì nel corso dell’Ottocento un’entità amministrativa con confini
praticamente identici a quelli del Mandato di Palestina in tre distinte occasioni: nel
1830, nel 1840 e nel 1872» [115]. Proprio il 1872 è peraltro l’anno in cui il console
Noel Temple Moore scrisse un dispaccio a commento della «recente elevazione della
Palestina in un distinto Eyalet [governatorato]» (una decisione accolta con giubilo
dalla popolazione locale), sottolineando altresì che «molti viaggiatori ed esploratori
britannici visitano il paese a est del Giordano [the country east of the Jordan]» [116].
18
Donne arabe a Ramallah, 1939 (da FRONTIERE)
È nel quadro appena delineato che è forse possibile comprendere per quale ragione
tanto gli ottomani, quanto i missionari protestanti, gli arabi e i primi sionisti, benché
nessuno dei quattro avesse la stessa percezione del perimetro esatto della Palestina,
usassero tale termine (Palestina) per riferirsi a quella specifica area del mondo. Una
riunione della London Jews’s Society (LJS), presieduta da G.H. Rose e avvenuta a
Londra il 4 maggio 1838, auspicò ad esempio «la diffusione delle Sacre Scritture e
della verità del Vangelo in ogni parte della Palestina e dei paesi adiacenti [Palestine
and the adjacent countries]» [117]. Allo stesso tempo il programma del movimento
sionista adottato nel 1897 «parlava (in tedesco) di una casa ‘in Palestina’ per il popolo
ebraico»; senza contare che «la prima istituzione sionista creata nel Paese fu la
‘Anglo-Palestine Company’» [118].
A dispetto di quanto appena sottolineato è opportuno segnalare l’esistenza di diversi
documenti che sembrerebbero provare una tesi opposta. Ad esempio nel 1840,
appena due anni dopo la riunione della LJS pocanzi citata, la Convenzione di Londra
si riferì all’area di Acri indicandola come «la parte meridionale della Siria» [119].
L’Encyclopaedia Britannica pubblicata nel 1911 chiarì che la Palestina «generalmente
denota il terzo meridionale della provincia della Siria» [120]. Di più, gli stessi
ventotto delegati palestinesi che tra il 27 gennaio e il 9 febbraio 1919 parteciparono a
Gerusalemme al primo Mu’tamar al-‘Arabī al-Filastīnī (“Congresso AraboPalestinese”) rilasciarono una dichiarazione definendo la Palestina come parte della
Siria. Suriyya al-Janubiyya (“Siria meridionale”) fu peraltro anche il titolo di un
giornale pubblicato a Gerusalemme a partire dal settembre del 1919 [121].
Gli esempi citati, così come altri ad essi simili, non contraddicono tuttavia quanto
finora sostenuto. Il fatto che in Europa ci si riferisse all’area in oggetto
identificandola, a seconda dei casi, come Palestina o come “Siria meridionale” non ha
infatti un particolare rilievo. Diverso sarebbe invece se gli autoctoni, come nel caso
dei delegati palestinesi citati, si autoidentificassero come individui originari della
“Siria meridionale”. Non era questo il caso. Fatti salvi alcuni isolati episodi
riconducibili a espliciti calcoli politici [122], non c’è alcun documento prodotto dalla
popolazione locale prima del 1918 o dopo il 1920 che ‘annullasse’ la Palestina e tutto
ciò che essa rappresentava in favore del concetto di “Siria meridionale”. Proprio
l’isolato episodio dei delegati palestinesi del 1919 è infatti comprensibile solo se posto
in un peculiare quadro storico durato un biennio. In quel breve spazio temporale la
scelta di ‘accantonare’ la Palestina – esplicitata nella richiesta che essa divenisse
19
parte di una federazione regionale più ampia – non fu altro che
un escamotage [123] pensato dai diretti interessati per liberarsi del giogo di Londra e
per opporsi alle crescenti ambizioni sioniste: «Una Siria unita e indipendente», notò
Herbert Samuel (1870–1963) nell’aprile del 1920, «è considerata come l’unico mezzo
per combattere il Sionismo [as the only means of combating Zionism]» [124]. Si
trattò dunque a tutti gli effetti di una mossa tattica dettata dalle contingenze del
tempo:
«Durante la guerra [Prima guerra mondiale], i nazionalisti arabi
cooperarono con Sharif Hussein e i suoi figli per costituire un regno arabo. I
palestinesi, che erano parte di questa ideologia, pensarono al tempo, in modo
tattico, che sarebbe stato di loro interesse far parte del regno di Faisal nel
Bilad al-Sham. Questa è la ragione per la quale solo in quei due anni [19181920] essi fecero riferimento alla Palestina come Siria Meridionale o regno di
Faisal. Dopo che Faisal venne espulso da Damasco, la conferenza successiva
non fa più riferimento [alla Palestina] come parte della Siria o del regno di
Feisal. Nell’estate del 1920 l’episodio è finito» [125].
Gaza, fine anni 20 (da FRONTIERE)
Anche nell’effimero biennio 1918-1920 la Palestina era dunque qualcosa di più di un
concetto astratto [126]. Ancora una volta essa – benché priva di una connotazione
politica definita – era ben distinta nel sentire della gente comune [127], senza che ciò
implicasse un suo ‘estraniamento’ dal contesto che la circondava. Come
l’Italia, mutatis mutandis, è parte integrante dell’Europa senza per questo perdere le
sue peculiarità, così la Palestina era incastonata nel contesto del Bilād al-Shām ed
era/è parte integrante del mondo arabo senza che ciò la rendesse ‘meno palestinese’.
Una delle più interessanti testimonianze in questo senso è rappresentata
da Jughrafiyyat Suriyya wa Filastīn al-Tabi’iyya (“La geografia naturale della Siria
e della Palestina”), un libro di testo molto usato nelle scuole palestinesi degli anni
Venti. A pubblicarlo fu nel 1923 Sabri Sharīf ‘Abd al-Hādi, un geografo che insegnava
presso una scuola pubblica di Nablus. In esso la Palestina veniva chiaramente distinta
rispetto al resto della “Grande Siria” attraverso una descrizione delle caratteristiche
agricole, demografiche e amministrative che contraddistinguevano la prima dalla
seconda [128]. Proprio negli stessi mesi in cui al-Hādi dava alle stampe il suo volume,
l’educatore palestinese Khalīl Sakānīnī notò in un articolo pubblicato nel 1923 sul
20
giornale cariota al-Siyasa (“la Politica”) che la Palestina era «una nazione che è stata
per molto tempo avvolta in un sonno profondo», prima di essere destata «dalla Prima
guerra mondiale, sconquassata dal movimento sionista e offesa dalla politica illegale
[del governo britannico]» [129].
Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
Note
[1] Alla fine del X secolo, il geografo al-Muqaddasī scrisse quanto segue: «Ho
menzionato loro [i lavoratori di Shiraz] della costruzione in Palestina e ho
discusso con loro di questi argomenti. Il maestro scalpellino mi ha chiesto: sei
egiziano? Ho risposto: No, sono palestinese». Al-Muqaddasī, Ahsan altaqāsīm fī maʿrifat al-aqālīm [La migliore suddivisione per la conoscenza delle
province], Dār al-Kutub al-ʿIlmīya, Beirut 2003: 362.
[2] The National Arcives (da ora, TNA) FO 881/1177. Gawler a Lord
Palmerston, 9 nov. 1849.
[3] E. Warburton, The Crescent and the Cross: I, Wiley, New York 1845: 5.
[4] Palestine Exploration Fund (da ora, PEF)/MINS, 22 giu. 1865.
[5] Samuel Clemens, meglio noto come Mark Twain, si riferì agli abitanti del
luogo in esplicita comparazione con gli standard di moralità e progresso
raggiunti in Inghilterra e in America, mostrando, come notato da Tom Quirk
in una introduzione del libro di Twain, «disprezzo nei riguardi di coloro che
non possono o non vogliono parlare inglese». M. Twain, The Innocents
Abroad, Penguin, New York 2002: xxxii. Lo scrittore del Missouri “solo a
intermittenza sembra riconoscere che è lui, il non nativo, ad essere il
visitatore straniero, ‘l’altro’”. Ivi: xxxi. Twain, tuttavia, voleva dar vita a una
parodia dei pellegrini, protestanti e non, che dall’America giungevano in
Palestina. Attraverso la satira, mirava inoltre a far luce sul fatto che i luoghi
sacri erano sovente da ricollegare a invenzioni o manipolazioni.
[6] Euben ha analizzato il modo in cui i viaggiatori occidentali crearono “il
‘colonizzato-altro’”, notando però l’importanza di valutare anche la
prospettiva opposta. R.L. Euben, Journeys to the other shore, Princeton
University Press, Princeton 2006: 2.
[7] Si veda L. Kamel, Identities and Migrations: a Borderless Middle East’s
Perspective, in “Storicamente”, 11(9), 2015: 1-16.
[8] A.C.L. Crawford, Letters on Egypt, Edom, and the Holy Land, Colburn,
Londra 1847: 251.
[9] C.W.M. van de Velde, Narrative of a Journey through Syria and Palestina in
1851 and 1852, v. I, Blackwood, Londra 1854: 424. Le mappe pubblicate da
van de Velde tra il 1854 e il 1857 furono le migliori tra quelle fino ad allora
prodotte.
21
[10] Lambeth Palace Library (da ora, LPL) – BP – 174 – p.1 – ff. 215-216.
Memorandum di Tait, datato 14 gennaio 1877, redatto a seguito della sua
missione in Siria e Palestina: «Un’altra difficoltà forse ancora più difficile da
affrontare riguarda il basso livello morale dei musulmani [the low standard
of morals among the Moslems]».
[11] J. Parkes, A History of Palestine from 135 A.D. to Modern Times,
Gollancz, Londra 1949: 294.
[12] Palestine Exploration Fund, Londra 1879: 8.
[13] Già nel 1878 Oliphant, il quale fu un punto di riferimento per i primi
movimenti sionisti come Hovevei Zion, propose alle autorità britanniche,
francesi e ottomane di appoggiare un progetto finalizzato all’insediamento di
coloni ebrei nel distretto di Balqa’ (odierna Giordania). Il sultano approvò
inizialmente l’idea, salvo poi tornare sui suoi passi temendo le possibili
ripercussioni di una tale iniziativa. Başbakanlık Osmanli Arşivi (da ora,
BOA) Y.A.RES 5/58, bozza per l’approvazione del progetto, 9 mag. 1880.
[14] L. Oliphant, The Land of Gilead, Appleton, New York 1881: 244-5.
[15] Letteralmente “distretto militare di Palestina”. Tale indicazione fu
comune nell’arabo parlato tra la metà del VII e la metà del XIII secolo. A.S.
al-Khālidī, Ahl al-‘Ilm wa-l-Hukm fi Rif Filastīn [Dotti e governanti nella
Palestina rurale], Jamiyyat Ummal al-Matabi al-Taawuniyah, Amman
1968: 9-10. Scrive Gil: «Nel nono secolo jund Filastīn includeva i distretti
(kuwar, singolare kūra) di Ramla, Gerusalemme (Īliyā), ‘Īmwās, Lidda,
Yavne, Giaffa, Caesarea, Nāblus (Shechem), Samaria (Sebastia), Bet Guvrin
(Bayt Jibrīn; ai tempi dei bizantini, Eleutheropolis), il Mar Morto (Bahr Lūt),
Ascalona e Gaza». M. Gil, A History of Palestine 634-1099, v. I, Cambridge
University Press, New York 1992: 111. Nota Gerber: «È acclarato che una
qualche forma di identità palestinese [We know for a fact that some form of
Palestinian
identity]
esistesse
già
nell’Islam
classico».
H.
Gerber, Remembering and Imagining Palestine, Palgrave, New York 2008: 6.
[16] Proprio i beduini furono nei decenni a seguire i primi a scartare l’idea di
far parte di un’emergente identità palestinese e «alcuni di essi collaborarono
con i sionisti». H. Cohen, Army of Shadows, Univ. of California Press,
Berkeley 2008: 73.
[17] I beduini erano quasi sempre descritti con disprezzo dai funzionari di
Sua Maestà: «I beduini non sono coraggiosi [...] I beduini amano
saccheggiare [...] sono indolenti». Charles Wood (dall’1 gen. al 28 ott. 1869
facente le veci di console a Istanbul) all’ambasciatore britannico a Istanbul
Henry Elliot (1817-1907). Damasco, 26 ott. 1869. TNA FO 195/927.
22
[18] S. Tamari, “Lepers, Lunatics and Saints”, in “Jerusalem Quarterly File”,
n. XX, inverno 2003: 28.
[19] Parkes, A History cit.: 244. Scrive Parkes: «Il termine ‘Arabo’ [...] è
inappropriato per descrivere la componente rurale della popolazione, i
fellaheen. L’intera popolazione parlava l’arabo, solitamente influenzato da
dialetti recanti trace di parole di altra origine, ma di solito erano solo i
beduini a considerarsi arabi». Ibid.
[20] TNA FO 406/40. Ormsby-Gore. Londra, 16 ago. 1918.
[21] B. Borochov, Li-she’elat zion ve-teritoria [Sulla questione di Sion e del
territorio], in Ketavim, v. I, Tel Aviv 1955: 148.
[22] J. Shavit, The new Hebrew nation, Frank Cass, Londra 1987: 123
[23] Alcune ricerche hanno riproposto delle tesi simili a quelle di Borochov.
