Pietro Tripodo tra classicismo e modernità
Giovedì 9 maggio 2024
Giornata di Studi in onore di Petro Tripodo
Palazzo Caetani, via delle Botteghe Oscure, 32 Roma
www.insulaeuropea.eu
L’immagine di copertina è di Enrico Pulsoni
Giovedì 9 maggio, presso la Fondazione Camillo Caetani, si è svolto il Convegno Pietro
Tripodo tra classicismo e modernità.
A distanza di venticinque anni dalla sua morte, questa giornata di studi si è proposta di
riesaminare l’inscindibile legame tra la produzione poetica e quella di traduttore di Pietro
Tripodo, grazie al ritrovamento di nuovi manoscritti autografi del tutto inediti, o
recentemente pubblicati.
Dopo l’introduzione ai lavori di Carlo Pulsoni e la testimonianza dell’artista Enrico Pulsoni,
hanno presentato le loro relazioni Ignazio Visco, Corrado Bologna, Lorenzo Calafiore ed
Eleonora Rimolo.
Nell’ambito dell’incontro sono stati esposti i libri d’artista dedicati a Pietro Tripodo realizzati
da Enrico Pulsoni per i tipi de “Il Bulino” di Sergio Pandolfini.
L’evento è stato trasmesso in streaming sul canale Youtube della Fondazione Camillo
Caetani
https://www.youtube.com/@fondazionecamillocaetani966
I contributi sono disponibili su https://www.insulaeuropea.eu/
Indice
A mo’ di premessa .........................................................................................................................1
Carlo Pulsoni
CALEIDOSCOPICO PIETRO TRIPODO ...........................................................................2
Enrico Pulsoni
Note e ricordi intorno alle prime versioni di Pietro Tripodo. Le sillogi poetiche degli anni
Settanta ............................................................................................................................................4
Ignazio Visco
«Tutta l’opera di Pietro si può tenere comodamente in una mano» ....................................49
Corrado Bologna
Pietro Tripodo e il greco.............................................................................................................57
Lorenzo Calafiore
«Nell’incerta ombra di una lingua che fu»: i “Sepulchra maris” di Pietro Tripodo ..........63
Eleonora Rimolo
A mo’ di premessa
Carlo Pulsoni
Il 4 maggio di venticinque anni fa ci lasciava Pietro Tripodo. Nel corso di questi anni
Tripodo è stato oggetto di ricerca da parte di numerosi studiosi. Limitando la selezione ai
nomi degli autori dei contributi a me noti, e sperando di non averne dimenticato nessuno,
menziono in ordine rigorosamente alfabetico: Alviti, Argurio, Bologna, Canettieri, Cavallini,
Cencetti, Colasanti, Cortellessa, De Angelis, Familiari, Giacomozzi, Manica, Mengaldo
(Elisabetta e Pier Vincenzo), Moretti, Onofri, Rimolo, Scaffai, Serianni, Sica, Tarquini,
Trevi, Verlato e Visco.
Non si può studiare la produzione poetica di Pietro senza tener conto di quella di
traduttore, e viceversa. Questa occasione si rivela pertanto particolarmente propizia per
via del ritrovamento di alcuni suoi manoscritti, del tutto inediti o pubblicati di recente.
Prima di lasciare la parola ai relatori, fornisco qualche minimo dato sulle visualizzazioni dei
libri di Tripodo o degli articoli a lui dedicati, che ho avuto la fortuna di pubblicare nella
rivista online Insula europea. Il libro più letto è la traduzione di Arnaut Daniel. Seguono le
traduzioni di Machado, Vampe del tempo e Sepulchra maris. Passando alla critica,
occupano i primi posti gli articoli di Visco, Serianni e Bologna.
Tengo a precisare che non è mia intenzione stilare una sorta di “Hit Parade”, ma solo
evidenziare come nel loro insieme le pubblicazioni riguardanti Tripodo abbiano
oltrepassato le seimila visualizzazioni in tutto il mondo, contribuendo a far conoscere la
produzione del nostro compianto amico anche fuori dal contesto accademico.
(premessa letta nel convegno Pietro Tripodo tra classicismo e modernità)
1
CALEIDOSCOPICO PIETRO TRIPODO
Enrico Pulsoni
CALEIDOSCOPICO PIETRO TRIPODO è la plaquette che ho realizzato in questa
occasione del venticinquesimo anniversario della morte di Pietro Tripodo, per i tipi de Il
Bulino di Sergio Pandolfini. Il titolo trae spunto dal libriccino COSETTE SCENE DI
MISERABILI PAESAGGI, in cui Pietro era presente con due carmina figurata. Uno dei due
carmen è stato ristampato anastaticamente su un foglio tagliato diagonalmente, in modo
che i quarti possano essere sollevati per scoprire un sottostante ritratto di Pietro. Mi
pareva che trovare una continuità, attraverso la struttura grafica, tra COSETTE e l’attuale
CALEIDOSCOPICO PIETRO TRIPODO fosse il modo migliore maniera di ricordarlo.
2
Qui in sala sono esposte anche queste altre pubblicazioni
1997 COSETTE SCENE DI MISERABILI PAESAGGI, con Bruno Magno, Antonio
Capaccio, Tommaso Cascella, Paolo Laudisa, Achille Perilli, Enrico Pulsoni, con Carmina
figurata di Pietro Tripodo (Edizioni d’Arte Cinquantunosettanta di Enrico Pulsoni).
2007 Nuvole Barbare, immagini da riscrittura in corsivo di testi inediti di Pietro Tripodo, con
una nota di Emanuele Trevi (Edizione Empiria, Roma).
2009 Nel decennale della morte, realizzo una incisione con un testo inedito di Pietro
Tripodo (Il Bulino, Roma).
2018 Pietro Tripodo traduce Antonio Machado, con introduzione di Roberta Alviti con segni
e incisione di Enrico Pulsoni, in occasione del convegno dedicato a Tripodo presso la
Dante Alighieri di Roma (Il Bulino, Roma).
2019 Ristampa del Duale Vampe del tempo, con introduzione di Emanuele Trevi e disegni
di Enrico Pulsoni, in occasione del convegno dedicato a Tripodo presso Palazzo Medici
Riccardi di Firenze (Il Bulino, Roma).
2022 Non so vivere altrove, cartella con disegni di Anna Onesti ed Enrico Pulsoni, in
occasione del convegno dedicato a Tripodo presso la Dante Alighieri di Roma (Il Bulino,
Roma).
(intervento letto nel convegno Pietro Tripodo tra classicismo e modernità)
3
Note e ricordi intorno alle prime versioni di Pietro Tripodo.
Le sillogi poetiche degli anni Settanta
Ignazio Visco
1. Pietro Tripodo negli anni Sessanta e Settanta
Ho già in diverse occasioni ricordato Pietro Tripodo, di cui è nota e celebrata la ricca,
“febbrile”, attività di “poeta e traduttore” negli ultimi due decenni del Novecento. Con
Pietro, compagno di liceo negli anni Sessanta, interlocutore assiduo negli anni Settanta e
poi amico di una vita ahimè breve, ho condiviso per anni interessi e approfondimenti
culturali, pur avendo finito per imboccare strade apparentemente distanti[1]. Non
divergevamo certo, però, nel riconoscere il debito nei confronti della nostra tradizione
classica.
Per quanto mi riguarda, da tempo sostengo che si debba fare ogni sforzo per superare
una volta per tutte la barriera che da noi ancora sembra dividere la cosiddetta cultura
“umanistica”, da quella “tecnico-scientifica” (oltre che per innalzare i nostri livelli di
“conoscenza”). Comunque, se la prima, di cui i “classici” sono fondamento, sempre meno
appare essere valorizzata nell’opinione comune, sulla seconda, le cui radici non sono in
fondo diverse, ancora troppo poco da noi e in Europa si investe, con difficoltà crescenti
anche nell’azione di contrasto dei gravi problemi demografici, ambientali e geopolitici che
oggi così tanto ci affliggono[2].
Si tratta, in effetti, di questioni che già affliggevano e sulle quali si interrogava il giovane
Pietro; per lui come mi scriveva esattamente cinquant’anni fa, “l’evoluzione scientifica, la
tecnica, l’urbanizzazione, l’automatismo, l’industrializzazione, la maggiore velocità di
comunicazione, l’aumento della popolazione” costituivano infatti fenomeni difficilmente
sostenibili, anche sul piano personale. Ne conseguiva quindi, da un lato, una a volte
particolarmente accentuata tendenza a chiudersi verso l’esterno, pur restando, come dice,
il filosofo, “compagnevole animale”, bisognoso di amicizia e affetto, desideroso di riuscire
ad avere una vita normale (per quanto “normale” può essere una vita). Dall’altro,
altrettanto accentuato era a volte il timore di confrontarsi con la realtà, con una natura in
qualche modo bifronte, da maledire non meno che venerare, anche se non per questo egli
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viveva “fuori dal mondo”, come forse, pur vinte molte delle sue ansie più antiche, è
sembrato essere quando, riconosciuto ormai il suo valore anche all’esterno, con la realtà
ha finito per scendere ai patti.
Questo timore, come ho detto o scritto nei miei ricordi, amplificava il “male di vivere” di cui
Pietro a lungo sofferse, in modo particolarmente accentuato per oltre un decennio.
Certamente, come così appropriatamente e così bene hanno osservato Raffaele Manica
ed Emanuele Trevi[3] egli sentiva “sua” La Cognizione del dolore di Gadda. E nel tempo,
la lingua, il lessico, la stessa ironia gaddiane hanno certamente costituito uno specchio nel
quale guardarsi, con cui confrontarsi, anche se da subito lingua, lessico e ironia furono
elementi innati del suo modo di essere e comunicare. Da subito, peraltro, fu il modo di
porsi nei confronti del “male oscuro” di don Gonzalo, in un ambiente, una realtà, che non
gli pareva distante dal suo, ad attrarlo e forse anche in parte spaventarlo, in un “corpo a
corpo” a volte molto duro, il cui esito vedeva con ansia e non poca sofferenza, ma senza
rassegnarsi e quindi affidarsi alla montaliana “divina indifferenza”.
Negli anni Sessanta e Settanta, in cui lesse molto e molto scrisse, fu forse anche questo a
spingerlo a immergersi in entrambe le attività in maniera estrema, in modo non dissimile
nei suoi primi anni da “poeta e traduttore” da quanto poi finì per fare negli ultimi, di
“traduttore poeta”, quelli, per intenderci, dei Canti di scherno e d’amore di Arnaut Daniel,
ma anche della poesia “senza verso” di Vampe nel tempo. Quali allora le sue letture? Con
chi iniziò il suo confronto? Certo, già allora, anche per la provenienza di parte della sua
famiglia, il mondo greco e della Magna Grecia – quello dell’Odissea e dei lirici greci, fino a
Saffo e a Ibico – costituiva per lui, come per la lirica latina, un richiamo non resistibile. E,
dei latini, certamente Orazio, con Catullo e Ovidio, Lucrezio e il Virgilio delle Georgiche.
Ma ampia era in quegli anni la schiera degli autori, di versi e di versioni, moderni e (quasi)
contemporanei, che furono per lui occasione di lettura e rilettura, riflessione e discussione.
In un ordine un po’ sparso, e senza pretese di ricordi esaustivi, la mia memoria va a
Pessoa, Jimenez, Machado, Rubén Darío, Neruda e Asturias; Quasimodo, Montale,
Piccolo e Calogero; Pope, Eliot, Lee Masters e Whitman; Rilke, Rimbaud, Valéry, Frenaud
e Nelly Sachs. E poi ovviamente, nella nostra tradizione ed educazione anche scolastica,
Carducci, Pascoli e D’Annunzio; Foscolo e Leopardi; Dante, gli stilnovisti e i provenzali.
Alcuni sarebbero rimasti a lui sempre presenti, altri in via mediata, molti se ne sarebbero
5
aggiunti negli anni a venire, in un dialogo continuo e familiare, che lo vide da subito
partecipe e attento.
Non cominciò, infatti, come parrebbe guardando alle date delle sue pubblicazioni, a
scrivere e tradurre poesia dagli anni Ottanta in poi. Anzi, nei suoi primi anni di “attività” –
che dal maggio del 1967, come egli stesso ricordava, andò affiancando, per ampia parte
del suo tempo libero, lo studio, spesso a esso sovrapponendosi – molto produsse, sempre
attento a selezionare, rivedere, “rifare” ciò che scriveva. Era certo preoccupato della
qualità della sua produzione, ed era già sempre straordinariamente alla ricerca della
parola più giusta, nonché istintivamente già in grado di tirar fuori toni musicali elevati e
ritmi particolari in tutto ciò che componeva.
Al tempo stesso Pietro Tripodo era ben consapevole delle sue capacità; non scriveva solo,
come molti come lui sensibili ma assai meno dotati, per sé stesso. Da un lato, infatti,
osserverà venti e più anni più tardi riguardo allo scrivere poesia: “essa soltanto può essere
più forte del dolore, e nonostante tutto, pur sempre – questa è la sua colpa – rasserenare”
[4], non risolvendo ma solo aiutando ad accantonare temporaneamente angoscia e paure.
Si rendeva quindi necessario andare all’origine della sofferenza, in un consapevole
ancorché laborioso e a volte doloroso esercizio di “cognizione del dolore”.
Dall’altro lato, però, scrivendo si ambisce a comunicare, trasferire ad altri la propria “arte”,
a interlocutori che saranno, ciascuno a modo suo, in grado di apprezzare. Al riguardo, già
allora, quindi, Pietro ambiva a essere “pubblicato” ma, come ho in altra sede ricordato,
temendo di non riuscirci. Queste – agosto 1972 – le sue parole: “Non ci sarà mai “nessun
‘potente’ – né critico, né editore – che abbia voglia di pubblicare tutte le mie cose …
Purtroppo la ‘realtà’ è quella che è e io non voglio essere in alcun modo ‘travolto’ (pensa a
un Lorenzo Calogero – si parva licet)”.
Eppure, sia pure a un lettore come me ben disposto ma non per questo disattento o poco
consapevole, già nelle sue produzioni di allora, tra il 1967 e il 1980, non solo la visione era
alta, ma la qualità, la capacità di toccare il cuore e la mente, l’anima, di un interlocutore
potevano raggiungere livelli inattesi. Come ho detto, io ero e sono però un interlocutore di
parte; come tale credo che si debba operare per avere una visione complessiva dei
risultati raggiunti da Pietro Tripodo, nelle sue composizioni come nelle sue traduzioni di
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poesia, anche più di quanto critici sapienti e amici devoti siano riusciti a fare finora, a
opera quindi di studiosi dedicati e di editori generosi e lungimiranti.
Non mi assumerò perciò, in questa sede, il compito di affrontare un complesso percorso di
analisi critica, poiché non ne sarei in grado. Cercherò invece di illustrare, sulla base delle
raccolte che ebbi la ventura di ricevere da Pietro negli anni Settanta, per conservarle (e
forse anche un giorno per diffonderle), l’ampiezza e la varietà del suo lavoro “classico” e
sui “classici”, con una luce “moderna” di intensità fuori, a volte, dall’ordinario.
Va inteso che, anche se quelle raccolte già furono il risultato di una profonda attività di
selezione e revisione, certo il Tripodo degli anni Novanta, se ben disposto e gentilmente
sospinto, avrebbe saputo, operando soprattutto per sottrazione, portarle ai livelli ricercati e
pienamente raggiunti (ancorché, come ricorda Raffaele Manica, mai definitivi) negli ultimi
anni di una vita purtroppo non lunga a sufficienza. Sono ancora, infatti, quelle raccolte,
soprattutto “contenitori”, anche se via via più qualificati, per muovere nella direzione poi
conseguita, anche in parte attingendovi, con la pubblicazione di Altre visioni nel 1991.
Ritengo tuttavia che da esse molto possa essere tratto, con grande giovamento per chi
legge.
Parlerò quindi anzitutto delle raccolte, in alcuni casi vere e proprie sillogi, descrivendone
brevemente il contenuto. Ne considererò poi il rapporto con i “classici”, parlando
dell’attività del Pietro Tripodo “traduttore poeta”, che ebbe inizio già in età molto giovane,
avanzando alcuni riscontri e osservazioni che potrebbero essere complemento di un
qualche interesse a recenti, approfondite, interpretazioni. Infine, farò un cenno alla
classicità così alta e moderna, certo non di maniera, che si ritrova “oltre” le traduzioni, le
versioni e i “rifacimenti”, ma anche alla loro base, in versi lirici e potenti. Versi, volutamente
contaminati, nella lingua e nei ritmi, da un’immersione profonda in quello che potremmo
definire, usando un’espressione a lui cara, l’“immenso mare” che già allora egli si
mostrava in grado di riuscire, con maestria, a dominare.
2. Le raccolte degli anni Settanta
Nel 1970 Pietro mette insieme, ciclostila, rilega e distribuisce ad alcuni amici una
sua Antologia poetica, “concepita non come scelta del fiore della mia produzione, ma
come testimonianza di quel periodo della mia vita che va dal maggio 1967 all’ottobre
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1969”, un periodo, aggiunge, che ha avuto alterne vicende, con alterne vicende quindi
anche per la sua produzione. La silloge consiste in una selezione di oltre 450 poesie,
numerate come dovevano essere in origine (e quindi con salti relativi a quelle non
selezionate), per un totale di circa 250 pagine dattiloscritte.
L’Antologia è divisa in 5 sezioni; la prima (Focus, la più consistente), risentendo anche del
momento storico – il “sessantotto” – nel quale erano stati prodotti, contiene anche testi di
natura politica e sociale; nelle tre successive sezioni sono raccolti componimenti più intimi,
anche di natura e ricerca religiosa; l’ultima (Delle Terre) è quella dove più espliciti e diretti
sono i riferimenti di origine classica (peraltro largamente diffusi lungo tutta l’opera). Alla
fine della raccolta compare anche un “Piano dell’opera nel prossimo futuro”, molto
dettagliato, con nuovi titoli che poi ritroveremo anche in raccolte successive.
Pietro Tripodo ambiva a che la sua opera fosse non solo conosciuta ma anche pubblicata.
Era certamente consapevole della necessità di operare a questo fine un’attenta selezione,
considerando debole la qualità, sul piano dell’arte, di molte delle poesie contenute
nell’Antologia. Nella prima metà degli anni Settanta, tuttavia, in un contesto di forte
tensione emotiva e di rigetto di ciò che riteneva sconveniente, sul piano morale, religioso o
politico, nonché di delusione, sul piano esistenziale e su quello sentimentale, decide di
distruggere le copie rimastegli, senza peraltro richiedere la restituzione di quella in mio
possesso.
