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Gabriel Fauré: un altro modernismo

2024

https://doi.org/10.54103/2465-0137/20552

Fauré's music is still today the subject of many misunderstandings and a general devaluation both by listeners of classical music, by performers and, obviously, by music critics. Situated between the end of the 19th and the beginning of the 20th century, his production is imbued with the complexities and contradictions of this period. But how is it a reflection of this? In other words, how is it possible to approach this "closed garden" hermeneutically without getting lost in ambiguity? This article is an opportunity to reflect again, in light of the centenary of his death (1924), on the French composer and on a certain inability of musical criticism to frame his values. In what sense can Fauré's work be defined as "modernist"? Using the thought of the critic Antoine Compagnon as a reading prism, but also the philosophical interpretation of Jankélévitch, we will attempt to define some traits of Fauré's production. Particular attention is paid to the experience of listening to Fauré.

Gabriel Fauré: un altro modernismo? Artin Bassiri Tabrizi Abstract Fauré’s music is still today the subject of many misunderstandings and a general devaluation both by listeners of classical music, by performers and, obviously, by music critics. Situated between the end of the 19th and the beginning of the 20th century, his production is imbued with the complexities and contradictions of this period. But how is it a reflection of this? In other words, how is it possible to approach this "closed garden" hermeneutically without getting lost in ambiguity? This article is an opportunity to reflect again, in light of the centenary of his death (1924), on the French composer and on a certain inability of musical criticism to frame his values. In what sense can Fauré’s work be defined as "modernist"? Using the thought of the critic Antoine Compagnon as a reading prism, but also the philosophical interpretation of Jankélévitch, we will attempt to define some traits of Fauré's production. Particular attention is paid to the experience of listening to Fauré. Keywords: Modernism; Fauré; Jankélévitch; Listening; Critics. Quest’opera è distribuita con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale De Musica, 2023 – XXVII (1) Sommario La musica di Fauré è ancora oggi oggetto a molti fraintendimenti e a una generale svalutazione sia da parte degli ascoltatori della musica classica, che degli interpreti fino a, ovviamente, la critica musicale. Collocandosi tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, la sua produzione è impregnata delle complessità e delle contraddizioni di questo periodo. Ma in che modo essa ne è un riflesso? In che modo, cioè, è possibile approcciarsi a questo “giardino chiuso” ermeneuticamente senza perdersi nelle ambiguità? Questo articolo è l’occasione di riflettere nuovamente, alla luce del centenario dalla morte (1924), sul compositore francese e su una certa incapacità della critica musicale a inquadrarne i valori. In quale senso l’opera fauréana può definirsi “modernista”? Utilizzando come prisma di lettura il pensiero del critico Antoine Compagnon, ma anche l’interpretazione filosofica di Jankélévitch, si tenterà di definire alcuni tratti della produzione di Fauré. Un’attenzione particolare è rivolta all’esperienza dell’ascolto di Fauré. Parole chiave: Modernismo; Fauré; Jankélévitch; Ascolto; Critica. 1. Introduzione In un articolo pubblicato nel 1924 per The Musical Quaterly, Aaron Copland definiva Gabriel Fauré “a neglected master”, un maestro dimenticato. Copland notava come l’opera di Fauré fosse praticamente sconosciuta in America e nel resto del mondo, salvo che, ovviamente, in Francia. Da un certo punto di vista, per Copland la musica di Fauré sembra “non esportabile” al di là della terra natale, in quanto musica “essenzialmente gallica”. Ma va detto che persino in Francia Fauré non nutrì di una fama incontestabile: da una parte, la rivoluzione estetica di Debussy oscurava il lavoro fauréano che, d’altra parte, era principalmente relegato dagli studiosi al mondo salottiero aristocratico – mondo legato all’ancien régime e che si opponeva perciò alle grandi sale e alla “democratizzazione” della musica, sulla scia del fenomeno Wagner. Eppure, è necessaria un’analisi che renda conto della complessità dell’opera di Fauré, al fine di comprendere come anche la sua è una 6 De Musica, 2023 – XXVII (1) rivoluzione estetica, che resta pertanto ancora misconosciuta. Nell’approcciarsi all’opera di Gabriel Urbain Fauré (1845-1924), ci si imbatte infatti in numerose difficoltà che possono indurre ad abbandonare l’impresa ancor prima di abbozzarla. Un certo atteggiamento critico nei suoi confronti, unito alla personalità stessa del compositore, restìo a mettere per iscritto la sua concezione musicale, ha ostacolato la possibilità di guardare alla sua musica in maniera più obiettiva. Nonostante i lavori Jankélévitch e di Nectoux, rispettivamente da un punto di vista filosofico e musicologico, l’oblio è ripiombato sulla figura di Fauré, compositore assente nei programmi di sala odierni e, eccezione fatta di alcune recenti pubblicazioni in ambito anglosassone, anche dalla critica. In questo articolo, si cercherà da una parte di mostrare le difficoltà che questo compositore implica, dall’altra di salvaguardarne la modernità. Le ambiguità del termine “moderno” e “modernismo”, sottolineate e approfondite da Antoine Compagnon, ci permetteranno di avvicinarci a Fauré senza ricadere nei complessi della critica tradizionale, che ne ignora o ne sminuisce l’importanza. 