Degno di nota uno studio condotto alla Hebrew University da Ariella
Oppenheim, Almut Nebel et al. (A. Oppenheim et al., «High-resolution Y
chromosome haplotypes of Israeli and Palestinian Arabs reveal geographic
substructure and substantial overlap with haplotypes of Jews», in “Human
Genetics”, n. 107-6, dic. 2000: 630-41). Anche quest’ultimo, tuttavia, presenta
diversi punti deboli, ben riassunti da Judy Siegel: «Questo studio [Oppenheim
et al.] utilizza un limitato campione [143 arabi musulmani, israeliani e
palestinesi] e un insieme improbabile di test. È sorpredente che i gallesi del
Nord siano stati testati […] La selezione dei gruppi influenza i risultati di un
qualsiasi studio genetico». J. Siegel, Experts find genetic Jewish-Arab link, in
“The Jerusalem Post”, 6 nov. 2001.
[24] Y. Belkind, Ha-‘araviyyim asher beErets-Yiśra’el [Gli arabi nella Terra
d’Israele], Hameir, Tel Aviv 1928: 19.
[25] Ivi: 8.
[26] Molti anni dopo Ben-Zvi fu accusato di essere il mandante dell’omicidio
di Jacob Israel de Haan (1881-1924), giurista olandese che si oppose con
forza ad alcuni aspetti del sionismo. Il suo è considerato il primo omicidio
politico avvenuto all’interno della comunità sionista nella Palestina
mandataria.
[27] Scrive Parkes: «Nel corso del 19° secolo molti studiosi europei visitarono
il Paese [la Palestina] per lunghi periodi […]. Furono questi studiosi [...] i
primi a produrre ricerche indipendenti sui fellaheen e a raccogliere
informazioni attendibili sui loro costumi, la loro religione e origine. A poco a
poco ci si rese conto che rimaneva un sostanziale strato di contadini preisraeliti [remained a sustantial stratum of the pre-Israelite peasantry] [...]».
Parkes, A History cit.: 244.
23
[28] D. Ben-Gurion, Y. Ben Zvi, Erets-Yiśra’el ba-‘avar u-ba-hove [La
Palestina nel passato e nel presente], Ben Zvi Press, Gerusalemme 1980: 196.
L’analisi venne basata in particolare su uno studio dei nomi dei villaggi
palestinesi e su diversi fenomeni folkloristici propri dei contadini locali. Nel
1929 Ben Zvi prese una posizione meno drastica rispetto a quella espressa
undici anni prima: «La grande maggioranza dei fellaḥin non trae le proprie
origini dai conquistatori arabi ma dai fellaḥin ebrei che prima della
conquista dell’Islam formavano il nucleo principale degli abitanti del paese».
Y. Ben Zvi, Uklusianu ba-aretz [La nostra popolazione nel paese], KKL,
Varsavia 1929: 39.
[29] Ben-Gurion e Ben-Zvi si soffermarono ad esempio a descrivere i frutteti,
i giardini e i vigneti che circondavano Gaza, dedicando alcuni passaggi alla
massiccia presenza di alberi di ulivo intorno alle città di Lidda e Ramla, salvo
poi specificare, prendendo spunto da una leggenda locale, che «le olive di
Gaza furono piantate da Alessandro il Grande». Secondo i due autori, «il
presupposto è che dalla conquista araba non sia stato piantato un solo olivo».
Ben-Gurion, Ben Zvi, Erets-Yiśra’el cit.: 151-5 e 210.
[30] Ivi, cit.: 198.
[31] Sull’uso del termine ebraico shemama applicato ai diversi paesaggi si
veda Y. Bargal, Dimuiei nof Erets-Yiśra’el be-ta’amulat ha-keren ha-kayemet
le-Yiśra’el bi-tkufat ha-yishuv [Immagini del paesaggio della Terra di Israele
nella propaganda del Fondo nazionale ebraico durante il periodo
dell’Yishuv], in “Motar”, n.11, 2003/2004: 21-2.
[32] Y. Zerubavel in J. Brauch, A. Lipphardt, A. Nocke (a cura di), Jewish
topographies, Ashgate, Aldershot 2008: 207-8.
[33] Cit. anche in S. Sand, L’invenzione del popolo ebraico, Rizzoli, Milano
2010: 283.
[34] M. Darwish, La terre nous est étroite et autres poèmes, 1966-1999,
Gallimard, Parigi 2000.
[35] «I Fellahin», scrisse nel 1905 il missionario della Church Missionary
Society (attiva in pianta stabile in Palestina a partire dal 1851) C.T. Wilson,
«nutrono un grande amore per il loro luogo natìo». C.T. Wilson, Peasant life
in the Holy Land, Murray, Londra 1906: 85. Ciò contribuisce a spiegare la
ragione per cui molti cognomi palestinesi includono il villaggio di
provenienza: Nābulsī, Ramlī, Rāntissī e via discorrendo.
[36] Il festival di Nabi Musa, che ogni anno raccoglieva migliaia di persone
da tutta la Palestina, era un evento peculiare della culturale palestinese,
nonchè un chiaro esempio di “coesione protonazionale”. Il festival era pensato
per commemorare i traumatici eventi legati alle Crociate. K. al24
Asali, Mawsim al-Nabi Musa fi Filastīn: tārīkh al-mawsim wal-maqam [Il
festival di Nabi Musa in Palestina: la storia del festival e del santuario], Dar
al-Karmil, Amman 1990.
[37] La dabkeh e le altre danze caratteristiche della Palestina tardo ottomana
erano più che semplici celebrazioni. Rappresentavano tra l’altro espressioni
di una “collectivization of trauma”. N. Rowe, Raising Dust. A Cultural History
of Dance in Palestine, I.B. Tauris, Londra 2010: 53. George Ibrahim, direttore
del teatro Al-Kasaba di Ramallah ritiene che la danza e la recitazione siano
anche e soprattutto degli strumenti per esprimere il «malessere collettivo di
una nazione». Int. con l’autore. Ramallah, 13 feb. 2010.
[38] Non è un caso che i centri del nazionalismo arabo furono via via
Damasco, Baghdad e Il Cairo (città di paesi colonizzati) e non Riyad o La
Mecca (città di paesi indipendenti).
[39] A.D. Smith, Ethno-symbolism and Nationalism, Londra 2009: 25 e 72.
[40] M. Benvenisti, Son of the Cypresses, University of California Press,
Berkeley 2007: 233.
[41] Secondo Eriksen: «Affinché l’etnia si manifesti, i gruppi devono avere un
minimo di contatto tra loro e devono percepirsi l’un l’altro come
culturalmente diversi. Se queste condizioni non sono soddisfatte, non c’è
etnia, poiché l’etnia è essenzialmente un aspetto proprio di una relazione, non
una proprietà intrinseca di un gruppo». T.H. Eriksen, Ethnicity and
Nationalism, Pluto Press, Sterling 1993: 12.
