Archivi, Storia, Arte
a Bologna
Per Mario Fanti
Archivi, Storia, Arte a Bologna.
Per Mario Fanti
La pubblicazione del presente volume è stata possibile grazie a:
Con il sostegno di:
ISTITUTO PER LA STORIA
DELLA CHIESA DI BOLOGNA
Chiesa di Bologna
Archivio Generale Arcivescovile
Gruppo di studi
Alta Valle del Reno
Compagnia dei Lombardi
Arciconfraternita
dei Bolognesi in Roma
Con il patrocinio di:
Deputazione di Storia Patria
per le Province di Romagna
Comitato per Bologna
Storico Artistica
Fondazione Bologna University Press
Via Saragozza 10, 40123 Bologna
tel. (+39) 051 232 882
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ISBN 979-12-5477-267-6
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Prima edizione: novembre 2023
Archivi, Storia, Arte
a Bologna
Per Mario Fanti
a cura di
Paola Foschi, Massimo Giansante, Angelo Mazza
con la collaborazione di
Giulia Iseppi e Simone Marchesani
Introduzione di
Adriano Prosperi
SOMMARIO
Introduzione
Mario Fanti cittadino bolognese
Adriano Prosperi
9
Premessa
Per un maestro, per un amico
Paola Foschi, Massimo Giansante, Angelo Mazza
11
Tavole
16
Archivistica
Enrico Angiolini
L’archivio del monastero camaldolese dei Santi Cosma e Damiano di Bologna
(1167-1803)
35
Armando Antonelli
La parabola romanza
49
Pierangelo Bellettini
Giovan Angelo Papio, corrispondente di Torquato Tasso, e il suo stemma
all’Archiginnasio
67
Donatella Biagi Maino
L’archivio dei Frati Minori Cappuccini di Bologna per la storia dell’arte sacra
87
Patrizia Busi
Le “nuove accessioni” nella Biblioteca dell’Archiginnasio.
Altri fondi che riemergono
101
Alessandra Chiarelli
L’Archivio Musicale della Basilica di San Petronio:
appunti in margine alla ricognizione e descrizione inventariale
115
Massimo Giansante
Autografi di archivisti. Un omaggio a Ermanno Loevinson
135
Simone Marchesani
Interventi archivistici fra XVIII e XIX secolo sulle carte medievali
della Mensa vescovile di Bologna: prime note
153
Roberta Napoletano
I frammenti di riuso dell’Archivio Generale Arcivescovile di Bologna
161
Andrea Risi
Ipotesi di riordino della sezione Storia ecclesiastica persicetana
dell’archivio Gaetano Bussolari nella Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna
175
Giorgio Tamba
Le scuole di Rolandino e di Pietro d’Anzola
193
Diana Tura
Parliamo ancora di notai…
201
Gilberto Zacchè
Il contributo di Mario Fanti al Centro studi nazionale
sugli Archivi ecclesiastici di Fiorano e Ravenna
207
Storia
Carlo De Angelis
Appunti sulla morfologia della città:
cadenze e misure nel tessuto urbano medievale bolognese
219
Romolo Dodi
Delitti eccellenti nella Bologna di metà Seicento
233
Maria Teresa Fattori
Esami, doveri e concorsi per i parroci bolognesi in età moderna
251
Paola Foschi
Gli istituti semireligiosi di Bologna fra Medioevo ed Età moderna:
un censimento e alcune considerazioni
269
Giuliano Malvezzi Campeggi
Mario Fanti e una preziosa collana di perle di carta.
Otto lustri di incontri con Mario in una antichissima e ormai pacifica Compagnia
Militare in Bologna, in una Arciconfraternita a Roma, nei luoghi dove vive la storia
281
Pier Luigi Perazzini
I Terribilia, costruttori e architetti bolognesi del Cinquecento
295
Nicholas Terpstra
Esecuzioni e teatro delle pene a Bologna nel XVI e XVII secolo:
pene capitali, pratiche di conforto e ruolo della Conforteria della Morte
313
Giampaolo Venturi
I fiaschi in cantina.