2. I complessi di una critica non complessa Quali sono le impasse nelle quali è costantemente ricaduta la critica musicologica? Guardando alle più conosciute pagine critiche di storiografia musicale, le pagine dedicate a Fauré sono sintomatiche di un atteggiamento critico che non riesce a decifrare il ruolo di questo compositore nel periodo di passaggio tra i due secoli. Vedasi come esempi eclatanti, il caso di Richard Taruskin che, nel quarto volume della sua The Oxford History of Western Music dedica solamente dieci pagine a Fauré, volte a decostruire (con un certo ironismo) la nomea di compositore “essenzialmente francese” (Taruskin 2006, 97-106); anche Mario Bortolotto, in Dopo una battaglia, nonostante il lungo saggio che dedica a Fauré, arriva ad affermare che l’armonia faureana dipenda dalle posizioni della mano, ovvero che l’impressione che si ha alla lettura di certe partiture faureane è quella di un “arbitrio assoluto” e di una “sconclusionatezza della struttura” (Bortolotto 1992, 200-201); per non 7 De Musica, 2023 – XXVII (1) parlare di Carl Dahlhaus, che nel suo Die Musik des 19.Jahrhunderts ne accenna solamente di sfuggita. Per di più, come lo rileva Hervé Lecombe (Caballero 2021, 42) sin dai primi testi critici sull’opera di Fauré, si è sviluppato un lessico specifico che sottolinea come questa musica si renda a tratti impermeabile ad un'analisi critica. Questa peculiare terminologia è stata recentemente approfondita per indagarne la pertinenza e comprenderne l’apparizione. Innanzitutto, si tratta di un ennesimo elemento che ha contrastato il riconoscimento di Fauré nella globalità della storia della musica. Ma, tralasciando questa grammatica specifica, ci sono anche delle componenti che appartengono esclusivamente a Fauré, come il suo repertorio, privo dei generi compositivi maggiori (Sinfonie, Concerti). Già da questa scelta è facile intuire come il carattere di Fauré si integrasse difficilmente con la sua attualità, e difatti la ricezione della sua musica ne risentì. Nonostante una parentesi tra le due Guerre nella quale si moltiplicarono rappresentazioni e festival dedicati a Fauré (Nectoux 1990, 421-448) è facile constatare che la sua musica era e rimane ancora oggi “sconcertante per i non-iniziati” (Fauré-Fremiet 1929, 84) e generalmente non frequentata nelle sale da concerto. Se ammettiamo con Caballero (2001, 64; 70) che a turbare gli ascoltatori del suo tempo fu soprattutto la pratica fauréana di ritardare la risoluzione armonica nonché una modulazione spesso ininterrotta, potremmo asserire che l’assenza di Fauré dai grandi palcoscenici fosse una scelta del compositore stesso, consapevole di quanto delle scelte tecniche di questo tipo avrebbero comportato in termini di popolarità. La volontà di non “rassicurare” in alcun modo l’ascoltatore (Caballero 2001, 256), ma al contrario di richiedergli una concentrazione nell’ascolto e l’assenza di effetti sonori roboanti (come erano, per Fauré, quelli di Ravel ma anche quelli di Berlioz) hanno cristallizzato la nomea di questo compositore: quella di un artista elitario, nostalgico di un passato ormai perduto (Faure 1985, 43), restìo ad accettare il cambiamento di un’epoca tumultuosa e ad assumere il wagnerismo dominante nell’Europa di fine secolo. È lo stesso Mario Bortolotto a ricordare che a proposito di Fauré esiste una raccolta di 8 De Musica, 2023 – XXVII (1) “lacerti demenziali” (1992, 194), un insieme impressionante di pettegolezzi che sarebbe del tutto irrilevante se non fosse sintomatico ancora oggi di una ricezione alquanto limitata. Nessun compositore ha forse destato tali reazioni contrastanti nel dibattito estetico-musicale. Questa particolare ricezione colpì lo stesso Fauré che, dinanzi a un riconoscimento pubblico senza precedenti per un musicista – l’omaggio alla Sorbonne di fronte al presidente Millerand (1922) – si dichiarava “freddo”, malgrado l’enormità dell’evento, lamentando che tale successo era arrivato nella sua vita “troppo tardi” (Nectoux 1990, 423). La monografia di Carlo Caballero ha permesso di sottolinare un aspetto importante, da assumere nello studio di qualsiasi compositore – e artista tout court: che, al fine di decifrare che importanza ha avuto un personaggio nella storia estetica-musicale-artistica, è necessario anche chiedersi come egli concepisse la sua arte e come egli intendesse “rivoluzionarla”. Ora, nel caso di Fauré, si tratta di un’operazione particolarmente complessa proprio perché, come abbiamo già sottolineato, Fauré (e tutto il materiale documentario) rimane opaco all’investigazione. Al fine di poter far emergere più nitidamente l’importanza di Fauré, ci appoggeremo alle riflessioni di Compagnon sul concetto di “modernismo”, nonché a delle sue analisi che concernono precisamente Fauré e il suo rapporto con Proust. In particolare, nella raccolta di saggi Proust entre deux siècles, come anche ne Les cinq paradoxes de la modernité, Compagnon sottolinea come, malgrado gli innumerevoli studi ad esso consacrati, la nozione di “modernismo” sia segnata da molteplici aporie. Sebbene non sia possibile riproporre qui tutte le disamine di Compagnon, è necessario ricordare almeno alcuni nodi concettuali utili alla nostra discussione. Come ricorda Compagnon, "moderno", "modernità" e "modernismo", termini che già di per sé rinviano a concetti alquanto sfumati, variano il loro significato rispetto alla lingua (1990, 15). È proprio una tale porosità terminologica a caratterizzare la “modernità”. Anche per quanto riguarda il “modernismo musicale”, la questione di una definizione univoca è lontano dall’essere risolta. Stando alla 9 De Musica, 2023 – XXVII (1) definizione che Robert Morgan dà nel suo articolo Secret Languages: The Roots of Musical Modernism (1984) si definisce “modernismo musicale” l’insieme di compositori e di correnti che, tra il 1900 e il 1910, smantella la grammatica tonale tradizionale1. Anche Carl Dahlhaus ne parla essenzialmente come un punto