[42] S. Della Pergola, 2001. Democraphy in Israel/Palestine, IUSSP XXIV
General
Population
Conference
Paper, http://212.95.240.146/Brazil2001/s60/S64_02_dellapergola.pdf.
Diverse fonti israeliane indicano «tra un quarto e metà milione» la
popolazione totale presente sul posto nel 1880. D. Giladi, M.
Naor, Rothschild. “Avi ha-Yishuv” ve-mifalo be-Eretz Israel [Rothschild, Il
padre dell’Yishuv” e le sue attività nella Terra di Israele, Keter, Gerusalemme
1982: 18].
[43] J. McCarthy, The Population of Palestine, Columbia University Press,
New York 1990: 26. In una sua precedente pubblicazione McCarthy indicò
una cifra più contenuta, nell’ordine di 369 mila unità. Un più recente lavoro
di Grossman ha sostanzialmente confermato i dati, indicando in circa 400
mila anime la popolazione totale (beduini inclusi) presente in Palestina a
metà dell’Ottocento. D. Grossman, Rural Arab Demography and Early Jewish
Settlement in Palestine, Transaction, New Brunswick 2011: 89.
[44] L’Egitto, come la Palestina, conobbe nel corso dei secoli una decrescita
demografica. Si stima che ai tempi dei romani l’Egitto avesse circa otto
25
milioni di abitanti, per poi calare a quattro nel XIV secolo e a tre intorno al
1800. La religione, vissuta in modo sempre più dogmatico a partire dalla fase
post-Crociate, ebbe in questo senso un ruolo peculiare. Secondo Gibb e Bowen
la conquista ottomana rallentò tale decrescita. H.A.R. Gibb, H.
Bowen, Islamic society and the West, Oxford University Press, Oxford 1950:
209.
[45] Il conteggio tiene conto solo dei palestinesi presenti in Israele, nella
Striscia di Gaza e in Cisgiordania. Per la popolazione dell’Egitto
nell’Ottocento cfr. J. McCarthy, “Nineteenth-Century Egyptian Population”,
in “Middle Eastern Studies”, v. XII, n. 3, ott. 1976: 1.
[46] J. Weulersse, Paysans de Syrie et du Proche-Orient, Gallimard, Parigi
1946: 55. Così Weurlesse spiegò l’evoluzione della popolazione rurale: «gli
Ittiti, gli Aramei, gli Assiri, i Popoli del Mare […] non sono scomparsi, hanno
cambiato le loro capitali, a volte hanno modificato lingue e costumi, hanno
esercitato un’influenza del tutto marginale sulla popolazione rurale, già
legata al suolo». Ivi: 56. Ancora nel 1922, il primo censimento britannico
indicò che circa il 65 percento (451,816 persone) degli arabi musulmani
presenti in loco risiedevano in aree rurali. Gli ebrei residenti nelle zone rurali
erano 15,172, mentre sotto la voce “cristiani e altri” furono indicate 25,877
persone. John Hope Simpson Report (da ora JHSR), “Palestine: Report on
immigration, land settlement and development”, v. I, 1930: 24.
[47] Il censimento effettuato nel 1931 dal maggiore Eric Mills per conto del
governo britannico mostrò che tra i musulmani di Palestina solo il 25
percento dei maschi e il 3 percento delle femmine era alfabetizzato. Tra i
cristiani la percentuale saliva al 72 percento per i maschi e al 44 percento per
le femmine. Tra gli ebrei si attestava al 93 percento per i maschi e al 73 per
cento tra le femmine. Government of Palestine, Census of Palestine 1931, v. II,
Gerusalemme 1932: 110.
[48] Prima dell’avvento dell’elettricità le olive erano usate anche come
combustibile liquido per illuminare le lucerne durante la notte. Si stima che
nei soli dodici mesi del 1913 vennero esportati dall’area di Nablus circa
130.000 chilogrammi di olive. J.S. Rajab, Palestinian Costume, Kegan,
Londra 1989: 29-31.
[49] Cfr. J. Hilal, Takwin al-nukhba al-Filastiniyya [La formazione dell’élite
palestinese], Muwatin, Ramallah 2002.
[50] Mentre la condizione dei notabili nel Mediterraneo Orientale era
connessa in qualche modo alla terra, quella della borghesia europea
dipendeva dal commercio e, in seguito, dal comparto industriale.
26
[51] E. Finn, “The fellaheen of Palestine”, in The Committee of the PEF, The
Surveys cit.: 333. Finn sottolineò la mancanza di una “coesione nazionale” tra
i fellaḥin. Aggiunse tuttavia che «da molto tempo nessun clan ha mai
oltrepassato i confini del proprio distretto e nessuno mostra alcuna volontà di
farlo [...]. Solo le maniere forti del governo potranno indurre un Fellah a
lasciare il proprio villaggio natale […]. Non nutrono alcun patriottismo nei
riguardi della Turchia». Ibid.
[52] John Thomas (1805-71) scrisse che «le immediate vicinanze di Nablus
[…] rappresentano uno dei luoghi più belli e fertili di tutta la Palestina». J.
Thomas, Travels in Egypt and Palestine, Lippincott, Filadelfia 1853: 113.
[53] Nelle ultime quattro la componente della popolazione ebraica era
inferione all’1 percento: Gaza (0,4 percento), Betlemme (0,1 percento), San
Giovanni d’Acri (0,7 percento), Tulkarem (0,14 percento).
[54] Cfr. C.F. Volney, Voyage en Égypte et en Syrie, pendant les années 1783,
1784 et 1785, v. I, Bossanges Frères, Parigi 1822: 360.
[55] I beduini presenti in Palestina erano comparativamente meno rispetto a
quelli presenti in Iraq, Siria e Giordania. Nel corso dell’Ottocento i beduini del
Negev passarono da una fase di nomadismo ad una di progressivo
seminomadismo. Secondo Oren Yiftachel l’attaccamento dei beduini alla loro
terra è stato molto più sentito di quanto sovente sostenuto. Avinoam Meir ha
aggiunto che già alla fine del Settecento essi erano impegnati in attività
agricole nel nord del Negev. Cfr. A. Shemu’eli, Hitnahlut ha-Bevim shel
Midbar Yehudah [La sedentarizzazione dei beduini nel deserto di Giudea],
Gome, Tel Aviv 1970: 50. Secondo un rapporto del ministero degli Esteri
statunitense datato primo gennaio 1949 la popolazione complessiva del
Negev era compresa, negli anni subito antecedenti, tra le 60 e le 70 mila
persone. National Archives and Records Administration (NARA), RG 59,
Palestine-Israel 1945-49, LM 163, Roll 18.
