Enrico Santangelo
PRECISAZIONI SULLA DENOMINAZIONE ANTICA
DI SAN VALENTINO IN ABRUZZO CITERIORE.
CASTRUM PETRAE?
Per quanto siano rari gli studi dedicati alla storia antica di San Valentino in
Abruzzo Citeriore, è opinione comune – diffusa ed amplificata soprattutto sui siti
Internet – che la primigenia denominazione del borgo sia duplice: accanto al nome
prevedibile di “Sanctus Valentinus” sarebbe infatti documentato anche quello di
“Castrum Petrae”; l’odierna promozione del luogo sembra peraltro fare leva
sull’assunzione strategica di questo secondo e più suggestivo riferimento, tanto da
vederlo sempre più utilizzato a vario titolo: una legittimazione che sembra tuttavia
provenire principalmente dal web e dalla sua autorità indiscussa nel veicolare ormai
anche la conoscenza storica. La stessa duplicità di tale denominazione convive
acriticamente, come apprendiamo anche sul sito istituzionale del Comune:
«Castrum Petrae e Sanctus Valentinus sono le denominazioni riportate nel
Chronicon». Facendo evidentemente riferimento al celebre Chronicon Casauriense,
scritto nel 1182 dal monaco Giovanni di Berardo su incarico di Leonate, abate
dell’abbazia di San Clemente a Casauria, in particolare vi si fa risalire la sua
fondazione al 12 luglio 1006 allorché «l’abate Giselberto concesse ai figli di
Lupone, Wido, Sifredo e Senebaldo una porzione di terreno in località Zappino»1.
Wikipedia – ritenuto ormai l’autorevole punto di riferimento a garanzia della
veridicità di quanto passa in rete - se da un lato conferma la data di fondazione
nell’anno 1006, fornisce tuttavia un’indicazione toponomastica sensibilmente
diversa, in quanto vi leggiamo che «fino al 1182 [data della redazione del
Chronicon ndr] era nota come Castrum de Petra», e «successivamente prese il nome
recente a causa del martirio dei fratelli Valentino e Damiano presso un borgo della
località Zappino»2.
Preso atto di questa dinamica culturale, sembra opportuno verificare, sulla
base documentaria, l’attendibilità dei contenuti enunciati, al fine di scongiurare che
un’affermazione perentoria, solo perché ripetuta e moltiplicata acriticamente, finisca
definitivamente per diventare verità acquisita.
1 Il testo integrale: «La storia di San Valentino e le prime notizie sul castello medievale sono legate alla
vicina Abbazia di San Clemente a Casauria e si desumono dal Chronicon Casauriense del XII secolo (1182).
Il cartularium fu scritto dal monaco Giovanni di Berardo, su incarico dell’abate Leonate, e fa risalire la data
di fondazione il 12 luglio 1006, quando l’abate Giselberto concesse ai figli di Lupone, Wido, Sifredo e
Senebaldo una porzione di terreno in località Zappino, citato anche nel Catalogus baronum (1152)». Castrum
Petrae e Sanctus Valentinus sono le denominazioni riportate nel Chronicon (cfr.
https://scoprisanvalentino.com/it/palazzo-farnese).
2 «Fino al 1182 era nota come Castrum de Petra sul Chronicon casauriense dell'abbazia di San Clemente a
Casauria, e successivamente prese il nome recente a causa del martirio dei fratelli Valentino e Damiano
presso
un
borgo
della
località
Zappino»
(cfr.
https://it.wikipedia.org/wiki/San_Valentino_in_Abruzzo_Citeriore).
1
Val la pena soffermarci sui due riferimenti citati, in quanto altri siti ripetono
sostanzialmente senza variazioni queste informazioni. Come accennato, le due
ricognizioni non sono del tutto sovrapponibili, innanzitutto in quanto la prima parla
di “Castrum Petrae” mentre la seconda declina la denominazione in “Castrum de
Petra”, ed inoltre perché divergenti sono le informazioni sulle date.
Un primo problema investe il termine “castrum”, che il latino medievale
utilizza per indicare un borgo fortificato che oggi traduciamo con “castello” (mentre
nel latino classico “castrum” indicava notoriamente l’accampamento romano nelle
campagne militari).
Questo primo aspetto ci consente di introdurre l’unico studio che abbia
affrontato in tempi recenti il duplice problema della denominazione antica di San
Valentino e della sua fondazione, a cui certamente devono aver attinto - seppur in
maniera discordante, e senza mai citarlo – tanto il sito Internet del Comune di San
Valentino quanto la piattaforma Wikipedia: ci riferiamo alla dettagliata ricognizione
sul territorio di San Valentino in epoca alto-medievale condotta da Antonio Alfredo
Varrasso nel 19923. Ma si noterà da subito come lo studioso, pur leggendo
correttamente l’espressione “castellum” presente in tutti i documenti relativi a San
Valentino, nel condurre l’analisi critica delle fonti finisca poi per convertirla
costantemente in “castrum”, parlando diffusamente sia di «Castrum de Petra» sia di
«Castrum Sancti Valentini». Ora, se c’è differenza sostanziale tra Castrum e
Castellum, in quanto il latino “Castellum” è diminutivo di “Castrum” (ad indicare
evidentemente uno scarto dimensionale), si osserverà come si possa concedere che
nella sintesi interpretativa venga usata l’espressione convenzionale e generica di
“castrum”, ma certo questa non possa trasformarsi poi nella puntuale
denominazione storica del toponimo di riferimento, sia perché in tutti i documenti
riportati dal cronista medievale si parla sempre ed unicamente di “castellum” per
entrami i toponimi, sia perché altri aggregati edilizi vi sono contestualmente
menzionati come “castra”. Sembra chiaro pertanto, come prima impressione, che le
sintesi divulgative diffuse sul web risentano di una frettolosa ed incongrua lettura
dello stesso studio critico di riferimento, venendo quasi a subire la maggiore
fascinazione del termine “castrum”. Ma, ribadiamo, né “Petra” né “San Valentino”
erano “castra”, bensì “castella”.
Abbiamo inoltre notato due divergenti narrazioni del rapporto tra “Castrum
Petrae” e “Sanctus Valentinus”: se per il sito del Comune il Chronicon riporterebbe
contestualmente entrambe le appellazioni (quasi che “Castrum Petrae” e “Sanctus
Valentinus” fossero indistintamente i due nomi coevi del luogo), secondo Wikipedia
il nome primigenio di “Castrum de Petra” – perdurante almeno fino al momento
dell’estensione del Chronicon (1182) - si sarebbe solo successivamente a questa
data mutato in “Sanctus Valentinus” per via del rinvenimento delle reliquie dei
3 A.A. VARRASSO, Il territorio di San Valentino nell’alto Medioevo, Chieti 1992. Non citando nessuna
edizione critica precedente, dobbiamo presumere che lo studioso attinga direttamente al testo originale
(costantemente citato con la sigla del Codex Parisinus Latinus 5411: C.P.L. 5411), o perlomeno alla copia
anastatica del 1982. Nelle citazioni che lo studioso fa del Chronicon si riporterà pertanto la sua lettura,
compresi gli avvertimenti di non trascrivere i dittonghi.
2
fratelli Valentino e Damiano presso la località denominata Zappino. In entrambi i
casi, però, il castello di riferimento è sempre lo stesso, ovvero l’abitato oggi
identificato in San Valentino.
Ora, se in prima istanza l’apparente corrispondenza tra “Castrum Petrae” e
“Castrum de Petra” richiede già di essere riscontrata nel Chronicon, in quanto
entrambe le dizioni si configurano come citazioni testuali della fonte, occorre
chiedersi in subordine quale ne fosse il significato letterale. È infatti tendenza
diffusa il tradurre tanto il “Petrae” quanto il “de Petra” con “di pietra”, “fatto con la
pietra”.
A questo primo problema si aggiunge un secondo, e cioè verificare in che
rapporto cronologico stia il castrum “Petrae” (o “de Petra”) con il secondo
appellativo citato, “Sanctus Valentinus”, e quindi se questa seconda denominazione
segua davvero la prima, o se entrambe convivessero nel Chronicon, testo peraltro
che abbraccia vari secoli della vita dell’abbazia benedettina di San Clemente a
Casauria, ovvero dal 866 al 1182.
Il manoscritto originale del Liber instrumentorum seu chronicorum
monasterii Casauriensis (più diffusamente conosciuto come Chronicon
Casauriense)4 è conservato nella Biblioteca Nazionale di Parigi 5, ma disponiamo di
un’edizione in epoca moderna fatta da Ludovico Antonio Muratori nel 1726 6, che
sostanzialmente trascrive in caratteri moderni a stampa la minuscola carolina con
cui il monaco miniaturista Rusticus eseguì materialmente su pergamena l’estensione
del testo - assieme a vari disegni - sotto la curatela di Giovanni di Berardo. Nel
1982 fu realizzata una ristampa anastatica del manoscritto, a cura
dell’Amministrazione provinciale dell’Aquila in occasione del V centenario
dell’introduzione della stampa in Abruzzo (ma significativamente cadendo ad esatti
800 anni dall’opera del monaco Giovanni). È infine di recentissima pubblicazione
(2019) un’edizione critica curata da Alessandro Pratesi e Paolo Cherubini7.
Se però l’approccio diretto del Chronicon, anche in copia anastatica,
risulterebbe assai difficoltoso a chi non fosse avvezzo alla scrittura minuscola
carolina, non disponendo cioè di speciali competenze di paleografia latina, non è
nondimeno difficile trovare in rete e scaricare in pdf la trascrizione dell’edizione del
1726 del Muratori, rendendosi così piuttosto agevole la lettura diretta del latino
medievale. Ma andrà sicuramente scrutinata la nuova edizione critica di Alessandro
Pratesi (recentemente scomparso) e Paolo Cherubini.
4 L’opera, scritta su recto e verso di 272 fogli di pergamena, si compone di una raccolta di atti di acquisto e
di vendita, di privilegi e di donazioni, con l’aggiunta di altri documenti regi e papali, che a vario titolo
investono l’abbazia.
5 Dopo essere passato a Napoli in epoca aragonese, prima di venire in possesso di Carlo VIII di Francia (cfr.
VARRASSO, cit., p. 16 nota 2).
6 All’interno di LUDOVICUS ANTONIUS MURATORIUS, Rerum Italicarum scriptores, Typographia societatis
Palatinae, 1726, Tomo II parte II (Libri I e II, Du-Chesnio e Ughellio; Libri II-V, Dacherio, pp. 775-916).