di discontinuità: “The caesura that can be drawn around 1890, the start of the era of “modernism”, is marked in the political field by the “new imperialism” of the late nineteenth century, and in intellectual and cultural history by the “cultural evaluation” of the turn of the century” (1980, 17-18). Da quanto affermato, Fauré rimarrebbe escluso dall’ambito dei modernisti, non solo perché le sue prime composizioni risalgono già al 1870, ma anche in quanto queste non hanno mai implicato una rinuncia all’armonia tradizionale, quanto piuttosto un’esplorazione entro i suoi limiti. Esistono altre definizioni di “modernismo musicale”, che senza individuare una parentesi storica precisa, tendono a identificare in esso un atteggiamento che si reitera in differenti momenti. È il caso di J. N. Straus, che in Remaking the Past. Musical modernism and the influence of the Tonal Tradition afferma: “The most important and characteristic musical works of the first half of this century incorporate and reinterpret elements of earlier music. This dual process, more than any specific element of style or structure, defines the mainstream of musical modernism” (1990, 2). Quest’ultima definizione ha il merito di cogliere un gesto stilistico più ampio, che permetterebbe di accogliere Fauré nell’insieme di compositori “modernisti”. Eppure, quanto vogliamo suggerire nella nostra analisi si distacca dalle definizioni precedenti. Seguendo quanto afferma Compagnon, “modernità” è sinonimo di due atteggiamenti opposti: da una parte una volontà di accelerare il progresso, di abbracciarne interamente le conseguenze 1 “The major progressive composers of the first decade of the new century undertook a radical dismantling of the established syntax of the Western music. This move “beyond tonality” was remarkably widespread.” 10 De Musica, 2023 – XXVII (1) e un rifiuto di essere identificati come “decadenti”; al contempo, un autore o artista “modernista” incarna una vera e propria resistenza alla modernità intesa come resistenza al suo presente, al contesto sociale, economico e artistico della propria epoca. Quest’ambivalenza non può essere risolta o chiarita, poiché essa è “valeur fondamentale de l’époque moderne” (1990, 15). La critica deve mantenere e raccontare, nell’analizzare la modernità, queste contraddizioni senza ambire a risolverle tramite l’uso esclusivo di coppie concettuali antinomiche, al rischio di rendere lo sforzo inutile e sterile. Tradizione e originalità, antico e moderno, decadenza e progresso non sono che alcune di queste diadi che spingono all’etichetta facile. Inoltre, Compagnon aggiunge come con una certa disinvoltura la critica attribuisce di “modernista” a autori e artisti senza preoccuparsi se tale qualifica coincida per sua natura con le intenzioni dell’autore-artista, o con le reali implicazioni che l’opera ha stabilito con il proprio tempo e con quello a seguire. Questa miopia della critica può trovare parziale giustificazione in una sorta di ritardo strutturale che sussiste tra le intenzioni dell’artista e la “realtà” della sua opera. Ciò è da far risalire alla configurazione dell’opera, strutturalmente aperta e programmaticamente destinata a una perpetua stratificazione ermeneutica nel corso del tempo2. 2 Per evidenziare il ruolo fondante dell’ambivalenza (o anfibolia), Compagnon si concentra sulla figura di Édouard Manet e quella di Charles Baudelaire (1990, 15-45). Baudelaire e Manet avevano concezioni di “moderno” assai distinte: per Manet essere moderni significava recuperare la tradizione, per Baudelaire l’opera moderna incorpora un senso del presente che nulla ogni rapporto col passato (Compagnon 1990, 30). Manet si trovò ad essere modernista suo malgrado, in quanto, mosso dall’intenzione di cogliere il presente e non di “cercare il nuovo”, fondò il proprio stile non nel rifiuto radicale della tradizione ma riadattandola e semplificandola. Le osservazioni estetiche di Baudelaire sono notevoli proprio perché rendono chiare i paradossi del termine “modernità”. Prima, nel Salon de 1846 (Compagnon 1990, 29), Baudelaire esalterà la figura di Delacroix come artista romantico e moderno, segno di una vera rivoluzione nell’arte. Poi, ne Le Peintre de la vie moderne (Compagnon 1990, 29-30) Baudelaire tesserà l’elogio di Constantin Guys come esemplare di una pittura moderna nel senso di abbozzata, frammentata, che si scontrava apertamente con la tradizione 11 De Musica, 2023 – XXVII (1) Questa posizione equivoca dell’opera moderna è, per Compagnon, rappresentata esemplarmente anche dalla Recherche proustiana. In Proust entre deux siécles Compagnon rileva infatti la posizione anfibolica della Recherche, situata alla soglia dei due secoli, al contempo ultimo romanzo del XIX secolo e primo del XX, romanzo dell’anteguerra ma anche del dopoguerra: “À la recherche du temps perdu est le roman de l’entre-deux, pas de la contradiction résolue et de la synthèse dialectique, mais de la symétrie boiteuse ou défectueuse, du déséquilibre et de la disproportion, du faux pas” (1989, p.13). Nella stessa raccolta di saggi Compagnon si sofferma anche sulla figura di Gabriel Fauré. Il titolo è eloquente: Fauré et l’unité retrouvé, ma la questione posta è equivoca. A quale “unità” fa riferimento Compagnon? È noto come Fauré fosse un compositore stimato da Proust, tant’è che in più parti della Recherche vi si allude esplicitamente e implicitamente. Tuttavia, seguendo il ragionamento di Compagnon, oltre al rapporto di stima reciproca esiste tra le due figure una condivisione estetica: sono infatti due artisti che per “fare il nuovo” guardano al contempo “dietro di sé”, carattere che costituisce un “improbable essai de synthèse entre la tradition et la modernité, sans exclure aucun publique” (1989, 53). Compagnon intesse, così facendo, una serie di somiglianze