Nel 1972, quando mi trovavo per ragioni di studio negli Stati Uniti, egli mette insieme una
seconda raccolta, di circa 230 poesie, Il Copernico, divisa in sezioni simili a quelle
dell’Antologia, a eccezione di una, dal titolo Dei lirici greci. Mentre anche delle poesie di
questa raccolta, datami in fotocopia in occasione di un mio rientro in Italia nel 1973, finisce
poi per essere in complesso insoddisfatto, per motivi analoghi a quelli che lo avevano
portato a separarsi dall’Antologia oltre che per dubbi di natura qualitativa, quest’ultima
sezione resterà nel tempo di evidente ispirazione per versioni e rifacimenti successivi; di
essa tratterò nel paragrafo 3.
Negli anni seguenti Pietro continuerà ad aggiungere a queste due consistenti raccolte, di
cui aveva deciso personalmente di staccarsi, altre di minori dimensioni,
consegnandomene via via copia e confidando che le avrei conservate con cura, incluse le
prime due, a futura memoria e anche per sue eventuali necessità. Quelle portate a termine
8
negli anni per lui forse più difficili, tra il 1973 e il 1975, sono: Frammenti e ricostruzioni (con
24 poesie, di cui 2 cancellate), Rifacimenti, sostituzioni e altro (22 poesie, una cancellata),
e Mese di marzo al bivio (4 poesie). È interessante osservare che le prime due includono
testi tratti dall’Antologia (rispettivamente 6 e 3) e da Il Copernico (3, tutte nella seconda),
evidentemente ancora da lui stesso conservate. A queste tre raccolte si aggiungono nel
1976 7 componimenti, di cui due particolarmente lunghi e uno il “rifacimento” di una
poesia, Femme déserte, di André Frénaud (dattiloscritta anche in originale), raccolti sotto il
titolo di Aracnidea.
Nel frattempo progredisce il progetto di produrre raccolte di qualità a suo giudizio più
elevata con testi sui quali – come risulta anche dalle carte, spesso manoscritte, da lui
lasciate – interviene con successive revisioni ancor più di quanto fatto in precedenza, con
riflessioni e ripensamenti sulla loro migliore sequenza. Tra il 1978 e il 1979 Pietro mi
consegna, in successione, 4 diversi insiemi di poesie raccolte sotto il titolo di Visioni
Sovvisioni, di volta in volta con revisioni (anche di una tratta da Rifacimenti), aggiunte e
rimozioni; fin dall’inizio troviamo una versione di “Paralogia regredita”, la cui ultima
revisione sarà su Dismisura, nel 1982, la sua prima poesia pubblicata.
Una parte di questi testi va a formare una prima raccolta, intitolata FLORA e compiuta nel
1979; in essa troviamo, preceduta dal titolo di Visioni, una sola sequenza di 8 poesie, tra
cui la versione definitiva di “Paralogia regredita”[5]. Queste otto poesie divengono poi la
prima sezione (dal titolo Flora) di una più ampia e in qualche modo definitiva silloge,
messa insieme tra il 1979 e il 1980, sempre intitolata FLORA e contenente altre 4
sezioni[6]. La seconda e la terza, i cui titoli sono Visioni e Altre Visioni contengono
ciascuna 7 poesie; da esse Pietro trarrà, in toto e in parte, tre delle poesie poi pubblicate
nel 1991 nel volume che ancora deciderà di intitolare Altre Visioni.
Di particolare interesse è l’ultima sezione, intitolata Versioni. Essa inizia con 8 traduzioni, o
meglio rifacimenti, da Poematia et epigrammata di Giovanni Pascoli; di essi, sei saranno
poi anch’essi pubblicati nel 1991 in Altre Visioni e i rimanenti due nel saggio su “Pietro
Tripodo traduttore del Pascoli latino” pubblicato da Alice Cencetti nel 2020 nel fascicolo
di Semicerchio dedicato a “Pietro Tripodo e la traduzione dei classici”[7]. Troviamo inoltre
versioni di due Odi di Orazio: la IX Ad Taliercium e la XI Ad Leuconoem, la prima
pubblicata nel 2020 nel saggio di Eleonora Rimolo sempre nello stesso fascicolo
9
di Semicerchio,[8] la strofe finale essendo anche l’ultima delle otto pubblicate nel 1987,
come “Vino di quattro autunni”, in La Taverna di Auerbach, e la seconda pubblicata prima
in Dismisura nel 1984 e poi ancora, nel 1991, in Altre visioni). In questa sezione
di FLORA sono anche presenti la versione di un epigramma di Ausonio e quelle di 2 carmi
di Catullo (rispettivamente l’epigramma XVIII e i carmi XCVI e LXXII), pubblicate e
commentate nello stesso saggio di Rimolo citato in precedenza. Infine, abbiamo il
rifacimento, inedito, di un celebre frammento di Ibico, 6 Diehl (o 286 Page)[9].
Un elenco completo di tutte le raccolte degli anni Settanta, con la mia ricostruzione, sulla
base di carte e ricordi, degli anni in cui le completò e me le consegnò per conservarle, è
contenuto nell’Appendice 1.
3. Traduzioni, versioni, rifacimenti
Pietro Tripodo iniziò molto presto la sua “contaminazione” con i classici, anche con
traduzioni e rifacimenti che avrebbero poi costituito nel tempo una delle cifre principali
della sua opera poetica. Di queste versioni, come spesso lui stesso le considerava, ne
troviamo a più riprese anche nelle raccolte degli anni Settanta. Alcune anticipano altre
prove sullo stesso testo poi pubblicate negli anni Ottanta e Novanta. Molti dei testi di
quelle inedite sono riportati nell’Appendice 2. Di una (il frammento 7D/287P di Ibico), oltre
alla versione inedita, si riportano anche tre successive versioni su cui mi soffermerò più
avanti. Non riporto invece quelli di Orazio, Ausonio e Catullo, così come quelli pascoliani,
pubblicati negli anni, oltre che in Altre visioni, in Semicerchio.
In Antologia poetica, la sua prima raccolta, non figurano versioni da lirici greci o latini. In
compenso, in una delle 5 sezioni – intitolata “Di Dio (seconda parte, dalle prime 21
poesie)” – rinveniamo tre rifacimenti di poemi della tradizione babilonese e asiatica (riferiti
rispettivamente all’Enuma Elis, al mito di Ištar, e al Buddha Matrayia), nonché un’originale
traduzione del Cantico delle creature di San Francesco[10].
Il Copernico contiene invece un’intera sezione “Dei lirici greci”. Come esergo Pietro mette,
nella lingua originale, la dodicesima strofe del Cimitero marino di Paul Valéry, autore che
lo accompagnerà negli anni, sia spingendolo alla “follia” (così Emanuele Trevi) della
traduzione in latino (medioevale) del Cimetière, sia a proporre, da ultimo, di “spostare
leggermente l’affermazione di Valéry (portata dal poeta del Cimetière fino al paradosso),
10
secondo la quale ogni autore, ogni testo poetico, è infinitamente interpretabile: esso sarà,
anche, infinitamente traducibile”[11].
In complesso la sezione contiene 27 brevi testi: 3 sono rifacimenti o elaborazioni su parti
dell’Odissea omerica, mentre in uno si propone una versione dei primi 19 versi
dell’undicesimo canto – Nekyia, la discesa all’Ade – che già molto lo aveva colpito ai tempi
del liceo; abbiamo quindi versioni da frammenti di Teocrito, Anite, Mnasalca, Leonida di
Taranto, Apollonio Rodio, Dioscoride, Meleagro, Marco Argentario (3), Alcmane, Teognide
(4), Ibico (4), Esiodo e Archiloco (2), nonché, forse paradossalmente trattandosi di lirici
greci, di due carmi di Catullo, o forse no, almeno per uno dei due, celebre versione da
Saffo.
Con riferimento a quest’ultimo, Ille mi par esse deo videtur, si può qui aggiungere una
chiosa. Nel saggio su Pietro Tripodo traduttore del Pascoli latino precedentemente citato,
Alice Cencetti ricorda come anche Catullo, pur iniziando a tradurre Saffo in modo letterale,
finisca poi per inserire “elementi personali nell’originale greco”. Un modus
operandi coltivato da Pietro, e che porta l’autrice a scrivere: “è impossibile che Tripodo non
avesse presente il rifacimento catulliano (LI) dell’ode di Saffo”. In effetti, non solo egli
l’aveva presente ma già produceva all’inizio del decennio una traduzione notevole,
letterale ma ispirata e metricamente il più possibile fedele, di questo bellissimo carme.
Nell’Appendice 2 si riportano i testi relativi ai quattro frammenti di Ibico, al celebre Notturno
di Alcmane e ai due di Catullo. Riporto inoltre, dalla raccolta Aracnide, il rifacimento di una
poesia di André Frenaud del 1960, poeta ben conosciuto in Italia, certo moderno, anzi
contemporaneo, e forse distante dai “classici”. Eppure, forse, anche un anticipo precoce di
altre traduzioni di poeti moderni con cui Pietro si cimenterà negli anni seguenti.
Delle versioni contenute in FLORA ho parlato nel paragrafo precedente: tutte sono state
poi pubblicate, a eccezione del frammento di Ibico, il celebre frammento 6D/286P su
primavera e amore. Lo riporto qui subito dopo una precedente versione, anch’essa inedita,
una delle 4 della sezione “Dei lirici greci” de Il Copernico. A differenza di quest’ultima,
quella di fine decennio è molto più che una traduzione, suggestiva e forse non distante dal
rifacimento del frammento 7D/287P.
Di quest’ultimo frammento sono state estesamente, e con estrema cura, commentate da
Eleonora Cavallini[12] la versione pubblicata nell’edizione Rotundo di Altre visioni (1991) e
11
quella del 1998, non pubblicata in vita dall’autore e di cui dà conto, pubblicandola,
Raffaele Manica nella “Notizia sul testo” con cui si chiude il volume edito da Donzelli nel
2007. Ebbene, esistono altre due versioni: la prima, inedita, una dei quattro frammenti dei
primi anni Settanta; la seconda, pubblicata in un insieme di cinque componimenti dal titolo
“Amplitudine del Sole” su Prato Pagano nella seconda metà degli Ottanta. A parte le
differenze di metrica e stile, queste quattro versioni hanno una caratteristica in comune:
nel riferirsi al colore degli occhi (poeticamente “palpebre” o “ciglia”) del dio Eros, Pietro
non si accontenta, osserva Cavallini, di un semplice denotativo come “nero o “blu scuro”,
ma fa riferimento – nel presupposto di “una dottissima ricerca etimologica” – al “fiordaliso”.
Questo vale tanto per il Pietro Tripodo in età matura quanto per il Tripodo traduttore-poeta
ancora alle prime armi.
4. La poesia oltre le traduzioni e i rifacimenti
Nelle Appendici 3, 4, 5 e 6 sono presentate alcune delle poesie contenute in 4 delle
raccolte di cui ho dato conto nel paragrafo 2 (ed elencate nell’Appendice 1). Si tratta, in
complesso, di circa il 6 per cento degli oltre 750 testi che, al netto di traduzioni e
rifacimenti, compongono queste raccolte. Il mio intento – oltre quanto si può direttamente
ottenere dalla lettura delle traduzioni e dei rifacimenti considerati nel precedente paragrafo
e presentati nell’Appendice 2 – è di dar forza, leggendole e apprezzandole, ad alcuni
assunti che costituiscono le principali motivazioni di questo breve intervento.
Anzitutto, l’attività poetica di Pietro Tripodo inizia ben prima di quando comincino le sue
pubblicazioni, in riviste e volumi. In effetti, già dalla seconda metà degli anni Sessanta
attività poetica e versioni poetiche appaiono essere considerate dall’autore un tutt’uno, e
come un tutt’uno i suoi testi vanno letti.
In secondo luogo, fin dall’inizio le singole parole (mai desuete anche se a volte antiche e
sempre meditate), il lessico (moderno, in costruzioni già spesso innovative), il ritmo delle
composizioni, la disposizione metrica costituiscono caratteristiche chiare del modo di
intendere e comporre poesia da parte di Pietro. Questo, in un processo che lo vede
misurarsi intenzionalmente, anche sulla spinta delle sue sofferenze interiori, con il bisogno
di continue revisioni, affinamenti, sottrazioni e sempre più con la necessità di trovare i
giusti equilibri nella disposizione dei testi.
12
In terzo luogo, si tratta di un processo che mira a far emergere in modo naturale il suo
pensiero e il significato della sua ricerca, senza sacrificare la qualità lirica del modo in cui
cerca di comunicarlo. Un processo che si affina nel tempo, con l’obiettivo di dare sempre
più unitarietà ai suoi lavori. In questo, un ruolo di assoluto rilievo mi pare sia svolto proprio
dalla più soddisfacente ricerca ritmica, fino a rinvenire modalità appropriate, negli ultimi
anni, anche nelle sue brevi composizioni in prosa, “senza ritmo”, non alternative a mio
modo di vedere a quelle in versi.
Infine, l’essenza, quasi l’immanenza, della natura (terra, acqua, fiori, alberi, volatili), la
complessità, quando non la caducità, dell’amore, l’inarrestabile trascorrere del tempo
sono, fin dalle raccolte da cui sono tratti i testi presentati in queste appendici, i temi
profondi e costanti di una narrativa poetica che progredisce, come qualità ma anche
soddisfazione personale, nei due successivi decenni. Con essi, nel tempo forse Pietro
riuscirà a fare i conti con una visione certo non ottimista dell’umana natura.
5. Una conversazione da riprendere
In conclusione, un obiettivo di queste pagine è stato quello di promuovere una visione
unitaria dell’opera pluridecennale di Pietro Tripodo, inclusa quella sotto traccia, intuibile
ma che mi pareva necessario far emergere. Allo stesso tempo, mi premeva, al di là del
mio non essere sufficientemente equipaggiato per esprimere valutazioni critiche e giudizi
di valore letterario, comunicare il piacere, la commozione, a volte l’incredulità provate nel
leggere, e rileggere, gli scritti di Pietro degli anni della nostra giovinezza.
Nella quarta di copertina dell’edizione Donzelli di Altre visioni si legge che Pietro Tripodo
“è considerato uno dei massimi poeti del secondo Novecento”. Non sta certo a me dare un
giudizio su quest’affermazione. Di fatto, però, Pietro continua a essere un poeta, un
autore, di nicchia, se non di culto. Credo che sia giunto il tempo di dargli il giusto
riconoscimento su una scala più ampia, come illustri studiosi già propongono, così da
mantenere viva una conversazione bruscamente interrotta.
In massima parte quest’intervento ha voluto portare alla luce – anche con i testi qui
riprodotti – la capacità di Pietro di parlare anche per il tramite dei grandi del passato con
cui ha inteso mantenere e intensificare un dialogo continuo, al di là del tempo e dello
spazio. Per chiudere, non trovo di meglio che usare parole che si rinvengono in alcuni dei
13
saggi da lui – non solo poeta e traduttore, ma studioso erudito e sapiens homo non solum
eloquens, oltre che persona sensibile e cara a molti – scritti negli ultimi suoi anni di vita.
Sono anch’essi saggi poco noti e quindi poco letti; anch’essi, ritengo, andrebbero, una
volta raccolti, diffusi e studiati.
Nei riferimenti agli autori di cui Pietro scrive non è peraltro difficile leggere appieno il suo
pensiero nonché intravedere elementi che potrebbero senza dubbio essere a lui stesso
riferiti:
“[Lucio] Piccolo [o Pietro Tripodo…] è un moderno (anzi un romantico): si immerge
nell’oggetto; è – direbbe Klee – tutt’uno con l’oggetto, e lo fa a modo suo, attuando il
mulinargli del mondo attorno, come nella memoria che s’è formata dall’infanzia, e che ha
creato una mitologia propria, ontogenetica… ”[13]
“Manifestiamo una libera gratitudine ai contemporanei, a coloro che ci sono vicini, e a cui
dobbiamo tanto: anche da loro è un insegnamento, così come dai classici, o dai grandi
critici del passato anche recente, o dai filologi. … La poesia degli antichi (i demiurghi che
formano e trasformano, per dimorare come elementi vitali e interagenti al centro della
nostra anima, si chiamino Saffo, Virgilio, Sannazaro, D’Annunzio o Montale) ha generato
non solo opere ma, dentro di noi, mondi reali, mondi che sono diventati materia, terra del
nostro sentimento. È così che Lidia diventa l’oggetto d’un interiore universale, Leuconoe
d’un sentire vivente.”[14]
“Tradurre è commuoversi del fatto che la vita non è prerogativa del singolo, non è
solitudine assoluta, se altri cantarono d’uno smarrirsi simile al nostro, d’una consimile
paura della morte, o d’ignominie impensabili, o dell’Aurora dalle dita rosate: commuoversi
per la stessa cosa che ha commosso un altro poeta è una storia che parte da Saffo e da
Mimnermo di fronte ai poemi omerici: parafrasando Stefan George, riflettere è cantare.”
[15]
“Restringendo il campo alla traduzione ‘vera e propria’, quando questa riguarda la poesia
o il poème en prose, è possibile dunque pensare che il testo della lingua d’arrivo diventi
autonomo, una creazione a sé, con proprie leggi interne, formali e insieme spirituali,
analoghe oppure dissimili da quelle della fonte.”[16]
“Da tempo la poesia, da tempo l’arte … è nel nonostante tutto. …Pensare, ringraziare,
commuoversi. Ci si riconosca come si riconosce una patria. Non siano nominati invano gli
14
dei, né siano relegati in mondi alieni: il mito ha bisogno del tragico, e se sintesi c’è, essa
opera su una complessità anteriore: il mito ha bisogno d’una perfetta fusione tra la sua
filogenesi e l’ontogenesi che ne riscrive. Nonostante tutto, sì, riconosciamo il divino
nell’uomo.”[17]
“Personalmente non ho mai escluso, nella letteratura come nella vita, alcun paradosso. E
d’altro canto una minaccia questa volta proveniente dalla morte anziché dalla vita, o
meglio i fatti di morte stanno proprio qui, nel dibattersi nella gabbia di forme eccentriche,
dibattersi che poi è vitalità e non morte…”[18].
“A qualcosa si tenta, impossibilmente, di tornare; le immagini antiche che si abbandonano
perché non riproducibili e nello stesso tempo quelle che si tenta di rifar presenti; la
pienezza del prima, dell’universo poetico degli antichi … è come la fenice degli Annali di
Tacito, come la Fenice del Cligès, come l’aura. Nella tristezza d’un vuoto che si tenta di
colmare … e in quest’arte che, corsi via i secoli, tenta di essere e fiorisce … a partire da
un’origine appunto lontana, è lo stigma d’una riflessione, dell’istituzione d’un’altra, eternata
lontananza, è lo stigma – luogo essa stessa d’una bellezza che s’aggiunge alla bellezza –
d’una perdita.”[19]
“Lo so: è in odio a tutti chi pensa che l’arte sia un mezzo. Dev’essere, l’arte, fine a se
stessa. Ma come invisibile all’artista e involontario è quel fine che si consustanzia all’arte
solo nel suo compimento ed è quello che a volte ci consola. Ci fa vibrare Orazio per quello
che dice, ma ancor più per come.”[20]
E alla ricerca del “come” Pietro Tripodo, innanzitutto poeta, ha sempre dedicato tutto sé
stesso. Il suo genio poetico ha trovato sublimazione nelle laboriose revisioni,
nell’essenziale ricerca della giusta parola, del giusto metro, della migliore resa fonica, nel
passaggio, non dato per scontato, dal disegno completo nella sua mente alla traduzione
testuale più vicina alla perfezione. Una perfezione mai data per acquisita, sempre pronto,
quindi, ad aggiungere, togliere, modificare. Eppure, per chi lo legge, ogni singola prova è
un risultato compiuto e la stessa successione di testi inediti, pubblicati e ancora rivisti
costituisce un’opera in sé, consente una “conversazione” che non si ferma.