7 A. PRATESI, P. CHERUBINI (a cura di), Johannes Berardi, Liber instrumentorum seu chronicorum
monasterii Casauriensis, seu Chronicon Casauriense, Roma 2017-2019 (tomi I-IV). Il paleografo Pratesi è
scomparso nel 2012, mentre era ancora in corso la curatela dell’edizione critica del Chronicon, che è stata
pertanto completata da Paolo Cherubini.
3
Il riscontro testuale dei riferimenti messi in campo è pertanto immediato. Ma
prima di darne conto, occorre esprimere un’ulteriore perplessità – ancora per così
dire, “preventiva” – sulla facile ed affrettata traduzione del latino, laddove non solo
l’espressione “Castrum de Petra”, ma addirittura e più lamentabilmente “Castrum
Petrae”, sono state intese in riferimento al materiale – la pietra, appunto – con cui
sarebbe stato costruito il “castrum” di San Valentino. Al che, al di là della
constatazione di un’ovvietà, e cioè che tutti i “castra” (e non solo medievali)
risultano costruiti in petra (almeno nelle zone montane), occorre notare che il latino
(perlomeno quello classico) traduce il complemento di materia con il “de” (più
raramente “e” o “ex”) e l’ablativo, e non con il genitivo. Rispetto a questa
preliminare osservazione risulterebbe se non altro più corretta la dizione “de petra”
rispetto a “petrae” (ma sappiamo quanto spurio e ormai declinante fosse il latino del
XII secolo).
Ma la perplessità maggiore resta ferma al portato “lapalissiano” di tale
denominazione: che senso avrebbe credere che il castello di San Valentino si
chiamasse “de petra” in virtù dell’essere, banalmente, “fatto di pietra”? Cosa lo
distinguerebbe, in tal caso, rispetto alla dovizia di castelli di cui abbonda l’Abruzzo
di quei secoli? Evidentemente questa lettura appare tanto banale ed ingenua, in
considerazione peraltro del fatto che in latino “pietra” (nel significato di “sasso”,
“cantone”) si esprime piuttosto con “lapis-dis” che con “petra-ae”.
Ma veniamo senz’altro ad interrogare il Chronicon, tenendo fermo anche il
riferimento cronologico preciso della fondazione del “castrum” di San Valentino,
ovvero l’anno 1006 così come riferito diffusamente dalle fonti informatiche.
In realtà San Valentino compare già al Libro III del Cartulario, nel capitolo
riferito al primo abate di San Clemente, Romano, quindi attorno all’anno 872 di
fondazione dell’abbazia:
«(…) “Unde sub ipso tempore fecit per / plurima loca plurimas emptiones
villarum, / praedorium, casalium, domorum, terrarum, / vinearum,
camporum, multarumque rerum / mobilium et immobilium. Nam in villa
Fleccine / omnnes res cuiusdam Rimonis, filii quondam / Aderisii ex
genere Alaammandorum8; et / omnes res cuisdam Rosperti filii quondam /
Leonis in villa lucino Tocci tenemento, et / omnes res et substantias
cuiusdam W. Indeperti / filii quondam Luponis in Villa quae nominatur /
Scanglare Castello Sancti Valentini pertinente»9.
Traduzione:
«(…) Per cui [l’abate Romano ndr] nello stesso tempo fece per molti
luoghi molti acquisti di ville, poderi, casali, case, terre, vigne, campi, e di
molti beni mobili e immobili. Così in villa Fleccina tutti i beni di un tal
Rimone, figlio del defunto Aderisio di discendenza alemanna; tutti i beni
di tal Rosperto figlio del defunto Leone nella villa di Lucino nel tenimento
di Tocco, e tutti i beni e le sostanze di W. Indeperto [Windeperto? ndr])
8 Sta per “Alamannorum”.
9 «Liber Tertius, cap. I Abbas Romanus», p. 800 della versione Dacherio, in MURATORI, cit. Nel rimando alle
pagine, ci riferiremo costantemente sì alla foliazione del Chronicon, ma così come indicato nella versione
pubblicata digitalmente (e non in edizione anastatica) del testo di Muratori.
4
figlio del defunto Lupone nella Villa chiamata Scanglare [Scagnano ndr]
di pertinenza del Castello di San Valentino».
È evidente che monaco Giovanni di Berardo, parlando della Villa di
«Scanglare» (l’odierna Scagnano10), si limitava a fare la ricognizione dei luoghi al
tempo dell’abate Romano, ma la precisazione della sua ubicazione («Castello Sancti
Valentini pertinente») è con ogni probabilità riferita al tempo in cui egli scrive,
ovvero al 1182, e non al tempo dell’abate Romano 11. Se in tal senso non possiamo
dire che nell’872 già esistesse il toponimo di San Valentino, riscontriamo un suo
primo rifermento nel Chronicon, e già osserviamo come questo sia chiamato
“castellum” e non “castrum”.
Ancora nel Libro III, al capitolo sull’Investitura Monasterii, relativo cioè
all’elenco di tutti i beni posseduti dall’Imperatore nelle varie Province d’Italia («De
cunctis rebus Augusti in diversis Provinciis Italiae»), torna San Valentino.
L’imperatore è Ludovico, ovvero Luigi II il Giovane, che fu Re d’Italia dall’850 e
Imperatore dei Romani dall’855, morendo nell’875. Peraltro Giovanni di Berardo lo
raffigura nel Chronicon.
«(…) Est profecto quaedam villa vocata Superclo, / in Sancti Valentini
Castello translata, quam / a Tederamo et Palumbo germanis fliis quondam /
Reparati legaliter ad profectum Piscariensis / Ecclesiae triginta solidis
emit»12.
Traduzione:
«(…) Vi è in verità una certa villa chiamata Superclo, trasferita nel Castello
di San Valentino, che [Eribaldo conte del Sacro Palazzo ndr] ha comprato
legittimamente per trenta solidi13 dai fratelli Tederamo e Palumbo figli del
defunto Reparato a favore della Chiesa Piscarense».
10 Oltre alla documentazione antica della contrada di Scagnano, e di Solcano come vedremo in seguito, val
la pena di segnalare la presenza già nell’XI secolo anche di altre contrade del territorio di San Valentino:
innanzitutto Trovigliano, a cui si può collegare il toponimo “Trevelliano” (nel mese di marzo del 1060,
Pagano, Rocco e Todino, figli di Tebaldo, donano le loro proprietà ai fratelli Dodo e Rinaldo, figli di Guinisi,
«in loco qui nominatur Paterno et in Luco et in Piczerico, infra fines, capo monte de Magella, pede fluvio de
Orta, de uno lato fine Orfento et de alio lato rigo Trevelliani», Chronicon, f. 45r; cfr. PRATESI, CHERUBINI,
cit., tomo II, doc. 707, p. 1618); e poi Paduli, riportato tal quale in un atto di vendita, allorché Deodato e
Azza figlia del defunto Aimerado, vendono a Lupone figlio del defunto Adelberto, per tre solidi, un pezzo di
terra («unam petiam de terra») di 12 moggi delle sue proprietà ubicate «in loco ubi dicitur Paduli»
(Chronicon, f. 48r; cfr. VARRASSO, Popoli, p. 241; PRATESI, CHERUBINI, cit., tomo II, doc. 765, p. 1655; gli
autori datano il documento dopo la metà dell’anno 1000, in base all’identificazione dell’alienante).
11 Così anche Antonio Alfredo Varrasso: “Notiamo, allora, che [Giovanni di Berardo ndr] rubrica diversi
atti, dicendo che la tale località, cui si riferiscono, si trova in San Valentino, ben sapendo che, nell’epoca in
cui i documenti erano stati scritti, che si desumeva dalle rispettive note cronologiche degli stessi, il castello
sanvalentinese e dunque il territorio attribuitogli non esistevano ancora (VARRASSO, cit., p. 23).
12 «INVESTITURA MONASTERII / De cunctis rebus Augusti in diversis Provinciis Italiae», p. 807 della
versione Dacherio, in MURATORI, cit.
13 Il solido, moneta coniata nell’Impero Romano, fu utilizzato nell’Impero Romano d’Oriente fino al X
secolo.
5
Anche qui troviamo una villa, Superclo, nella pertinenza di San Valentino, e
sempre si parla di “castellum” e non di “castrum”.
All’875, anno della morte di Luigi II avvenuta il 12 agosto, risale il
Privilegium dato dall’Imperatore, di fondazione e dotazione di San Clemente 14,
dove leggiamo finalmente un passo illuminante rispetto al nostro problema:
«(…) Primo in Thete, Caramanicum, Piccaricum, Paternum, Bononianum,
Mosilolum, Sallum, Roccum, et cetera. Cantalupum, Ranile, Petra Sancti
Valentini cum ipso Castello: Acculae superdi, Manupellum, Turri,
Fullonicae, Fara ambriliae, Insulam, et Castellum ipsius Insulae. In Penne,
et cetera Uliculam, Pesculum, Rocca de Soti, Corvarjam, Petram iniquam, et
cetera. Alandum cum Casalibus suis, Casale Sancti Desiderii»15.
Traduzione:
«(…) Innanzitutto in Chieti, Caramanico, Piccarico, Bolognano, Musellaro,
Salle, Roccum ed altri. Cantalupo, Ranile, la Pietra di San Valentino col
medesimo Castello: Acculi superdi, Manoppello, Turri, Follonica16, Fara
ambrilia [de Ambro? ndr], Isola e il Castello della stessa Isola. In Penne, e
ancora Ulicola [Oricola? ndr], Pescolo [Pescosansonesco? ndr17], Rocca di
Soto, Corvara, Pietranico e altri. Alanno con i suoi Casali, Casale di San
Desiderio»18.
Trattandosi in questo caso di un Privilegio imperiale che elenca i
possedimenti in dotazione all’abbazia, potremmo ritenere che qui la denominazione
dei luoghi indicati rimandi esattamente all’anno di riferimento, ossia all’875. Ma
trattasi sempre della sintesi operata dal cronista sui documenti originali, sicché
permane il dubbio se si tratti esattamente dell’antica denominazione. San Valentino
ha una singolare appellazione:
«Petra Sancti Valentini cum ipso Castello».
Nel riscontrare il ritornare del termine “Castellum”, notiamo come il
Chronicon nomini, nel medesimo Privilegium ed accanto ad altri “castella”, più di
un “castrum”:
14 Muratori precisa che questo Privilegio si aggiunge nell’edizione dell’Ughelli, che viene qui inserito in
quanto spettante all’anno 875 cui datava il precedente («In editione Ugbelliana legitur aliud Diploma
Ludovici II spectans ad bunc annum, illudque hic iterum exbibemus, ne quid lectori deriderandum supersit»).
15 «Ludovici II Imperatoris Augusti Privilegium fundationis, et dotationis Monasterii Sancti Clementis in
Piscaria anno Domini DCCCLXXV», p. 814 della versione Dacherio, in MURATORI, cit.