Giovanni Acquaderni, una vita per la Chiesa (1839-1922)
327
Renzo Zagnoni
Nascita e morte della chiesa di San Rocco “nelle ghiare di Reno”
e la fondazione della parrocchia dei Bagni della Porretta (sec. XVI-1778)
337
Gabriella Zarri
La Religiosa dalla letteratura alla storia. Percorsi di Storia moderna
351
Storia dell’Arte
Veronica Balboni
Tommaso Martelli architetto (?) bolognese:
dalla fortuna critica ai documenti di cantiere
361
Daniele Benati
Arte e scienza a Bologna: il Bagnacavallo junior e l’Algebra di Bombelli
373
Antonio Buitoni
Nuove proposte su Paolo Uccello a Bologna
381
Tiziana Contri
La cappella del Santissimo Sacramento e l’altare della Cattedra
nella basilica di San Biagio a Cento
393
Massimo Ferretti
Un lapsus di Vasari: Jacopo della Quercia nelle Vite
405
Vera Fortunati
Lavinia Fontana e l’ambasciatore persiano nella Roma di Paolo V Borghese
423
Irene Graziani
Un inedito ritratto di papa Gregorio XIII Boncompagni
433
Giulia Iseppi
Le residenze delle Compagnie delle Arti fra Cinque e Seicento
e alcune note per le committenze di Francesco Gessi (1588-1649)
445
Fabio Massaccesi
Alcune nuove riflessioni sui polittici di Jacopo di Paolo
e la ricostruzione di quello per San Michele in Bosco a Bologna
461
Anna Maria Matteucci
Le ville di Marco Minghetti
485
Angelo Mazza
Il “conforto” del condannato.
Un dipinto di Francesco Cavazzoni “discipulus” della Morte
505
Massimo Medica
Bernini e Guercino: due ritratti di Gregorio XV Ludovisi
nel monastero bolognese di Gesù Maria
529
Giovanna Perini Folesani
Appunti sulla famiglia Carracci
539
Davide Righini
Contributo per Giuseppe Antonio e Camillo Antonio Ambrosi, architetti bolognesi
549
Alessandro Serrani
Di padre in figlio: continuità e innovazione nella bottega bolognese dei de’ Marchi
559
Roberto Terra
La “rosa” del contado: il progetto interrotto per villa “La Cicogna”
di Giacomo Boncompagni
569
Storia dell’Arte
Giulia Iseppi
Le residenze delle Compagnie delle Arti fra Cinque e Seicento
e alcune note per le committenze di Francesco Gessi (1588-1649)
Nel 1566 l’Opera dei Mendicanti acquistava case e terreni per trovare alloggio ai giovani
orfani bolognesi, la cui istruzione sarebbe stata affidata alle Arti. L’obbiettivo di erigere
un’«opera publica di tutta la città», che unisse riconoscimento professionale e devozione,
è chiaro fin dall’atto di fondazione della chiesa di Santa Maria della Pietà nell’aprile del
1600, redatto nella residenza del Palazzo Comunale dal rettore dell’Opera dei Mendicanti Antonio Chini, che era anche gonfaloniere1. Lo spazio sacro, progettato da Floriano
Ambrosini e inaugurato con la posa della prima pietra dal vescovo Alfonso Paleotti il 30
giugno 1601, fu consacrato nel 1608. Rispondeva a una tipologia ormai approvata di edificio dal carattere semplificato in linea con i dettami post-tridentini, con un’unica grande
navata dove sfilano simmetriche dieci cappelle laterali, cinque per lato, e una valorizzazione
dell’altare maggiore dove avrebbe campeggiato, dal 13 novembre 1616, la grande Pala dei
Mendicanti di Guido Reni (Bologna, Pinacoteca Nazionale). Entro il primo quarantennio
del Seicento, sei compagnie si distinsero nel contribuire ad arricchirne l’interno2: da un lato
i Salaroli con il San Matteo di Ludovico Carracci (1605-1607, Bologna, Pinacoteca Nazionale)3, i Fabbri con la Madonna col Bambino in gloria e i santi Alò (Eligio) e Petronio di Giacomo Cavedone (1614, Bologna, Pinacoteca Nazionale)4 e gli Speziali con un’Annunciata
ASBo, Istituto di cura e riposo Giovanni XXII, atti e decreti 1586-1609, c. 64v-65, 17 aprile 1600,
segnalato e commentato da F. Bergonzoni, Genesi di una chiesa bolognese. Come nacque santa Maria della
Pietà, «Strenna Storica Bolognese», XLIX, 1999, pp. 51-53.
2
A. Raule, S. Maria della Pietà detta dei Mendicanti, Bologna: Nanni 1968, pp. 10-12.
3
Oggi intitolata a San Francesco Regis, cappella mediana, una delle più alte e ampie. Vi si trova la Morte
di san Francesco Regis di Ercole Graziani, proveniente dalla soppressa chiesa di Sant’Ignazio, al posto della
tela di Ludovico, tolta nel 1796; il maestro affidò poi a Giovanni Battista Bertusio la decorazione delle pareti
laterali e della volta, chiuse da ornati in stucco, dove dipinse 8 quadretti con Angeli oranti e 4 Fatti della vita
di san Matteo. Completava la visione una coppia di angeli che reggeva lo stemma della compagnia: A. Raule,
S. Maria della Pietà detta dei Mendicanti, cit., pp. 23-24. Per la tela di Ludovico, A. Stanzani, in Pinacoteca
Nazionale di Bologna. Catalogo generale, 2. Da Raffaello ai Carracci, a cura di J. Bentini, G.P. Cammarota,
A. Mazza, D. Scaglietti Kelescian, A. Stanzani, Venezia: Marsilio 2006, pp. 262-265.
4
Oggi cappella del Crocifisso, con opera di Domenico Mirandola; anche qui due angeli reggevano lo
stemma sull’archivolto: A. Raule, S. Maria della Pietà detta dei Mendicanti, cit., p. 28; insieme alla pala, vi
sono ancora in loco altri due Episodi sulla vita del santo. Cfr. L.M. Giles, in Pinacoteca Nazionale di Bologna.