15
Appendice 1 – Elenco e datazione di sillogi e raccolte non pubblicate di Pietro
Tripodo
Antologia poetica, 1970 (oltre 450 poesie, in volume ciclostilato)
Il Copernico, 1972 (circa 230 poesie, di cui 27 versioni e rifacimenti)
Frammenti e ricostruzioni, circa 1973-75 (23 poesie, alcune da Antologia poetica)
Rifacimenti, sostituzioni e altro, circa 1973-75 (23 poesie, alcune da Antologia poetica
e da Il Copernico)
Mese di marzo al bivio, circa 1973-75 (5 poesie)
Aracnidea, circa 1976-77 (7 poesie, di cui una “rifacimento” da Frenaud dopo il
dattiloscritto del testo originale)
Visioni Sovvisioni, circa 1978-79 (4 raccolte, anche da precedenti e con revisioni ed
eliminazioni successive, l’ultima con 12 poesie di cui 2 cancellate)
FLORA, 1979-80 (raccolta ampia e completa con 4 sezioni)
•
Flora, 8 poesie già in una raccolta immediatamente precedente anch’essa dal titolo
FLORA ma poi di fatto intitolata Visioni (la quinta, “Paralogia regredita”, rivista da
prove precedenti in Visioni Sovvisioni, poi pubblicata in Dismisura, 1982), con in
ultima pagina illustrazione manoscritta a me indirizzata delle motivazioni relative al
loro ordine)
•
Visioni, 7 poesie (di cui la quinta “Non feste…” poi in Altre visioni, Rotundo, 1991,
così come, tolti i primi 5 e gli ultimi 8 versi, come “L’obliato colmo…” la sesta)
•
Altre visioni, 7 poesie (la terza “Quanto al tempo…” poi in Altre visioni, Rotundo,
1991, tolti gli ultimi 3 versi)
•
Versioni
•
Da Pascoli (Poematia et epigrammata), 8 poesie (6 poi pubblicate in Altre
Visioni, Rotundo, 1991, e le altre 2 in un saggio di A. Cencetti, Semicerchio, 2020;
di cui alcune pubblicate anche prima in Prato Pagano, 1985)
•
Da un epigramma di Ausonio (XVIII Ad uxorem), 1 poesia (poi pubblicata in
Rimolo, Semicerchio, 2020)
16
•
Da due odi di Orazio (IX Ad Thaliarcum e XI Ad Leuconoem), 2 poesie (la
prima poi pubblicata nel 2020 Rimolo, Semicerchio, 2020, e, prima, gli ultimi sei
versi come ultima strofe di “Vino di quattro autunni” in La Taverna di Auerbach,
1987; la seconda poi pubblicata in Dismisura, 1984, e quindi in Altre visioni,
Rotundo, 1991
•
Da un frammento di Ibico (6D 286P), 1 poesia (inedita)
•
Dai carmi di Catullo (XCVI e LXXII), 2 poesie (entrambe anch’esse poi
pubblicate in Rimolo, Semicerchio, 2020)
•
Sepulchra Maris (e Quid Valérienne e Note), 1979-80
Tra le carte lasciate da Pietro, in una cartella denominata “Visioni, 1967-1976”, vi è un
foglio di calendario con data mercoledì 2 maggio, che contiene solo due versi; questi
appartengono alla versione di una delle traduzioni dal Pascoli “Frante lesene…”,
contenuta, con le altre, nella sezione Versioni della silloge FLORA; in questa sezione vi
sono anche le due versioni da Orazio, tra cui quella, da molti giustamente celebrata, del
carme XI, pubblicata prima in Dismisura nel 1984, poi in Altre visioni nel 1991. Il 2 maggio
venne di mercoledì sia nel 1978 sia nel 1979; è molto probabile che sia quest’ultimo l’anno
di stesura di queste versioni da Orazio e Pascoli, anno al quale, peraltro, in altri fogli
manoscritti vengono fatte risalire anche alcune delle poesie contenute in Visioni Sovvisioni
e poi in Flora. Il frammento da Ibico (6D) contenuto in FLORA non sembra essere tra le
carte rinvenute nella cartella “Visioni, 1967-76”; esso si aggiunge al rifacimento del
frammento (7D) pubblicato nel 1991 in Altre visioni e alle versioni di altri 27 frammenti dei
lirici greci in precedenza inclusi nella raccolta del 1972, Il Copernico.
Tra il 1972 e il 1981 io sono stato negli Stati Uniti per quattro periodi: luglio 1972-luglio
1974, luglio 1975-gennaio 1976, 4° trimestre 1978 e 2° semestre 1981. Durante un breve
rientro nell’estate del 1973 Pietro mi diede copia de Il Copernico ed ebbi certamente le
successive tre raccolte prima della mia seconda partenza nell’estate del 1975. Sono sicuro
di avere avuto FLORA – perché io la conservassi insieme alle precedenti, che temeva
potessero andare perdute o in un suo momento di crisi essere da lui stesso eliminate… –
dopo il mio terzo soggiorno e ben prima della mia ultima partenza: da qui la mia originale
datazione “1979-80”, confermata dalla visione delle carte. A quegli stessi anni deve risalire
17
la stesura del Sepulchra Maris (versione latina del Cimitière Marin di Paul Valéry, da me
trascritta con il Quid Valérienne e Note nel 2024 e pubblicata in Insula europea).
Appendice 2 – “Versioni” e “rifacimenti”
Da Antologia poetica, cicl., 1970 N. 530 Il nuovo Enima Elis
Quando lassù il cielo non aveva nome,
e qui da noi la terra non aveva parola che la definisse,
quando dall’apsu originario il tutto scaturì,
e Mummu Tiamat, da cui scaturirono volta celeste e terra,
come cieca belva rimescolava in turbini l’acqua primeva,
e quando la prima capanna ancora non era costruita,
né i giunchi laggiù delle paludi si scorgevano ancora,
e quando nessuno, nessuno degli dei –né Anu né Enlil suo figlio,
né Ea supremo sapiente, dominatore dell’apsu, né Sin la luna,
né Shamash il Dio sole, né Ishtar o Ininna, per cui l’uomo
e la donna s’uniscono– si era ancora formato, condensando attorno a sé materia,
e a nessuna cosa era stato dato nome,
e in tutta la natura le energie segrete non erano placate,
ecco finalmente furono creati gli dei.
Lassù. –Ai confini delle energie segrete. Nel tempio delle leggi universali.
Fra tutti gli dei il più sapiente ed il più saggio nasce: il dio Marduk !
Dall’apsu nasce Marduk.
Dal risplendente apsu, ecco, nasce Marduk!
Suo padre, Lahmu, e sua madre, Lahamu, lo hanno fatto.
Fu allattato ai seni di tutte le dee,
e lo allevò la sua nutrice e lo colmò di magnificenza.
Del dio Marduk,
altissima la statura, fulgente lo sguardo dei suoi occhi,
e maschio nacque, il più maschio di tutti,
e fin quando nacque cominciò a generare.
18
Lo ammirò il suo creatore, Lahmu,
ne ebbe immensa gioia, e il suo cuore si riempì di letizia.
Lo aveva creato perfetto, colmo d’una duplice essenza divina,
il più forte di tutti gli dei.
Con una lancia di luce infatti spaccò in due la mostruosa Tiamat,
e da essa nacquero il cielo e la terra.
Non conoscibile e ben modellato il suo corpo,
non conoscibile il suo corpo immenso a vedersi.
Quattro erano i suoi occhi, quattro le orecchie,
quando parlava dalla bocca usciva fuoco.
Le sue quattro orecchie crebbero,
e con i quattro occhi contemplò l’intero cosmo.
Del dio Marduk,
altissima la statura, fulgente lo sguardo dei suoi occhi,
ben modellato il suo corpo, immense le sue membra,
Lahmu, suo padre, disse. “O figlio mio o virilità! O figlio mio o virilità,
o figlio del sole, sole del cielo, o virilità!”
Contornato dalla sublime cerchia dei dieci iddii
Marduk era fortissimo.
Da Antologia poetica, cicl., 1970
N. 538
Verrà, o notte da cui l’alba sorge,
verrà, o monti da cui l’alba sorge,
–dalle vette di cristallo a settentrione, il fermo Himàlaia–
verrà, oceano le cui acque rismuovono i venti,
verrà, verrà –è passato infatti, è già passato un kalpa–
verrà il Buddha Maitreya.
Verrà a noi, son passati, infatti, un miliardo e seicento milioni di anni,
verrà a noi, s’incarnerà, parlerà alle genti.
Corpo! Quando nascerai dal fianco destro della madre tua,
19
a risplendere! O toro della nostra generazione,
o padre del sole –alla nascita e alla tua morte un fulgore mai visto
illuminerà l’universo intero ed ogni vivente, ed i trenta cieli,
ed il trimundio con i suoi dei da per tutto illuminerà,
ad ogni sua meditazione sentirai la terra scuotersi,
segno di nuove conquiste del cielo, per tutta l’umanità!
Di nuovo Mara sarà sconfitto, sotto l’albero del risveglio,
di nuovo parlerà il cielo per bocca di Indra,
di nuovo il più amato degli uomini parlerà agli uomini.
Da Antologia poetica, cicl., 1970
N. 547 Il nuovo mito di Istar
È sorta, sorge adamantina dall’orizzonte di biancastro fuoco
la chiara alba, Istar mattutina.
Nella casa buia s’era rintanata ieri sera, al calare del sole,
nella casa d’Irkalla, dove chi va non ha speranza di ritorno,
dove chi va vi dimora per sempre.
Con fresca forza vi è ritornata stamattina –però è scesa dalle anime dei morti–
è risorta con gloria Istar mattutina.
Da Antologia poetica, cicl., 1970
N. 558 Che Dio mi perdoni la sfrontata contaminazione
[Cantico delle creature]
Altissimo, onnipotente, buon Signore,
Tue son le lodi, la gloria e l’amore, ed ogni benedizione:
a Te solo, Altissimo, si confanno,
e nessun uomo è degno di menzionarti.
Sii lodato, mio Signore, da tutte le tue creature,
e specialmente dal fratello Sole,
che fa giorno e c’illumini con esso,
20
ed è bello e radioso con grande splendore:
di Te, Altissimo, porta significazione.
Sii lodato, mio Signore, dalla sorella Luna e dalle stelle,
l’hai formate nel cielo chiarissime, preziose e belle.
Sii lodato, mio Signore, dal fratello Vento,
e dall’Aria con le nuvole, dal sereno e da ogni tempo,
con che alle tue creature dai sostentamento.
Sii lodato, mio Signore, dalla sorella Acqua,
che è sempre molto utile, ma soprattutto umile, e vergine preziosa.
Sii lodato, mio Signore, dal fratello Fuoco,
con il quale c’illumini la notte,
ed è bello e festoso, portentoso e forte.
Sii lodato, mio Signore, dalla nostra madre Terra,
che ci sostenta e ci governa,
e che produce diversi frutti e colorati fiori ed erba.
Sii lodato mio Signore da coloro che perdonano perché Ti amano,
e che sostengono tremende infermità;
beati quelli che le sosterranno in pace,
poiché da Te, Altissimo, saranno incoronati.
Sii lodato, mio Signore, da sorella Morte corporale,
dalla quale nessun uomo vivente può scappare.
Guai per quelli che la morte troverà in peccato!
Beati quelli che essa troverà nella Tua santa compiacenza,
poiché così la seconda morte non sarà cattiva.
Lodate e benedite il mio Signore, e ringraziatelo,
e servitelo con grande umiltà.
Da Il Copernico, sezione “Dei lirici greci”, mimeo, 1972
Ibico, Frammento 7
Per Amore, guardandomi ancora con gli occhi
pieni di desiderio, da sotto le palpebre di
21
fiordaliso, con lusinghe infinite, io
cado nelle non districabili reti della bella
Afrodite, tremo al suo assalto, come
un cavallo da bighe, usato un tempo per
vittorie, ora vecchio, a malincuore s’avvia
con l’agile carro alla gara.
Da “Amplitudine del Sole”, in Prato Pagano, Autunno 1986-Inverno 1987
Ibico, Frammento 7
Da quanto Amore trovandomi
con lusinghe infinite mi guarda.
Se non fugge, occhi struggenti,
da ciglia di fiordaliso con le armi
di Venere mi spinge a quelle rocce.
Per questo tremo a lui dinanzi, e viene
come un destriero ai carri dell’autunno
vecchio, glorioso di vittorie un tempo
e adesso ai carri agili
nell’ora del mutamento.
Da Altre visioni, sezione “Ai carri dell’autunno”, Rotundo, 1991
Ibico, Frammento 7
Amore di lusinghe infinite
volgendo fra le ciglia di fiordaliso
ancora in me struggenti sguardi,
armi a Venere dentro cieche dimore
mi spinge. Di questo tremo a lui dinanzi, e viene
come un destriero ai carri dell’autunno
vecchio, glorioso per vittorie un tempo
22
e ai carri agili adesso
la gara intorno.
Da Altre visioni, Donzelli, 2007 [circa 1998]
[in “Notizia sul testo”, di Raffaele Manica, sezione “Sotto le sue armi”]
Ibico, Frammento 7
Amore per lusinghe inesauribili
volgendo fra le ciglia fiordaliso
ancora ove son io struggenti sguardi
nelle reti di Cipride intricate
me sotto le sue armi a forza spinge.
Di questo tremo a lui dinanzi e incedo
come destriero ai carri già d’autunno
glorioso un tempo per vittorie vecchio
viene con agili polledri stretto
a gara che rifiuta e svuole e teme.
Da Il Copernico, sezione “Dei lirici greci”, mimeo, 1972
Ibico, Frammento 6
A primavera, acque fluenti scorrono il ruscello,
e inondano di freschezza i meli cidonii e i puri
giardini delle ninfe, e sotto i tralci carichi
d’ombra c’è la potenza delle vigne in fiore,
turgide per il tempo avvenire: ma senza che si
fermi Amore, –senza primavera– mi brucia
nelle vene, come vento pungente del nord se la
folgore scoppia, erompe dal sangue –ah vertigine–
e con la tenebra, non più domabile, è il violento despota del mio cuore, fin dalla giovinezza.
23
Da “Versioni” in FLORA, mimeo, 1979-80
Ibico, Frammento 6
Ma solo a primavera i meli e i tralci
di smeraldo fioriscono ai viventi,
quei meli che i fiumi equinoziali
dissetano al giardino del sole,
dove i tralci carichi di ombra
si avvinghiano alle pergole degli orti,
neri e d’oro si stendono fra i muri
e ai curvi peschi, a zaffìri di mandorli,
tutti fioriscono a primavera.
Primavera fiorisce senza posa,
sta insonne primavera senza pioggia
l’adolescente Amore che saetta.
Come il fiore dell’ibisco e l’autunno
cielo e acqua arrossano, foglie di loto
infinite e Bora avvampa le aure
della pioggia, sì Amore mi trascina
schiantandomi alle rocce di sirena,
al tempio della sua divina madre.
Da Il Copernico, sezione “Dei lirici greci”, mimeo, 1972
Ibico frammento [La cicala…]
La cicala frinisce, i rami sono stanchi
di reggerla, misteriosa è la corteccia
dell’albero, il mio cuore brucia (desidera pace e verità), ardendo come le
stelle di fuoco nella grande notte.
24
Da Il Copernico, sezione “Dei lirici greci”, mimeo, 1972
Ibico frammento [Il canto di Narciso…]
Il canto di Narciso adolescente
echeggia nei giardini, negli orti,
l’olmo respira il fiotto del vento,
quando l’insonne splendido mattino
desta gli uccelli.
Da Rifacimenti, sostituzioni e altro, mimeo, 1973-75
Ibico frammento [Il canto di Narciso…]
Il canto di Narciso adolescente,
come la sua eco
nei giardini si ode, negli orti,
quando l’insonne splendido mattino
desta le gazze.
Da Il Copernico, sezione “Dei lirici greci”, mimeo, 1972
Alcmane, Notturno
Ascolta, amore, il silenzio:
dormono le cime delle montagne,
dormono i crepacci, le valli
e i precipizi, dorme la specie
dei serpenti, quanti ne nutre
la nera terra, e le belve nei
boschi dormono, e le varie famiglie
delle api, e i mostri, lontani
nell’oscuro baratro del mare,
25
dorme la progenie degli uccelli dalle ali veloci.
Da Il Copernico, sezione “Dei lirici greci”, mimeo, 1972
Catullo (Saffo…)
Egli sembra a me essere simile a un dio,
egli sembra a me superare gli dei,
egli che siede dinanzi a te
e ti contempla e ascolta
e dolce ridente, e questo a me infelice
rapisce i sensi: infatti, Lesbia, non appena
ti ascolto, niente di voce sopravvive
nella mia bocca,
ma la lingua s’intorpidisce, ma una fiamma
sottile si propaga nelle membra, e le orecchie
tintinnano di un loro ronzio, e i miei due occhi
sono avvolti dalla notte.
Da Il Copernico, sezione “Dei lirici greci”, mimeo, 1972
Catullo [Scritta quando morì il canarino della mia donna]
Piangete, piangete, o veneri e amori,
e quanti di voi amano la bellezza,
è morto il canarino della mia donna,
il canarino che essa teneva nel suo giardino,
cui più che ai suoi occhi teneva!
Era dolce come il miele, e conosceva la padrona
Come una bimba conosce la madre, e non
si allontanava mai dal suo grembo,
ma sempre le saltellava intorno, e non
faceva che pigolare, non faceva che pigolare.
Ora esso cammina lungo un tetro sentiero,
26
verso quel luogo da cui tutti dicono che nessuno ritorni.
Ma che siate maledette, dannazioni dell’Orco!
Voi, che vi divorate la bellezza!
Vi siete inghiottite questo mio povero canarino!
Oh sciagura! (Povero uccello!)
Ed ora, per questo fatto gli occhi spendenti della mia donna
sono gonfi di pianto.
Da Aracnidea, mimeo, 1976-77
Femme déserte
Une fois encore l’inutile rencontre.
Pour avoir trop aimé en vain
autrefois,
à qui pardonnerai-je?
Je suis à la recherche d’un sourire perdu,
s’il m’était destiné.