16 Fullonica è evidentemente un toponimo diverso dalla cittadina toscana Follonica, che peraltro nasce nel
1384 e nel Medioevo si chiamava Fullona.
17 Pesculum è citato solo una seconda volta, post anno 1136, insieme ad altri luoghi che corrispondono
all’intorno di Pescosansonesco: Castellionum (Castiglione), Corvariam (Corvara), Petram iniquam
(Pietranico), «et omnes alias Ecclesias de Terra Sanzonisca» (p. 890 della versione Dacherio, in MURATORI,
cit.).
18 Il nome dei luoghi riconducibili ai toponimi moderni sono tradotti con la denominazione attuale
(Caramanicum = Caramanico, Bononianum = Bolognano, Mosilolum = Musellaro), quelli non identificati (ad
es. Aculae, Uliculam) sono semplicemente italianizzati, mentre quelli ipotizzati sono accompagnati da punto
interrogativo, in vista di ulteriori riscontri.
6
«In Comitatu Aprutino, Castrum guardiae [Guardiagrele ndr], Castellum
Ventulum Monascum, Castrum Sancti Georgii; in Marchia Castrum Lori,
Castrum Caldarole, Castrum Vestiman».
Ma l’aspetto più rilevante è che in questo documento coesistano i nomi
“Petra” e “Sanctus Valentinus”, però in una singolare gerarchia: non castellum
“petrae” né “de petra”, bensì “Petra Sancti Valentini”; cioè non “castello di Pietra”
ma all’inverso “la Pietra di San Valentino”. In merito vale la perplessità iniziale se
il riferimento a San Valentino sia contestualizzabile al tempo del Privilegium, o se
sia una specificazione del cronista per precisare l’ubicazione della singola località.
Cioè, dovremmo isolare “Petra”, ritenendo solo questo termine riferibile all’epoca
del documento ed immaginando che nell’875 non ancora esistesse il castello di San
Valentino. Cosa significherebbe allora “Petra”?
Osserviamo preliminarmente che il documento menziona un’altra situazione
analoga: “Petram iniquam” (che diventerà l’odierna Pietranico). In quest’ottica
“Petra iniqua” è da intendere come “Pietra disagiata, impervia”, o addirittura, come
suggestivamente Domenico Tinozzi ne spiegava l’etimologia, “pietra posta su un
colle”, dove “iniqua” sta per “non equa, non uguale”, ovvero località che non ha un
andamento regolare. Da questo parallelo deduciamo che il termine “Petra” (che dal
latino traduciamo piuttosto “rupe”, “roccia”), lungi da qualsiasi – improbabile –
riferimento al materiale di costruzione, si riferisca piuttosto alla condizione
orografica del terreno, che dobbiamo quindi interpretare come “ammasso pietroso”,
“luogo pietroso”, “roccioso”, fino a diventare una precisa tipologia di aggregato
edilizio.
Il termine generico “Petra”, dovuto alla situazione orografica, acquisisce
inoltre specificazioni a seconda dei casi, in base cioè ad elementi aggiuntivi che lo
qualificano ulteriormente: in proposito possiamo citare – nel Chronicon - oltre alla
“Petra iniqua”, anche “Petra Cervaria” del cui toponimo Giovanni di Berardo
fornisce questa spiegazione: «propter Cervos, qui de proximis Silvis potatum
ibidem venire solebant, dicitur Petra Cervaria»19, ovvero: “a causa dei cervi che
dalle selve circostanti erano soliti venire a bere”, in riferimento al fiume Cigno,
affluente del Pescara (peraltro, data la descrizione minuta dell’area, Petra Cervaria
potrebbe identificarsi – traslitterando “petra” in “ripa” - nell’attuale Ripa Corbaria)
20
.
La giusta interpretazione del termine “Petra” va insieme alla comprensione
della sua ubicazione. È la domanda che pone anche Varrasso: «Per farci un’idea un
po’ più circostanziata della collocazione territoriale di Petra ci è utile il diploma che
l’imperatore Ottone I rilasciò, in Roma, al neo eletto abate casauriense, Adamo, in
anno 967. Il sovrano menziona non pochi possedimenti riconosciuti all’abate e fra
questi cita […] Selcano, Ranile, Petra, Manpopplo, Accole, Supercli, Turri,
Fullonice e altre ancora. Vedete che Petra è posta tra le località di Ranile e
19 p. 792 della versione Dacherio, MURATORI, cit. In quest’ottica possiamo inquadrare altri casi analoghi,
ricordati in altre Chronica: Petra Hermerissi (presso Termoli, Chronica monasterii cassinensis), Petra Rubea
e Petra Vultuira (Chronicon Vulturnense); cui aggiungere ancora Petra Piczula (Catalogus Baronum), Petra
Anserii (Pietranseri) e molti altri.
20 Un caso molto simile è all’origine di Pietra Ligure, anticamente documentata come Castrum et Oppidum
Petrae, il “castello di Pietra”, dove le considerazioni appena fatte in merito alla valenza di “Petra”
giustificano il fatto che sia rimasto il toponimo di Pietra come nome proprio del luogo.
7
Manpopplo, che altri non è che il colle Manpioppo, oggi in territorio di Scafa» 21.
Sulla scorta di questo Preceptum di Ottone I, lo studioso si determina a ritenere – a
ragione – che Petra si trovasse nel territorio oggi corrispondente al Comune di
Scafa.
Meno evidente è tuttavia la conseguente collocazione, in quel territorio, del
“Castellum de Petra” (che, sulla scorta della constatata diffusione del toponimo
“Petra”, è altra cosa della semplice indicazione di “una” Petra). In particolare, lo
studioso non prende in considerazione un secondo Preceptum dell’imperatore
Ottone I di Sassonia, (Praeceptum Secundum Primi Ottonis, De libertate
Monasterii, et ceteris rebus suis), dato il 1° maggio (le calende di maggio) del 969,
nell’ottavo anno del suo regno (iniziato infatti nel 962), nel sobborgo di Bovino in
Puglia22:
«(…) Erat praeterea quidam vir alter, nomine / Lupo, filius quondam
Guidonis, qui habita / convenientia cum Domno Adam Piscariensi / Abbate,
tribuit Monasterio Sancti Clementis / in territorio Teatino, in ipsa plana de
Piscaria, / in pertinentia de Curte de Orsiano / possessiones et praedia,
recepitque inde res Monasterii in / Selcano et Soliano, in Petaczo et /
Zappino, secundum quod chartula exinde / scripta perdocet.
Hac igitur occasione et ex illo tempore Lupolinei, / qui ab eodem Lupone
dicti sunt Lupolinei, / quum de Luponis linea processerunt, / subintraverunt
possessionem Beati Clementis habitam / inter tria flumina, Orta videlicet, ac
Piscaria, / et Lavinum, quae protenditur usque ad / Sanctum Martirum 23 de
plebe, et usque ad rivum / Alegium; infra quam possessionem, videlicet /
circa rivum Cupum invenerunt petram, / in qua postea munitionem
aedtficaverunt, / quae dicitur Castellum de Petra»24.
Traduzione:
«(…) C’era inoltre un altro uomo, di nome Lupone, figlio del defunto Guido,
che avendo convenuto con l’abate Piscarense Adamo, assegnò al Monastero
di San Clemente nel territorio teatino, nella medesima piana di Pescara, i
possedimenti e i poderi di pertinenza della corte di Orsiano, e ha ricevuto da
qui i beni del Monastero in Solcano25 e Soliano, in Petazzo26 e Zappino27,
secondo quanto successivamente prevede la carta scritta.
Pertanto in questa occasione e in quel tempo i Lupolini28, cioè coloro che
sono detti Lupolini dal medesimo Lupone, in quanto provennero dalla linea di
Lupone, subentrarono nel possedimento ricevuto dal Beato Clemente tra tre
21 VARRASSO, cit., p. 34.
22 «Datum Calendas Majas, anno Dominicae / Incarnationis DCCCCLXIX. Imperii vero / Domni Ottonis
Augusti octavo. Actum in / Apulia in suburbio Bivino in Dei nomine / feliciter. Amen».
23 Sta per “Martinum” (Martino). È nota nei documenti la chiesa di San Martino “ad plebem”, nel territorio
di Abbateggio.
24 p. 832 della versione Dacherio, in MURATORI, cit.
25 La frazione di Solcano è tuttora esistente.
26 Non si trovano riscontri attuali della località “Petazzo”, ma mi sembra suggestivo collegare al toponimo il
cognome “Pelaccia”, da considerarsi strettamente legato a di San Valentino, in quanto si riscontra pressoché
unicamente in tale Comune.
27 Il toponimo Zappino, oggi smarrito, ricorre 14 volte nel Catasto Onciario di San Valentino del 1775 (Cfr.
S. DI PRIMIO, Il catasto onciario di San Valentino dell’anno 1775, Majambiente edizioni, Caramanico Terme
2018), ed è tuttora esistente nel Comune di Scafa.
28 Si preferisce qui la traduzione letterale di “lupolinei”, rispetto alla più diffusa “luponidi”.
8
fiumi, ovvero l’Orta, la Pescara e il Lavino, che si protende fino a San
Martino della plebe [San Martino ad plebem ndr], e fino al rio Alegio, e
all’interno di questo possedimento trovarono presso il rio Cupo una pietra,
sulla quale successivamente costruirono una fortificazione, la quale è
chiamata Castello della Pietra».
La conferma della giusta lettura ci viene da una meno nota trascrizione del
Chronicon, redatta a Parigi nel 1723 dal benedettino francese Luc D’Achery 29. Il
secondo volume raccoglie vari chronica di monasteri, tra cui il «Chronicon
Casauriense, sive Piscariensis Coenobii O. S. B. [Ordinis Sancti Benedicti ndr]
auctore Johanne Berardi eiusdem Abbatia Monacho». La circostanza è interessante
in quanto il florilegio di Luc D’Achery precede di 3 anni l’edizione del Muratori, ed
è tanto più attendibile in quanto il volume, che raccoglie le opere custodite nella
Biblioteca di Parigi, è pubblicato nella medesima città francese.
Anche qui troviamo il Praeceptum secundum primi Ottonis de libertate
Monasterii, et ceteris rebus suis, da cui estrapolare alla lettera lo stesso passo visto
in Muratori:
« (…) Hac igitur occasione & ex illo tempore Lupolinei, qui ab eodem
Lupone dicti sunt Lupolinei, quoniam 30 de Luponis linea processerunt,
subintraverunt possessionem B. Clementis habitam inter tria flumina, Orta
videlicet, ac Piscaria, & Lavinum, quae protenditur usque ad Sanctum
Martinum31 de plebe, & usque ad rivum Alegium; infrà quam possessionem,
videlicet / circà rivum Cupum invenerunt petram, in quâ postea munitionem
aedificaverunt, quae dicitur castellum de Petra» 32.