Catalogo generale, 3. Guido Reni e il Seicento, a cura di J. Bentini, G.P. Cammarota, A. Mazza, D. Scaglietti
Kelescian, A. Stanzani, Venezia: Marsilio 2008, pp. 172-176.
1
Giulia Iseppi
di Giovanni Luigi Valesio (ancora in loco)5; sul lato opposto regnavano il Sant’Eligio dona
elemosine ai poveri di Alessandro Tiarini, tuttora sull’altare degli Orefici, e la Fuga in Egitto
del Mastelletta per i Falegnami, devoti a san Giuseppe; dal 1637 nella cappella mediana,
quella di dimensioni maggiori, arrivò il San Giobbe di Guido Reni (Parigi, Notre-Dame)
per i mercanti della seta, di fronte alla pala di Ludovico6. Quest’ultimo lato doveva apparire
di fattura particolarmente sontuosa, se si considera il lavoro di intaglio e decorazione in legno dorato che circondava le pale e si espandeva nelle cappelle, attribuito da Angelo Raule
a Ercole Fichi, che avrebbe eseguito anche le portiere laterali con il paliotto dell’altare7.
Sopra ogni sacello campeggiava lo stemma della corporazione, in una teoria simbolica di
mestieri suggellata dal grande stemma policromo di Bologna che esisteva sull’altare maggiore sopra la pala di Guido. Che le società d’arti fremessero già dal secondo Cinquecento
per avere uno spazio liturgico che garantisse loro visibilità e prestigio lo conferma la scelta
dei Macellai, che si potevano permettere da alcuni decenni un patronato in San Petronio
e commissionarono a Bartolomeo Passerotti la Madonna col Bambino e i santi Petronio e
Domenico e il martirio di san Pietro martire (in loco, 1580)8. Erano, queste, chiese di massimo pregio, in cui le corporazioni bolognesi con maggior credito e disponibilità di denaro
trovavano una collettiva esaltazione del proprio ruolo sociale.
A questi spazi pubblici si affianca il sistema più privato e capillare delle residenze, locali
di pertinenza delle singole corporazioni, in cui ciascuna di esse ritrova una propria dimensione più quotidiana e meno altisonante, ma che sempre più nel corso del Cinquecento
e maggiormente nel Seicento riflettono il loro specifico ruolo all’interno della comunità
cittadina, soprattutto grazie all’apparato decorativo. Il fermento imprenditoriale che vive
Bologna dall’apertura del Cinquecento si rafforza e diventa, alla metà del secolo, un sistema compatto delle società d’arti che il Reggimento non si arrischia a tentare di incrinare.
Molte corporazioni avevano sentito la necessità di riorganizzarsi separandosi dai soci precedenti e riaggregandosi per censo e per importanza dell’oggetto o valore della materia
prima prodotta o commercializzata. Nel corso del secolo per esempio, i Fabbri, i Drappieri
e gli Strazzaroli, i Falegnami, i Fornai scrissero nuovi statuti; nel 1566 i Salaroli si staccarono dai Gargiolari e Capestrari (Canapai e Cordai)9. La vicenda che portò, nel corso del
Cinquecento, alla separazione dell’Arte dei Pittori da quella dei Bombasari, forse la più
K. Takahashi, Giovanni Luigi Valesio: ritratto dell’instabile academico incaminato, Bologna: CLUEB
2007, pp. 93-94.
6
Sulla lunga vicenda del San Giobbe, commissionato fin dal 1622, si veda R. Morselli, La pala di San Giobbe di Guido Reni: committenza, cronologia, fortuna, «Paragone», 67, terza serie, 129-130, 2016, pp. 3-29.
7
A. Raule, S. Maria della Pietà detta dei Mendicanti, cit., p. 30; l’attribuzione non trova seguito negli
studi successivi sull’architetto.
8
M. Fanti, I macellai bolognesi: mestiere, politica e vita civile nella storia di una categoria attraverso i
secoli, Bologna: Sindacato esercenti macellerie 1980, pp. 159-160 ricostruisce la proprietà della cappella fin
dal 1463; A. Ghirardi, Bartolomeo Passerotti pittore (1529-1592): catalogo generale, Rimini: Luisè 1990, pp.