[56] A. de Benoist, Identità e comunità, Guida, Napoli 2005: 12.
[57] A. Klotz, C. Lynch, Strategies for Research in Constructivist International
Relations, Sharpe, New York 2007: 65. Per quanto concerne l’identità
nazionale, secondo Eric Hobsbawm (1917-2012) e Ernest Gellner (1925-95) si
tratta di un prodotto della “Western modernity”, reso possibile soprattutto
grazie alle élite. Per Anderson fu l’America (con le sue guerre tra il 1776 e il
1825) a inventare il nazionalismo.
[58] Scrive Uri Ram: «Il concetto stesso di una ‘nazione ebraica’ primordiale
o perenne è stato costruito dalla moderna storiografia sionista a partire dalla
metà del 19° secolo». U. Ram, Israeli Nationalism, Routledge, Londra 2011:
128.
27
[59] “La conquista araba”, scrisse nel 1980 Aryeh L. Avneri, “portò nuovi
coloni che imposero la religione dell’Islam e la lingua araba a tutti gli
abitanti”. A.L. Avneri, The claim of dispossession: Jewish land-settlement and
the Arabs, 1878-1948, Transaction, New Brunswick 1984: 11.
[60] T. Canaan, in “The Journal of the Palestine Oriental Society”, v. VII,
1927: 47. Invece di creare parallelismi tra il presente e il passato descritto
nella Bibbia era dunque possibile spiegare la Bibbia usando ciò che era
rimasto delle tradizioni locali. B.L. Ra’ad, Hidden histories, Pluto, Londra
2010: 213.
[61] D. Gilmour, Dispossessed, Sidgwick, Londra 1980: 20. Un secolo prima il
celebre archeologo C. Clermont-Ganneau (1846–1923) fornì un quadro sulla
stessa falsariga. Cfr. C. Clermont-Ganneau, “The Peasants”, in The
Committee of the PEF, The Surveys of Western Palestine, Londra 1881: 319 e
324.
[62] M. Gil, A History of Palestine 634-1099, Cambridge University Press,
New York 1992.:20. Secondo Gil, il quale per sostenere la sua tesi ha fatto
ampio ricorso a fonti talmudiche considerate poco affidabili da numerosi
storici, la conquista del VII d.C. aprì «una pagina interamente nuova nella
storia della Palestina». Ivi: 1.
[63] «La scrittura cuneiforme è caratterizzata da un inventario di suoni più
vicino all’arabo classico (circa 28 suoni) rispetto a quello rintracciabile
nell’ebraico biblico (circa 22 suoni) [closer to that found in Classical Arabic
(ca. 28 sounds) than to that found in Biblical Hebrew (ca. 22 sounds)]». M.
O’Connor, “Epigraphic Semitic Scripts” in P.T. Daniels, W. Bright (a cura
di), The World’s Writing System, Oxford University Press, Oxford 1996: 92.
L’arabo ha lo stesso «sistema di suoni della lingua cananita, che si riflette nei
28 segni che compongono gli alfabeti di entrambi. Anche l’ugaritico ha gli
stessi suoni, eccetto per il fatto che i 30 segni che compongono il suo alfabeto
includono tre suoni per l’aleph: ā, ū, ē”. B.L. Ra’ad, Hidden histories, Pluto,
Londra 2010:187.
[64] M. Rodinson, Israel and the Arabs, Penguins, Londra 1982: 319-20.
Rodinson, storico marxista francese di origine ebraica (entrambi i genitori
morirono ad Auschwitz), fu in una prima fase critico nei riguardi della
creazione dello Stato d’Israele. In seguito supportò la soluzione “due popoli
per due Stati”.
[65] M. Maresca (a cura di), Tommaso D’Aquino e la Scolastica, Garzanti,
Milano 1943: 120. Edward Said (1935-2003) notò che «lo sviluppo e la
conservazione di ogni cultura esige l’esistenza di un alter ego diverso e in
28
competizione con essa. La costruzione dell’identità [...] implica la costruzione
di opposti e di ‘altri’». E. Said, Orientalism, Vintage, New York 1994: 331-2.
[66] K. Deutsch, Nationalism and its Alternatives, Knopf, New York 1969: 3.
[67] C. Bayly, La nascita del mondo moderno, Einaudi, Torino 2004: 115-6.
[68] Secondo Smith l’aspetto religioso, radicato nella Bibbia ebraica, è
«ancora molto presente, sebbene spesso in forme secolarizzate». A.D.
Smith, Chosen Peoples, Oxford University Press, New York 2008: viii.
[69] D. Archibugi, F. Voltaggio, Filosofi per la pace, Editori Riuniti, Roma
1999: xvi.
[70] Si veda ad esempio L.A. Brand, Palestinians in the Arab World, Columbia
University Press, New York 1988: 10.
[71] R R. Bocco, B. Destremau, J. Hannoyer, Palestine, Palestiniens. Territoire
national, espaces communautaires, CERMOC, Beirut 1997: 24.
[72] Benchè i dominatori ottomani e le potenze europee fossero state, già
prima delle ondate migratorie di ispirazione sionista, due ‘altri’ degni di nota,
essi non erano equiparabili alla “minaccia” sionista. Quest’ultima, a
differenza delle altre due, mirava a introdurre in modo permanente una
popolazione che era peraltro fortemente motivata in virtù di atavici legami
con la terra in oggetto.
[73] In riferimento alla seconda metà dell’Ottocento, Makdisi ha notato che
nella stessa fase storica in cui “gli Stati Uniti erano alle prese con la schiavitù
e l’emancipazione dei neri, e l’Europa con l’emancipazione degli ebrei,
l’Impero ottomano si confrontava con la questione del ruolo dei nonmusulmani all’interno di ciò che era stato a lungo un impero musulmano”. U.
Makdisi, Age of Coexistence, University of California Press, Berkeley 2019: 11.
[74] F. Bovet, Viaggio in Terra Santa, Claudiana, Firenze 1867: 94.
[75] R. Khalidi, Identità palestinese, Bollati, Torino 2003: 50. L’identità
palestinese non nacque come risposta al sionismo. Quest’ultimo servì a
sollecitare l’esigenza di delimitare in modo sempre più netto una serie di
caratteristiche tra il “noi” e gli “altri” in parte già presenti tra la popolazione
locale: a metà dell’Ottocento un abitante di Nablus aveva tradizioni e
caratteristiche identitarie peculiari rispetto a un cittadino di Damasco o
Beirut, ma non per questo sentiva l’esigenza di marcare un “confine netto” da
quelle stesse realtà.
[76] S. Telhami, M. Barnett (a cura di), Identity and Foreign Policy in the
Middle East, Cornell University Press, New York 2002: 19.
[77] J. Peters, From time immemorial, Joseph, Londra 1985: 249.