Qui la situazione cambia decisamente, e finalmente si parla esplicitamente di
un “Castellum de Petra”. Non troviamo i riferimenti areali presenti nel Praeceptum
di due anni prima, citato da Varrasso (Ranile, Manpopplo), quindi non siamo a
valle, nel territorio di Scafa; mentre la vicinanza con la chiesa di San Martino “ad
plebem” ci porta più a monte, cioè verso Abbateggio nel cui territorio si situava la
chiesa33.
Ancor più vincolante è la prossimità al “rio Cupo” («circa rivum Cupum», e
dovremmo tradurlo più correttamente “torrente”), nelle vicinanze del quale i
29 L. D’ACHERY, Spicilegium sive Collectio veterum aliquot scriptorum qui in Galliae Bibliothecis delituerant - Olim editum Opera ac studio D. Lucae D’Achery, Presbyteri ac Monaci Ordinis Sancti Benedicti,
Congregationis S. Mauri, Parigi 1723, Tomo II. Per la fortuna critica del Chronicon, con riferimenti ad edizioni e compilazione di estratti, vedi P. CHERUBINI, Il Chronicon Casauriense da Giovanni di Berardo ad
Alessandro Pratesi: vicende e prospettive di un’edizione, sintesi pubblicata sul sito academia.edu della relazione tenuta il 4 maggio 2013 presso l’abbazia di San Clemente in occasione del 150° Anniversario della de nominazione del Comune di Castiglione a Casauria.
30 In Muratori leggevamo “quum”.
31 In Muratori leggevamo “Martirum”.
32 D’ACHERY, cit., p. 944.
33 Per la chiesa di San Martino “ad plebem” si veda G. DI PIERDOMENICO, Abbateggio, L’Aquila 2017 (al
capitolo dedicato, pp. 49-53), con ampia documentazione documentaria e bibliografica, e dettagliata
ricostruzione cronologica.
9
discendenti di Lupone avrebbero rinvenuto la “petra” idonea su cui costruire
l’insediamento. Il toponimo “rivum Cupum”, che evidentemente fa riferimento ad
un piccolo corso d’acqua, non è più presente sul territorio, ma se ne può tentare
l’ubicazione per il perdurare di una “valle Cupa”, segnata sulle mappe topografiche
dell’attuale territorio di Abbateggio, a memoria di un torrente un tempo esistente.
Gabriele Di Pierdomenico, nella sua monografia dedicata ad Abbateggio, ce lo
riferisce a proposito degli scavi di un giacimento paleolitico nella Vale
Giumentina34. Nello stesso stretto ambito territoriale potremmo inoltre collocare
anche il «rivum Alegium», toponimo finora non identificato dalla letteratura critica
ma a ben vedere accostabile al nome “Legio”, costantemente abbinato nei
documenti – e fin dal 125235 - al vicino eremo di San Bartolomeo in riferimento al
torrente che scorre lungo il vallone su cui si affaccia. Oltre all’accesso da
Roccamorice, si raggiuge facilmente il romitorio celestiniano anche da Valle
Giumentina passando proprio per la valle Cupa. In proposito è stimolante quanto
osserva Daniela D’Alimonte: «la voce si lega al top. Lejo riscontrabile tutt’ora ad
Abbateggio. Essa doveva riguardare un tratto del torrente principale che scorre tra i
territori di Roccamorice e Abbateggio»36. Se è giusta la traccia dell’identificazione
del «rivum Alegium» con il vallone del “Legio”, abbiamo un riscontro topografico
immediato, una vera e propria intersecazione tra i due torrenti, e tra le coste
scoscese ai bordi vi è più di una spianata a precipizio dove poteva sorgere un
aggregato edilizio.
Non può sfuggire, infine, che ancora nel Catasto onciario di Abbateggio del
1743 resisteva il toponimo “Castelluccio”37, e ancora la D’Alimonte ci ricorda, in
proposito, la derivazione proprio da “castellum” come diminutivo di “castrum”38.
In ogni caso, l’espressione “Castellum de Petra” conferma qui
l’interpretazione precedentemente data alla valenza di “petra”, col significato di
luogo “pietroso”, sicché sembra convincente tradurlo come “Castello della Pietra”
piuttosto che “di pietra” (o ancor più come “Castello di Petra”), in riferimento ad un
luogo che, con la presenza del castello, acquista il suo “nome proprio” da
“generico” che era (non sembra dunque casuale l’uso della maiuscola nel testo
casauriense), a ribadire la presenza di un toponimo che evidentemente vi preesisteva
34 DI PIERDOMENICO 2017, cit., p. 14: «Il giacimento è costituito da formazioni alluvionali e lacustri molto
estese sedimentatesi nel corso di centinaia di migliaia di anni. Quest’area è stata profondamente intaccata, in
una fase relativamente recente, dal corso di un torrente che oggi non esiste più, e che sulle mappe
topografiche (Foglio 12 del Nuovo Catasto Terreni) viene denominato fosso “Valle Cupa”». Credo che
ancora oggi la località sia nota dialettalmente come “Vallǝ Cùppǝrǝ”.
35 A. BALDUCCI, Regesto delle pergamene e codici del Capitolo metropolitano di Chieti, Casalbordino 1929,
pergamena n. 27.
36 D. D’ALIMONTE, Il territorio di Roccamorice nelle fonti cartografiche, storiche e orali, Pescara 2007, pp.
110-111.
37 DI PIERDOMENICO, cit., p. 30. Cfr. G. DI PIERDOMENICO (a cura di), Il Catasto Onciario di Abbateggio
dell’anno 1743, Sambuceto 2007, p. 94.
38 Per questa interpretazione del toponimo “Castelluccio” di Abbateggio vedi D. D’ALIMONTE, Valenza e
caratteristiche dei toponimi del Catasto Onciario di Abbateggio, in DI PIERDOMENICO 2007, cit., p. 11; per
questa identica osservazione, cfr. ID, Sul nome ‘Abbateggio’ e sulla toponomastica antica del luogo, in DI
PIERDOMENICO 2017, cit., p. 61.
10
– e che, solo successivamente, costruita cioè la struttura fortificata, darà titolo al
Castello («in qua postea munitionem aedificaverunt»).
Siamo dunque di fronte a due “petrae”, una collocata a valle verso l’odierna
Scafa tra le località di Ranile e Manpopplo, un’altra posta più a monte, nei pressi
del torrente Cupo, in territorio di Abbateggio. Ma la differenza sostanziale è che la
prima è solo il toponimo di una località, un terreno (evidentemente “roccioso”), la
seconda è sede di un “castellum”, nella disponibilità dei discendenti di Lupone.
Forse siamo ora in grado di comprendere da chi sia pervenuta la tradizione di
identificare il Castello di San Valentino con “Petra”, secondo una vulgata che
doveva essere radicata in una tradizione quasi leggendaria, evidentemente ben
prima del saggio di Antonio Alfredo Varrasso. Lo storico e giurista teatino
Girolamo Nicolino (Chieti 1604 – ivi 1664), nella sua Historia della Città di Chieti
metropoli delle Provincie d’Abruzzo del 1657 vantava di riferire per primo le
vicende biografiche del martire Valentino, fino al suo martirio avvenuto nella
località di Zappino («la qual Terra, ò Città non mai da alcuno Autore ancor
ricordata»). Sarà lui, a ben vedere, il responsabile della prima associazione tra Petra
e San Valentino, fino a identificare il primo toponimo come la più antica
denominazione del borgo incastellato. Vale la pena di riportare in inciso la parte
finale del suo racconto, che segue il ritrovamento in epoca longobarda delle
sepolture dei martiri Valentino e Damiano a Zappino: «Publicatosi adunque il
miracolo, e facendosi gran concorso al sepolcro di essi Santi, e molti miracoli, si
cominciò nell’istesso luogo ad edificare la Chiesa con alcune casette, che poi crebbe
in popolato Castello, che da principio Pietra, e hoggi si chiama San Valentino, in
honore, e memoria di questo glorioso Santo»39.
39 G. NICOLINO, Historia della Città di Chieti metropoli delle Provincie d’Abruzzo divisa in tre libri,
pubblicata “per gl’Heredi di Honofrio Saulo”, Napoli MDCLVII (1657), Libro II, p. 116. Diamo di seguito
l’intero passo, dal momento in cui il martire Valentino da Terracina e Damiano suo diacono giungono a
Zappino per convertire gli idolatri e dove troveranno la morte: « Giunsero finalmente in una Terra, ò Città
detta Zappina, situata (come si narra nell’istessa historia) tra il fiume Orta, che nasce dalla Maiella sopra
Caramanico, & il fiume Lanino, che con acque sulfuree scaturisce sotto il Castello del Letto di Manoppello, e
con breve corso se n’entra nella Pescara, paese tutto della Diocese di Chieti, la qual Terra, ò Città non mai da
alcuno Autore ancor ricordata, era all’hora habitatione di gente idolatra; quivi in tanto allogiorno per la prima
notte vicino al tempio d’Apolline, e nel medesimo luogo intesero dall’Angelo dovere essere martirizzati,
predicando essi però, e molti convertendo alla fede, corse la fama di loro al Proconsole, ò Preside dell’istessa
Città, chiamato Demetrio, il quale havendo un figliuolo, che stava per morire, mandò per S. Valentino, e
Damiano, i quali mentre andavano, il figliuolo del Preside morì ma finalmente facendo sopra di quello S.
Valentino oratione il risuscitò & esso insieme co’ suo padre, e tutta la famiglia, che furono dell’uno, e
dell’altro tutto fino à 400. si battezzarono, & oltre a questi, ancora di quelli, ché furono presenti al miracolo
fino à 2000. attendendo poi S. valentino à dar principio alla Chiesa, ordinar Chierici, e rovinar i Tempii
degl’Idoli, si concitò contro quei Sacerdoti di maniera, che presolo insieme con Damiano, e condotti à forza
in una selva vicina, ivi l’uno, e l’altro furono decollati alli 16. di Marzo, e lasciati così insepolti, dopo da’
fedeli nell’istessa selva furono seppelliti vicino ad una gran pietra, che vi era, dove giaquero senza honore, &
alla memoria de’ posteri del tutto incogniti fino a’ i tempi de’ Longobardi, i quali havevano in comune una
solo Chiesa in Campagna, dove solevano convenire in Oratione, e a’ i divini officii, e di seppellire i morti.