191-192, n. 21.
9
L. Gheza Fabbri, L’organizzazione del lavoro in una economia urbana. Le società d’arti a Bologna nei
secoli XVI e XVII, Bologna 1988 e A. Gaudenzi, Le società delle arti in Bologna nel secolo XIII, i loro statuti e
le loro matricole, «Bullettino dell’Istituto Storico italiano», 21, 1989, pp. 7-126.
5
446
Le residenze delle Compagnie delle Arti fra Cinque e Seicento
nota e studiata10, riflette il desiderio da parte delle Arti bolognesi di una nuova forma di
associazionismo che potesse rendere più evidente ciascuna specializzazione e forma di
mestiere, ormai molto diverse fra loro, portando ad eleggere nuove regole e, soprattutto,
ad individuare nuove sedi in cui trasferirsi o rendere più riconoscibili quelle già esistenti.
L’analisi dei documenti e delle testimonianze a disposizione fa emergere un vero e
proprio reticolo di locali privati nel centro città, ognuno rispondente all’identità della
singola corporazione, ma che allo stesso tempo ritrova simili caratteristiche tipologiche
di architettura, ambiente e decorazione, a testimonianza dello sguardo reciproco e del
dialogo che intercorre fra le Arti anche dal punto di vista artistico. Le residenze erano
costituite da appartamenti o stanze prese in affitto nell’area centrale della città, riservati
ai ritrovi dei membri delle società per eleggere le proprie cariche, discutere di regole e statuti e animare funzioni liturgiche legate alle devozioni particolari del santo patrono del
quale la compagnia invocava protezione. Le vicende decorative di questi ambienti sono
rimaste ai margini degli studi sul patrimonio artistico cittadino probabilmente perché
ignorate per lungo tempo dai repertori locali. La prima guida che registra in maniera
sistematica l’arredo di una parte delle residenze delle Arti è infatti la settima ristampa
delle Pitture di Bologna di Carlo Cesare Malvasia (1782), che trae spunto, per stessa ammissione dell’editore Longhi, anche dalle informazioni fornite da Marcello Oretti, che
in parte se ne era occupato11. A fronte di questo ritardo nelle fonti, che disegnano una
situazione che a Settecento inoltrato era in molti casi già mutata, uno strumento inedito
è fornito dagli inventari delle visite pastorali della città, in particolare la visita condotta
sotto l’arcivescovo Giacomo Boncompagni nel 169312. L’insieme di queste descrizioni
fornisce dettagli di localizzazione geografica, di disposizione degli ambienti, di arredo e,
in molti casi, notizie riguardanti i dipinti.
Da una prima ricognizione su questa documentazione si nota una naturale concentrazione delle residenze nella zona mercantile della città, nell’isolato fra l’antica via del
Mercato di Mezzo e via delle Clavature, poco lontano dalle botteghe, sulle strade in cui si
esercitava effettivamente il mestiere; una disposizione che trova conferma nella topografia
studiata da Mario Fanti (2000) e nella nomenclatura attuale di molte strade dell’isolato.
Nessuna compagnia poteva vantare una sede così prestigiosa come le ricche società dei
Notai e degli Strazzaroli, proprietari rispettivamente del Palazzo del Registro affacciato
su Piazza Maggiore e di un palazzo sulla piazzola di Porta Ravegnana: secondo la nota
incisione di Giuseppe Maria Mitelli (1703) (fig. 1) entrambi sfilavano tra gli ultimi dietro
al Gonfalone, ricoprendo quindi il posto più importante insieme ai Cambiatori, all’Arte
della Lana e ai Macellai. Godevano però di ottima visibilità i Merciai, la cui residenza
fronteggiava quella dei Notai con affaccio sulla piazza, sotto la parrocchia di San Michele
Si veda il recente studio di R. Morselli, Professione pittore. Il caso Bologna fra Cinque e Seicento, Venezia: Marsilio 2022.
11
C.C. Malvasia, Pitture, scolture e architetture delle chiese, luoghi pubblici, palazzi e case della città di
Bologna e suoi sobborghi, Bologna 1782, pp. 75, 141-142, 348-351; M. Oretti, Le pitture nelle chiese della città
di Bologna, BCABo, ms. B 30, cc. 290-295.
12
AABo, Visite pastorali, 66, pp. 302-363, 21-22 giugno 1693.