Il a glissé dans l’ombre et je me suis défaite,
tremblante comme un nuage.
J’avance très vite parmi rien, toujours,
au hasard d’une marche sans lumière,
intrépide.
Et j’attends l’éclaircie, à défaut
d’être brûlante pour resplendir.
Je suis sourde et ne peux parler, j’essaie de rire.
Les peupliers, les regards passent sur la route
entre les buissons de rêve saignant, leurs éclairs vains.
[Quand sera le repos d’un clair sommeil sans rive,
où rien ne retentit? Eau douce, eau morte enfin,
le songe aussi n’est plus.]
15 juillet 1960 André Frénaud
27
Donna deserta
Sempre (sono) in cerca d’un
sorridere smarrito da minute
ombre nascoste, diviso, io
foschia, meriggio svanito.
Nel nulla avanzo e nonostante tutto e più veloce di quanto io
da me sola
potrei o in me la forza
consentirebbe e a lume spento (e: malgrado me).
Non io potendo, o il mio corpo, nemmeno
farmi un barlume minimo, non io bruciando, non da me
ardore, qualunque splendore al di fuori di me
essendo, senza me.
Spento udire: spenta ogni voce
possibile in me, deserta, tento,
di ridere, di vivere.
Sguardi non viventi, grandi occhi malati,
sul perno d’un collo torto, attonita
bocca,
quasi di lèggere tentano, morti
specchi, la polvere del viale.
28
Appendice 3 – Da Antologia poetica, cicl., 1970
(alcune, riviste, anche in Frammenti e ricostruzioni, mimeo, [FR], e in Rifacimenti,
sostituzioni e altro, mimeo, 1973-75, [RSA], qui nell’ultima stesura)
N. 5
Un sonno eterno dormiremo insieme
là dove più calore hanno le stelle
in una notte d’infinito buio.
Vaga ogni spirito con luce di brillante
vaga e lamenta di esistere pur sempre.
N. 95 [RSA]
Qui nella mia stanza: di sera, quando tu venivi;
il tavolo, pianura immensa e polverosa al sole,
dove i libri, sogni infiniti, immobili sostavano
(letture di profili, e d’occhi).
Sì, nella penombra, noi, noi siamo,
N. 183
Ma forse questa vita dovevamo prendere.
Forse dovevamo far sì che tutti i nostri desideri
fossero perfetti.
Già tramanda la penombra
le maledizioni di un fiore mutilato.
E invecchiano le icòne per aver saputo
le disarmoniche nascite.
Pesa il destino dell’uomo,
meditano i vecchi nelle chiese.
29
N. 186
Dall’infinito. Dal basso, fumoso
di nebbia.
Sui muri aguzzi a guardia dei venti,
quattro statue. Per quattro cancelli,
quante sono le direzioni del cielo.
E bene mi sembra entrare nel cancello a est,
dall’oriente dell’anima mia,
là dove s’erge perfetto
Apollo il poeta.
N. 197
“Domani risolcheremo l’infinito mare”,
ma io non voglio andarmene, voglio restare qui,
nella luce diamantina dell’alba.
Ho bevuto ellèboro d’oriente,
perciò mi fermo. Distendo il mio corpo
nella terra degli ulivi.
Contemplo,
come un dio greco
sulla pietra solare della perfezione.
N. 228 [RSA]
Tu – cancellata per milioni di anni
la nascita di Venere dal mare –
dall’onda esci, spuma i tuoi capelli,
bianca, con rugiada che trema al lieve vento.
30
N. 283
Quando tu vieni, grande estate,
il sole ci urla nella pelle,
e chi sa di estinguersi in inverno
ne approfitta e si nutre di te.
Quando tu vieni
nel mare viola
dei porti
nascono grandi meduse,
e qualche nave le ucciderà.
Quando tu vieni, immane estate,
non volano più i gabbiani,
il sale della tua saggezza è cosparso per i monti,
vola via
poi
perfettissima
la tua sacra nudità.
N. 284
Bruci ariete nel rogo
fumo
al sole che tramonta
nel cielo
uccelli strepitanti
augurio. Serenissima volta
del mondo popolato
da una nuova umanità.
Sacro fumo per Saturno
per le costellazioni,
tu essenza d’ariete,
sole,
31
estremo occidente.
N. 304 [FR: DAL PAESE ABBANDONATO I]
Mi ero dimenticato di dirti che si è arrugginita
anche la ringhiera di ferro.
Forse la pioggia.
E ci sarebbero tant’altre cose che non vanno,
il pavimento consumato
e il calcinaccio che si stacca.
Non so perché tutto questo non m’importa,
come per esempio non mi domando perché le
rondini sono così silenziose
– le rondini qui sotto –
né perché il paese sia così silenzioso.
N. 311 [FR: DAL PAESE ABBANDONATO VI]
Qua ve lo giuro porterò alla gente
la notizia più triste degli astri del cielo
(la prima esperienza terrestre del dolore):
il qui presente paese.
Il qui presente paese, pallidi il cielo
il sole e la luna, stecchiti gli insetti,
le bestie da soma, non più una mosca che
bussi alla porta.
Andiamocene via, anima mia, via,
lasciamoci alle spalle ciò che è deserto,
le rondini squillanti (squillanti per cosa), il sole e la luna
sepolti nella terra.
32
N. 328 [FR]
forse un giorno tutto s’avvererà
e il vuoto e azzurro cosmico e tremendo
ci prenderà,
e noi ce ne andremo per profondi viali
(altissimi alberi a lato)
e non ne vedremo la fine –
noi nel pallore dell’assenza uniti
mano per mano con gli occhi chiusi
come a sognare un’eternità,
d’amore,
se brulica zampilla ribolle
la vita minute erbe petalo per petalo
arbusti a migliaia e insetti con piccole ali
N. 350 [FR]
Due colline, terrigne labbra
della voragine. Là io mi immagino
quando l’estrema cellula energetica
m’avrà lasciato e i canti degli uccelli
e i lunghi discorsi dei tapiri e le meditazioni
delle talpe e dei lombrichi avranno sfondato
le mie trombe d’eustachio e il mare a lungo
battendo e ribattendo m’avrà
scavato i piedi col suo sale e il vento
che parte dal deserto avrà consumato
tutti i miei capelli e i lapilli infuocati
dei crateri avran bucato la mia tenera pelle,
N. 370 [FR]
Cielo, più candido del seno
33
della mia donna, io vorrei essere te,
assimilare a te la mia anima,
libera per l’aria e per gli alberi
e per gli opposti pianeti della spirale.
N. 373 [RSA]
Quando nella vastità dei mari e delle terre,
nell’umido segreto dei torrenti e quando
tranquillamente gli insetti si riproducono
o vengono divorati da rondini o rane,
e quando dalle coste del pianeta
sorgono i primi vapori della nuova primavera,
e quando sorge l’alba per le ignote campagne
nel lontano casolare ricco d’olmi
mentre narciso dorme,
tu senti la terra scuotersi, segno
di un nuovo cielo
ultrasecolare e vulcani spenti accendersi
di nuovo vigore
e il mare tempestarsi di bianco
e di spaventàti gabbiani,
(è lui, l’enosigèo.)
N. 391
È il tremendo sonno del meriggio,
quando la morte è vicina, proprio perché ormai non la si teme.
Perché sonnolenza è morte,
morte delle cicale, morte degli insetti,
mentre sopravvive l’anima dell’usignolo!
34
N. 521
Anche tu,
Delfi,
pietra primigenia da cui le fonti nacquero,
e il mondo nacque,
con le terre senza fine per le cime innevate,
e per gli dei che nacquero incontaminati
dalle acque delle fonti.
N. 522
Io qui sbarcato a Patrasso,
vorrei oltrepassare quei monti,
quella neve ultrasecolare,
per giungere sano nel corpo e nella mente
a Olimpia, terra di semidei.
N. 523
Io, greco di origine – nel corpo la nostalgia delle terre distese
e delle isole –
dalla terra che confina con tre mari,
la Sicilia dalle tre punte cardinali,
nacqui. Dalla fonte d’Aretusa, dalle nere pendici dell’Etna
(o dalla bocca più grande del vulcano), dai ciclopici scogli
del mare, dalle sorgenti di ghiaccio,
lungo l’anima delle terre cavernose,
fino alle incontaminate foci dell’Alcàntara.
N. 537
Calabria, estrema terra, io so il tuo sogno:
dall’alto delle tue invalicabili mura contemplare le isole e gli scogli
35
che si posero attorno a te provenienti da altro pianeta.
Dalla cima delle tue insormontabili rocce contemplare la schiuma,
le frange del cristallino tappeto steso attorno a te,
venerabile terra.
Estrema terra, confine da cui sorge l’alba e la luce sorge e l’immacolato chiarore;
più in là c’è la neve recente, più in là ci sono i laghi fra le tue foreste,
più in là c’è il cielo inteso nella sua magica purezza.
Estrema terra, confine posto tra noi e ciò che canta il mare, l’immenso mare,
l’immane oceano che tu non conosci.
Conosci le sue frange, che non ricoprono – troppo bella infatti è la tua nudità –
i tuoi subacquei lapislazzuli.
N. 539
Tempo, felice tempo, giorni e giorni m’allontanano l’autunno.
Scaldata si è la terra sotto le foglie rosse,
cadute nell’inverno.
O vento dell’oriente, tu mi riempi il petto!
O sole del cielo, che sciogli la neve e t’avvolgi di quei vapori,
guardami mentre m’àncoro alla terra come aratro che lacera,
guardami inebriato nella vigna attendere l’uva dell’anno nuovo,
guardami nella vigna mentre attendo il plenilunio.
N. 542
Cielo, cielo sopra le vette di cristallo, sopra la terra,
cielo sopra i fiumi, sopra l’immenso mare,
cielo toccato dalle nostre mani,
dalla purezza della neve, dalle guglie dei campanili,
cielo, fra le onde di campane ormai morte,
fra le parole dei mortali,
fra i mondi e fra gli spazi,
36
cielo nell’alba del mattino, nelle terre eteree,
cielo nel meriggio, quando squilla dall’alto il mezzogiorno,
cielo nella sera, in sperati lampi di serenità,
cielo nella notte, la notte di zaffiro che c’investe
con i suoi graffi di leopardo in amore,
cielo nelle stelle, che innumerevoli brillano o cadono!
N. 544
La notte s’appressa agli olivi congelati,
le secche trame nelle gialle foglie,
nei rami contorti dipinti di nero.
Venere! Alta sulle ragnatele, sulle mosche invischiate
nel tragico inverno, Venere alta nell’aria di ghiaccio
Venere s’estende. Venere s’espande con la luce,
avanti a lei già defunta è la luce diurna,
si prepara ora la notte agli acuti dei graffi del notturno zaffìro.
N. 546
O Grecia, mia patria, canto ora i tuoi colli adamantini,
le tue isole ed i pascoli marini, le creste d’onde di cristallo lassù in cielo,
fra le nuvole bianche. Canto ora le montagne azzurre, gonfie d’aria,
che respirano mordendo le tue rive. Rive di vetro oscurato dal tempo,
il tuo verde che conversa con il mare. Eleusi con i bianchi cipressi che s’inoltrano
nel prato circolare della luna, Delfi, fonte primigenia, da cui scaturiscono rocce di sale e
dei,
Corinto, capitello intarsiato sopra i monti, a sorreggere il cielo, al di sopra dei dirupi,
muri d’acqua per la tua campagna, fonti fosche e muschio per la tua campagna, alberi
misteriosi,
neve sui cristiani campanili, serpi per le valli senza fondo, di pietra sterminata,
Nauplia dove un dio ha messo nuvole in metallo fuso, e sopra le torri merli
a difenderne l’onnipotenza, mare plumbeo e fermo come aspettasse l’eternità.
37
O Grecia, mia patria!
N. 547
Là un mio fratello è sepolto, un fratello morto prima di nascere.
Dopo decine d’anni vive in qualche luogo, o in tutte le tane dei pesci,
in tutte le tane dei granchi in questo momento coperte
dall’alta marea.
Dove sei, fratello mio, ossa delle mie ossa, sangue rinsecchito
ora concime, sangue del mio sangue?
In quale collina ti hanno seppellito,
di quanti fu la pietà nel corteo funebre?
Oh, mare del mio sangue, rocce delle mie ossa,
di sotto i raggi s’intravede Tauromenio,
è la mia terra.
N. 548
Tutta la luce del creato fosse negli incunaboli
dove le larve vivono degli astri…
oh aranci in compagnia d’aranci, fioriti di frutta
d’odore campestre di vago cedro dove non forse
s’incamminano gl’insetti divoratori dell’inquieto inverno
alla base delle colonne del bianco casolare ricco d’olmi?
N. 556
Oggi ad Atene strisce di nuvole
fanno ponte nel cielo, dalle rocce laggiù
del centro cittadino si diparte la schiera
degli amanti con peplo
che poi s’adornerà d’oro e d’argento
dinanzi a Pallade Atena.
38
Giammai cerchie di mura ebbero più forte protettrice,
la possente, la sapiente lancia di luce
che guarda in modo severo laggiù fino al Pireo.
Guarda, dalla statua possente, in circolo di numi
altisonanti lentamente volgendosi in eterno ai quattro venti
guarda, tu, Atena, lancia di luce, rispecchiandoti nel sole,
le correnti del mare chiamano te da ogni porto dell’Egeo,
le lenti correnti che attraversano gli stretti
dei Dardanelli, di Sikelìa, di Finisterre,
fino al mezzogiorno delle terre dell’Africa,
Alessandria, e da Antiochia, Izmir, Iràklìon,
fino ai mulini del Peloponneso,
alle barche di Milos, il pescatore ti vede
luminosa salutare la cometa pomeridiana
del tuo invisibile cielo e silenzioso da ogni altura
altisonando vai per gli echi delle valli
di ora in ora fino alla sera richiamata con pacato gesto
delle tue mani, Pallade Atena, e un velo di stelle si stende
attorno a te, venerabile donna che accetti
la benevolenza di questa città:
‘Ημετἐρα δἑ πὀλις οὔποτ’ολεῖται
N. 559
Cipressi di pietra,
io non vi vedo,
da lontano vi immagino immobili nel tempo…
(un giorno vi visiterò e starò con voi,
per cantare il vostro momento di gloria e il mio,
irti come creste di drago
Sangimignan Poggiboniz’ e Colle,
gli ulivi al vento piantati nella creta,
39
e Volterra tagliata sugli sghembi precipizi.
È vero che siete così come mi dicono,
volatili terrestri?)
N. 564
Voglio andare a Manaus, a Botucatu,
fra il Bororo del rio Ponte de Pedra,
respirare aria di Sudamerica.,
fra le conchiglie e le palme e la Terra del Fuoco,
voglio andare nel Cile, nelle sue mille isole,
conversare con gli Indios, cavalcare i lama,
osservare altre stelle, a me sconosciute,
mangiare manioca, estendermi nel suolo
del continente, quando tutto di me sarà puro,
quando non avrò paura nemmeno del grande Sudamerica.
N. 565
Ma invece io ti canto, o Nordamerica, per i tuoi campi di grano,
e stendendomi fra essi, mordendo il cielo e le stelle qui purissime,
(pensarmi vivo tra i morti di fame, donare queste ricchezze
a un altro continente, e poi tornare),
per vivere in una casa di legno, in una piccola fattoria,
nel Colorado, con moglie e figli.
N. 566
Mare, mare, immenso mare, dalle rive innumerevoli,
(i margini di pietra, regno dei granchi)
dagli enormi viventi che in te godono,
mare dell’intima conversazione, mare delle correnti,
dalle lenti correnti che si portano palme abbattute,
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mare dai benefici influssi, mare della vita sognata
ora e sempre
capite gente,
io parlo di Nettuno, il signore delle terre non emerse.
Appendice 4 – Da Il Copernico, mimeo, 1972
Che romba Zeus negli atri giorni dall’alto…
Che romba Zeus negli atri giorni dall’alto,
i suoi macigni cadono,
e nubi nere scuoton l’orizzonte, e in fiamme è l’orizzonte,
piove fuoco dall’alto, il cielo spazza tra le nere trame
–il nero fumo– nel turbinìo dei turbini le foglie,
le foglie rosse cadute nell’autunno –la nera terra.
Tu, bella fra le belle…
Tu, bella fra le belle,
Venere vespertina alta nell’aria,
alta nell’aria di ghiaccio calpestato il fuoco del tramonto,
tu t’incammini soprappensiero
per le strade dei rossi boschi,
alte erbe son deste perché ti cantino,
i prati circolari aperti al lucore lunare,
i platani cortesi di gioia soverchi ti accompagnano,
la rana nascosta nel padule ti canta.
Del mattino…
Del mattino,
il celeste cielo in cui trapasso
con gli occhi pieni di sogni
a te votato e volo in bianchi cirri…
41
La tramontana gelida soffia… [RSA]
La tramontana gelida soffia
e noi nella nostra casetta
infreddoliti amore ci consoliamo
con tiepido vino che ci riempie le vene
e ci spinge a nuovi abbracci
finché non ci scaldiamo sotto le coperte
fra la tenera luce del lumetto.
c’era una dolcezza infinita e l’angelo intonava…
c’era una dolcezza infinita e l’angelo intonava
“Navi felici che dal vago mare…” e noi anime eravamo rapite
da quel canto e intorno c’era una pace infinita.
La stella mattutina splendeva e noi a riva ai piedi del monte
lentamente c’incamminavamo.
In memoria di Minerva Jones
Minerva, è il mondo la poesia: il mondo brutale,
anche, quel che si aderse e di te rise,
spaccata la tua verginità nel letto del pagliaio,
insanguinato lo sporco pavimento te un atroce destino
ghermì, te con le larghe gambe, sia tu bella,
o sia stata non bella, tu bella eri, lo stelo verde
dell’Inapparenza ti si offrì senza inganno.
Io per i prati volo, raccolgo le poesie, dei fiori mutilati
e degli esseri maltrattati la poesia raccolgo,
di tutti accolgo la poesia, bada, Minerva, così dei pentiti
come degli affranti, perché la voce che ora si leva è mia,
e questa voce che ora si leva è mia, e quest’altra è mia,
gli steli d’erba schierati con mistico clamore
te celebrano, come tutti celebrano, consunti sotto terra,
42
sotto terra è giustizia, gli steli d’erba schierati
fanno giustizia, è la linfa che fa giustizia
nel segreto umidore sotto terra, e la luce del sole,
la luce del sole è eterna.
Se poesia è amare, tu certamente hai amato, e se hai
amato –anche uno stelo d’erba– tu poesia, solo poesia hai cantato.
Alla luce del freddo mondo, siam tutti eroi,
alla luce del freddo mondo, così com’era, così com’è ora.
Le molteplici relazioni tra noi uomini –pessime, cattive–
si fanno e si disfanno, e tutti un giorno, tutti, siamo Minerva.
volate via miei versi…
volate via miei versi
seguite le correnti del vento
e rendetemi la gloria che bramo
perché io viva.