tra lo stile di Proust e quello della musica di Fauré: “Tous deux dénoncent la composition rhétorique ou rhapsodique, mais n’entendent pas renoncer pourtant à tout principe de composition. Tous deux rencontrent prospettica e esaltandone lo stile caricaturale e antiborghese. Manet fu considerato da Baudelaire come un artista che riduceva la pittura ad un puro realismo privo di immaginazione. Considerando che, come abbiamo detto, l’atteggiamento di Manet stesso non era volto alla volontà di scandalizzare – cosa che fecero, tuttavia, le sue opere – possiamo rimarcare come assegnargli il termine “modernista” non può non riscontare una difficoltà intrinseca e talvolta anche smentire totalmente l’autodeterminazione dell’artista stesso. Inoltre, la modernità di un autore o di un’opera crea uno iato, un lasso di sospensione tra passato e futuro, una resistenza che si manifesta come anfibolia temporale. La modernità, nel corso del processo di analisi critica (e dunque nel dispiegarsi del tempo), si tramuta inevitabilmente in “sa propre antiquité” (1990, 27). 12 De Musica, 2023 – XXVII (1) évidemment Wagner, et ne se satisfont pas pleinement de la solution wagnérienne au problème de l’unité esthétique” (1989, 61-62). In particolare, è nella Ballade3 op. 19 che Compagnon vede l’emblema di un’opera che guarda già al XX secolo senza sconvolgere l’armonia tonale ottocentesca, e quindi esempio perfetto di opera anfibolica. Sebbene il genere della Ballade fosse già stato utilizzato e esplorato pianisticamente da Chopin (uno degli autori di riferimento di Fauré), il brano fauréano assume un ruolo rilevante per più ragioni. Di che genere di composizione si tratta? Non è il classico Concerto per solo e orchestra, il virtuosismo non è esasperato ed è anzi un virtuosismo timbrico e strutturale che è richiesto all’interprete. Composto in seguito al primo ascolto delle musiche di Wagner (a Monaco di Baviera), tra il 1879 e il 1881, questo brano incarna una forma di resistenza al wagnerismo che diveniva progressivamente il punto di riferimento di gran parte dell’Europa musicale del tempo, ma anche la volontà netta di distinguersi da una certa cultura del virtuosismo presente da Liszt a SaintSaëns. Se poi il genere della Ballade era tradizionalmente associato a un momento passionale e tumultuoso (si pensi per l’appunto alle quattro ballate chopiniane), il l’esempio fauréano si distingue per un’apparente assenza di contraddizioni o momenti laceranti. La Ballade è strutturalmente composta da tre motivi – o temi – che equivalgono a tre movimenti distinti. Eppure, la percezione di unità sonora e formale non cede mai il passo ad alcun eccesso, che sia armonico o melodico. Come ricorda Compagnon, la genesi dell’opera è sorprendente, in quanto si tratta di una serie di frammenti separati congiunti successivamente da Fauré in una continuità che non lascia presagire affatto tale origine. Il compositore stesso, in una lettera (Compagnon 1989, 60) accenna a “des procédés nouveaux quoique anciens” al fine di poter unire e 3 Compagnon ricorda come sia probabilmente questo brano a ispirare la celebre “petite phrase” proustiana evocata nella Recherche. Per approfondire la relazione tra Fauré e Proust, è interessante l’intervento di Anne Penesco durante il convegno Proust et ses amis III, svoltosi a Parigi nel 2013. Anche Penesco parla di un giudizio negativo che aleggia attorno all’opera di Fauré, giudizio che tenta di smuovere nel suo intervento. 13 De Musica, 2023 – XXVII (1) sviluppare i frammenti musicali. Questa commistione tra tradizione e innovazione è precisamente ciò che ha impedito ai contemporanei di comprendere Fauré, rendendolo ancora oggi elusivo. La posizione equivoca4 della Ballade fu interpretata infatti, inizialmente, come antesignana dell’impressionismo (Caballero 2001, 58; Nectoux 1970, 40) per poi, essere etichettata retrospettivamente come imitazione dello stile debussiano (Caballero 2001, 59). Il legame estetico tra Proust e Fauré è approfondito anche da Caballero. Egli mostra come anche per Proust, un’unità stilistica ed estetica è tanto più convincente quanto più ricercata inconsciamente5, senza proclami, tramite un’omogeneità con la propria opera che semplicemente avviene (Caballero 2001, 154-155) e che si rende perciò inconoscibile all’autore stesso. L’artista proustiano sembra dunque essenzialmente ingenuo, in quanto inconsapevole della sua fedeltà a sé stesso. Come vedremo, oltre a far emergere la tematica della “sincerità”, questa disamina si avvicina alle analisi che Jankélévitch dedica a Fauré. 4 Questa posizione equivoca dell’opera moderna è, per Compagnon, rappresentata esemplarmente anche dalla Recherche proustiana. In Proust entre deux siécles Compagnon rileva infatti la posizione anfibolica della Recherche, situata alla soglia dei due secoli, al contempo ultimo romanzo del XIX secolo e primo del XX,romanzo dell’anteguerra ma anche del dopoguerra: “À la recherche du temps perdu est le roman de l’entre-deux, pas de la contradiction résolue et de la synthèse dialectique, mais de la symétrie boiteuse ou défectueuse, du déséquilibre et de la disproportion, du faux pas” (1989, 13). 5 “Et c’était justement quand il cherchait puissamment à être nouveau, qu’on reconnaissait, sous les différences apparentes, les similitudes profondes et les ressemblances voulues qu’il y avait au sein d’une œuvre; quand Vinteuil reprenait à diverses reprises une même phrase, la diversifiait, s’amusait à changer son rythme, a la faire reparaitre sous sa forme première, ces ressemblances-là, voulues, œuvre de l’intelligence, forcement superficielles, n’arrivaient jamais à être aussi frappantes que ces ressemblances dissimulées, involontaires, qui éclataient sous des couleurs différentes, entre les deux chefs-d’œuvre distincts; car alors Vinteuil, cherchant puissamment à être nouveau, s’interrogeait lui-même, de toute la puissance de son effort créateur atteignait sa propre essence à ces profondeurs ou, quelque question qu’on lui pose, c’est du même accent, le sien propre, qu’elle répond” (Proust 1954, 256). 