Ora per voler Divino occorse una volta, che da una di esse ville si portava a sepellire un morto, e quei che lo
portavano sopragiunti per istrada all’improvviso da una grandissima pioggia, con grandine, furno forzati a
fermarsi sotto un’Elce, e crescendo tuttavia la pioggia, presero partito di sepellire il defondo in quel luogo, e
cominciando a cavare, con meraviglia di tutti scopersero una sepoltura, detro la quale dimorava l’inscrittione,
che vi erano i corpi de’ SS. Valentino, e Damiano, e pur tuttavia stando in dubbio della verità, pregavano
Dio, che volesse chiaramente manifestarlo à gloria sua, come fece subbito risuscitando quel morto, rivoltando
11
In questo caso il Nicolino solo apparentemente sembra far coincidere i
toponimi di Pietra e San Valentino, in quanto non fa riferimento ad un Castello de
Petra, ma si limita a ricordare la denominazione del luogo, cioè Pietra (la “Petra”
dei documenti antichi). Ma la sua convinzione che i due nomi indicassero lo stesso
luogo in tempi diversi è smentita dal collocare San Valentino a Zappino, circostanza
che è contraddetta dai documenti stessi, e che Varrasso ha ben precisato. Va anche
osservato che in realtà il Nicolino non fornisca nessun documento a supporto del
suo racconto, che sembra risentire del mito che si era già costruito sulle figure dei
martiri Valentino e Damiano e che sicuramente egli contribuisce a diffondere.
Torniamo alla progressione cronologica del Chronicon: nel frattempo
all’abate Adamo era succeduto un altro abate che governò per 9 anni, dopo il quale
nel 997 subentrerà Giselberto40, che il monaco Giovanni non vorrà ricordare se non
per aver fatto prestiti e permute 41. Queste operazioni – inaugurate nel 997 42 sembrano concentrarsi nell’anno 1000 («Gislebertus interea Piscariensis Abbas /
faciebat praestarias et cambitiones»43).
Un intero capitolo è dedicato agli acquisti (si intenda sconsiderati) di
Giselberto, che il cronista Giovanni di Berardo sintetizza così:
«(…) Item Gislebertus Abbas fecit cambitionem / aliam cum Senebaldo, et
fratribus suis, / filiis Luponis, et per scriptum praestariae 44 concessit / eis
omnem terram, et omnem possessionem / juris Beati Clementis, a plebe
Sancti Martini / usque in flumen Piscariae, et a fluvio, qui dicitur / Orta,
usque in fluvium nomine Lavinum, / et concessitt eis Poium, ut Castellum /
ibidem construerent, cum Bosco de Zappino, / et cum terris quingentorum
modiorum; accepitque / per cambitionem ab eis ejusdem / quantitatis terras in
Pago Pinnensi inter fluvium, / qui dicitur Nora, et fluvium qui vocatur / Tabe,
et in planitie Piscariae, ubi Orfianum / vocatur, et per alia loca et vocabula, /
sicut in chartis inde conscriptis reperitut45 et / legitur. Senebaldus vero, et
Scifredus, et / Wido filii Luponis, construxerunt Castellum / in eadem propria
terra Beati Clementis, et aggregaverunt / in eo villas plures assensu et
voluntate / Abbatis. Sanctus Vatentinus46 nomen / est Castelli, pro eo
videlicet, quia sicut fertur, / in supradicto vocabulo de Zappino fuit / olim
civitacula quaedam, in qua cum duo fratres / Valentinus et Damianus pro
in uno stesso tempo alla gran pioggia, gran serenità. Publicatosi adunque il miracolo, e facendosi gran
concorso al sepolcro di essi Santi, e molti miracoli, si cominciò nell’istesso luogo ad edificare la Chiesa con
alcune casette, che poi crebbe in popolato Castello, che da principio Pietra, e hoggi si chiama San Valentino,
in honore, e memoria di questo glorioso Santo» (pp. 114-116).
40 Durante il suo operato compare un certo Grimoaldo ma di questi non si sa molto, tanto che dopo poco
ritorna ad essere registrato Gelseberto (scrive Giovanni di Berardo: «Porro in Monasterii regimine vel actibus
rursus / Gislebertus Abbas habetur»).
41 «Qui non invenitur in chartulis dierum / suorum fecisse nisi praestaris et cambitiones».
42 «(…) praestaris et cambitiones, / quae incipiunt ab anno Dominicae Incarnationis / nongentesimo
nonagesirno septimo».
43 p. 836 della versione Dacherio, in MURATORI, cit.
44 Per “praestationis” (garanzia)
45 Sta per “reperitur”.
46 Sta per “Valentinus”.
12
Christi nomine / fuissent martyrizati, et post ipsius civitatuluae /
destructuinem47 inventi, et deportati / nec non Ecclesia in eorum honore seu
vocabulo / in ipsius Oppidi loco aedificata, ideo Castelli / nomen est Sanctus
Valentinus. Construxerunt / etiam aliud Castellum circa fluvium / Lavinum,
cujus nomen propter eius Ecelesiam / inibi dedicatam est Sanctus Vitus»48.
Traduzione:
«(…) Pertanto l’abate Giselberto fece un’altra permuta con Senebaldo, e i
suoi fratelli, figli di Lupone, e attraverso uno scritto di garanzia concesse loro
ogni terra, e ogni possesso della giurisdizione del Beato Clemente, dalla plebe
di San Martino fino al fiume della Pescara, e dal fiume che è detto Orta fino
al fiume di nome Lavino, e concesse loro Poio, affinché vi costruissero un
Castello, col Bosco di Zappino, e con terre di cinquecento moggi; e ricevette
in cambio da loro terre della medesima quantità nel “Pago” pennese tra il
fiume che è detto Nora e il fiume che è chiamato “Tabe” [oggi Tavo ndr], e
nella pianura di Pescara, dove si dice Orfiano, e per altri luoghi e nomi, così
come nelle carte lì scritte si ritrova e si legge. Senebaldo in verità, e Sigfrido,
e Wido figli di Lupone, costruirono un Castello nella stessa terra propria del
Beato Clemente, e aggregarono in quello molte ville sotto l’assenso e la
volontà dell’abate. Il nome del Castello è San Valentino, cioè per questo fatto,
poiché così si tramanda, nel sopradetto nome di Zappino vi fu un tempo una
certa cittadella [civitacula ndr], nella quale essendovi stati martirizzati due
fratelli, Valentino e Damiano, per difendere il nome di Cristo, e ritrovati dopo
la distruzione della medesima cittadella, e trasportati, così anche fu edificata
una Chiesa nel loro onore e nome nel luogo dello stesso castello, pertanto il
nome del Castello è San Valentino. Costruirono anche un altro castello nei
presi del fiume Lavino, il cui nome per via della Chiesa ivi a lui dedicata è
San Vito».
Solo apparentemente il finale sembra in linea con la narrazione del Nicolino,
a cui abbiamo fatto riferimento poco prima: a ben vedere dal passo del Chronicon
non risulta nessuna evidenza che il castello e la chiesa (entrambi dedicati al nome
del Santo) fossero costruiti a Zappino, luogo nel quale furono semplicemente
rinvenuti i martiri e dove peraltro già esisteva da tempo imprecisato un misero
borgo («fuit / olim civitacula quaedam»). Inoltre vi si afferma che i corpi furono da
lì trasportati altrove («inventi, et deportati»). Del resto lo stesso cronista ammette
che si tratta di una leggenda tramandata («quia sicut fertur»). Sta il fatto che la
località di Zappino, tuttora presente, sia molto più a valle (oggi nel Comune di
Scafa) e quindi non possa coincidere con l’ubicazione del castello di San Valentino.
47 Sta per “destructionem”.
48 XII. ABBAS GISLEBERTUS /INTRUSUS, p. 837-838 della versione Dacherio, in MURATORI, cit.
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Resta un dubbio sul fatto che i figli di Lupone avessero costruito il castello in
quella circostanza («construxerunt Castellum»), e sembrerebbe che da quel
momento si chiamasse San Valentino («Sanctus Vatentinus nomen est Castelli»): in
realtà avevamo trovato l’espressione “Petra Sancti Valentini” già nel Privilegium
dell’875, per cui i figli di Lupone sembrano ora ingrandire quello che
precedentemente doveva essere un piccolo aggregato (appena una “petra”),
riunendovi ora varie ville («aggregaverunt in eo villas plures»). In proposito
dovremmo intendere l’espressione “construxerunt” nel senso di una ricostruzione o
ampliamento (o anche nel senso di “mettere insieme”, in riferimento
all’aggregazione delle ville?), secondo un uso linguistico rintracciabile ancora nel
primo Cinquecento49. La denominazione era dunque già esistente, e in quella
circostanza il cronista si soffermava a spiegarne l’origine riferendo quanto si
tramandava, e che a questo punto doveva essere già avvenuto nell’875.
Circa la data della cronaca esposta dal monaco Giovanni siamo sull’anno
1000 (non si dice esplicitamente in questo passo, ma il monaco Giovanni lo aveva
premesso all’attività dell’abate Giselberto: «Incarnationis Domini nostri Jesu Christi
/ anno millesimo»). Siamo pertanto prossimi al vantato anno 1006 (il 12 luglio)
ricordato nei siti Internet come data di fondazione del castello di San Valentino. Ed
in effetti il documento della permuta di territori tra Giselberto e Senebaldo – che è
diverso dal racconto sintetico a commento del documento, ad opera del cronista –
riporta esattamente quella data («anno millesimo VI, die XII, mensis iulii»). Ma
analizziamo le carte: l’atto di permuta riporta la dichiarazione congiunta e reciproca
dello scambio dei possedimenti pattuiti: a fronte di vari possedimenti donati a
Giselberto («ad proprietatem de suprascript monasterio possidendum»), è Senebaldo
a dichiarare in prima persona quali terre ricevesse dopo che l’abate gli aveva fatto
dono di altre proprietà («propterea quia dedisti tu Giselbertus abbas de re iuris
proprietatis de tuo monasterio mihi Senebaldo»):
«Et est ipsa res in territorie Teatense vocabulo de Zappini, et est ipsum
pojum integrum castellum edificandum et terra cum ipso pojo per mensuram
modiorum centum»50.
Si parla cioè di un “poggio libero” («pojum integrum») su cui costruire un
castello («castellum edificandum»), ma sebbene la finalizzazione alla costruzione vi
sia ribadita («ut castellum ibidem construerent cum bosco de Zappino»), in realtà
non abbiamo prova che poi il castello vi sia stato costruito, e nemmeno nel
successivo “atto di livello”, nel quale i tre figli di Lupone si dichiarano
concessionari e Giselberto vi figura come concedente51, si ha notizia di tale
realizzazione. Ma se il documento della permuta contiene solo il proposito di
49 Nella corte del cosiddetto “palazzo Farnese” di San Valentino è tuttora presente una lapide in cui si
riferisce che Giacomo della Tolfa fece costruire il castello nel 1507 (“hoc opus costrui fecit”), mentre lo
aveva acquistato da Urgantino Orsini. Evidentemente a quella data lo aveva restaurato ed ampliato.