Vidi, maestro, grandi navi passare… [RSA]
Vidi, maestro, grandi navi passare (Sogno)
sovra cui un giorno mi parve d’andare
(queste navi andavano in processione
nel vasto mare Oceano senza terra vedere
o lungo coste e da porti insensibili
uscivano, da porti indefinibili)
Appendice 5 – Da Visioni, Sovvisioni, mimeo, 1978-79
Rifacimento
A sera ci salutiamo come per un patto stabilito dalla sorte,
un po’ di tragedia legittima, un po’ di scene idiote, fosche.
Veemenza, sì. Quella della distruzione.
43
Tragedia notevole; a causa, a mio modesto parere, di quella becera,
maledetta Natura così necessitante, amore, un patto
della sorte, ovviamente un po’ forte (amore!).
Pioggia come pioggia del giudizio inatteso…
Pioggia come pioggia del giudizio inatteso:
buio in piazze splendenti una volta,
in morte maschere una pioggia ci specchia,
sospende. La cupola, fantasma
di galassie di pietra
al centro del mondo infero, seno di pietra.
Dinanzi a questo indifferente,
poi entrai nella notte affiochita,
sospesa per lembi tesi.
Ariete, nella notte provvisoria
io dopo entrai come assente,
sognando in alto bellerofonti e pegasi
visibili perché spingendo Ariete
a testa bassa contro un lieve tramonto,
all’altra parte del mondo
avanti a sé tirava freddi e nebbie
la fiamma, in alto, dei cirri
in un’aurora.
Appendice 6 – Da Flora, 1979-80
Sui viali a croce, in diafane e ruvide bolle…
Sui viali a croce, in diafane e ruvide bolle,
raffredda un verde una luce-si-spenge;
nel giorno a mezzo sgargiano le biglie
che cince e merli schioccano, tiri del bosco.
Un rosso-corallo in china diluita,
44
per vesciche natanti si libra;
tocchi del tempo, nella nerezza, pesci
neri serpeggiano tra bei rami scuri…
Integri percettori, e di qual canto…
Integri percettori, e di qual canto,
non gli astri alla deriva su equinozi
o i lauri e i melograni per quel canto
dei figli di finisterre, usignoli,
non arborei precipizi o rovine
sono al canto di cince le susine.
No, che non tocchi il fiore dell’ibisco…
No, che non tocchi il fiore dell’ibisco
e il calmo espandersi, la trama del rossore
in perle d’acqua, né il più fragile venire del vespro
su lanterne e vetri, da cirri boreali. Acque serene
avvolte all’emisfero, velo degli evi nel sidereo tempo.
Né del loto, messo ultramontano, i frutti
che le spoglie mutano di raggio in luce
tocchi l’inverno.
Non alle porte un vecchio allegro,
non bel cielo di bora, non lieto
nell’età, nel venire cieco dell’ora,
ma imploso attendere dell’irrevocata
immane ira del nembo, dell’inverno.
(relazione letta nel convegno Pietro Tripodo tra classicismo e modernità)
45
[1] I. Visco, “Ricordo di Pietro”, Nuova Antologia, 105, 2293, gennaio-marzo 2020, pp.
203-23 (anche in Insula europea, 4 novembre 2019, https://www.insulaeuropea.eu/
2019/11/04/ricordo-di-pietro-tripodo-di-ignazio-visco/);
“A margine delle versioni e dei rifacimenti di Pietro Tripodo”, Insula europea, 1 dicembre
2020 (https://www.insulaeuropea.eu/2020/12/01/a-margine-delle-versioni-e-dei-rifacimentidi-pietro-tripodo/).
[2] I. Visco, “Investire in conoscenza, partendo dai libri”, Anni difficili. Dalla crisi finanziaria
alle nuove sfide per l’economia, il Mulino, Bologna, 2019, pp. 36-41 (anche in Insula
europea, 28 novembre 2019 (https://www.insulaeuropea.eu/2019/11/28/investire-inconoscenza-partendo-dai-libri-di-ignazio-visco/); “Un futuro per l’Europa: tecnologia,
demografia, mercato”, Accademia nazionale dei Lincei, Conferenza istituzionale, Roma 15
dicembre 2023
(https://www.lincei.it/sites/default/files/documenti/Articles/
20231215_conferenza_I_Visco.pdf).
[3] R. Manica, “Notizia sul testo”, in P. Tripodo, Altre visioni, a cura di R. Manica, Donzelli,
Roma, 2007, pp. 119-131; E. Trevi, “‘Non so vivere altrove’: Ricordo di Pietro Tripodo,
Nuovi Argomenti, 6, aprile-giugno 1999, pp. 332-347. Cfr. anche T. Tarquini, “La critica
oltre gli amici”, Nazione indiana, 16 ottobre 2014 (https://www.nazioneindiana.com/
2014/10/15/pietro-tripodo-la-critica-oltre-gli-amici/).
[4] P. Tripodo, “Introduzione”, in P. Tripodo (a cura di), Callimaco-Catullo. La chioma dii
Berenice, Salerno editore, Roma, 1995, p. 24.
[5] In una lunga nota a me indirizzata, dopo aver fornito un’illustrazione del loro
ordinamento (per “gioco fonico”, “transizione metrica” e “media lessicale, stilistica e
metrica … vicina a ciò che voglio”), ricorda tra l’altro come per la composizione di
“Paralogia”, posta al centro della raccolta, vi sia stata “più fatica … che non in tutte le
altre”, che i quattro tipi in cui raccogliere questi otto testi sono “i limiti esterni del bersaglio”
e che la freccia al centro del bersaglio sarebbe costituita dalle “cose di Flora. Solo
secondo Zenone la freccia non potrà mai arrivare al bersaglio”, anche se si tratta di “un
paradosso (παραδοξολγία), altri dicono paralogia, e di paralogia io vivo e comincio”, frasi
da cui si possono cominciare a comprendere, per quanto possibile, alcuni significati del
testo poi pubblicato su Dismisura.
46
[6] Sempre al 1979-80 va riferito l’ultimo lavoro datomi da Pietro, Sepulchra maris, la
traduzione latina delle 24 strofe del Cimitière marin di Paul Valéry, di cui pubblicò le ultime
16 nel 1982 su Dismisura. L’intera traduzione, inclusa la trascrizione delle note critiche e
metriche, è stata pubblicata nel 2023 in Insula europea
(https://www.insulaeuropea.eu/2023/09/11/pietro-tripodo-sepulchra-maris/).
[7] A. Cencetti, “‘Imitabere Pana canendo’. Pietro Tripodo traduttore del Pascoli latino”,
Semicerchio, LXII, 1, 2020, pp. 29-34.
[8] E. Rimolo, “Traduzione e riscrittura in Pietro Tripodo: Orazio, Ausonio, Catullo”,
Semicerchio, LXII, 1, 2020, pp. 6-11.
[9] In Altre visioni Pietro pubblicherà nel 1991 anche il suo rifacimento dell’altro celebre
frammento di Ibico, 7 Diehl (287 Page) e del 2 Diehl di Mimnermo, entrambi non inclusi in
FLORA.
[10] Nella traduzione dal volgare all’italiano balza subito all’occhio come Pietro abbia
deciso di far salire le lodi al Signore non solo da tutte le sue “creature”, ma anche “da”
sole, luna e stelle, vento, acqua, fuoco terra e morte corporale. Nel testo in volgare la lode
è innalzata “cum” tutte le creature (e “spezialmente messor lo frate Sole”) “per” anziché
“da” “sora Luna”, “frate Vento” ecc. A parte l’ambiguità per la lode riferita al Sole, la scelta
appare distaccarsi volutamente da un valore “causale” delle lodi, diversamente dalla
maggioranza delle interpretazioni date in letteratura (e forse anche in teologia, di qui forse
il titolo attribuito a questa versione) al testo originale.
[11] P. Tripodo, “Paesaggi e sentimenti (sulle imitazioni di Attilio Bertolucci)”, Nuovi
Argomenti, 4, luglio settembre 1995, p. 125.
[12] E. Cavallini, “Poeti traduttori di Ibico: Cesare Pavese e Pietro Tripodo, in E. Cavallini
(a cura di), Scrittori che traducono scrittori. Traduzioni ‘d’autore’ da classici latini e greci
nella letteratura italiana del Novecento, 2017, pp. 124-49. Cfr. anche E. Cavallini,
“Poetiche della traduzione e traduzioni poetiche: su alcune versioni da classici greci e
latini nella letteratura italiana”, in G. Cascio (a cura di), Esercizi di poesia. Saggi sulla
traduzione d’autore, Istituto italiano di cultura, I quaderni di poesia, 5, Amsterdam, 2017,
pp. 49-65.
47
[13] P. Tripodo, “Ferma è la notte come una memoria. Appunti di metrica e retorica su
‘Gioco a nascondere’ di Lucio Piccolo”, Nuovi Argomenti, 8, luglio ottobre 1996, p. 85.
[14] P. Tripodo, “Imitabere Pana canendo”, in G. Sica e M.I. Gaeta (a cura di), La parola
ritrovata. Ultime tendenze della poesia italiana, Marsilio, Venezia, 1995, pp. 193 e 194.
[15] P. Tripodo, “Paesaggi e sentimenti (sulle imitazioni di Attilio Bertolucci)”, cit., p. 126.
[16] Ibid., p. 126.
[17] P. Tripodo, “Imitabere Pana canendo”, cit. p. 195.
[18] P. Tripodo, “Viola di morte. Il tradimento”, in T. Tarquini, Landolfi libro dopo libro,
Hetea, Alari, 1988, p. 139.
[19] P. Tripodo, “Adsonat Echo”, Anticomoderno, Convergenze testuali, 1, 1995, pp. 76-7.
[20] P. Tripodo, “Vox circumsiliens. Iperboli, discorsi, parodie”, La Taverna di Auerbach,
2-3-4, 1988, p. 326.
48
«Tutta l’opera di Pietro si può tenere comodamente in una
mano»
Corrado Bologna
«Tutta l’opera di Pietro si può tenere comodamente in una mano, peserà poco più di un
etto». Questa idea fiabesca di leggerezza e di gracilità legata a Pietro Tripodo, alla sua
produzione letteraria finora stampata (non si può che auspicare l’edizione completa
almeno dei preziosi, cospicui materiali conservati da Ignazio Visco), è di Emanuele Trevi,
che la depositò nel cuore di Senza verso. Un’estate a Roma, del 2004, ripubblicato nel
2021. Un pugno di carta, una manata di poesia, cento grammi scarsi di metrica sofisticata,
di ritmo danzante. Anzi, non solo di poesia (come è il caso di Altre visioni, il primo libro,
uscito nel 1991), visto che in prosa ritmica, come si definivano certe scritture tardo-latine e
medio-latine, Tripodo compose i 40 “pezzi” di Vampe del tempo, il suo secondo libro,
pubblicato nel 1998, l’anno prima della morte, e riproposto in una magnifica edizione nel
2019 dalla Stamperia d’arte Il Bulino di Roma, con nove disegni di Enrico Pulsoni e una
Premessa di Emanuele Trevi.
Trevi è maternamente tenero con il suo grande amico spezzato da un male spaventoso,
che si acquattò in quel luogo del corpo dove pensiamo risieda anche l’anima, là dove
nascono le idee e le emozioni, le immagini e le parole. Tutti siamo ancora oggi disperati
per quella che sentiamo come un’ingiustizia, l’orrenda sopraffazione del fato contro una
creatura inerme, irrorata di «giocosa gentilezza, intima a coloro che conoscono il peso
delle parole e sanno come le parole vadano a cadere dentro le anime» (la frase è di
Raffaele Manica).
Aprendo la sua Premessa Trevi diede forma a un’altra figura magnifica della delicatezza,
così del volo come del canto di Pietro: «Vampe del tempo, il secondo e ultimo dei libri di
Pietro Tripodo pubblicati in vita, è talmente gremito di uccelli che lo si potrebbe
paragonare a una voliera. E agli uccelli, naturalmente, si accompagnano tutti i loro suoni:
“zirli, fischi, trilli, ciangottii, cicalecci, improvvisi richiami e melodie inaspettate da un ramo
nascosto”. L’ornitologia di Pietro è talmente raffinata da mettersi in competizione con
49
quella, proverbiale, dell’amato (ma non venerato) Giovanni Pascoli. Il filtro letterario, per
quell’uomo così sensibile e in tutti i sensi delicato che era Pietro, non era un gioco, uno
schermo manieristico e quello che tutto sommato poteva diventare il riparo di uno stile da
amministrare. La lingua artificiale della tradizione, per lui, era il centro della sensibilità,
l’espressione più diretta dell’autentico e della confessione. Quanto più il lavoro di lima era
sottile e complesso, tanto più le parole davano forma all’anima intesa come pura capacità
di attenzione e bisogno di amore».
Credo che esista davvero una leggerezza alata, aviforme, in quello che Emanuele Trevi
coglie, nella poesia di Pietro Tripodo, come «il prodigio della manifestazione, del
manifestarsi delle cose», che precede e accompagna l’antichissimo «lavoro di lima»,
sempre in rima con «rima», da Raimbaut d’Aurenga e Arnaut Daniel, lettori dell’ars
poetica oraziana, fino alle petrose dantesche e a Franco Scataglini. Scataglini ha molto da
spartire con Tripodo: il primo riscrisse à sa manière dal francese antico in anconetano
il Roman de la Rose; il secondo dal francese al latino medioevale il Cemetière marin di
Paul Valéry, e volse i trovatori occitanici in un italiano filtrato attraverso i moderni classici
della nostra civiltà. Così come Paolo Canettieri ha offerto, di Scataglini, l’edizione critica
di Tutte le poesie (Quodlibet, 2022), dobbiamo fare tutto il possibile perché sia pubblicata
un’edizione scientificamente sorvegliata della poesia e della poesia-traduzione di Tripodo,
senza dubbio, insieme a Scataglini, uno dei grandi poeti del secondo Novecento che
stanno giungendo all’ora tòpica della (ri)scoperta del riconoscimento collettivo, ben oltre i
confini dello specialismo.
L’epifania di quello che Trevi chiama «prodigio della manifestazione, del manifestarsi delle
cose», è un «prodigio verbale, il ricongiungersi momentaneo di un’unità infranta, la cosa
appartenendo al suo nome come il nome alla cosa». Raffaele Manica ha scritto parole
altrettanto intense a proposito di Altre visioni e Vampe del tempo, editi insieme presso
Donzelli nel 2007: «Lo schiudersi del senso delle cose avviene per vie impervie, per il
tramite di una disciplina solitaria, cercando nei libri gli esempi del modo migliore di dire, e
passeggiando nei dizionari come si passeggia in una città, nell’attesa che una parola
inusitata aiuti a designare, finalmente con esattezza, quanto si era percepito. Perché poi
tutto ciò che si è percepito non esiste finché non si sia trovato il modo esatto di dirlo».
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Pietro scriveva e traduceva poesia passeggiando nella città delle parole, lui che «aveva
abitato in via Merulana, come in una citazione», secondo la formula bellissima ideata
ancora da Manica, il quale ha saputo carpire un segreto importante nell’ispirazione di
Tripodo: «una delle calamite, uno dei canali della lingua di Pietro si trov[a] […] nella
Cognizione del dolore, in uno dei suoi margini». Questo «margine» gaddiano, propone
Manica con grande e rigorosa originalità, è Autunno, la poesia che chiude la Cognizione, il
“libro della vita” di Tripodo: «Sono portato a credere che Autunno abbia molto lavorato in
Pietro, e in vario modo; innanzitutto come un filtro verso la nostra tradizione; ma anche
con la funzione di dirigere verso certe parole un nuovo senso». Soprattutto mi sembra
straordinario che sia stata individuata con precisione filologica una sutura fra verso e
nonverso, un campo di tensione fra poesia e prosa, così peculiarmente tripodiano.
Dai classici greci e latini alla Provenza a Trakl a George a Machado a Gadda, che voli
stratosferici! Quello di Pietro Tripodo è il prodigio di una fisica ritmica e verbale
transustanziata in metafisica di ritmo e di canto, con lungo e sudato lavorìo di ricerca.
Prima che in Pascoli questo prodigio verbale sbocciò nei canzonieri-uccelliere dei trovatori
provenzali, in Arnaut Daniel, il “suo” Arnaut, l’ultimo poeta con cui Pietro giocò e gareggiò.
Proprio intorno a Arnaut ci incontrammo nell’Aula 2 della Facoltà di Lettere della
“Sapienza”, dove ero appena approdato come relativamente giovincello Ordinario di
Filologia romanza. Me lo presentarono Paolo Canettieri e Carlo Pulsoni, che di lui erano
già interpreti sofisticati e amici affettuosi. Tenemmo un formidabile, indimenticato
seminario su Arnaut, sul “suo” Arnaut, a partire dalla recentissima edizione (dicembre
1997) dei Canti di scherno e d’amore, introdotti da un magnifico saggio di Paolo Canettieri,
che a me pare fra i più importanti studi sulla poetica di Arnaut e su quella di Tripodo: basti
ricordare lo spoglio di parole rare, quali croia e andana, che riemergono in Vampe del
tempo, in un intreccio dove non si sa più se il poeta preceda il traduttore, o il traduttore il
poeta.
Carlo me lo ha ricordato pochi giorni fa. Doveva essere l’inizio di primavera del 1999: fu
l’ultima “apparizione” in pubblico di Pietro, visto che il 4 maggio di quell’anno letteralmente
“scomparve” agli occhi di noi, suoi ammiratori. Vedo ancora il suo sorriso, il suo
entusiasmo, la sua felicità di poter cinguettare la lingua di Arnaut trasferita nella propria,
facendola godere agli studenti, a noi tutti.
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Rammento quell’artigianato di trapano, di bulino, intorno alle sillabe incastonate nel ritmo,
che veniva a galla durante il seminario, valutando ogni singola scelta, ogni rispetto
dell’originale “a calco”, ogni eco di ritmo, che prevale perfino sul significato. «Ovviamente,
come scrittore, apparteneva alla famiglia nevrotica dei cesellatori mai contenti, dei
kamikaze della variante, ma la cosa impressionante di Pietro, come avrei scoperto
conoscendolo da subito abbastanza a fondo, era il fatto che tutto, nella vita, poneva
crudeli tranelli alla sua irresoluzione e al suo senso di incapacità» (E. Trevi).
È anche la levitazione conquistata a fatica da Paul Valéry per il quale, come ricordava Italo
Calvino nella lezione americana sulla Leggerezza, «il faut être léger comme l’oiseau, et
non comme la plume», giacché «la leggerezza» va associata (dice ancora Calvino) «con
la precisione e la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono al caso». Quel
Valéry, non si dimentichi, il cui Cimetière marin Pietro Tripodo tradusse in latino (Sepulchra
maris): e fu il suo esordio in veste di poeta-traduttore, un fare che si può mille volte rifare,
una «poésie laborieuse», la quale (diceva Valéry) è solo un «état de travail qui peut
presque toujours être repris et modifié». Questa genealogia importantissima, in cui
«esattezza e rigore prevedono una disposizione all’inchiesta paziente e minuziosa», è
stata ricordata dal migliore studioso di Pietro Tripodo traduttore di Arnaut Daniel dopo
Paolo Canettieri, cioè Zeno Verlato («Semicerchio. Rivista di poesia comparata», LXII,
2020/1).