14 De Musica, 2023 – XXVII (1) 3. Estetica della sincerità Se la Ballade e più generalmente l’opera di Fauré sono “moderne” nel senso evidenziato da Compagnon, è allora necessario rintracciare in Fauré quella inquietudine6 che fa parte di ogni autore moderno, e comprendere in quale modo la sua musica si inserisca nella dialettica tra innovazione e tradizione. Rileggendo la definizione di Morgan, riemergono le stesse aporie rilevate da Compagnon attorno alla questione della modernità. Morgan tralascia infatti di prendere in conto che l’etichetta di “modernismo”, nella sua connotazione odierna, non sarebbe stata riconosciuta dai musicisti ai quali egli la applica: egli trascurerebbe insomma le implicazioni delle anfibolie connaturate in ogni attribuzione critica a posteriori. Come osserva Caballero, la definizione di Morgan elude il problema della dialettica tra innovazione e originalità, tema inscindibile da ogni poetica appartenente al fin de siècle. Per poter comprendere se un artista si sia posto l’obiettivo di innovare e attraverso quali modalità compositive egli lo abbia fatto, è necessario comprendere entro quali concezioni egli concepisse il lavoro creativo. Per tale ragione Caballero 6 Tipico esempio di queste critiche è il lavoro del marxista Michel Faure (1985). Egli considera Fauré come un esponente tipico dell’ideologia borghese che rimpiange l’Ancien Régime: “ Gabriel Fauré et la bourgeoisie de la fin du siècle ont ceci en commun : tous deux plagient le passé avec nostalgie et délectation. L’une regarde en arrière parce qu’elle ne parvient plus à se faire aimer de ses partenaires sociaux. L’autre archaïse musicalement parce qu’il souffre de frustration affective ” (1985, 43). Quella di Fauré è un’ “estetica del distanziamento” dal reale inteso come tempo presente, e dagli sconvolgimenti sociopolitici della propria epoca. Seguendo ancora il discorso di Faure : “Et si la bourgeoisie, après avoir tiré tout le parti utile du réalisme esthétique pour connaître le monde et se l’approprier, s’efforçait de fuir dans l’abstrait pour se distancier du vulgaire ?” (1985, 73). Insomma, se l’obiettivo di Faure è quello di interrogare le ragioni della comparsa della musica di Fauré e della sua formalizzazione proprio alla fine del XIX secolo, una delle risposte riguarda il legame con il contesto storico-sociale: “son art date d’un temps où le tissu social se déchire comme jamais”. Di conseguenza, Fauré “matérialise sur le plan esthétique la division sociale aggravée par la révolution industrielle et les promesses non tenues de la bourgeoisie” (1985, 74). Quello di Faure è un fraintendimento diretto della musica di Fauré, al quale non è perdonata la sua condizione di alienato. 15 De Musica, 2023 – XXVII (1) inaugura la propria indagine, nei primi tre capitoli di Fauré and French Musical Aesthetics, tentando di decifrare il senso che Fauré stesso attribuiva alla propria ricerca musicale7. Il pensiero estetico di Fauré si fonda sulla questione della sincerità, sulla “più sincera trasposizione della personalità” (Caballero 2001, 11). Sebbene il termine “sincerità” evochi immediatamente qualcosa di anodino, nella musica di Fauré e nell’estetica francese a lui contemporanea, questo concetto si lega a dei significati ben precisi. In un senso, la sincerità è intesa come corrispondenza tra il compositore in carne ed ossa e la sua musica (2001, 12), come se fosse possibile attraverso l’ascolto risalire direttamente all’autore, alla sua personalità. Questo tipo di atto creativo vuole trascendere allora ogni mediazione tra artista e opera, trascrivendone – o trasfigurandone – il carattere in maniera diretta. In una medesima luce, è possibile interpretare quanto attestato da Charles Koechlin – compositore e allievo di Fauré – che evidenziava come la musica di Fauré coincidesse con l’io stesso (Caballero 2001, 14). La sincerità si opponeva all’atteggiamento arrivista (termine apparso per la prima volta nel 1893), inteso come comportamento interessato e volto a perseguire un fine senza scrupolo (Caballero 2001, 19). Da un punto di vista artistico, essere sincero voleva dire non essere in alcun modo sottomessi alle autorità o alle influenze esterne. Come sottolinea Caballero: “Those composers, like Fauré, who favored sincerity in musical practice understood it neither as a spontaneous effusion nor as a humiliating impediment to craft, but rather as a kind of spiritual progress, achieved over the course of a lifetime devoted to art” (2001, 34). 7 Stando alla lettura di Caballero, si può comunque parlare di un “pensiero estetico” in Fauré malgrado egli non abbia lasciato scritti sistematici o pedagogici e malgrado, persino nel suo epistolario, non siano presenti passaggi in cui egli discute della sua concezione dell’arte. Questo perché non solo la sua musica “potrebbe anche essere una prova sufficiente della sua estetica” (2001, 3), ma anche perché è possibile il privilegio esegetico di poter incrociare le testimonianze dei suoi allievi con l’epistolario (Vuillermoz 1985, Koechlin 1949). 