[78] Il libro di Avneri venne pubblicato in ebraico (1980) e tradotto in inglese
(1984): «I pochi arabi che vivevano in Palestina un secolo fa, all’epoca
29
dell’inizio dell’insediamento ebraico, rappresentavano un minuscolo residuo
di una popolazione volatile in costante mutamento». Avneri, The claim of
dispossession cit.: 11.
[79] H. Melville, Journals, Northwestern University Press, Evanston 1989:
94.
[80] ISA RG 160/2881-P. Moore. Gerusalemme, 30 lug. 1879.
[81] R. Sanders, “The New Republic”, 23 lug. 1984.
[82] Con il passare degli anni il libro venne riconosciuto per essere un
parziale plagio di una precedente opera di Ernst Frankenstein, viziato in piú
da falsificazioni nei dati e nelle citazioni proposte. Finkelstein lo bollò come
«la piú grandiosa frode mai pubblicata a proposito del conflitto araboisraeliano». N. Finkelstein, Image and reality of the Israel-Palestine conflict,
Verso, Londra 1995: 22.
[83] A. Dershowitz, The case for Israel, Wiley, Hoboken 2003: 27.
[84] Si verificarono anche diversi casi di movimenti migratori arabi interni
alla stessa Palestina e miranti a insediarsi in zone a prevalenza ebraica,
ovvero in perimetri che garantivano occasioni di sviluppo piú concreti. Tali
fenomeni furono tuttavia molto successivi, ovvero risalenti alla fase storica
post Prima guerra mondiale: «La popolazione araba mostra un’importante
crescita a partire dal 1920, ed essa ha avuto una certa correlazione con
l’incremento della prosperità [dovuta in buona parte al contributo ebraico] in
Palestina […]. In particolare, gli arabi hanno beneficiato dei servizi sociali
che non potevano essere forniti su vasta scala senza la rendita ottenuta dagli
ebrei». Cfr. cap. 5 della Commissione Peel del 1937.
[85] M.S. Hasan, “Population Movements, 1867-1947”, in Issawi (a cura
di), The Economic cit.: 160.
[86] McCarthy, The Population of Palestine, cit.: 16-7.
[87] Per un’analisi dell’incremento demografico (che coinvolse circa 120mila
individui) registrato in Palestina tra gli anni Cinquanta dell’800 e l’inizio
degli Ottanta cfr. A. Schölch in H. Nashabe (a cura di), Studia Palaestina:
Studies in Honor of Constantine K. Zuray, Institute for Palestine Studies,
Beirut 1988.
[88] Porath puntualizzò che fino agli anni Cinquanta non ci fu alcun
incremento “naturale” tra gli arabi. Ciò iniziò a cambiare «quando furono
introdotte cure mediche moderne e furono istituiti ospedali moderni, sia per
mano delle autorità ottomane che dei missionari cristiani stranieri. Il numero
di nascite è rimasto stabile ma la mortalità infantile è diminuita. Questa è
stata la ragione principale della crescita della popolazione araba. [...]
Nessuno dubita che alcuni lavoratori siano immigrati in Palestina dalla Siria
30
e dalla Transgiordania e che siano rimasti in loco. Ma è necessario
aggiungere che al contempo si verificaro anche flussi migratori in direzione
opposta». Y. Porath, “Mrs. Peters’s Palestine”, in “New York Review of
Books”, 16 gen. 1986. Si veda L. Kamel, Identities and Migrations: a Borderless
Middle East’s Perspective, in “Storicamente”, 11(9), 2015: 1-16.
[89] Vi furono dei piccoli gruppi immigrati da zone esterne alla Palestina.
Tra essi un gruppo di egiziani stabilitisi in Palestina durante gli anni in cui la
regione fu sotto la dominazione di Muhammad Alì. Poco dopo giunsero sul
posto un numero esiguo di immigrati bosniaci, algerini e circassi, i quali si
andarono a insediare soprattutto in Galilea (oggi presenti nei villaggi di
Rehaniya e Kfar Kama) e al ‘confine’ con il Libano. A differenza degli ebrei
che qualche decennio più tardi arrivarono con la Seconda e la Terza aliyah – i
quali attraverso pratiche come l’avodah ivrit (“lavoro ebraico”, ovvero solo i
lavoratori ebrei erano accettati dai nuovi immigrati) optarono per
l’esclusione e quindi la non integrazione con la popolazione araba locale – i
gruppi menzionati si andarono quasi subito a integrare con gli autoctoni.
[90] A. Manna in P. Scham, W. Salem, B. Pogrund (a cura di), Shared
Histories., Left Coast Press, Walnut Creek (Ca) 2005: 34.
[91] Metternich, 2 ago. 1847. Si veda A. Gercen, Briefe aus Italien und
Frankreich: (1848-1849), Hoffmann, Amburgo 1850: 56.
[92] Scrive Lewis: «Il termine [Palestina] sopravvisse brevemente nel primo
impero arabo e poi scomparve». B. Lewis, From Babel to Dragomans,
Phoenix, Londra 2005: 191. Secondo Likhovski: «Prima del 1917, Palestina
[...] era semplicemente un termine geografico». A. Likhovski, Law and
Identity in Mandate Palestine, Univ. Of North Carolina Press, Chapel Hill
2006: 10.
[93] Moshe Dayan Center (da ora, MDC) – “Filastīn”, 2/15 feb. 1913. Due mesi
dopo il medesimo giornale mise in guardia i lettori circa il pericolo che la
Palestina potesse trasformarsi in un paese “interamente ebraico”. MDC –
“Filastīn”, 19 apr. 1913. Editoriali dello stesso tenore sono presenti su grande
parte dei giornali dell’epoca: “Per quanto tempo ancora l’avvoltoio [le
organizzazioni sioniste] mangerà il cuore del nostro paese? Se perdiamo il
nostro paese che viviamo a fare?”. MDC – “al-Karmil”, 27 nov. 1912.
[94] Cit. R. Khalidi, Identità palestinese, Bollati, Torino 2003: 241.
[95] Sebbene la gran parte dei giornali palestinesi riuscissero a stampare
solo poche centinaia di copie ciascuno (“al-Quds” ne stampava tuttavia circa
1500 prima del 1914), la maggior parte di essi erano presenti nei luoghi
pubblici e in alcune biblioteche aperte al pubblico; inoltre non di rado essi
venivano inviati gratuitamente al mukhtar (capovillaggio) di diversi centri
31
abitati. J. Yehoshua, Tarikh al-sihafa al-‘Arabiyyah fi Filastin fi al-‘ahd al‘Uthmani, 1909-1918 [La storia della stampa araba in Palestina durante l’era
Ottomana, 1908-1918], Matba’at al-Ma’arif, Gerusalemme 1974: 17-8 e 44.