Arnaut Daniel «era molto abile nell’imitare gli uccelli, come nella poesia Autet, dove
s’arresta in mezzo al suo canto e grida “Cadahus, en son us”, come griderebbe un uccello,
e rima accortamente sul grido, senza spazio in cui poter giocare sulle parole: “Mas pel us,
estauc clus”, e così negli altri versetti. E in L’aura amara egli canta come gli uccelli in
autunno, e qualche altro effetto simile è nella sua miglior poesia, Doutz brais e critz». È
questa la figura alata e canora, perfettamente estratta dai numerosi incipit stagionali della
poesia trobadorica, con cui Ezra Pound nel 1909 apriva la vera e propria razo di un lungo
saggio su Arnaut Daniel, che avrebbe riedito nel volume Instigations (1920).
Mettendo a confronto le versioni di Dous brais e critz di Fernando Bandini e di Pietro
Tripodo, Zeno Verlato dimostra che per quest’ultimo la traduzione è una «assimilazione».
Ed ecco perfettamente «assimilati» per il ritmo e per il lessico, nel passaggio dal
provenzale all’italiano, i versi che colpivano Pound: «e no.i te mut bec ni guola / nuls
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auzels, ans brai e canta / quadaus / en son us», che in Tripodo diventa, con esatta
traslazione: «e non tien muto becco né gola / alcun uccello anzi grida e canta / ciascuno /
al suo uso». Qui risuona già la voliera festosa e cinguettante delle «poesie senza verso»
di Vampe del tempo, scandite dalle cesure e dalle pause ritmiche: «Feste di rondini nelle
mattine antiche dei cui deserti noi ci si stupisce […] Polverio dorato, e gelo
d’acquasantiera; dalle vetrate corte, alte, strepere d’ali nella luce, breve; nevicare fioccoso
piume rade». Questa è l’ornitologia lirica di Pietro Tripodo: le assonanze, le allitterazioni, le
onomatopee, la voce originaria della poesia che batte nello «strepere lieve d’ali nella luce,
breve». «Il ritmo di Pietro è nelle pause», dice Raffaele Manica. Proprio «strepere lieve
d’ali nella luce, breve», per esempio. «Breve» sembra cadere nel bianco, dopo una pausa
minima, una lievissima cesura: ma prima si è disteso, quasi inavvertito, un intero
endecasillabo, che andava in cerca d’una cadenza musicale per chiudersi sporgendo oltre
la misura.
«Tutta l’opera di Pietro si può tenere comodamente in una mano, peserà poco più di un
etto». Un’idea stupenda, questa di Emanuele Trevi. Di Pietro Tripodo ognuno di noi
conserva una fulgurazione, un’immagine tutta sua. Una tale varietà càpita raramente,
richiede che si tratti di un’anima dai colori d’arcobaleno, colma di luci e d’ombre. Io, più
che come un pugno di cento grammi scarsi di carta stampata, o uccellino smarrito o
lievissima piuma, Pietro Tripodo me lo sono sempre figurato come un fragile, elegante
treppiede, un trìpode, un trìpous (da trèis poùs, appunto «tre piedi»).
Il trìpode, dice l’Enciclopedia Treccani, «presso i Greci assunse forme svariatissime, di
una bellezza costantemente perfetta e armoniosa». Ecco, per me Pietro Tripodo è sempre
stato un trìpode armonioso, però sempre in bilico, scivolato via dalla sua natura sdrucciola
e divenuto tripòde, quindi Tripòdo. Instabile, con tre piedi anziché due o quattro, quasi
incarnasse per allegoria fin dal nome l’ultima tappa dell’antichissimo enigma che la Sfinge
pose a Edipo. Lui che alla “terza età”, quella del bastone e quindi dei “tre piedi”, non ebbe
il destino di giungere, lui, Tripodo, visse sempre sul bordo del ribaltamento, sempre in
duello con la poesia «come esercizio di lingua e di pensiero in tensione verso l’esattezza»
(a parlare è ancora Raffaele Manica).
È strano come, quando si lega, con gesto mentale quasi inconsapevole, il nome e il volto
di qualcuno a un oggetto, si continui poi lungo gli anni a veder balzare fuori della mente
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quelle associazioni strambe, forse le prime che l’inconscio tratteggia. Quando leggo o
sento pronunciare il nome “Tripodo”, la prima immagine che mi balena è quella del trìpode
fumigante su cui s’inebria di futuro e di profezia la Pizia, la cui fine comicamente
ingloriosa, un grottesco inabissamento insieme con il suo oracolo, narra in un geniale
librino stracolmo di ironia Friedrich Dürrenmatt: «La stramba sacerdotessa di Delfi
Pannychis XI, lunga e secca come quasi tutte le Pizie che l’avevano preceduta, ascoltò le
domande del giovane Edipo, un altro che voleva sapere se i suoi genitori erano davvero i
suoi genitori». Alle cinque passate, invece di chiudere l’ufficio responsi fatali, la Pizia fa a
Edipo «una profezia che più insensata e inverosimile non avrebbe potuto essere, la quale,
pensò, non si sarebbe certamente mai avverata». Annoiata, stanca del suo ruolo profetico,
la Pizia notò il pallore improvviso di Edipo, «pur assisa sul tripode e avvolta com’era da
una nuvola di vapori, e pensò che dovesse trattarsi di un credulone straordinario». La
Pizia non crede più nella propria natura: «anzi vaticinava in quel modo proprio per farsi
beffe di coloro che credevano in lei, col risultato però di destare nei suoi devoti una fede
assolutamente incondizionata». Assisa sul suo trìpode fumigante «la Pizia profetava a
casaccio, vaticinava alla cieca».
Ecco, quel trìpode eternamente acceso fino all’ultimo guizzo, malfermo quanto pieno di
grazia, inebriante con i suoi fumi come il destino della Pizia, mi ricorda il destino di Pietro
Tripodo, trìpode trasformato in tripòde, da sdrucciolo a piano, poeta che fu tale in quanto
traduttore e traduttore che fu tale in quanto poeta: fornace così ardente da fondere nell’oro
i versi propri e altrui, prendendo alla lettera la metafora fabbrile dei trovatori, ma facendola
vivere e vibrare rendendo naturale l’artificio.
Anzi, mi sono sempre domandato se già da bambino, quando scoprì il suono del nome
scelto per lui dai genitori, non si stupisse di quel chiacchiericcio nascosto nelle sillabe, fra
nome e cognome, un “tro-tri” che poteva anche sembrare un “chiù-chiù” da assiuolo
pascoliano imposto per gioco da una fata durante il battesimo. Quel “tro-tri” di Pietro
Tripòdo è di certo un segno fatale, una marcatura del destino. Ines Morisani mi ha
raccontato l’incredibile storia dello zio, anche lui Pietro Tripodo (da cui scaturì quasi per
obbligo il nome di Pietro il Poeta), a cui Giovanni Pascoli, quando insegnava a Messina,
scriveva come a un «caro allievo». Quel nome, quel nodo pascoliano, dovettero
impressionarlo, lasciar traccia nella sua vita di adolescente, quando studiava al Liceo
Tasso italiano, latino e greco, e già si appassionava al Pascoli poeta bilingue. Sentite il
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suo cognome intenzionalmente annidato, sulle prime quasi invisibile, ma poi ribattuto con
apofonia vocalica, nell’attacco della 27 vampa del tempo: «Lì dalle mie coltri odo il
richiamo delle innocenti strigi; inerte è il pensarti, e penso che sognarti nulla muti fra me e
te». Il “tro-tri” si nasconde nelle coltri, avvolto nelle quali Tripodo dice: odo le strigi. Poeti
forse si nasce; prosatori-poeti di certo si diventa.
Le versioni di Pietro Tripodo sono non soltanto un trìpode ardente, un’officina da cui
escono vampe, del tempo e del ritmo: ma un orticello, una piantagione di creatività
linguistica e ritmica. La sua ricerca nelle fibre segrete della parola è insieme chirurgica e
sognante, con una paradossale, rarissima congiunzione. Strappando «il proteiforme
Arnaldo Daniello» dalla fama di poeta artificioso e sperimentalistico, fondata su una
malintesa interpretazione del dantesco «miglior fabbro», come dimostra Paolo Canettieri,
Pietro Tripodo riuscì a restituire respiro allo spirito di gioco e di sfida tra poesia e vita, che
intride Arnaut, nell’atto stesso in cui lo trasferisce nella propria lingua, mimeticamente.
Anzi, è la mimesi dell’evento folgorante in cui il poeta è “ispirato” a costituire il fulcro
dell’altissima astrazione mentale ove tradurre significa comporre, poetare. Quell’equilibrio
difficile che Paul Valéry definiva «hésitation prolongée entre le son et le sens» è raggiunto
da Pietro Tripodo attraverso l’immersione totale nella tradizione della lingua poetica
italiana, nella quale lascia risonare l’eco lunga del provenzale. Come in un caleidoscopio i
cromatismi verbali si moltiplicano e si addensano, creano forme fantasmatiche, riportano
alla vita lo spirito dell’originale e ne attualizzano molte potenzialità ancora inespresse.
Non so quanto Pietro abbia letto, studiato, amato Walter Benjamin. Era del 1948, aveva un
paio d’anni più di me. E credo che, come me, possa aver incontrato Benjamin nella
geniale raccolta curata per Einaudi da Renato Solmi nel 1962, quando entrambi, senza
conoscerci, eravamo adolescenti. Mi piacerebbe poter dimostrare, un giorno, che così è
stato. Nel Compito del traduttore, che Benjamin scrisse nel 1921, è contenuta una delle
definizioni più tripodesche della forma-traduzione, che Pietro, trìpode sempre acceso,
infiammato fino all’ultimo istante da un fuoco sacro come quello della Pizia, avrebbe di
certo condiviso: «La traduzione è una forma. Per intenderla come tale, bisogna risalire
all’originale. Poiché la legge della traduzione è racchiusa in esso, o nella sua stessa
traducibilità. […] Se la traduzione è una forma, la traducibilità deve essere essenziale a
certe opere. […] Essa è in intimo rapporto con l’originale in forza della sua traducibilità.
[…] Può essere definito naturale, o meglio ancora un rapporto di vita. Come le
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manifestazioni vitali sono intimamente connesse col vivente senza significare qualcosa per
lui, così la traduzione procede dall’originale, anche se non dalla sua vita quanto piuttosto
dalla sua “sopravvivenza”».
Nella fiammata ininterrotta del trìpode la sopravvivenza dell’originale si radica nella sua
perenne traducibilità, nel suo fumigare, nel suo pericolante dovere e potere sempre di
nuovo essere scritto, riscritto, tradotto, ritradotto. L’allegoria dürrenmattiana
dell’inabissamento della Pizia con il suo trìpode, che travolge con sé il passato, il presente
e il futuro, mi sembra di poterla decrittare nella concorde evocazione del saggio di Giorgio
Pasquali sull’Arte allusiva come ispiratore di Tripodo, compiuta da Emanuele Trevi e
Raffaele Manica. Pasquali sottolineava, dice Trevi, come la lingua della poesia sia «un
sistema solidale di echi, un gioco di ripetizioni e variazioni di vertiginosa e illuminante
coerenza, capace di annullare le distanze di spazi e di tempi in una sorta di simultaneità
magica e iniziatica. Le persone come Pietro non si lasciano ingannare da nessuna sirena,
sanno che è necessario tenere in vita la fiamma senza chiedere nulla in cambio al futuro».
Scompare la Pizia, è scomparso Tripodo. Ma resta il fiammante trìpode/tripòde, a tenere in
vita la fiamma della poesia e della traduzione, a continuare a fondere l’oro, l’aur della
parola lirica, per raffinarlo, e insieme per afinar ed estera l’animo del poeta: appunto, con
le parole di Benjamin e di Pasquali, far «sopravvivere» la fiamma, «tenerla in vita senza
chiedere nulla in cambio al futuro».
corrado.bologna@sns.it
(relazione letta nel convegno Pietro Tripodo tra classicismo e modernità)
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Pietro Tripodo e il greco
Lorenzo Calafiore
È stata più volte ribadita dalla critica – anche nel titolo di un importante convegno
fiorentino del 2019 – la definizione di Pietro Tripodo come ‘poeta e traduttore’, con cui si
vuole sottolineare come la sua attività di traduzione da varie lingue, antiche e moderne,
sia un momento non dissociabile dall’atto poetico vero e proprio. In questa sede, cercherò
di prendere in esame alcune traduzioni o – con termine più esatto e anche più tripodiano –
rifacimenti dal greco antico che mi sembra svolgano un ruolo importante per la ricerca
delle immagini e degli strumenti espressivi della sua lingua poetica, attratta, come ha
scritto Raffaele Manica, «da un punto antecedente come da una calamita». Accanto ai
classici moderni e agli autori di lingua latina (si pensi a Orazio naturalmente, a Catullo, ad
Ausonio, ma anche al Pascoli latino), la lingua e la letteratura della Grecia antica
attraggono Tripodo fin dagli anni della formazione liceale al “Tasso” di Roma, in cui – come
ricordato da Ignazio Visco, suo compagno di classe – beneficia degli insegnamenti di un
valido docente di latino e greco, Raffaele Argenio, e comincia ad essere irresistibilmente
attratto dai suoni delle parole e dalle loro combinazioni. Ma di fatto Pietro Tripodo, molto
greco già nel cognome, a quel mondo mediterraneo di luci meridiane, estati metafisiche e
vaste distese marine si sentiva indissolubilmente connesso per via della famiglia, legata
alla Magna Grecia, e particolarmente a Messina, luogo di nascita del padre e dello zio suo
omonimo. Della Sicilia, che sorvola con la mente e con il cuore nella lirica n. 523
di Antologia Poetica (la prima raccolta di liriche di Tripodo) si dichiara figlio, professandosi
«greco d’origine» e confessando di essere pervaso dalla nostalgia delle terre distese e
delle isole («Io, greco d’origine – nel corpo la nostalgia delle terre distese/ e delle isole –/
dalla terra che confina con tre mari,/ la Sicilia dalle tre punte cardinali,/ nacqui. Dalla fonte
d’Aretusa, dalle nere pendici dell’Etna/ (o dalla bocca più grande del vulcano), dai ciclopici
scogli/ del mare, dalle sorgenti di ghiaccio,/ lungo l’anima delle terre cavernose,/ fino alle
incontaminate foci dell’Alcàntara»). In un’altra lirica giovanile (la n. 546) dirà apertamente
che la Grecia è la sua patria («Grecia, mia patria!»), mentre in clausola alla poesia che
figura al n. 556, al termine di un appassionato elogio di Atene, collocherà un verso del
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legislatore Solone (fr. 3 G.-P.): ἡμετέρα δὲ πόλις κατὰ μὲν Διὸς οὔποτὀ ᾽λεῖται. La
citazione è in forma abbreviata: Solone voleva dire che la città di Atene non morirà per il
destino di Zeus, ma per il malgoverno degli uomini; per Tripodo è sufficiente dichiarare che
Atene, la sua amata Atene, non morirà mai.
La Sicilia torna in una delle rielaborazioni originali – perché non si tratta di traduzioni in
senso stretto – dall’Odissea, dove si legge una singolare apostrofe a Ulisse da parte di
una donna, forse Calipso o Circe, che richiama in una chiave originale il motivo letterario
della relicta, della donna abbandonata, con evidenti contaminazioni con la vicenda di
Didone raccontata nel IV dell’Eneide. Ma ciò che merita di essere sottolineato è il richiamo
alla terra di Sicilia, con la menzione dei Faraglioni dei Ciclopi nella costa orientale (non c’è
nemmeno bisogno di nominare l’isola) e soprattutto «l’azzurro mare al largo di
Tauromenio». Tauromenio è il nome greco di Taormina, e l’azzurro mare è quello in cui
Pietro Tripodo amava tuffarsi e nuotare nelle estati passate nella casa di famiglia a
Mazzarò. Ecco quindi, da parte del poeta, un gioco erudito di appropriazione sentimentale
del mito greco, che lo riporta ai suoi luoghi dell’anima.
Come si è già anticipato, Tripodo lavora direttamente su alcuni testi della letteratura greca
e produce numerose traduzioni e rifacimenti, molti dei quali, tuttora inediti, si trovano nella
sezione denominata Dei lirici greci della raccolta Il Copernico (1972), allestita in forma
dattiloscritta dallo stesso Tripodo e donata ad amici e parenti. Tra gli autori greci
frequentati da Tripodo spicca Ibico, il grande lirico nato a Rhegion nel VI sec. a.C., e
dunque magnogreco come lui si sentiva (il poeta, come si desume dalle testimonianze
degli amici, amava la Calabria, la «venerabile» terra cui dedica un ritratto molto
appassionato nella lirica 537 di Antologia poetica). Ibico è il poeta di un eros che, in
accordo con una sensibilità piuttosto diffusa in epoca arcaica, si configura come forza
inarrestabile e incessante e domina come un despota l’animo degli uomini. Su Pietro
Tripodo traduttore di Ibico ha scritto contributi importanti Eleonora Cavallini, che si è
soffermata con attenzione sulle due versioni del fr. 287 Davies, fornendo una convincente
interpretazione dei due testi anche alla luce di alcuni richiami intertestuali. Di queste
traduzioni, tuttavia, esistono due ulteriori versioni inedite, una nella medesima silloge Dei
lirici greci, un’altra pubblicata negli anni Ottanta insieme ad altri componimenti, sotto il
titolo di Amplitudine del sole, nella rivista Prato Pagano. La prima non presenta elementi di
eccezionale novità rispetto alle versioni note, mentre nella seconda Tripodo opta per
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scelte più radicali, ma certo la presenza di ben quattro versioni del frammento 287 dà il
senso del continuo labor limae del poeta sui suoi testi, mai definitivi e sempre soggetti a
ripensamenti.