16 De Musica, 2023 – XXVII (1) Questa ricerca della sincerità assoluta, in Fauré è dispiegata in parallelo a una perpetua volontà di rinnovamento del proprio stile, in una tensione dialettica tra la volontà di non scendere a compromessi con la propria epoca – con le mode e i manifesti progressisti – e la tenacia nel perseverare in una ricerca di innovazione che non rinunci in alcun modo alla propria relazione con il passato8. Ora, è ovvio come queste osservazioni non intendano eludere in alcun modo le difficoltà che sono implicite nel pensare alla musica come trascrizione della personalità di un artista. In effetti, l’ambiguità di tale proposito sta nel fatto che “la musica è priva della precisione di tutti i referenti linguistici, tuttavia non cade nemmeno preda della loro ambiguità” (2001, 36). Se da un lato la musica permette quindi di aggirare i limiti del linguaggio – che sono anche la causa della sua insincerità (2001, 35) – dall’altro, affidare sé stessi a un mezzo espressivo immateriale (la musica) e che rileva dell’ascolto appare una scelta rischiosa. Una prima inquietudine è quindi, per Fauré, quella di riuscire ad essere coerente malgrado il mezzo prediletto. Da questo punto di vista, Fauré non concede nulla all’esteriorità (alla mimesi, per esempio) ma lavora all’interno del materiale musicale stesso. In tal senso si comprende come egli non abbia formulato sistematicamente le sue scelte poetico-estetiche. La lettura di Caballero avvalora ancora di più la nostra ipotesi per la quale è possibile avvicinare Fauré all’atteggiamento modernista. Compagnon scrive infatti che “les modernes n’avaient pas de théorie” (1990, 87) e, a più riprese, sottolinea nel suo lavoro come ogni manifestazione programmatica (come, per esempio, il surrealismo di Bréton) rischia non solo di fraintendere e mancare la comprensione della propria opera, ma anche di risultare pressoché sterile per la storia dell’arte (1990, 99). Compagnon ricalca l’elogio proustiano all’artista silente che opera tramite “similitudes involontaires” e che innova senza darne vanto. Certamente, il carattere di 8 Non va infatti dimenticata la formazione che Fauré seguì alla scuola Niedermeyer di Parigi, la quale proponeva ai propri allievi una cultura musicale totale che recuperava anche autori all’epoca inusuali : Palestrina, Arcadelt, Lasso, Victoria, Couperin, Rameau, Bach, Handel, Gluck, Mozart, Haydn, Beethoven e Mendelssohn. 17 De Musica, 2023 – XXVII (1) Fauré è lontanissimo dall’ironia di Baudelaire, prova ne è anche la serie di articoli musicali redatti per Le Figaro (tra il 1903 e il 1921) in cui non dà prova di opinioni mordaci (come potevano essere quelle di Debussy) o particolarmente interessanti. Ad ogni modo, questo lato poco intraprendente del carattere di Fauré è anch’egli oggetti di disappunto: Caballero parla di una “mortificazione” nel parlare di sé (2001, 2) mentre per Compagnon, Fauré manifesta un tratto di “pusillanimità” (1989, 61) . Questa volontà di elusione di sé è interpretata da Jankélévitch, al contrario di buona parte degli specialisti, come scelta estetica ben precisa: “Il aurait pu être Chopin ou Gounod, s’il avait voulu ; mais il n’a pas voulu. Or, la grandeur est dans l’abstention » (1989, 32). La raccolta jankélévitchiana di scritti dedicati a Fauré (Fauré et l’inexprimable) ha inizio proprio con questo paradosso, che concerne il carattere estremamente modesto di Fauré: egli avrebbe potuto essere uomo di fama, rivestire la stessa importanza e notorietà di altri artisti. Fu per scelta che la sua professione si dispiegò diversamente, ed entro la dinamica di tale scelta che si addensa la sua ambivalenza fondamentale, espressa in arte e custodita con riserbo in vita ma, alla luce di quanto si tenta qui di dimostrare, sfuggente alla inflessibile solerzia delle categorie critiche. Jankélévitch ribalta così il pregiudizio per il quale la personalità del musicista era troppo elitaria o troppo poco ambiziosa, poiché la strada intrapresa da Fauré delinea una scelta poetica stabilita a priori, non il segno di una carriera fallita: “Fauré n’a jamais découvert une particule nouvelle ni un nouvel accord, ni un procédé palpable ou assignable qui puisse faire l’objet d’un brevet ! Pourtant l’innovation est chez lui latente et constante. Ce nonconformisme doux est en contravention chronique avec la légalité des conservatoires de son temps. Ceux qui veulent la nouveauté à tout prix ne la trouveront pas […] car les vrais créateurs innovent sans bluff ni contorsions géniales sans cabotinage, presque ingénument, en toute innocence […]” (1989, 337). Ogni intenzione creativa di Fauré, una volta postulata l’assenza di ambizione, è intesa da Jankélévitch come un prolungamento spontaneo della 18 De Musica, 2023 – XXVII (1) personalità dell’artista. In questo senso Fauré non ha mai avuto l’intenzione programmatica di “fare della musica modale” (1989, 338), e scrivere un libro su Fauré è qualcosa di “terribilmente poco fauréano” (1989, 340): perché si tratta di una forzatura su un autore che non ha mai avuto intenzione di esplicitare le sue intenzioni, imponendo un luogo all’utopia fauréana, a questa mancanza di specificità che non esclude un grande rigore compositivo, una sobrietà dei bassi, un disegno melodico regolare. La vaghezza atmosferica della sua musica non è sinonimo di approssimazione, sebbene egli non abbia “jamais fait servir le langage musical à la narration” (1989, 312). Le analisi di Jankélévitch, attualmente riscoperte dalla musicologia anglosassone (Gallope 2017, Caballero 2021) sottolineano il carattere evasivo ed elusivo di Fauré, accentuando il legame della sua personalità con la sua opera, come anche il fatto che Fauré si nutra di paradossi quasi per sbilanciare l’esperienza dell’ascolto. Se Caballero si spinge a proporre la “sincerità” come carattere del moderno (2001, 53) e Fauré come uno dei primi compositori a preoccuparsene, resta da comprendere in che modo un’estetica della sincerità possa coincidere con una musica così ricca di paradossi e ambiguità. 