[96] Il 1908 fu l’anno della nuova costituzione (la seconda dopo quella del
1876) concessa da Abdul Hamid II (1842-1918). Il nuovo clima portò a una
diminuzione delle restrizioni imposte dalla censura ottomana e la
conseguente proliferazione di nuovi organi d’informazione. Questa breve fase
fu interrotta dall’avvio della Prima guerra mondiale, quando la Porta mise il
bavaglio a tutti gli organi di stampa. Al termine della guerra i giornali locali
cominciarono a riorganizzarsi; già dal 1919/20 iniziò una nuova fase, quella
della censura imposta dal governo di Sua Maestà. Quasi vent’anni dopo (feb.
‘37) le autorità britanniche registrarono in Palestina la presenza di otto
quotidiani annoverabili come “political press”. Quattro (“al Liwa”, “Filastīn”,
“al-Difa’a”, “al-Jamia al-Islamiya”) erano arabi e quattro (“The Palestine
Post”, “Haboker”, “Ha’aretz”, “Davar”) ebraici. In concomitanza con i primi
mesi della Grande rivolta araba del 1936-39, i “giornali arabi vennero sospesi
in 34 occasioni e quelli ebraci in 13”. TNA CO 733/346/10. Rapporto prodotto
dalle autorità britanniche nel 1936.
[97] “al-Karmil” venne fondato nel 1908 nel distretto di Haifa da Najib
Nassar. Rimase in attività fino al 1944. “al-Quds” venne stampato la prima
volta a Gerusalemme nel 1908, per poi essere chiuso nel 1917, in
concomitanza con la caduta dell’Impero ottomano. “al-Munadi” venne
pubblicato nel 1912; rimase in attività fino al 1914. “Filastīn” fu fondato da
Yūsuf (1870-1948) e Issa Daoud El-Issa (1878-1950); risultò il più longevo dei
quattro giornali, rimanendo in stampa dal 1911 al 1948. “al-Dustur” venne
stampato da Khalīl Sakānīnī (1878-1939) tra il 1910 e il 1913, per poi essere
ceduto a Jamīl al-Khālidī. Y. Khūrī, al-Sahafa al-‘Arabyya fi Filastīn [La
stampa araba in Palestina], Institute for Palestine Studies, Beirut 1976.
[98] MDC – Filastīn, 6/9 apr. 1913.
[99] A. Ayalon, Reading Palestine, Univ. of Texas Press, Austin 2004: 64.
[100] Cit. in J. Hilal, I. Pappe, Parlare con il nemico, Bollati Boringhieri,
Torino 2004: 159.
[101] La Palestina prende il suo nome dai pelishtim (filistei), una tribù
annoverata tra i “popoli del mare” che nel XII a.C. si stanziarono nell’area
costiera meridionale della regione (tra le odierne Tel Aviv e Gaza). L’origine
dei filistei è dibattuta. Erodoto usò i termini Palaistinê Syria (“SiriaPalestina”) riferendosi a un’area più ampia rispetto a quanto indicato
nell’ebraico biblico con Pəlésheth. Nel VII libro delle Historìai (“Storie”),
intitolato Polinnia, è scritto: «[...] questa parte della Siria, con tutto il paese,
32
che fino all’Egitto si esistende, chiamasi Palestina [Palaistinê]». G.
Desiderj, Erodoto Alicarnasseo, v. II, n.d., Roma 1789: 153. Per una
trattazione sul riferimento fatto da Erodoto a proposito degli abitanti
circoncisi della “Palaistinê” (pratica diffusa tra le antiche popolazioni semite;
è rintracciabile nell’Antico Egitto la più antica prova riguardante la
circoncisione) cfr. J. Brunschwig, G.E.R. Lloyd (a cura di), Greek Thought,
Harvard University Press, Cambridge (Ma) 2000: 871. Anche Aristotele
(384-322 a.C.), basandosi su informazioni di seconda mano, usò il termine
Palestina. Il fatto che anche in questo caso il termine non indicasse un’area
precisamente delimitata non sminuisce l’importanza della citazione: «Se
esiste in Palestina, come narrano alcuni, un lago [Mar Morto] tale che se
qualcuno ci getta dentro un uomo o un animale legati esso galleggia e non
annega [...]». Aristotele, Metereology, Kessinger, Whitefish 2004: 39.
[102] Un caso esemplare è rappresentato dalle tafsīr (esegesi) coraniche
prodotte da Tabarī (838–923). Tabarī, Jāmi‘ al-bayān ‘an ta’wīl al-Qurān [La
raccolta evidente circa l’interpretazione del Corano], Ed. Sīdqī Jamīl al‘Attār, 15 volumi, Beirut 2001. Per una fonte successiva cfr. Mujīr al-Dīn, alUns al-Jalil bi-tarikh al-Quds wa’l-Khalīl [La gloriosa storia di Gerusalemme
ed Hebron], v. I, al-Haydariyya, Najaf 1968: 65, 66, 71, 94, 101.
[103] A.S. Al-῾Ayyāshī, al riḥla Al-῾Ayyāshīa [Il viaggio di al-῾Ayyāshī], v. 2.,
Dār al-Essouaidī, Abu Dhabi 2006: 189.
[104] L’argomento è affrontato in A. Fahīm Gabr, Al ‘Ard al Muqaddasa [La
Terra Santa], An-Najah Univ., Nablus 1983.
[105] Cit. in J. van Ess, “Abd al-Malik and the Dome of the Rock. An Analysis
of Some Texts” in J. Raby, J. Johns (a cura di), Bayt Al-Maqdis, v. I, Oxford
University Press, Oxford 1992: 89-90. La frase citata riprendeva, come
accade in parti consistenti della teologia islamica, concetti già presenti nella
tradizione ebraica (anche la tradizione greca ebbe un impatto evidente). Nel
corso dei secoli, nei campi dell’astronomia, della logica, della matematica e
della giurisprudenza, l’influenza fu invece all’insegna della reciprocità.
[106] Cfr. Al-Ya‘qūbī, M.J. de Goeje (a cura di), Kitāb al-Buldān [Il libro dei
Paesi], Bibliotheca Geographorum Arabicorum, v. II, Brill, Leida 1892: 330.
Trad. in francese in G. Wiet, Les Pays, Institut Français d’Archéologie
Orientale, Il Cairo 1937.
[107] Cit. in G. LeStrange, Palestine Under the Moslems: A Description of
Syria and the Holy Land from A.D. 650 to 1500, Watt, Londra 1890: 28. Le
traduzioni dell’orientalista inglese Guy Le Strange (1854-1933) relative ai
geografi islamici del Basso Medioevo sono ancora oggi una sorgente
ineguagliabile di informazioni sul tema.
33
[108] Ibn Hawqal, Kitāb Sūrat al-’Arḍ [Il libro della configurazione della
Terra], Brill, Leida 1967, trad. in francese in J.H. Kramers, G. Wiet (a cura
di), Configuration de la terre, 2 v., Maisonneuve, Parigi-Beirut 1964.