Altre due brevi traduzioni, di cinque versi ciascuna, sono ricondotte al nome di Ibico nella
silloge tripodiana. Il primo frammento («La cicala frinisce, i rami sono stanchi/ di reggerla,
misteriosa è la corteccia/ dell’albero, il mio cuore brucia (desi-/ dera pace e verità),
ardendo come le/stelle di fuoco nella grande notte») si apre su una cicala che frinisce –
immagine in sé pascoliana – con i rami stanchi di reggerla. Non si trovano cicale in Ibico,
da cui invece derivano sicuramente gli ultimi due versi, che traducono, in modo piuttosto
letterale, il fr. 314 Davies; allo stesso modo, l’immagine del cuore che brucia potrebbe
richiamare il fr. 286 dello stesso Ibico, dove pure il concetto è più sfumato. Se si considera
tuttavia la traduzione operata da Tripodo nella medesima silloge, che forza il senso del
frammento ibiceo, si trova qualcosa di molto simile: «ma senza che si/ fermi, Amore, –
senza primavera – mi brucia/ nelle vene come vento pungente del nord se la/ folgore
scoppia». La metafora dell’amore come fuoco, di infinita fortuna dall’antichità fino ad oggi,
rimonta a Saffo, la poetessa che ha fondato la fenomenologia e l’estetica dell’eros
occidentale: sia nel fr. 31 V., la famosa ode della gelosia tradotta da Catullo (e Tripodo
traduce il rifacimento catulliano), sia, in modo ancora più evidente, nel fr. 48 V. Quanto alla
presenza della cicala, al di là di alcune suggestioni che potrebbero essere giunte al poeta
attraverso i moderni (come il d’Annunzio della Tenzone), a mio parere Tripodo potrebbe
avere in mente un passaggio delle Opere e Giorni di Esiodo, che egli stesso traduce nella
medesima sezione (vv. 582 e ss.). Si tratta, nell’ambito dell’intento didascalico che muove
l’opera esiodea, dei precetti relativi all’estate, in cui si deve conservare il raccolto,
preparare il fieno e svolgere altri compiti analoghi appropriati al periodo. A Tripodo non
interessano però i precetti, ma la descrizione del paesaggio, dove campeggia (vv. 582-3)
una cicala che, seduta su di un albero, diffonde il suo canto. Interessa a Tripodo il
paesaggio dell’estate ‘spossante’ (nel greco di Esiodo καματώδης), il sole abbacinante
sul paesaggio mediterraneo, il momento dei demoni meridiani, in cui, come scrive in una
lirica giovanile, «è tremendo il sonno del meriggio,/ quando la morte è vicina, proprio
perché ormai non la si teme». Un’estate bruciante, quindi, in cui brucia anche il cuore, che
arde come stelle di fuoco nella grande notte: e dunque la metafora d’amore si riflette
nell’evocazione, solo allusa per via intertestuale, del paesaggio bruciato dal sole
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dell’estate. Ecco dunque un piccolo esempio del modus traducendo di Tripodo: selezione
del materiale, tagli, riformulazioni, collage di testi diversi accomunati da medesime
suggestioni, colte per intuizione dallo sguardo del poeta, che non dà vita a semplici
traduzioni, ma a opere poetiche a sé stanti, sulla stessa linea, e tuttavia a mio parere con
una più profonda consapevolezza linguistica e letteraria, di altri letterati del Novecento
(Quasimodo, Pasolini). Osserva Emanuele Trevi che «l’interpretazione, per giungere al
suo scopo, deve selezionare, ristrutturare, amplificare», per «ottenere quel regime di
indistinzione tra le parole proprie e quelle altrui nel quale è ancora possibile scommettere
sul significato» E ancora: «la lettura è sempre vincolata alla logica dell’inventio: senza di
essa, semplicemente, ciò che si legge non esiste». In questo desiderio di toccare le radici
profonde dei testi e in questa costruzione di significato per via combinatoria, con una
padronanza assoluta degli strumenti poetici mi sembra risieda il senso ultimo della attività
di traduttore di Tripodo.
Il secondo frammento («Il canto di Narciso adolescente/ echeggia nei giardini, negli orti,/
l’olmo respira il fiotto del vento,/ quando l’insonne splendido mattino/ desta gli uccelli») ha
per oggetto il canto di Narciso in un paesaggio naturale, con la presenza di un olmo, che
richiama contesti virgiliani e oraziani. Ibico non ha mai parlato di Narciso, anche perché
l’elaborazione del mito, allo stato attuale delle conoscenze, non si può far risalire oltre il I
secolo a.C., con la prima attestazione generalmente attribuita al mitografo Conone e la
prima narrazione distesa al terzo libro delle Metamorfosi di Ovidio, da cui poi il mito si
diffonde nella cultura europea e conosce una certa fortuna nel Novecento, grazie anche
alla sua lettura in chiave psicanalitica. Dov’è dunque Ibico in questa traduzione di Tripodo?
Ancora in clausola: «quando l’insonne, splendido mattino desta gli uccelli» è traduzione
piuttosto fedele del fr. 303b di Ibico, con una variazione: il greco ἀηδόνας di Ibico significa
‘usignoli’, mentre Tripodo traduce più genericamente con ‘uccelli’. Quanto alla
caratterizzazione di Narciso adolescente, essa può certamente discendere dalla
descrizione ovidiana del mito, dove si dice che il figlio di Cefiso ha sedici anni e quindi si
trova a metà tra la condizione di puer e di iuvenis (Met. 3.351-2). Tuttavia, mi sembra
significativo notare che Carlo Emilio Gadda, autore letto e riletto da Tripodo, è autore di un
curioso saggio, intitolato Emilio e Narcisso, in cui fornisce una ‘sua’ interpretazione del
mito di Narciso (apparso per la prima volta nel 1949, è poi confluito nella raccolta I viaggi
la morte, uscita per Garzanti nel 1958, ripubblicata nel 2023 da Adelphi). In questo scritto
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Gadda compie una sorta di esegesi, in chiave marcatamente ironica, del racconto
ovidiano della storia di Narciso, commentando di volta in volta i vari aspetti della vicenda e
desumendone considerazioni su un piano pseudopsicoanalitico riguardo al complesso di
Narciso. Tripodo certamente conosceva Ovidio, ma non sembra fuori luogo immaginare
che il testo di Gadda possa aver funzionato come testo sorgente.
Sempre alla sezione Dei lirici greci appartiene la traduzione di un breve passaggio dal III
libro (vv. 744-50) delle Argonautiche di Apollonio Rodio, un meraviglioso notturno (Tripodo
si era cimentato con il genere vertendo in italiano, con una traduzione piuttosto rigorosa, il
famoso Notturno di Alcmane). È la notte del tormento d’amore di Medea, la notte che
precede la pericolosa sfida lanciata da Eeta, re della Colchide, a Giasone: aggiogare tori
che hanno zoccoli di bronzo e sputano fuoco dalle narici. Un silenzio perfetto avvolge la
Colchide, quasi una calma prima della tempesta. La traduzione di Tripodo è piuttosto
aderente alla lettera del testo, con piccoli scostamenti: la personificazione della notte, la
traduzione di πόντος (‘mare’) come ‘Oceano’, ‘videro apparire’ per il semplice
‘guardavano’. Forse meno pregnante è la resa della chiusa del verso 750, che recita
letteralmente «il silenzio possedeva la tenebra nera», mentre Tripodo traduce «c’è silenzio
nel nereggiare dell’ombra». Merita tuttavia di essere notato, per la traduzione del greco
κνέφας, l’utilizzo dell’avverbio ‘tenebricosamente’, che rimanda immediatamente al terzo
carme del Liber catulliano, laddove il poeta piange la morte del passero di Lesbia,
incamminatosi nelle tenebre dell’Ade. Tale carme Tripodo lo conosceva bene, poiché lo
aveva tradotto (si trova sempre nella silloge dei lirici greci, a p. 56): ma in quella sua
traduzione si legge semplicemente ‘esso cammina lungo un tetro sentiero’. L’aggettivo
tenebricosus conosce una sua fortuna nella letteratura italiana, e trova impiego presso
autori conosciuti e amati da Tripodo: anzitutto il Gadda del Pasticciaccio, ma anche lo
scrittore maccheronico cinquecentesco Teofilo Folengo, di cui, secondo la testimonianza di
Emanuele Trevi, Tripodo parlava, e che quindi conosceva.
Nella medesima sezione intitolata Dei lirici greci, le pagine 51-53 del dattiloscritto sono
occupate dalle traduzioni di Tripodo di otto epigrammi compresi nella cosiddetta Antologia
Palatina (o Antologia Graeca), una poderosa raccolta di testi epigrammatici di datazione
anche molto difforme allestita in età bizantina. Tripodo traduce quattro epigrammi dal V
libro, di contenuto erotico, e quattro epigrammi dal VII libro, tre dei quali di contenuto
funerario. Se la scelta degli epigrammi riflette una contrapposizione fra eros e thanatos, tra
61
il vitalismo dell’amore e l’incombenza della morte, temi che solcano la produzione
tripodiana, può essere significativo in questo caso cercare di capire da dove Tripodo
possa aver tratto il testo da tradurre. Al di là delle paludate traduzioni dell’inizio del secolo
di Veniero (1905) e Ettore Romagnoli (1940-8), il roboante traduttore degli anni del
fascismo, una buona selezione di epigrammi fu tradotta nel 1957, per l’editore Casini di
Roma, da Annunziato Presta. Alla traduzione di un florilegio dell’Antologia Palatina si
dedicò Salvatore Quasimodo, già curatore, nel 1940, di una scelta di Lirici Greci (questo il
titolo dell’antologia, da cui Tripodo potrebbe aver tratto ispirazione per la scelta del titolo
della sezione del dattiloscritto), che fece epoca e influenzò profondamente un’intera
generazione. Quasimodo pubblica il suo Fiore dell’Antologia Palatina nel 1958, e in
seconda edizione nel 1968, cioè negli anni in cui Tripodo attese alle sue traduzioni. Negli
anni Sessanta videro inoltre la luce, a cura di Pietro Zari, la traduzione del libro V
(Epigrammi erotici, 1964) e una scelta dei libri VI e VII (Epigrammi votivi e sepolcrali,
1965): forse proprio queste edizioni di singoli libri possono essere state utilizzate per i testi
greci del V e del VII libro tradotti da Tripodo.
In conclusione di questa breve rassegna, da cui sono stati esclusi, solo per ragioni di
tempo, altri autori greci non meno importanti (come il Callimaco della Chioma di Berenice,
con l’ovvia intertestualità di Catullo, ma anche Alcmane, Archiloco, Teognide, Teocrito, gli
epigrammisti sopra menzionati dell’Antologia palatina) si trae l’impressione di un poeta,
Tripodo, profondo conoscitore della lingua greca, di cui si appropria per trarne significati
ulteriori e le cui immagini archetipiche riversa nelle sue liriche raffinate, un filologo in
contatto costante e fecondo con gli autore della grecità, che mette in dialogo con la grande
letteratura contemporanea. In altri termini, un umanista nel senso più profondo del
termine, poiché, come ha osservato Gabriella Sica, «quel suo tradurre era, in realtà,
l’esclusiva applicazione della sua poetica umanistica, lo svolgersi integro del suo spirito, la
convinzione che è una singola nota del canto ciò che fa risorgere l’universo». Credo sia
giunto il momento che Pietro Tripodo, attento e consapevole classicista, sia guardato
come un classico della nostra epoca, non solo presso gli specialisti, che lo conoscono e lo
apprezzano da decenni, ma anche presso il grande pubblico.
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«Nell’incerta ombra di una lingua che fu»:
i “Sepulchra maris” di Pietro Tripodo
Eleonora Rimolo
Sepulchra Maris è il risultato della traduzione di Le Cimetière Marin di Paul Valéry, che
Pietro Tripodo completò presumibilmente nel 1979.
Nel periodo compreso tra il 1979 e il 1981, Tripodo cedette a Ignazio Visco la sua
traduzione in latino medievale dell’opera di Valery, intitolandola appunto Sepulchra Maris;
ad essa era annessa una fotocopia de Il Cimitero Marino tradotta da Mario Tutino nel 1966
per Einaudi, con il testo originale francese a fronte e l’epigrafe tratta dalla terza pitica di
Pindaro.
Il testo si articola in due sezioni: la prima, rispettando il formato originale dell’autore,
costituisce la traduzione delle ventiquattro sestine del Cimetière. Tutte le strofe tradotte, in
versi decasillabi, sono composte da sei versi ciascuna, con l’eccezione delle prime tre
(sette versi ciascuna) e della sesta (otto versi). Della suddetta traduzione, Pietro Tripodo
pubblicò su «Dismisura» (XI, 57-60 agosto 1982, p. 25), sotto il titolo Sepulchra Maris, le
strofe dalla IX alla XXIV. Nel manoscritto originale, così come nella pubblicazione in rivista,
i due emistichi di ciascun verso sono visivamente separati quando è possibile farlo in
modo completo. Sorgerebbe qui spontaneo l’interrogativo su quale motivo abbia spinto
Pietro Tripodo a decidere di non pubblicare le prime otto strofe; tuttavia non è la prima
volta che la sua indecisione nel considerare un suo lavoro definitivo gioca un ruolo
cruciale nella scelta di tenere in cantiere le sue opere. È dunque presumibile che, in
questo caso specifico, il poeta non si sentisse completamente a suo agio con le scelte
operate a livello metrico, lessicale e grammaticale durante il processo di traduzione. Infatti,
nelle Note allegate alle strofe contenute nel numero XI di «Dismisura» si fa esplicito
riferimento alla sua incertezza e alla sua ricerca mai conclusa della perfezione.
La seconda parte del dattiloscritto originale, invece, intitolata Quid valérienne e note,
consta di un dattiloscritto composto da 9 fogli di circa 70 righe ciascuno a interlinea
singola con numerosissime revisioni manoscritte.
63
Il Quid valérienne e note, che seguono la traduzione delle ventiquattro strofe del Cimetière
Marin rappresentano, quindi, un «testo quasi concluso» contenente «osservazioni
riguardanti la traduzione», come indicato nella nota aggiunta da Pietro Tripodo alla fine
della sezione di traduzione del Cimetière pubblicata su «Dismisura». Mentre le annotazioni
forniscono dettagli sulle scelte metriche e lessicali adottate, il Quid valérienne costituisce
un documento di ordine metodologico interessante per comprendere le basi teoriche delle
successive traduzioni poetiche di Tripodo, nonché dei suoi rifacimenti. All’interno del testo,
si trovano non solo osservazioni sulle ragioni del latino medievale come lingua per tradurre
il Cimitière (e sulle relative implicazioni linguistiche, metriche e foniche), ma anche
riflessioni su questioni filologiche e in parte filosofiche legate all’opera di Paul Valéry. Si
affrontano altresì considerazioni sulla natura delle traduzioni poetiche e sull’eventuale
intraducibilità della poesia (con riferimento specifico a questa traduzione e non solo).
Inoltre, Ignazio Visco ha ritrovato, grazie ai familiari del poeta – i figli Giulia e Valerio, la
sorella Patrizia e la cugina Ines Morisani, due serie di appunti e progetti di revisione della
traduzione del Cimitière, da cui potrebbe nascere addirittura una nuova versione,
completa se non definitiva. Nei primi fogli inediti si trova una copia del Quid valérienne e
delle Note, rimaste invariate rispetto a quelle consegnate da Tripodo a Visco; tuttavia, in
aggiunta, c’è un foglio, successivamente cancellato, contenente alcune questioni che
avrebbe voluto discutere con Raffaele Manica (probabilmente prima della pubblicazione in
rivista) e un paio di pagine con vari tentativi di revisione relative alle prime otto strofe della
traduzione, mai pubblicate, così come il Quid e le Note. Il Quid, verosimilmente, non era
destinato alla pubblicazione su «Dismisura», essendo un testo estremamente lungo e,
probabilmente, rappresentante solo il «testo quasi concluso». Per quanto riguarda le Note,
vale la pena ricordare che nella postfazione ad Altre visioni, curata da Pietro e pubblicata
da Donzelli nel 2007, Manica afferma che dopo aver corretto le bozze per la versione da
pubblicare su Dismisura, Pietro «passò la notte a correggere e al mattino non volle più
pubblicare la nota»[1]. Le Note, infatti, contengono riferimenti anche ai versi delle strofe da
I a VIII, non pubblicate, suggerendo che la complessità della riduzione in un testo riferito
solo alle strofe pubblicate potrebbe aver influito sulla decisione finale di non pubblicarle,
nonostante fossero già in bozza e probabilmente in vista di una revisione più approfondita.
Per quanto riguarda i tentativi di revisione delle prime otto strofe, non si tratta di modifiche
effettive, bensì di suggerimenti, appunti e bozzetti su come intervenire nelle strofe I, II, III,
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VI e VIII (escludendo IV e V). Questi interventi sono chiaramente successivi alla versione
qui edita, ma probabilmente precedono la pubblicazione, nel 1982, delle restanti 16 strofe.
In un insieme di fogli datati molti anni dopo e pochi mesi prima della sua scomparsa, si
trova il Sepulchra Maris, preparato per una possibile pubblicazione. Da queste pagine
emerge chiaramente che, a distanza di quasi vent’anni, Tripodo non avesse ancora risolto
i suoi dubbi sulle prime otto strofe (le restanti sono riprodotte senza variazioni, dattiloscritte
prima delle altre). Tra le otto strofe non pubblicate, la IV, la V e la VII non differiscono da
quelle originali. La I è predisposta su sei versi con puntini al posto dei primi due e del
primo emistichio del terzo, seguito da parti degli originali quarto e quinto verso, con nel
sesto buona parte dell’originale settimo verso. Anche la II e la III sono riprodotte nella
versione originale (sebbene rispettivamente di sette e otto versi); la VIII, invece, presenta
puntini al posto del primo verso e dell’inizio del secondo, oltre a un punto interrogativo al
terzo. Di notevole interesse, e in linea con quanto affermato prima, è la frase posta alla
fine delle sedici strofe pubblicate: «Dubito che ci sia una sola strofa (non ne parliamo di
quelle I-VIII; o forse sì?) che sia possibile da qualsiasi punto di vista: scelte lessicali e
d’immagini e relativa precisione (anche se di vaga atmosfera medievaleggiante era meglio
cercare maggiore memoria dei classici), e prima di tutto, grammatica, ecc.; da decifrare e
valutare».[2]
Guidare il lettore alla comprensione delle motivazioni che hanno orientato le scelte
linguistiche dei Sepulchra Maris è fondamentale per una corretta interpretazione di una
traduzione sicuramente complessa e stratificata; pertanto, in questa sede verranno
sviscerati, attraverso una analisi e un approfondimento del Quid valérienne, tutti gli
argomenti da Tripodo proposti a supporto della sua traduzione in latino medievale di
un’opera cardine della letteratura francese del primo Novecento.