4. L’ascolto di Fauré Sulla scia degli scritti di Jankélévitch, alcuni autori si sono concentrati ad approfondire questo aspetto emblematico della musica di Fauré, chiamata da Ken Johansen “arte dell’equivoco” (Johansen 1999). Ciò che è si è spesso adottato come punto di partenza di queste analisi, è l’ascolto di un brano di Fauré e la reazione dell’ascoltatore. In uno studio che tenta di seguire il linguaggio jankélévitchiano mentre descrive il Notturno n. 13 op. 119, Steven Rings scrive: “I experience the result as a peculiar warping of my attention: when I attend to lines, perplexing harmonies obtrude, but when I then attend to the verticalities, my ear is drawn back to the integrity of the lines. I tend to sense line or harmony only obliquely, as I put it above, as objects in my peripheral hearing” (Caballero 2021, 243). 19 De Musica, 2023 – XXVII (1) Questo passaggio illustra perfettamente le contraddizioni e le difficoltà che reca con sé l’ascolto di un brano fauréano, come se fosse necessario una sorta di “écoute flottante” per poter aver un’idea chiara del pezzo in questione. Che Fauré abbia operato calcolando la memoria uditiva dell’ascoltatore, rendendo difficile il raggiungimento di un piacere uditivo, era già stato affermato dall’allievo Vuillermoz, il quale scriveva come la musica del maestro domanda ai suoi ascoltatori una sorta di “brevet de subtilité d’oreille” (1985, 74). Jankélévitch asseriva che la continuità della musica fauréana è un “plaisir difficile et qu’il faut mériter” (1989, 321). In una lettera all’amica Marie Clerc, Fauré scrive: “Quel dommage qu’on ne puisse pas toujours commencer par la troisième audition !” (Fauré 2015, 65). Questi elementi sono interessanti in quanto ci permettono di intravedere le intenzioni compositive di Fauré9. Non è un’esagerazione quella di affermare che la sua musica necessiti di (almeno) tre ascolti ma, malgrado ciò, qualcosa della musica di Fauré sembra essere perennemente sfuggente (Caballero 2021, 242). Eppure, tale aspetto non desta perplessità in chi ascolta, poiché Fauré riesce a intagliare il tessuto compositivo con precisione. Avevamo accennato nella parte introduttiva al rifiuto di “rassicurare” l’ascoltatore: l’intento è quello di offrire un tessuto sonoro scevro di momenti di riposo, esasperando momenti in cui la modulazione è ininterrotta e l’ascoltatore fatica a trovare un punto di appoggio. 9 L’articolo di E. R. Philips Smoke, Mirrors and Prisms: Tonal Contradiction in Fauré (1993) approfondisce tali aspetti attraverso l’analisi di alcuni momenti musicali di Fauré. Per Philips la musica fauréana ha tre funzioni per le quali essa è inconfondibile e innovativa: la funzione “specchio”, ovvero “the imputation of the ‘wrong’ function to a harmony at one level of structure while that harmony proceeds in its 'right' function at a deeper level” (1993, 4); una funzione “cortina fumogena” che riguarda l’uso di false dominanti al fine di sottolineare relazioni e strutture intermedie; una funzione di “prisma” che prevede che “underlying structure is refracted and distorced by tonal relationships at the foreground level” (1993, 8). 20 De Musica, 2023 – XXVII (1) Le composizioni pianistiche sono generalmente molto dense, c’è sempre “molto da ascoltare” (2021, 243). Seguendo Johansen, potremmo considerare la storia dell’armonia come la serie di tentativi tramite i quali i compositori frustrano l’aspettativa dell’ascoltatore creando delle risoluzioni nuove e inaspettate (1999, 68). Da questo punto di vista per Johansen Fauré è un caso unico, in quanto egli si è messo sempre nella prospettiva della reazione di chi ascolta (che sia profano o no). In questo senso Johansen legge la volontà di immettere nell’armonia tonale episodi modali, sviluppando una maestria tale che risulta spesso difficile comprendere se un determinato passaggio sia modale o frutto delle complicate relazioni tonali. Es.1: Battute 1-4 Johansen prende come esempio le prime battute (Es. 1) del Notturno n. 9 op. 97, caratteristico dell’ultima maniera compositiva di Fauré, dove la scrittura polifonica è quasi parossistica, il ritmo sincopato crea momenti di stasi 21 De Musica, 2023 – XXVII (1) costante che appaiono angosciosi e di intenzione incerta. La differenza tra i primi sei Notturni è quasi abissale non solo dal punto di vista delle scelte armoniche, ma anche da quello dell’atmosfera del brano che si discosta evidentemente dal pubblico dei salotti – come poteva essere quello della prima fase compositiva – e si affida piuttosto a un dialogo interiore. In questo Notturno, si potrebbe pensare a una struttura essenzialmente modale, percezione avvalorata dal fatto che l’ascoltatore è sorpreso dalla cadenza V-I alla quarta battuta in quanto egli si aspetta piuttosto un la bequadro piuttosto che il la diesis (sensibile). Questo elemento di cadenza perfetta è significativo in quanto esemplifica la strategia compositiva di Fauré di inserire la modalità entro i limiti della tonalità. Nonostante il fatto che anche all’interno di questo andamento modale vi siano tracce di tonalità (le prime tre battute terminano relativamente nel V grado della Tonica, nel V grado della relativa maggiore e nel V grado della Dominante) questi accenni tonali10 non sono confermati11, di modo che si potrebbe affermare che non si tratta di una modulazione in senso letterale (intesa come progressione da un centro tonale ad un altro al fine di restarvici) e si è rimasti all’interno dei confini del Si minore (Tonica). Questo tratto di modulazione passeggera costituisce sicuramente un ostacolo 10 Per Jankélévitch questa è l’arte “di far desiderare la tonalità” o, meglio, il ritorno alla tonalità originaria. Ecco che Fauré, anzi che affermare altre tonalità, vi allude trasformando ogni accordo in un prisma che proietta la luce in altre direzioni, talvolta imboccandole, talvolta fingendo di seguirle. 