10
447
Giulia Iseppi
1. Giuseppe Maria Mitelli, L’Arti di Bologna, come vanno vestite in habiti nobili e curiosi quando
vanno alle processioni, 1703, acquaforte
del Mercato nella via del Pavaglione accanto alla piazzola della Canapa, detta anche Pavaglioncino13. Gran parte delle società d’Arti si insediò invece nei vicoli interni dell’area
alle dipendenze della centralissima parrocchia di San Matteo delle Pescherie: Bombasari,
Gargiolari e Falegnami risiedettero uno adiacente all’altro in vicolo delle Cimarie, i secondi proprio sopra il voltone, anch’esso scomparso insieme alla stradina per la creazione
di via Rizzoli14; Tintori, Cartolai e Pellicciari nella scomparsa via Pellizzarie15; Muratori,
Pescatori e Salaroli avevano domicilio in via delle Pescherie Vecchie; gli Orefici erano
incastonati in vicolo Ranocchi, presso la chiesa di Sant’Alò od Eligio; i Brentadori in via
de’ Pignattari, dove avevano uno dei molti trebbi del vino sparsi per le strade del centro
storico; i Calzolai in via Calzolerie16; i Calegari possedevano locali di fianco all’oratorio di
San Benedetto Abate in via Foscherari, vicino all’Ospedale della Morte; i Macellai presso
l’oratorio scomparso di San Domenico, nella parte meridionale di via Caprarie; i mercanti
M. Fanti, Le vie di Bologna: saggio di toponomastica storica e di storia della toponomastica urbana,
Bologna: Istituto per la storia di Bologna 2000, p. 662.
14
La strada partiva da via degli Orefici: G. Guidicini, Cose notabili della città di Bologna, Bologna 18681873, I, p. 428; M. Fanti, Le vie di Bologna, cit., p. 236.
15
Si trovava adiacente all’odierna Calzolerie, inglobata da un palazzo di quella via: M. Fanti, Le vie di
Bologna, cit., p. 236.
16
G. Guidicini, Cose notabili della città di Bologna, cit., I, p. 167; M. Fanti, Le vie di Bologna, cit., p. 236.
13
448
Le residenze delle Compagnie delle Arti fra Cinque e Seicento
della seta in via Clavature17. Leggermente più defilati da questa zona si trovavano i Fabbri e
Marescalchi, localizzabili presso l’oratorio di Sant’Alò in via Altabella, sotto la parrocchia
di San Nicolò degli Albari18; i Barbieri, che scelsero la sede vicina alla chiesa camaldolese
(oggi distrutta) dei Santi Cosma e Damiano al Ponte di Ferro nella via di San Silvestro,
oggi via de’ Toschi, al confine con vicolo San Damiano19. I più decentrati, infine, erano i
Pellacani, che avevano una residenza di proprietà presso l’omonima via sotto la parrocchia
dei Santi Vitale e Agricola nell’odierna via San Vitale, scelta per comodità data la vicinanza del Savena per la conciatura delle pelli20.
In quanto riservate alle questioni pratiche del mestiere e allo svolgimento del lavoro,
le residenze assunsero nel corso del Cinque e Seicento una connotazione visiva fortemente identitaria: erano luoghi fruiti dai membri della corporazione e, proprio in virtù della
loro importanza anche simbolica, furono oggetto di particolare attenzione nell’arredo e
nella decorazione. Le descrizioni inventariali registrano un appartamento posto al piano
nobile di un edificio, cui si accedeva da un portone sovrastato dall’insegna della società.
La residenza dei Pellacani in via San Vitale, per esempio, è arredata in modo esemplare:
sopra la porta che dava sulla strada vi era dipinto il patrono, san Giacomo Maggiore, e
sotto di essa le insignia dell’arte, un cane “albus” ritto sopra un fascio raccolto di pelli
altrettanto chiare21. Si tratta di un’eccezione poiché quasi tutte le insegne delle arti erano
scolpite su lapide in pietra: di queste si conserva ancora oggi quella dei Macellai (Bologna, Museo Civico Medievale). In alcuni casi si optava per un ornamento di deferenza:
sopra la residenza dei Fabbri l’Oretti vedeva ancora un’arme dipinta di papa Gregorio
XIII Boncompagni con due virtù e dei putti «creduto di mano di Prospero Fontana»22.
La stessa attribuzione si trova nell’Indice delle soppresse Arti del 1797 e l’immagine era
accompagnata in basso dalla figura di Sant’Alò di Giuseppe Antonio Caccioli23. Il lavoro
di Fontana potrebbe essere stato a suggello successivo di una fase di rinnovamento dei locali, come testimoniava una lapide del 1580, in cui si fissano nuovi compiti dei membri in
relazione alle messe e alle offerte per i morti24. Il portone immetteva in una scala, di legno
o di pietra, che portava direttamente al salone della residenza, una stanza ben illuminata
Sull’individuazione della sede dell’arte dei Macellai (o Beccai) si rimanda a M. Fanti, I macellai
bolognesi, cit., pp. 59-62; dell’Arte della Seta Guidicini dice che possedeva al n. 20 due camere al pianterreno:
G. Guidicini, Cose notabili della città di Bologna, cit., I, p. 411.
18
M. Fanti, Le vie di Bologna, cit., p. 122.
19
G. Guidicini, Supplemento alle cose notabili, indice primo, p. 184; A. Masini, Bologna Perlustrata,
Bologna 1666, p. 467, ricorda come nell’area si radunassero «più di cento botteghe di barbieri».