Il verso adottato per la traduzione di Valéry, che nel Cimitero Marino utilizza uno «scarno
décasyllabique francese attinto ai modelli della Délie di Scéve, e ad alcuni sonetti di Labé
e Du Bellay», è quello cenobitico delle officiature del Mattutino e delle antifone e dei
responsori dei Notturni: Tripodo spiega che, dopo la riforma carolingia, questo verso
decasillabo, cesurato 4+6, avrebbe avuto un ictus in decima sede e, citando lo studio di
Avalle sulla Preistoria dell’endecasillabo[3], spiega che quella cesura avrebbe irrigidito il
verso a favore di una predominanza della paratassi, dell’iterazione sinonimica,
dell’enumerazione, ossia di quei fenomeni che rendono i primi monumenti della letteratura
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francese scritti in décasillabes un tono di particolare arcaicità. E tale arcaicità è condivisa
anche dai decasillabi dei ritmi e dei tropi mediolatini, assieme ad una patina di
“lontananza” che, non a caso, è esattamente la stessa cercata da Tripodo nella sua
traduzione: lontananza dalle lingue particolari, dal latino classico ma anche dal francese e
dall’italiano. Tanto è che il poeta si scusa per non aver saputo ignorare la memoria
involontaria dei ritmi dell’esametro classico e dunque di aver “contaminato” il testo con
nessi, incipit e a capo provenienti dai versi latino-classici, per poi continuare con notazioni
di ordine strettamente metrico. Ancora citando l’Avalle, Tripodo annota che «nel
décasyllabe arcaico, quello cioè dei poemetti agiografici e delle più antiche chansons de
geste, il primo emistichio è trattato come un verso a sé, tanto è vero che ammette dopo la
quarta accentuata un’atona soprannumeraria che non entra nel computo totale delle
sillabe». Dunque gli ictus su quarta e su decima sillaba sono immodificabili: pertanto
Tripodo, computando l’atona soprannumeraria nel caso in cui i versicula potevano essere
cesurati, propone nella sua traduzione le seguenti possibilità: 4+6 (totale 10) con ictus su
quarta e decima, 5+6 – e questo sarebbe il caso della cesura trobadorica o italienne dove
la quarta sillaba è seguita da una atona che entra nel computo totale delle sillabe del
verso (e il totale viene undici, poiché anche il secondo emistichio, fermo l’ictus sulla
decima sillaba, ha un’atona soprannumeraria, che si può contare), 5+7 e 4+8. In questi
ultimi due casi, in cui si hanno sempre due ictus su quarta e decima, le ultime tre delle
dodici sillabe sono mosse da un proparossitonismo ossitonico: questo perché Tripodo
ammette una subliminale e continua (nonché “aggredita” dagli esametri) influenza, oltre
che di gallicismi carolingeschi, degli asclepiadei minori di Alceo, di Orazio, di Prudenzio, di
alcune chansons de geste, fino alla Jeune Parque dello stesso Valéry. Per Tripodo, e non
solo, un antico verso latino così composto può essere considerato sillabicamente un
endecasillabus, che sarebbe derivato con ogni probabilità dal decasillabo francese e
sarebbe stato introdotto in Italia insieme con la prima lirica francese e provenzale.
Interessante, dopo alcune considerazioni sulla sensibilità degli uditori e alcune
preoccupazioni del traduttore rispetto all’ambiguità di alcune collisioni semantiche
inevitabili per ragioni metriche e di «soppesazioni minimali», la trattazione di un tema
centrale del Cimitero Marino, ossia il pericolo che l’anima individuale corre di essere
assorbita e nullificata dall’illusione dell’immortalità. Il v. 1 della strofa VIII riporta nel greco
originale («Αὐτὸ καθ’ αὑτὸ μεθ’ αὑτοῦ, μονοειδὲς ἀεὶ ὄν») la traduzione francese di
66
Valéry («O pour moi seul, à moi seul, en moi-même») tratta dal Simposio di Platone, che
Tutino traduce con «O per me solo, a me solo, in me stesso»[4].
Tripodo, considerato che il verso di Platone rientra in un computo dodecasillabico, sceglie
di inserire le parole originali del filosofo greco che Poe pose in epigrafe al racconto
Morella, per portare in superficie le memorie letterarie e filosofiche del poeta francese, i cui
versi rielaborano, nella tensione di suono e senso, e con l’incarnazione di immagini
tangibili, le grandi interrogazioni sulla dimensione temporale, in primo luogo, ma anche
sull’illusione, sull’assoluto, sulla transitorietà, sulla mortalità, sul nulla, il tutto tramite la
creazione di rappresentazioni corporee, attraverso il trionfo del visibile. Tra il bianco
marmo delle tombe e lo scintillio dell’ampia distesa marina, si dipanano riflessioni
sull’amore e sul decadimento, dove desiderio e dolore emergono come linguaggio
intrinseco all’umano, così come l’attesa e il sogno. Sullo sfondo si delineano figure di
pensatori come appunto Platone, ma anche Lucrezio, Agostino e Pascal. Tripodo
sottolinea che il verso di Platone potrebbe fungere da epigrafe per l’intera traduzione, se
non fosse che, a partire dalla strofa VIII, Valéry decide di ascendere «a un ulteriore
gradino invocativo-ragionativo». Qui, si introduce l’ansia dell’attesa, l’osservazione da
lontano di quelle sorgenti da cui scorre incessantemente l’acqua che rientra
costantemente nel perpetuo moto chimico dell’esistenza. Nel gioco di questo movimento è
necessario gettarsi e rimanere, a meno che Valéry non scopra qualcosa al di qua «della
griglia elettrica del nulla». Valéry però non sa o non può ancora muoversi; è come Achille
che, pur velocissimo, è costantemente dietro alla tartaruga (strofa XXI). L’inclinazione del
pensiero, che emerge tra l’intensificarsi delle immagini, svela dunque chiaramente il suo
profilo distintivo: la necessità dell’ombra, l’accettazione della condizione umana e della
distanza dall’assoluto, dal principio. È un invito a «rientrare dans le jeu», ossia a reinserirsi
nel gioco, che è un gioco di vita e morte insieme, a reinventarsi, opponendo al fascino
dell’astrazione la pulsazione dei corpi[5]. Al richiamo dell’oltre, oltre il tumulto della vita
presente, e al gelo della cancellazione, si contrappone l’onda del desiderio: la rinuncia
all’assoluto è proclamata, e corpo e vita esprimono la loro essenza nel movimento del
desiderio, in armonia con l’energia metamorfica e scintillante del mare. Pertanto, conclude
Tripodo, è sicuramente preferibile come epigrafe[6] quella effettivamente scelta da Valéry
e tratta dalla terza pitica («Anima mia, non desiderarti vita immortale, ma poniti a opere
che ti sia dato compiere»).
67
Tripodo propone poi un parallelo di grande fascino: definisce Fontfroide «gemello
geografico» di Sète; nella Abbazia della stessa Fontfroide egli immagina un pittore che
potrebbe essere Valéry (se il poeta fosse stato pittore) affrescare il ciclo della Notte e del
Giorno, come aveva fatto il simbolista Odilon Redon (e come ancor meglio avrebbe potuto
fare Boecklin). Sicuramente «più vicina e mediterranea di Conques» conclude Tripodo
«forse nei suoi vestiboli ancora agonizza l’eco delle sommesse preghiere in decasillabi» e
forse quelle umili suppliche persistono nell’instabilità dell’etere (che in parte continua a
esistere oltre di noi) e nella sostanza, seppur artificiale, che, vibrando attorno agli atomi e
venendo registrata nei blocchi di basalto e granito che costituiscono il tessuto mutevole
del mondo, possiede anch’essa vita, analogamente alle ossa. È a partire da questa
suggestione sinestetica che la traduzione di Tripodo, da lui definita «tenuissima ombra del
Cimitero Marino», si propone di gettare un ponte da una lingua per nulla conosciuta al
traduttore (il francese) a una lingua che il tempo – l’«ére successive»[7], citando Valéry –
ha come serrato, col risultato di una traduzione che non viene da una lingua già data ma
da una lingua «giammai traducibile», simile a quella che ciascuno di noi potrebbe
ascoltare nelle proprie «sinapsi al mattino quando le gazze provano il giorno». Come non
pensare ad una comunanza profonda di intenti poetici con lo stesso Valéry il quale rivelerà
che il suo primo slancio verso l’ispirazione del Cimitero nacque da una sensazione
puramente ritmica, priva di significato, colma di sillabe che sembravano vuote, e che per
un certo periodo si trasformò in un’ossessione. Una vera e propria frase musicale, dunque,
che si insinuava nella mente senza parole, ma che cercava di stabilirsi nella misura
metrica del decasillabo; allo stesso tempo, però, questa misura, mentre risuonava, non a
caso proiettava l’ombra del dodici, la conta sillabica dell’alessandrino, con la sua
“potenza”, e tendeva verso quella soglia per poi ritirarsi (da cui la scelta della metà del
dodici, la sestina, come strofa di composizione, e del doppio del dodici, ventiquattro, come
insieme di strofe). Per un poeta come Valéry, fermarsi metricamente al di qua del dodici
significava evitare l’eloquenza teatrale dell’alessandrino, metro esplicitamente escluso
anche da Tripodo.
Attivare le sonorità del decasillabo con una flessibilità di cesure interne significava
piuttosto ispirarsi all’endecasillabo dantesco, al suo esempio di vitalità ritmico-sonora e di
modulazione razionale e contemplativa simultaneamente. Questa ispirazione
prevalentemente sonora fa germogliare i movimenti del pensiero, offrendo loro un rifugio
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musicale: in definitiva, una volta che la forma metrica è penetrata dall’idea, essa entra in
contatto con la peculiarità viva, ricordante e meditante del poeta, la sua storia personale di
esplorazione interiore, sviluppo dello sguardo e interrogazioni sul legame tra vita e morte.
L’esercizio metrico si trasforma quindi, parallelamente in Valéry e nel suo traduttore, in
pensiero poetico[8].
Tripodo a ragione ritiene che Valéry, soprattutto attraverso il Cimetière Marin, abbia vagato
lungo la battigia dell’Eternità con una caviglia lambita dalla risacca dell’assoluto. Questo
istinto verso l’immortalità, l’inquietudine portata dal vento, dalla schiuma che si scontra con
le rocce, dalla luce e dalle onde, che sono interferenze del giorno ma anche un rischio
assoluto di morte, ha portato il poeta dall’immersione in queste esperienze fino alla
riemersione presso quella riva limbica e speleologica, forse lontano da Villon e Baudelaire,
da Laforgue, ma sicuramente meno distante da Dante, vicino a Mallarmé, quasi
abbracciato, se vogliamo usare una metafora, ai Grandi Saggisti, a Gérard Genet, e pure
a René Char, Yves Bonnefoy, Marcelin Peynet, Jean Pierre Faye, Denis Roche. E Mario
Tutino, forse il più attento commentatore italiano del Cimetière, e non solo a giudizio di
Tripodo, ha ragione quando afferma che queste strofe esastiche sono la matrice segreta di
molta poesia italiana.
A questo punto Tripodo introduce il tema della traducibilità di un’opera, a partire dallo
studio di Mounin, Teoria e storia della traduzione (1965), in cui si afferma la necessità da
parte del traduttore di mantenere, se possibile, l’estraneità culturale ed etnografica rispetto
all’epoca, o al mondo, del testo tradotto (altrimenti potrebbe accadere come a Leonzio
Pilato, il quale invitato da Boccaccio a tradurre l’Iliade – a partire da una copia che
Petrarca aveva ricevuto in dono da Bisanzio nel 1354 – ne propose una traduzione latina
letterale più incomprensibile del testo greco proposto ad un principiante): oggi, dice il
nostro traduttore, ammettiamo in partenza la sostanziale intraducibilità di un testo poetico
e dunque l’inutilità della traduzione (a meno che non sia funzionale alla conoscenze delle
letterature e delle culture da noi lontanissime, come quelle orientali) e per questo siamo
sicuramente più predisposti ad apprezzare le riscritture anacronistiche (come l’Iliade di
Monti, ad esempio) e a vedere la possibilità della traducibilità «quasi dappertutto». Di
Mounin viene anche ricordata la teoria secondo la quale «l’intraducibilità di una poesia è
una verità statistica, una questione di percentuale, non una verità metafisica…»; ciò
implica che il traduttore deve preoccuparsi della forma più che del lessico, ma operando
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una distinzione e cioè rispettando un enjambement particolarmente significativo, alcune
parole in principio o in fine di verso, alcune assonanze che più si stimano caratterizzanti,
così che la forma guidi la scelta lessicale e non il contrario. Viene poi scandagliata anche
la teoria dello strutturalista Sapir, secondo cui le zone non traducibili di un componimento
poetico sono quelle più “impoetiche” in quanto legate a determinati giochi sonori o di
parole dei quali si compiace quella determinata lingua. Tuttavia, avverte Tripodo, in questi
casi la questione si pone in termini più complessi rispetto alla semplice traducibilità: se
davvero fosse intraducibile ogni specificità linguistica, allora non avrebbe senso
distinguere tra zone traducibili e non; d’altronde, conclude il nostro traduttore, la letteratura
europea moderna è nata anche e soprattutto come rielaborazione. Non manca il pensiero
dello stesso Valéry a proposito delle traduzioni: Tripodo cita due passi tratti dalla
Traduction en vers des Bucoliques (Parigi 1956) in cui il poeta francese afferma prima che
«in poesia la fedeltà limitata al significato è una sorta di tradimento» e poi che «i versi più
belli sono insignificanti e sciocchi quando siano resi da un’espressione priva di intrinseca
necessità musicale di risonanze» commentando che, nel suo caso specifico, la questione
è molto diversa, e a parte la libera scelta del traduttore che dovrebbe comunque attenersi
al testo e non a «determinate convinzioni dell’autore», vista la «segretezza del latino» – in
particolare del latino medievale – le citate indicazioni di Valéry non sono congruenti.
L’analisi prosegue affrontando il problema della traduzione-traslazione da mondo poetico a
mondo poetico: al di là di Humboldt, oltre i principi saussuriani, e oltre Weigerberger, la
questione è di natura linguistica più che culturale e in ogni caso riguarda la paziente
decrittazione, del tessuto poetico, ai fini della sua rielaborazione concettuale (così come
intesa da Valéry), senza escludere «l’intuizione immediata» da esplorare
successivamente, ma di cui ci sentiamo comunque padroni, come lo è l’artefice-artista; un
artefice che non è coinvolto, ma estraneo, celato dietro una maschera. Questa sostanza,
ormai distante da quando si è raffreddata dai manoscritti nella lingua originale, fisicamente
separata dal corpo umano, dal sistema fonatorio e soprattutto dalla mente-mano, forse
staccata persino dal cervello e dalle sue funzioni più astratte, è ciò che, secondo Tripodo,
costituisce il fondale del pensiero su cui concentrarsi, per ascoltare la voce remota di un
linguaggio e dell’altro mondo meno estraneo che tenta di rispondere.
Una cosa è certa. Tripodo ha adottato le circostanze stilistiche insite nella divisione che fa
il Cohen del poema, in quattro tempi, ossia: 1) Immobilità del Non-Essere o Niente eterno
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e incosciente (strofe I-IV); 2) Mobilità dell’Essere effimero e cosciente (strofe v-vIII); 3)
Morte o Immortalità? (strofe IX-XVIII); 4) Trionfo del momentaneo e del successivo, del
mutamento e della creazione poetica (strofe XIX-XXIV)[9]. Tuttavia, nel Cimitero Marino,
da un lato lo stile tende ad essere fondamentalmente uniforme, dall’altro ci sono molti più
“stacchi” anche all’interno della stessa strofa, come dettagliatamente Tripodo rileva
nell’apparato di note al testo. Pertanto, egli ha incontrato «l’ombra del Cimetière Marin
nell’incerta ombra di una lingua che fu: di un impero e del tempo delle ere successive il cui
solo centro ancora splende di pinnacoli e guglie».
Questa affermazione, con la quale il Quid valérienne si chiude, testimonia ancora una
volta come Tripodo, anche nelle sue numerosissime prove di traduzione, veda la poesia
come esercizio di pensiero in tensione perenne verso l’esattezza: i suoi versi sembrano sì
venire da un tempo remoto, ma questo tempo mistico ingloba e raduna in sé ogni altro
tempo – il tempo eterno del Cimetière, che attrae l’anima e la illude di potersi
immedesimare nell’Assoluto. Per questo nella sua scrittura poesia e traduzione sono
dimensioni poste in parallelo, nella ricerca di un’unità tra forma e ispirazione al fine di una
ricerca di continuità originale nel linguaggio e nei contenuti tra il lavoro di traduttore e le
sue opere originali[10]. È in particolare su «Nuovi Argomenti» che l’autore spiega che
cos’è per lui la traduzione, affermando che «tradurre è commuoversi del fatto che la vita
non è prerogativa del singolo, non è solitudine assoluta», dal momento che «gli autori
lontani ammaestrano il poeta, in dolce dialogo»[11]. In apparenza, dunque, la traduzione
latina dei Sepulchra Maris sembra come fissata in un cristallo ma in realtà è
straordinariamente mobile dal punto di vista metrico, formale e linguistico, così che da un
lato essa rievoca il testo del Cimetière, e dall’altro ne prende le distanze introducendo
atmosfere, personaggi e ambientazioni estranee allo specifico testo originale – ma non
all’insieme dell’opera del poeta francese, poiché tradurre significa, infine, comporre,
poetare, raggiungere quell’equilibrio difficile definito dallo stesso Valéry come «hésitation
prolongée entre le son et le sens»[12].
[1] Pietro Tripodo, Altre visioni, a cura di R. Manica, Donzelli, Roma 2007.
[2] Ignazio Visco, Pietro Tripodo, Sepulchra Maris, https://www.insulaeuropea.eu/
2023/09/11/pietro-tripodo-sepulchra-maris/. Tutte le citazioni successive dell’autore sono
tratte dal Quid valérienne consultabile al link.
71
[3] D’Arco Silvio Avalle, Preistoria dell’endecasillabo, Ricciardi, Milano-Napoli 1963.
[4] Paul Valéry, Il Cimitero Marino, trad. di M. Tutino, Einaudi, Torino 1966, p. 15.
[5] Antonio Prete, Un verso / Paul Valéry. Il mare, il mare sempre rinascente!, https://
www.doppiozero.com/paul-valery-il-mare-il-mare-sempre-rinascente.
[6] La stessa citazione sarà posta in epigrafe a Il mito di Sisifo di Albert Camus.
[7] str. XXII, v.1.
[8] Per questo motivo, Oreste Macrí propose una traduzione italiana del celebre testo
poetico di Valéry, accompagnata da un fitto e colto apparato esegetico. Cfr. O. Macrí, Il
«Cimitero Marino» di Paul Valéry. Studio, testo critico, versione metrica e commento, Le
Lettere, Firenze 1989.
[9] Gustave Cohen, Essai d’explication du Cimetière Marin, Gallimard, Paris 1933, trad. it.
Lettura del «Cimetière marin», Solfanelli, Chieti 2019.
[10] Eleonora Rimolo, Pietro Tripodo, un poeta filologo in “Prato Pagano”, in «Testo a
fronte», n. 63, 2022, p. 291.
[11] Pietro Tripodo, Paesaggi e sentimenti. (Sulle imitazioni di Bertolucci), in «Nuovi
Argomenti», 1995, n. 4, pp. 126-130.
[12] Paul Valéry, Rhumbs, in Tel Quel, Œuvres, tomo II, Pléiade, Gallimard, Parigi 1960, p
637.
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