50 Il documento integrale è trascritto da Varrasso, per cui si riporta il testo letteralmente, compresa la
soppressione dichiarata dei dittonghi (VARRASSO, cit., p. 26 nota 16).
51 Cfr. VARRASSO, p. 29, nota 19.
14
costruire il castello, il commento a latere del cronista Giovanni è più esplicito,
riferendo appunto, come abbiamo visto, che «Senebaldus vero et Scfredus et Wido
fillii Luponis construxerunt castellum in eadem propria terra Beati Clementis et
aggregaverunt in eo villas plures»52.
Ma se Varrasso ritiene le parole del cronista più eloquenti dell’atto stesso
come la prova dell’incastellamento di San Valentino, dunque alla data del 12 luglio
1006 («Come si vede, Giovanni di Berardo è estremamente dettagliato nel racconto
dell’incastellamento di San Valentino, più di quanto lo siano i documenti» 53), in
realtà egli sta ammettendo implicitamente che di fatto i documenti non lo provano,
sicché non possiamo dire innanzitutto quando quell’aggregazione di ville attorno ad
un castello sia accaduto54. Comunque siano andate le cose, resta il fatto che il
presunto “castello di Zappino” – se mai ne sia esistito uno - non poteva coincidere
con quello di San Valentino (per l’evidente distanza fisica), né altresì poteva essere
il “Castellum de Petra”, sia perché la “Petra” di Scafa non diventerà castello (a
differenza dell’omonimo toponimo vicino ad Abbateggio, come abbiamo visto), sia
perché comunque il sito di Zappino – seppure ad esso vicino – non si sovrappone a
quello di “Petra”. E infine, a voler essere pedanti, la costruzione dovette avvenire
«in eadem propria terra Beati Clementis», e non nelle terre appena ricevute in
permuta dall’abate e pertanto alienate dall’abbazia.
Ma la mia convinzione, lo ribadisco, è insomma che il secondo castello,
quello denominato “Castellum de Petra”, non stesse a Zappino né alla “petra” di
Scafa, bensì ad Abbateggio. Abbiamo visto come Lupone già nel 969 (2°
Praeceptum di Ottone I), sebbene ricevesse dall’abate Adamo i terreni di Solcano,
Soliano, Petazzo e Zappino, in realtà non lì Lupone costruiva il Castello della
Pietra, bensì nell’area compresa tra i tre fiumi (Orta, Pescara e Lavino) e che si
protende fino a San Martino ad plebem: dunque si trattava di un altro castello, non
identificabile con San Valentino55, né con la “petra” di Scafa come vorrebbe
Varrasso (ma probabilmente corrispondente al toponimo “il Castelluccio”, s’è detto,
presente in Abbateggio ancora nel XVIII secolo), e nemmeno con la “civitacula” di
Zappino, che era stata edificata in anni molto più antichi.
La proprietà di entrambi i castelli è sempre dei Lupolini, che evidentemente
possedevano sull’esordio del XI scolo anche San Valentino, ma diverse e
discordanti sono le vicende costruttive di ciascuno di essi e le motivazioni che ne
52 Cfr. VARRASSO, cit. p. 31.
53 VARRASSO, cit., pp. 31-32.
54 In proposito, potremmo leggere la descrizione del sito (“pojum”) su cui costruire il castello alla stessa
stregua dell’espressione che usiamo oggi per indicare un terreno edificabile, a prescindere dall’intenzione
concreta di costruire. Va notato infatti che anche il terreno donato da Senebaldo all’abate Giselberto aveva
l’identica dicitura, oltre alla medesima quantità di terreno annesso («Et est infra suprascripta vocabula poium
castellum ad edificandum et terra culta cum ipso poio infra suprascripta vocabula per mensuram modiorum
centum»).
55 Se del resto il Castellum de Petra fosse stato lo stesso di San Valentino, non avrebbero avuto ragione i
figli di Lupone, dopo soli 31 anni, di ricostruirlo (tanto più, visto il carattere di robustezza del sito).
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avevano determinato non solo la costruzione ma le stesse denominazioni: nel primo
caso il “Castellum de Petra” fu così chiamato a causa della “petram” rinvenuta nei
pressi del rio Cupo, nel secondo caso il “Castellum Sancti Valentini” dovette il suo
nome al rinvenimento dei martiri Valentino e Damiano.
Inoltre, il Castellum de Petra continuò ad avere una vicenda indipendente,
attestandosi il toponimo ancora in anni in cui il nome di San Valentino era ben
consolidato: in una bolla del 2 maggio 1059 Papa Nicola II confermava alla Diocesi
Teatina varie “plebes” di Abbateggio ed il “Castellum de Petra”56. Il Chronicon
continua invece a riportare San Valentino negli anni 1028 e 1033, come vedremo.
Insomma, tutto porta a ritenere che i due castelli, realizzati a distanza di 30
anni (e peraltro dalla stessa famiglia), siano due costruzioni distinte, con delle
vicende tra loro indipendenti ed estranee.
Che esistessero due castelli vicini tra loro, e nel possesso dei medesimi
proprietari, non deve peraltro stupire, in un Abruzzo medievale caratterizzato da
questa tipologia di aggregato urbano, oltre al quale non esistono che Ville e Casali
sparsi nella campagna.
Nel periodo immediatamente successivo, ovvero lungo il corso del regno di
Enrico II detto il Santo, Imperatore del Sacro Romano Impero dal 1002 al 1024 57,
non troviamo documenti relativi al Castello di San Valentino se non in una lettera
inviata dai monaci direttamente ad Enrico II 58, senza data, nella quale i monaci –
nel lamentare la drammatica decadenza dell’abbazia e la perdita di molti
possedimenti - ricordano, tra i vari temuti vicini autori dell’espoliazione di molti
loro beni, i soliti figli di Lupone che detenevano una Corte chiamata Zappino estesa
mille moggi («Filii quondam Luponis / tenent Curtem unam quae nominatur /
56 A. BALDUCCI, Regesto delle pergamene della curia arcivescovile di Chieti, vol. I (1006-1400), Chieti 926,
pp. 87-89; vedi anche Bollarium diplomatum et privilegiorum sanctorum romanorum pontificium, vol. I,
tomo I, ristampa del 1857, p. 278. Cfr. VARRASSO, cit., p. 68; cfr. DI PIETRANTONIO 2017, p. 51. Lo stesso
documento è riportato dal Nicolino, ma citando l’anno 1056: il vescovo Nicola II conferma al “coepiscopo”
Attone e ai suoi successori («Igitur statuentes apostolica auctoritate confirmamus tibi et successoribus tui,
nec non Ecclesiae tuae») la città di Chieti e tra gli altri beni: «(…) castellum quoque de Petra (…) et plebem
S. Martini de terra Doni Tresidii» (NICOLINO, cit., p. 122). Vedi anche A. TOMASSETTI, Bullarium
Diplomatum et Privilegiorum Sanctorum Romanorum Pontificum, tomo I, Torino MDCCCLVII (1857),
documento: Simile Privilegium Teatinae Ecclesiae, ovvero Confirmatio bonorum Teatinae Ecclesiae (ex
archiv. Canicorum basilicae Vatic. Exscriptum edidit Ughell. Ital. Sac. Tom. VI, col. 846) p. 655.
57 C’è un’apparente incongruenza storica nella denominazione dei regnanti, da parte del compilatore del
Chronicon, in quanto Enrico II è chiamato Enrico I. In realtà l’appellazione è storicamente corretta, in quanto
il padre di lui, Enrico l’Uccellatore, non regnò mai; ma gli antichi autori tedeschi lo annoverarono
ugualmente, per questo suo figlio, che fu il vero Imperatore, è rubricato come Enrico II pur essendo stato il
primo regnante con tale nome dopo la dinastia degli Ottoni. Gli autori italiani invece non riconobbero mai
Enrico I, per questo Enrico II in Italia è detto I. Ugualmente, come vedremo, il suo successore Corrado II il
Salico sarà chiamato Corrado I, poiché gli italiani a differenza dei commentatori tedeschi non contarono
nemmeno il vero Corrado I.
58 Epistola Monachorum Casauriensium ad Henricum Imperatorem, nel LIBER QUARTUS. XIX. Abbas
Sanctus Guido.
16
Zappini modiorum mille»59). Nient’altro che riguardi San Valentino, anzi pour
cause dimostrando che a Zappino non c’erano castelli.
Morto Enrico II, l’ultimo degli Ottoni, subentra dunque Corrado II il Salico
(ma detto I da Giovanni di Berardo60), sicché il nuovo abate di San Clemente, Wido,
a lui deve rivolgersi per avere riconosciuti i diritti del monastero:
«(…) Post mortem igitur primi Enrici Imperatoris, / de quo supra locuti
sumus, cum Domnus / Wido Piscariensis Abbas audiret, quia alter / positus
esset in loco ipsius, nomine Chuonradus, / iterum sumptis chartis et privilegiis
profectus / est ad eum».
Cioè:
«(…) Pertanto dopo la morte di Enrico Primo Imperatore, del quale abbiamo
parlato precedentemente, l’abate Piscarense Wido avendo udito che si era
insediato un altro di nome Corrado, per le spese, gli atti e i privilegi si rivolse
a lui».
San Valentino torna ad essere citata nel 1028, ancora sotto il possesso dei
figli di Lupone, Senebaldo, Lupone e Uberto:
«(…) Theodinus et / Gerardus, filii Alberici habebant Toccum / cum tota
Valle Caramanica, Senebaldus, Lupus, / et Ubertus, filii Luponis, tenebant
Sanctum / Valentinum, et terram a flumine Lavini / usque ad praedictam
Vallem Caramanicam, / et nolebant inde servire Abbati, neque servitoribus /
Ecclesiae»61;
Traduzione:
«(…) Teodino e Gerardo, figli di Alberico possedevano Tocco con tutta la
Valle di Caramanico, Senebaldo, Lupone e Uberto, figli di Lupone, tenevano
San Valentino e il territorio dal fiume Lavino fino a detta Valle di
Caramanico, e non volevano servire l’abate né i servitori della Chiesa».