20
Oggi la strada non esiste più e coincide grosso modo con parte di via G. Petroni, cfr. M. Fanti, Le vie
di Bologna, cit., pp. 605-606.
21
AABo, Visite pastorali, 66, pp. 302-303, «Ianuam habet in dicta via pellacanorum supra quam
ianuam picta est in muro eiusdem met sancti protectoris imago et subtus illam conspiciuntur ingignia huius
societatis in quibus appareat canis albus erectus stans super pelles albas in fascem collectas».
22
BCABo, M. Oretti, ms. B 30, cit., p. 73. Non è citata da C.C. Malvasia, Le pitture di Bologna, Bologna: Monti 1686, p. 104, che però ricorda la residenza.
23
BCABo, ms. Gozz. 68, c. 15. La pittura è citata anche da A. Longhi, Le pitture murali nelle strade di
Bologna, in «Rass. bibliogr. dell’arte italiana», III (1900), pp. 7-10.
24
BCABo, ms. Gozz. 68, Capitali delle arti passati all’Istituto Nazionale, cc. 11-14.
17
449
Giulia Iseppi
da molte finestre. Adiacente al salone era la cappella, che in molti casi era un altare all’interno del salone stesso, sopraelevato rispetto al livello del pavimento da un paio di gradini
e chiuso da una cancellata per garantirne il decoro: quello dei Salaroli aveva un rialzo su
base quasi quadrata di 2 x 2 metri, ornato da vasi e candelabri e con accanto una tabella
con i nomi degli uomini che versavano le elemosine25. La descrizione dell’interno dei
Pellacani ci dice che il sacello era solitamente dotato di porte o di pannelli, che durante le
adunanze venivano chiusi per rispettare la sacralità dell’immagine nei momenti che non
prevedevano la preghiera: nel loro caso, l’icona da tutelare era il capolavoro di Lorenzo
Costa, la Madonna col Bambino e i santi Giacomo Maggiore e Sebastiano, firmata e datata,
mai sostituita e rimasta dietro i pannelli fino alle soppressioni (1491, Bologna, Pinacoteca Nazionale)26. Davanti all’altare, spesso vi era una piccola sagrestia con dei repositoria
per oggetti liturgici e un armadio che custodiva attrezzi o prodotti della compagnia: nel
caso dei Pellacani un armadio ornato con pelli dorate. Su una parete del salone, infine,
campeggiava una torretta fatta di colonnine di legno con una campana, utilizzata per
scandire i tempi solenni delle congregazioni27.
Il processo di decorazione di queste residenze inaugura dunque ben prima del progetto
corale della chiesa dei Mendicanti. Con il crollo della signoria bentivolesca (1506) le corporazioni persero molto del loro peso politico nelle amministrazioni comunali, ma alcune
di esse mantennero un sostanziale prestigio dato dall’influenza sull’economia locale, che
si rispecchia nelle relative vicende artistiche. Godevano di una certa posizione i lavoratori
dei metalli, in particolare Fabbri e Orefici che, pur essendosi separati alla fine del XIII
secolo, avevano mantenuto lo stesso patrono, l’orafo francese Eligio di Noyon (noto anche come Alò, dalla contrazione del francese “Eloi”) la cui iconografia, spesso modulata secondo canoni comuni alle due Arti, viene affidata alla scuola bolognese di Raffaello.
La residenza dei Fabbri e Marescalchi in via Sant’Alò ospitava una Madonna col Bambino
e i santi Alò e Petronio: è l’unica ricordata da Malvasia nel 1686, probabilmente perché,
più che un’aula privata, si trattava di un oratorio con entrata semipubblica al piano terra;
il canonico attribuisce il dipinto a Innocenzo da Imola, che andò a sostituire un’antica
«pittura per traverso», una Crocifissione con santi su tavola, dispersa, ordinata dal sindaco
dell’Arte Vincenzo Gherardini nel 142128. Il modello iconografico deriva dalle miniature
medievali che accompagnano le prime pagine degli statuti della corporazione degli Orefici,
AABo, Visite pastorali, 66, pp. 315-316.