[109] Di seguito uno dei tanti passaggi scritti sulla Palestina da AlMuqaddasi (“Il Gerosolimitano”): “Il commercio dalla Palestina include olive,
fichi secchi, uva passa, e il frutto della carruba, anche tessuti mischiati da
cotone e seta”. LeStrange, Palestine Under the Moslems cit.: 18.
[110] al-Maqdisī, O. Livne-Kafri (a cura di), Fada‘il Bayt al-Maqdis wa-alKhalil wa-Fada’il al-Sham [Meriti di Gerusalemme ed Hebron e meriti della
Siria], Aimashreq, Shefa-‘Amr 1995. Per un’analisi della letteratura
dei Faḍā’il al-Quds in rapporto all’emergenza della coscienza della Palestina
come paese a sè cfr. A. Schölch, Palestine in transformation, 1856-1882,
Institute for Palestine Studies, Washington 1992.
[111] al-Ramlī, Al-fatāwā al-Khayriyya li-naf al-bariyya [Risposte legali
consolatorie a beneficio della Creazione], v. II, Dār al-Ma‘rifa, Il Cairo n.d.:
151-60. Scrive Haim Gerber: «Fonti poco utilizzate risalenti al XVII e XVIII
secolo indicano notevoli tracce di consapevolezza legate a una coscienza
territoriale che meriterebbe maggiore attenzione. […] Sebbene sia
pienamente consapevole che alcuni possano obiettare che tali concetti
territoriali si riferiscano semplicemente alla propria casa natìa, al luogo di
nascita, una lettura attenta di [Khayr al-Din] al-Ramli suggerisce che ci fosse
qualche elemento ulteriore, e che di fatto stiamo guardando a qualcosa che
può essere considerato come un embrionale senso di consapevolezza
territoriale, sebbene il riferimento sia a una consapevolezza sociale piuttosto
che politica». Cfr. H. Gerber, “‘Palestine’ and other territorial concepts in the
17th century”, in “International Journal of Middle East Studies”, v. XXX, n. 4,
nov. 1998: 563.
[112] Mujīr al-Dīn, al-Uns al-Jalil bi-tarikh, v. II, cit.: 66-73. In numerosi casi
il termine “Filastīn” fu utilizzato da Mujīr al-Dīn in riferimento al presente,
dunque in relazione alla fase storica in cui egli viveva.
[113] BOA I.HUS 140/43. 12 feb. 1906.
[114] Per la riproduzione della mappa si veda N. Matar, Turks, Moors, and
Englishmen in the Age of Discovery, Columbia University Press, New York
1999: 134.
[115] B. Doumani, “Rediscovering Ottoman Palestine”, in “Journal of
Palestine studies”, v. 21, Washington 1992: 9-10.
[116] ISA RG 160/2881-P. Moore a Elliot. Gerusalemme, 27 lug. 1872.
[117] Bodleian Library (da ora, BOL – CMJ – C. 61).
34
[118] N.J. Mandel, The Arabs and Zionism before World War I, University of
California Press, Berkeley 1976: xx.
[119] L. Hertslet (a cura di), A complete collection of the treaties and
conventions, v. V, Butterworth, Londra 1840: 548.
[120] H. Chisholm (a cura di), in “The Encyclopaedia Britannica”, v. XX,
Cambridge University Press, Cambridge 1911: 600.
[121] C. Schayegh, The Middle East and the Making of the Modern World,
Harvard University Press, Cambridge (Ma) 2017, cap 1.
[122] Per comprendere le ragioni alla base delle frasi del futuro fondatore
dell’OLP Ahmad ash-Shuqayri (1908-1980) e di altri leader arabi, sovente
citati per negare l’esistenza di una peculiare identità palestinese cfr. D.
Pipes, Is Jordan Palestine?, in “Commentary”, ott. 1988. Disponibile online: http://www.danielpipes.org/298/is-jordan-palestine.
[123] Quattro anni prima era diffusa l’‘opzione egiziana’. L’attaccamento alla
Palestina restava centrale: «Quale sarà», domandò nel suo diario Ihsan
Turjman (1893-1917) in data 28 marzo 1915, «il destino della Palestina? Noi
tutti vediamo due opzioni: indipendenza o annessione all’Egitto. Quest’ultima
possibilità è più verosimile dal momento che solo gli inglesi posseggono [il
controllo] del paese, e l’Inghilterra difficilmente darà piena sovranità alla
Palestina, ma è più incline ad annetterla all’Egitto». Cfr. S. Tamari, Year of
the Locust, Univ. of California Press, Berkeley 2011: 91.
[124] TNA 371/5139. Samuel a Curzon. Gerusalemme, 2 apr. 1920.
[125] A. Manna in Scham, Salem, Pogrund (a cura di), Shared Histories cit.:
54.
[126] Che la Palestina fosse una realtà ben presente anche agli occhi dei
panarabisti del tempo trova conferma in un articolo pubblicato nel gennaio
del 1920, con lo pseudonimo “Ibn al-Jazira” (“Figlio dell’Arabia”), sulla prima
pagina di Suriyya al-Janubiyya: Palestina, oh palcoscenico dei Profeti e culla
di grandi uomini; Palestina, oh sorella dei giardini del paradiso; [...]
Palestina, mio paese e paese dei miei progenitori e avi”. Cit. in R.
Khalidi, Palestinian Identity, Columbia University Press, New York 1997: 168.
[127] U.S. Barghūtī, K. Tutah, Tārīkh Filastīn [Una storia della Palestina],
Bayt al-Maqdis, Gerusalemme 1923: 13. Il libro venne originarimente
pubblicato nel 1920. Umar Sālih Barghūtī (1894-1965), convinto
“ottomanista”, era un fine intellettuale educato secondo il sistema scolastico
dell’Alliance Israélite Universelle. Khalīl Tutah (1886-1955) si formò dai
missionari della CMS e alla Columbia University.
35
[128] S. S. al-Hadi, Jughrafiyyat Suriyya wa Filastīn al-Tabi’iyya [“La
geografia naturale della Siria e della Palestina”], al-Ahliyaa, Il Cairo 1923.
Cit. anche in Khalidi, Identità palestinese cit.: 270.
[129] K. Sakānīnī, Filastīn ba’ad al-harb al-kubra [Palestina dopo la Grande
guerra], Bayt al-Maqdis, Gerusalemme 1925: 9. Le opere di Sakānīnī sono
disponibili
alla
Hebrew
University.
Il Khalīl
Sakānīnī Cultural
Center (Ramallah) è stato semidistrutto nel 2002 nel corso di un’invasione
dell’esercito israeliano iniziata a seguito di un attentato terroristico compiuto
il 27 marzo dello stesso anno a Netanya.
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