Avevamo osservato in precedenza come la politica accomodante di
Giselberto, fatta di compromessi con i feudatari locali con scambi di possedimenti
(di cui sembrava lamentarsi anche il nostro Giovanni di Berardo), consentendo ai
figli di Lupone di costruire il castello nel territorio proprio dell’abbazia («in eadem
propria terra Beati Clementis»), sarà motivo di contrasto nei rapporti successivi. Ne
avremo presto la prova più evidente allorché si trovano coinvolti non solo i
feudatari ma anche i cittadini di San Valentino, i «Valentiniani»; una convivenza
che diventa fino violenta, quando a contrapporsi a costoro è un sant’uomo come
59 P. 842 della versione Dacherio, in MURATORI, cit.
60 Ugualmente a quanto accaduto per Enrico II chiamato Enrico I, il suo successore Corrado II il Salico sarà
chiamato Corrado I, poiché gli italiani a differenza dei commentatori tedeschi non contarono nemmeno il
vero Corrado I.
61 PRAECEPTUM / Chuonradi Imperatoris de libertate et rebus / Monasterii Casauriensis, p. 845 della
versione Dacherio, in MURATORI, cit.
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l’abate Wido, come è significativamente – e suggestivamente - raccontato nel passo
seguente, risalente al 1033, ancora sotto Corrado II:
«(…) Per idem tempus vir Domini Wido Abbas / tam pro sua religione,
quam pro gloriosi imperatoris / Chuonradi timore, florebat pace et /
quiete in Domino, sed ei diabolus invidens / quosdam nefarios suae
crudelitatis ministros, / videlicet habitatores Sancti Valentini contra
eundem / Sanctum Virum armavit, et campum, / qui proprie proprius
Beati Clementis erat, et ad / jus eiusdem Ecclesiae pertinebat, invadere
fecit; / unde saepissime vir summae mansuetudinis / angustiatus
Baronum turmam, et indigenarum / aggregavit, quorum testimonio cum
praefati / nequissimi acqiescere nollent, tandem sententia / prolata judicio
quod ipsi denegabant, / et isti affirmare volebant, pugna terminari /
judicavit, ut qui victus esset campum amitteret, / et de ceteris minus
credulus appareret. / Hanc enim rationem Valentiniani videbantur /
habere, quia Piscaria antiquos cursus nota / erat praeterminisse, et idcirco
affirmabant quicquid / intra eam et castellum continebatur haberi / de
eorum possessione. Venit dies in qua / moltitudo Baronum et plebis
coadunari debebat, / qui omes uno ore affirmabant Abbatem / injuste niti,
et agrum esse de pertinentiis Sancti / Valentini. Quid plura? Beatus vir
Wido, / cuius spes tota erat in Domino, suos jussit insistere / orationi, et
pridie antequam pugna debebat / fieri, solus media nocte egressus de
Monasterio, / comitante eum, qui semper justis / praesto est, Spiritu
Sancto, venit ad fluvium, / et alta voce dixit ad eum: Adiuro te per nomen
/ Domini nostri Jesu Christi, et per virtutem / Beatissimi Clementis
Praesulis et Martyris, / ut sequens me ad priorem cursum revertaris, / et
Campum deseras, quem malignantibus non / tua sponte, sed instinctu
Diaboli delegasti. Et / ostendem62 signum baculo quem manu gestabat, /
quo illum fluere juberet, tandiu secutus est / Sancti Viri vestigia, donec
campum dimitteret / Sancto Clementi, et ad locum antiquum /
reverteretur, per quem cum magno impetu ad / mare tendebat flumen,
quod vocatur Piscaria».
Traduzione:
«(…) Sempre a quel tempo l’abate Wido uomo di Dio, tanto per la sua
religione quanto per timore del glorioso imperatore Corrado, prosperava
nel Signore in pace e in quiete ma il diavolo, invidioso di lui, armò della
sua crudeltà alcuni ministri nefasti, cioè gli abitanti di San Valentino,
contro il medesimo Sant’Uomo, e fece invadere un terreno che era di
proprietà del Beato Clemente e di pertinenza del diritto della medesima
Chiesa; sicché quell’uomo di grande mansuetudine per troppe volte
angustiato chiamò una schiera di baroni e di abitanti del posto a
testimoniare del fatto che quegli iniqui non volessero calmarsi, ed infine
la sentenza emessa in giudizio una sentenza che invece quelli rifiutavano,
e questi volevano invece affermare, stabilì che si terminassero
combattimenti affinché il soccombente abbandonasse il terreno, e
sentenziò anche su altre cose che sembrarono ancor meno credibili.
Infatti gli abitanti di San Valentino [Valentiniani ndr] sembravano
vantare questa ragione, in quanto il fiume Pescara era noto per aver
62 Sta per “ostendens”.
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cambiato gli antichi corsi, e pertanto affermavano che qualunque cosa
fosse contenuta tra di esso e il castello fosse di loro possesso. Venne
dunque il giorno in cui una moltitudine di baroni e di popolo doveva
radunarsi, e tutti ad una sola voce affermavano che l’abate ingiustamente
avesse resistito, e che il terreno fosse di pertinenza di San Valentino. Ma
che altro avvenne? Il beato Wido, la cui speranza era tutta nel Signore,
comandò ai suoi di insistere nella preghiera, e il giorno prima che lo
scontro dovesse aver luogo, uscito da solo a mezzanotte dal Monastero,
accompagnato dallo Spirito Santo che è sempre presente ai giusti, giunse
al fiume e ad alta voce gli disse: “Ti scongiuro nel nome di Nostro
Signore Gesù Cristo e in virtù del Beatissimo Clemente Presule e
Martire, che seguendo me tu possa ritornare al precedente corso, e
abbandonare il terreno che avevi attribuito a quei maligni non di tua
volontà ma su ispirazione del diavolo”. E facendo il segno con un
bastone che brandiva in mano, col quale gli comandava di scorrere, il
fiume che è chiamato Pescara così lungamente seguì le orme del
Sant’Uomo, che alla fine restituì il terreno a San Clemente, e tornò
all’antico luogo, per il quale con grande impeto volgeva al mare».
Insomma, i Valentiniani (oggi Sanvalentinesi) erano decisamente invisi
all’abate del Monastero, e quasi ponendosi fuori dalla religione per la loro empietà.
Ma l’episodio servì a far redimere i loro animi ribelli, tanto che i Sanvalentinesi, nel
vedere che il fiume Pescara aveva riacquistato il suo antico corso si erano
sinceramente pentiti. Nell’esposizione di quanto successe in seguito Giovanni di
Berardo smette i panni del mero cronista per ritrovare la sua più autentica
condizione di religioso, soffermandosi sugli esiti dell’evento miracoloso: infatti –
racconta il monaco – tutti coloro che erano sopraggiunti pronti allo scontro caddero
ai piedi dell’abate e scoppiarono a piangere 63, comprendendo che quanto era
avvenuto non era frutto dell’umana virtù ma del giudizio divino64.
L’abate Wido mosso a pietà accolse le suppliche accorate dei Sanvalentinesi,
ammonendoli di non fare più invasioni nelle terre di San Clemente («illos
ammonens ne / in terris Sancti Clementis aliquam illo tempore / facerent
invasionem») e perdonandoli del loro peccato («Hanc noxam / vobis condonet
Onnipotens Deus, et custodiat / vos, ne cadatis in pejus»).
Manco a dirlo, la circostanza colpì anche i feudatari del castello, Lupone,
Uberto e Wido:
«(…) Illi vero / Domni de Sancto Valentino videlicet Lupus / et Ubertus,
et Wido, filii quondam / Senebaldi, tanto miraculo exterriti de Deo
timentes, / pro reverentia Sancti Widonis Abbatis / venientes, in
praesentia supradicti Ugonis Ducis / ante Abbatem renunciaverunt
Sancto Clementi / omnem possessionem de Zappini et Soliano».
Traduzione:
63 Tutto sembra accadere nello stesso tempo, sebbene il monaco Giovanni introduca l’anno 1035.
64 «cum omnes, de quibus supradiximus, / ad pugnam parati venirent (…) cognoverunt non humanae virtutis,
sed Divini / judicii miraculum esse; omnes in fletum / proruperunt, et ad pedes Abbatis ceciderunt» (p. 849
della versione Dacherio, in MURATORI, cit.).
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«(…) Quei signori di San Valentino, ovvero Lupone, Uberto e Wido,
figli del defunto Senebaldo, atterriti da un così grande miracolo timorosi
di Dio, venendo a riverire il santo abate Wido, in presenza del
comandante Ugo al cospetto dell’abate rinunciarono in favore di San
Clemente ad ogni possedimento di Zappino e Soliano».
La strada è aperta perché progressivamente l’abbazia di San Clemente
riacquisisca i beni appartenenti a San Valentino (infondo a questo era servito,
simbolicamente, il miracolo del fiume). Nel 1074 c’è un’ulteriore donazione - ora a
favore di Trasmondo -, invero sempre improntata ad una sorta di compimento di un
riscatto dovuto, sancita da una Sentenza emessa da Papa Gregorio VII, «promulgata
contra pervasores possesionum Monasterii Sancti Clementis»65:
«(…) Cujus in tempore, anno videlicet Incarnationis / Dominicae
currente millesimo septuagesimo / quarto, Indictione duodecima,
quidam / nobilis et illustris vir, Obertus nomine, quondam / Guidonis
filius, pro remedio salutis animae / suae quicquid sibi pertinebat de
Castello, / qui dicitur Petrace de Sancto Valentino, Beati / Clementis
Monasterio tradidit, et per manus / praedicti Abbatis confirmavit, indeque
literas / confirmationis fieri fecit. Abbas praeterea / Trasmundus ut
sapiens vir, dum plus studeret / in praesentibus quam provideret futuris,
in hoc / facto Castellum, quod foris erat intromittens, / aedificavit in
Insula, et ipsum turre et moenibus / circumdedit, viros et mulieres
habitatores / ipsius Castelli instituit; transitum suum et habitatorum /
ejusdem ante portas ipsius Castelli / communem fecit: hac nacta
occasione, quia / Toccenses infestabant habitatores exterioris /
Castelli»66.
Traduzione:
«(…) Durante il tempo del quale [ovvero di Trasmondo, vescovo e abate
ndr67], correndo l’anno 1074 dall’Incarnazione del Signore, nella
dodicesima Indizione, un uomo nobile ed illustre, di nome Oberto, figlio
del defunto Guido, come rimedio della salvezza della sua anima, cedette
al Monastero del Beato Clemente ogni cosa che gli apparteneva del
Castello, che è chiamato Petrace di San Valentino, e per mano del detto
abate (Trasmondo) confermò e pertanto fece fare i documenti di
conferma. Inoltre l’abate Trasmondo, da uomo sapiente, occupandosi
delle cose presenti piuttosto che provvedere alle future, facendo con
questa azione entrare dentro ciò che era fuori, costruì nell’Isola un
Castello, e lo stesso circondò con una torre e delle mura, vi introdusse
uomini e donne come abitanti del medesimo Castello, rese comune
l’entrata sua e degli abitanti davanti alle porte del medesimo Castello: era
65 SENTENTIA A GREGORIO PAPA VII / Promulgata contra pervasores possessionum / Monasterii
Sancti Clementis.