AABo, Visite pastorali, 66, pp. 303-304, «Introitus ad oratorium habetur per scalam partim petream
partim ligneam, in cuius summitate est mansio,ubi adest oratorium et residentia hominum huiusce artis,
duas habens finestras vitreas, ferratas, et ramatas, lumen recipiens a dicta via pellacanorum. […] Est autem ad
arae predictae venerationem recintus quidam ex pictis asseribus constans extra quem sunt scamma».
27
AABo, Visite pastorali, 66, pp. 304-305, «Oratorium tutaque mansio taxello cooperitur muros
que habet optimi dealbatos et in summitate muri anteriori supra tegulas erigitur campanula in turricula ex
ligneis columnulis facta».
28
BCABo, M. Oretti, ms. B 30, cit., p. 73: «Sopra alla Residenza una pittura per traverso, con Christo
in Croce, la Madonna Ss[…], S. Maria Maddalena, S. Giovanni, S. Paolo, e S. Lucia, con S. Eligio o S. Alò
in atto di ferrare un cavallo, questa pittura antichissima, e sotto vi si legge la seguente leggenda (hoc opus
fecerunt fieri Vincentius Gerardini de Agoglij sindicus societatis fabrorum, et Magn. Simon V..... Men[sis?]
Armarolus Nissanis Victae ...... Gal. Ann. Domini MCCCCXXI. Die p[...] Marzij».
25
26
450
Le residenze delle Compagnie delle Arti fra Cinque e Seicento
dove i due santi affiancano la Vergine già nel 1299 e 138329. La pala d’altare rientra nella
vendita al mercante Felice Cartoni effettuata dall’Accademia di Belle Arti nel 1818 e dal
1821, con la successiva vendita dello stesso a Edward Solly, approda alla Gemäldegalerie
(Berlino, inv. 280) con la medesima attribuzione, seppur dubbia, oggi indirizzata a favore del Bagnacavallo senior30. Il dipinto esibisce l’immagine del santo, cui si attribuisce la
guarigione miracolosa di un cavallo a cui aveva staccato la zampa per poterlo ferrare, in
dialogo con san Petronio, costituendo il modello iconografico e compositivo cui guarderà
Giacomo Cavedoni per la pala nella chiesa dei Mendicanti. Nella residenza degli Orefici,
in vicolo Ranocchi, c’era una Madonna col Bambino, san Giovanni Battista e sant’Eligio
attribuita da Oretti a Giacomo Francia, accompagnata dai Santi Pietro e Paolo affrescati ai
lati e sopra dal Dio Padre (Greenville, Bob Jones University)31. Tale attribuzione trova la
sua più antica attestazione e conferma nell’inventario del 1693: anch’essa andò a sostituire
una tavola più antica, ugualmente conservata su un altro altare della residenza, realizzato in
gesso dorato32. La scelta dell’artista ricade, con evidente naturalezza, sul figlio del Francia
aurifex, erede dell’avviatissima bottega orafa in strada San Felice e lui stesso, come il padre,
immatricolato nell’Arte33.
In alcuni casi la corporazione poteva decidere di non rimuovere l’immagine dall’altare, che in quanto antica dava lustro alla compagnia stessa, e promuovere interventi
decorativi al passo con le tendenze dell’arte coeva che accompagnassero l’icona. È questo
il caso della residenza dei Sartori, «una grandiosa sala in cui vi era la cappella dedicata al
loro protettore S. Omobono, e lateralmente all’altare due camerini», collocata all’altezza dello scomparso vicolo dei Pini nell’odierna via Rizzoli34. La compagnia mantenne la
stessa sede sin dal 1382, e scelse di lasciare sull’altare la tavola realizzata «in antiquissima
forma»35 rappresentante il santo protettore, registrata in loco ancora nell’inventario del
29
M. Giansante, Gli Statuti delle Corporazioni. Iconografia e Ideologia, in B. Buscaroli, R. Sernicola (a
cura di), Petronio e Bologna. Il volto di una storia. Arte, storia e culto del santo patrono, Ferrara: Sate 2001, pp.
85-91; I.J.G. Zapata, La Corporazione degli Orefici di Bologna e il culto a Sant’Eligio nel Seicento, «Intrecci
d’arte», 6, 2017, p. 4.
30
Roberto Longhi si era già espresso in favore di Bagnacavallo senior in Officina Ferrarese, Firenze:
Sansoni 1956, p. 161; A. Ugolini, Ramenghi, Bartolomeo, in DBI, vol. 86, 2016, ad vocem; R. Skwirblies,
Altitalienische Malerei als preußisches Kulturgut. Gemäldesammlungen, Kunsthandel und Museumspolitik
1797-1830, Berlin-Boston: De Gruyter 2017, p. 569, n. 8.
31
A. Ugolini, Per un catalogo di Giacomo Francia, con alcuni inediti della sua bottega, «Strenna Storica
Bolognese», LXIV, 2014, p. 455.