11 J.W. Sobaskie afferma come l’analisi schenkeriana permetta di comprendere meglio l’approccio compositivo di Fauré: “In Schenker’s view, one could arouse a sustained impression of modality within a fundamentally tonal context by means of discretely placed chromatism and tonicization at the musical surface and foreground levels, particularly if these devices were reinforced by rhythmic, textural, and harmonic factors, as well as the avoidance of contradictory chromaticism” (Gordon 2016, 189). Il testo di Sobaskie è rilevante in quanto sottolinea come questo stile “allusivo” di Fauré e gli accenni al sistema modale fossero costitutivi della scelta del compositore francese di creare uno stile e una sonorità distinti dagli altri, al fine di sopravvivere in quanto artista. Queste tecniche compositive non erano infatti state sfruttate completamente dai suoi contemporanei (2016, 195). 22 De Musica, 2023 – XXVII (1) al “piacere uditivo” degli ascoltatori, che nell’ascolto hanno l’impressione di una grande spontaneità12 compositiva, impressione fallace. Nelle battute successive (Es. 2) di questo Notturno è presente un altro elemento compositivo tipico di Fauré, quello dell’accordo aumentato che funge da centro di gravità dello sviluppo del brano13. Si può osservare come all’ascolto, la misura 5 impatta l’orecchio come se si svolgesse in un ambiente lontano, ovattato, rispetto al Si minore iniziale, e la progressione che ne consegue sembra poter continuare senza sosta, proprio perché manca la direzione verso una tonica (ecco perché non si tratta di una modulazione in senso proprio). Fauré sviluppa in ogni misura una risoluzione diversa dell’accordo aumentato, e anche all’occhio sembrerebbe di essere lontani dalla tonalità iniziale. Eppure, con due movimenti si passa da una sensazione di instabilità totale alla pace della Tonica ritrovata: il Sol della mano destra scende di un 12 Interessante è una lettera di Fauré che riguarda il suo primo Quintetto per pianoforte op. 89: “[…]ce travail de refonte, d'équilibre et d'amélioration est très dur. Et maintenant quand je le lis et l'entends dans ma tête, il me semble qu'il a un air de spontanéité combien, combien trompeur !” (Fauré 1951, 89). 13 Tale analisi è approfondita anche da Rings nell’articolo citato, in cui egli si concentra sul tredicesimo Notturno (molto caro a Jankélévitch). Egli riproduce in un esempio tutte le risoluzioni possibili dell’accordo di terza aumentata presenti nel brano (Caballero 2021, 250). Per Rings, si tratta dell’esemplificazione perfetta della metafora adoperata da Jankélévitch quando afferma che nelle composizioni di Fauré vi è una sensazione di movimento immobile: di fatto si ritorna sempre al punto di partenza. 23 De Musica, 2023 – XXVII (1) semitono fino al Fa#, e nella mano sinistra tramite l’enarmonia il Sib diviene La#. Es. 2: Battute 5-10 Il tempo gioca così un ruolo fondamentale nella musica di Fauré. Gli equivoci, infatti, possono essere compresi solo retrospettivamente, e nel fluire costante della musica il passato armonico viene costantemente reinterpretato 24 De Musica, 2023 – XXVII (1) alla luce del presente. Si tratta di un tempo che Fauré non concede all’ascoltatore, interponendo note di passaggio o note estranee che impediscono una chiara interpretazione del brano. Alla luce dei rilievi svolti si può affermare che l’unità ritrovata di cui scrive Compagnon, sia simboleggiata dall’oscillazione temporale, dovuta agli innesti di stili antichi e contemporanei, ma anche dal particolare uso che Fauré fa della memoria auditiva dell’ascoltatore. Egli, più che ogni altro compositore, misurava con minuzia i limiti oltre i quali una tonalità non si può più distinguere. È chiaro come le antinomie della critica non riescano a catturare il fenomeno Fauré. Se abbiamo posto in esergo la possibilità di definire un “altro modernismo”, è perché Fauré resiste alla sua modernità – lo fa seguendo il suo profilo psicologico, senza arrivismi e senza piegarsi a facili imitazioni. Ecco perché sono sempre necessari predicati contraddittori per definire l’indefinibile Fauré, quest’arte della force douce (Jankélévitch 1989, 419) rimane, per essenza, un espediente disconosciuto e non accreditato e, per tale ragione, persiste in forma fantasmatica. Questo articolo si poneva l’obiettivo di chiarificare alcuni dei nodi sintomatici che accompagnano la figura di Fauré. Attraverso la contestazione compagnoniana del termine “modernismo”, abbiamo potuto constatare come vi sia nei moderni una resistenza alla loro stessa modernità che apre alla possibilità di una temporalità altra, una sorta di sospensione del presente. Questa forma di resistenza è la stessa che attraversa tutta l’opera di Fauré e che è tacciata, oggi, di snobismo e di elitismo – resistenza che Fauré non instaura programmaticamente nelle sue composizioni (in questo egli non è avanguardista, seguendo le distinzioni di Compagnon) ma che è il frutto di una spontanea trasposizione della sua personalità nella musica, della sincerità. Riprendiamo il concetto di unité retrouvé che Compagnon leggeva in Fauré, simmetrica alla funzione estetica, unité che in Proust è rivestita dal tempo e che lo scrittore dispiega attraverso la memoria narrativa nella Recherche; in Fauré, l’unità è armonica e compositiva, una coincidentia oppositorum che si 25 De Musica, 2023 – XXVII (1) ottiene nel piano formale con le disattese dell’ascolto e con l’evocazione di questa temporalità altra, senza mai sfilacciare la continuità formale. Bibliografia BONNAURE, J., Gabriel Fauré, Actes Sud, Paris, 2017. BORTOLOTTO, M., Dopo una battaglia. Origini francesi del Novecento musicale, Milano, Adelphi, 1992. CABALLERO, C., Fauré and French musical Aesthetics, Cambridge, NY: Cambridge University Press, 2001. CABALLERO, C., Fauré Studies, Cambridge, Cambridge University Press, 2021. COMPAGNON, A., Proust entre deux siècles, Paris, Seuil, 1989. COMPAGNON, A., Les antimodernes, De Joseph de Maistre à Roland Barthes, Paris, Seuil, 1990. 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