66 p. 865 della versione Dacherio, in MURATORI, cit.
67 Tasmondo era contemporaneamente abate del monastero del Beato Clemente e vescovo di Valva, per cui
si divideva tra il monastero e la sede del vescovato, San Pelino («Igitur cum Domnus Trasmundus Episcopus
et Abbas esse ordinatus, regebat utramque Ecclesiam, et negotia utriusque separatim agebat, nam aliquando
in Sancto Pelino, aliquando in Monasterio habitabat»).
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nata questa circostanza poiché i Toccani attaccavano gli abitanti
all’esterno del Castello»68.
Il documento del 1074 che è alla base della cronaca di Giovanni, testé
ricordata, ripropone ad evidentiam la differenziazione dei due castelli, di cui è
convinto lo stesso Varrasso69, già a partire dall’intestazione: «De Petra et castello
sancti Valentini».
Oberto vive nel Castello di Petra («Ego modo abitator sum in ipso castello
quod dicitur Petra»), ma dispone di beni pertinenti a Petra e a San Valentino: «Hoc
est omnia quantum mihi pertinet de ipso supradicto castello de supradicta Petra
atque de ipso castello Sancti Valentini, cum suis muris et cum suis pertinentiis,
terris vel vineis, pratis atque silvis»70.
Cioè: «questo è tutto quanto mi appartiene del citato castello della suddetta
Petra e dello stesso castello di San Valentino» ecc. La giustapposizione dei due
coevi castelli è molto significativa e ci conferma tutta la nostra ricostruzione.
L’anno seguente, nel 1075, suo figlio Rainardo farà qualcosa di analogo,
evidentemente anch’egli mosso per ingraziarsi la salvezza dell’anima, cedendo la
quarta parte residua del Castello di San Valentino:
«Praeter haec etjam sequenti anno, qui est ab / Incarnatione Domini
annus millesimus septuagesimus / quintus, Rainardus, supradicti Oberti /
filius, eodem, et simile ordine ac tenore quo / et pater ejus, quartam
partem sibi residuam / de suprascripto Sancti Valentini Castello devoto /
animo Sancto Clementi obtult, et chartulam / confirmationis inde faciens
Domno Trasmundo / Abbati legaliter tribuit»71.
Traduzione:
«Oltre a ciò, anche l’anno seguente, cioè nel 1075 dall’Incarnazione del
Signore, Rainaldo, figlio del citato Oberto, con medesimo ordine e simile
tenore di suo padre, offrì la quarta parte rimasta a sé del ricordato
Castello di San Valentino, con animo devoto, a San Clemente, e pertanto
predisponendo la carta di conferma la concesse legittimamente all’abate
Trasmondo».
Rainaldo non ha possedimenti relativi al Castello di Petra, ma dispone solo di
una parte del Castello di San Valentino (né si comprende esattamente se egli ne
68 Il castello costruito nell’Isola contro i Toccani Trasmondo non si riferisce al Castello di San Valentino,
bensì all’ “Insula Piscariae”, ovvero all’area tra due fiumi nella quale era ubicato il monastero (come è
mostrato anche nell’iconografia scultorea del bassorilievo nella lunetta del portale principale).
69 «L’atto di donazione di Oberto, che costituisce un documento fondamentale per la storia di San Valentino,
ci dice, innanzitutto, che il castrum Petrae ed il castrum Sancti Valentini sono sostanzialmente e fisicamente
due strutture diverse» (VARRASSO, cit., p. 41). Per quanto lo studioso si ostini a parlare di “castra” anziché
dell’evidenza di “castella”, non si comprende cosa intenda esattamente con «sono sostanzialmente e
fisicamente due strutture diverse»: sembra quasi che li immagini contigui.
70 VARRASSO, cit., p. 32-33, nota 23.
71 p. 865 della versione Dacherio, in MURATORI, cit.
21
avesse un quarto, cioè la parte residua mentre il resto sarebbe di Oberto, o se ne
cedesse solo la quarta parte).
Analizzando le due donazioni, quella del 1074 di Oberto e quella del 1075 di
Rainardo, Varrasso non crede che i due siano padre e figlio, bensì li crede cugini,
cioè figli di due fratelli (Oberto figlio di Wido III e Rainardo figlio di Uberto, o
Oberto anch’egli). In realtà il documento del 1075 sembra chiaro nel riferire
Rainardo come figlio di Oberto («Rainardus, supradicti Oberti filius»), e del resto il
cronista ricorda come la donazione di Rainardo fosse ispirata alla stessa intenzione
del padre, cioè per ingraziarsi la salvezza dell’anima («eodem et simile ordine ac
tenore quo et pater eius»). Ma tutto sommato la circostanza è secondaria rispetto al
nostro problema, cioè di comprendere, attraverso le donazioni, quale fosse la
situazione dei due castelli.
Volendo pertanto tirare le somme da quanto finora analizzato, il primo dato
emerso in risposta diretta al problema posto all’inizio, e cioè se esistesse un
“Castrum Petrae”, si articola nei seguenti corollari alla nostra ricognizione:
1. Non è mai nominato nel Chronicon il termine “castrum” (in entrambi i casi),
bensì sempre “Castellum”;
2. Non è mai menzionata l’espressione “Petrae”, bensì “de Petra” (e dove –
abbiamo finalmente compreso – il riferimento non è già al materiale con cui
è costruito il castello, ma alle caratteristiche orografiche del sito).
Sembra evidente che il refuso nasca dall’erronea valutazione del saggio di
Varrasso il quale, pur riportando correttamente i documenti, ha indugiato sul
termine “castrum”, trascurando quello più corretto di “castellum”, e finendo per
inventare (sia pur detto nello scartamento della sintesi critico-analitica)
l’espressione di “castrum Petrae”.
Inoltre ci si chiedeva in che rapporto stessero i due termini con cui
alternativamente si ricorda l’antico nome del borgo, ed ora perlomeno ne abbiamo
appreso le corrette denominazioni: “Castellum de Petra” e “Castellum Sancti
Valentini”: è sembrato evidente che San Valentino abbia acquistato fin dalla sua
fondazione il nome medesimo, legato alla celebrazione del martire Valentino
rinvenuto insieme al diacono Damiano in contrada Zappino, ma da lì trasferito in
altro sito su cui si costruirà castello e chiesa. Il “Castellum de Petra” è altrove ed ha
una diversa vicenda, come descritto nel secondo Praeceptum di Ottone I, e
dobbiamo collocarlo nell’attuale Valle Giumentina, sul poggio che si affaccia nel
punto in cui il torrente Cupo (di cui oggi resta la Valle omonima) si incrociava con
il torrente Alegio (identificabile con il ricorrente toponimo “Legium” a denominare
l’intero vallone su cui affacciano Santo Spirito a Majella e San Bartolomeo, detto
appunto “de Legio”).
Come abbiamo visto, dopo il 1074, allorché il feudatario Oberto ne fa
donazione all’abate Wido, del “Castellum de Petra” si perdono le tracce, destinato
22
evidentemente a soccombere72 anche a causa dell’inadeguatezza del sito. La “Petra”
di Zappino, a dispetto di quanto abbia voluto vedervi il Varrasso, non era altro che
uno dei tanti toponimi denominati “Petrae” in ragione della loro conformazione
orografica, in quanto luoghi rocciosi. Sicché il riferimento al rinvenimento delle
sepolture del martire Valentino non fu che una coincidenza, ma estranea alla
costruzione di un castello (il quale se vi fosse stato, data salubrità del sito, avrebbe
avuto certamente altra e migliore sorte).
Dalle vicende degli ultimi discendenti dei Lupolini, Oberto e il figlio
Rainaldo, si intuiva del resto che il Castello di Petra era una sorta di doppione, o
distaccamento del più importante San Valentino, e non aveva pertanto una sua
indipendenza.
Se in questa selezione dei castelli egemoni su fortilizi minori, assistiamo
pertanto al radicalizzarsi del territorio intorno a San Valentino ed Abbateggio
(sicché Castello di Petra veniva a trovarsi sconvenientemente giusto nel mezzo di
questi due poli, in un contesto assai stretto), nel subentrare del nuovo secolo sarà la
definitiva sistemazione politico-militare normanna - improntata al sistema verticale
di feudi e suffeudi - a sancire la fine delle più piccole compagini di un
incastellamento ormai assestato.
Il successivo destino dei castelli controllati da San Clemente è ora affidato al
controllo gerarchico dei comites sopra i barones: a metà del XII secolo vediamo i
castelli di San Valentino ed Abbateggio essere retti dal conte normanno Boamondo
tramite il barone Riccardo di Trogisio73:
«Isti tenent de predicto Comite Boamundo
Riccardus Trogisii sicut dixit ab eodem Comite Sanctum Valentinum
quod est pheudum trium militum, et Abbatinum quod est pheudum
duorum militum»74.
In conclusione mi preme precisare il senso più sincero di questo contributo,
che vuole restare estraneo a qualsivoglia tono polemico, avvedendomi di quanto un
orgoglio locale, affascinato dal favolistico “Castrum Petrae”, ha affidato a tale
denominazione una parte suggestiva della propria cultura identitaria, e su questa si
sono sviluppate iniziative, attività, percorsi di sviluppo. Senza nulla togliere
all’indubbia fascinazione per quella che deve restare una bellissima leggenda - e in
vista, d’altronde, di nuovi scandagli delle fonti antiche - offro questo mio piccolo
72 Pur guardando altrove, sul rapido tramonto del Castello di Petra concorda anche Varrasso: «A giudicare,
poi, dalle vicende dei secoli successivi, dobbiamo ritenere che il castello sanvalentinese, divenendo egemone
sul territorio circostante, soppiantò per importanza quello di Petra, il quale, sicuramente, all’origine godeva di
un suo, per quanto limitato, territorio di riferimento» (VARRASSO, cit., pp. 41-42).
73 Per il rapporto gerarchico tra feudatari e suffeudatari nell’organizzazione militare normanna vedi E.
CUOZZO, Cavalieri e organizzazione militare nel mezzogiorno normanno, in S. BOESCH GAJANO, M. R.
BERARDI (a cura di), «Civiltà medievale degli Abruzzi», L’Aquila 1990, Vol. I, pp. 151-192.
74 E. JAMISON (a cura di), Catalogus baronum, Roma 1972, pp. 184-85.
23
contributo a futuri, prossimi approfondimenti, affinché si continui ad intendere la
verità storica come la più vera consapevolezza e la più autentica ragione di
un’appartenenza.
Enrico Santangelo
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