32
AABo, Visite pastorali, 66, p. 323: «In altare tabulam pictam a Jacobo Franza extollit celebrat
festivitatem eademque festa die in mendicantium ecclesia ad portam. […] In antiqua tabula picti sunt, et
a famoso pennicillo, de quo supra sanctos Eligius calicem manu sustinens gloriosissumus sanctus Joannes
Baptista, atque deipara semprer virgo sacrosantissima cum jesu infante inter brachia, quod altare ornatu
gypseo deaurato circumdatum, sicuti est totum sacellum depictum et inauratum servat quoque omenia ad
usum catholicum necessaria».
33
M. Giansante, Raibolini Francesco, detto il Francia, in DBI, vol. 86, 2016, ad vocem.
34
A. Masini, Bologna Perlustrata, Bologna 1666, I, p. 711; G. Guidicini, Cose notabili della città di
Bologna, cit., n. 76.
35
AABo, Visite pastorali, 66, pp. 306-307, «Visitavit huius sacelli altare cuius tabula in ligno picta
est et prefert in antiquissima forma imaginem Sancti Homobono protectoris aliorumque sanctosum cuius
451
Giulia Iseppi
1772; in aggiunta, fece dipingere a Giulio Morina un fregio nella parte alta delle pareti
con i fatti della vita e i miracoli del santo36. La campagna di rimodernamento della residenza si concluse nel 1621, data impressa su una lapide che era affissa sopra la porta
d’ingresso37.
Complessa, nel corso dei secoli, è la vicenda abitativa della compagnia dei Pittori,
che cambiò sede più volte fra Cinque e Seicento e rispecchia un faticoso processo di
divisione dalle altre Arti cui inizialmente era unita, alla ricerca di un’autonomia che
andava di pari passo con la nobilitazione della professione della pittura fra le arti liberali. La residenza registrata da Masini nel 1666 «vicino al voltone dei Caccianemici», il
voltone ancora esistente che congiunge via de’ Toschi a via de’ Foscherari (la strada che
porta all’Archiginnasio), potrebbe essere quella per cui Ludovico Carracci spese metà
delle entrate della nuova compagnia, che si era appena riformata sotto nuovi statuti autonomi (1602) e che fino al maggio di quell’anno dichiarava di avere sede sotto la chiesa
di Santa Maria Labarum Coeli, detta la Baroncella, dall’altro lato di San Petronio, in via
de’ Fusari38; nel corso degli anni Sessanta e Settanta, la compagnia doveva aver cambiato
sede più volte, riunendosi fra via della Paglia, via Drapperie, l’Ospedale della Morte
e persino le botteghe private di alcuni pittori come Bartolomeo Passerotti. Di fronte
all’assenza di una residenza ufficiale o di una cappella a loro destinata, non c’è ragione
di dubitare di Masini quando afferma che «la compagnia dei Pittori di San Luca suo
protettore fa la festa e offerisce alla chiesa dei Celestini in Strada S. Mamolo», alla quale
i Pittori si erano evidentemente appoggiati. Questo spiegherebbe la presenza dell’evangelista Luca, loro patrono secolare, nella pala di Ercole Procaccini una volta sull’altare
maggiore, la Madonna col Bambino in gloria con i santi Giovanni, Luca, Benedetto e
Pietro Celestino (Pinacoteca Nazionale di Bologna, in deposito presso la Pinacoteca Comunale di Faenza)39.
Nella seconda metà del secolo le Arti più potenti rinnovarono statuti e immagine,
soprattutto grazie al pittore che probabilmente aveva maggiori aderenze con le stesse
compagnie, Bartolomeo Passerotti. L’artista era stato aggregato nel 1560 alla Compagnia delle Quattro Arti, eletto più volte membro del Consiglio, almeno tre volte massaro
festivitas celebratur ut supra […] Visitavitque aulam predictam, cuius in superiori parte habentur depicta
victa et miracula sancti homoboni, qui dum vivebat sutorium exercebat opificium».
36
Il ciclo, non più esistente, è registrato sotto il nome del pittore sia dall’inventario 1693 che dall’Oretti,
BCABo, ms. B 30, cit., c. 290, ma non viene segnalato da D. Ferriani, Giulio Morina, in V. Fortunati (a cura
di), Pittura Bolognese del ’500, Bologna: Grafis 1986, II, pp. 791-794.
37
AABo, Visite pastorali, 66, p. 306, «Super ostium huius societatis conspciuntur in molari lapide
predicata ius insignia nec non sequentia verba, videlicet: Sarcinatorum Universitas restaurari curavit anno
1621».
38
A. Masini, Bologna Perlustrata, cit., p. 494; il processo di conquista dell’autonomia istituzionale
nel corso del Cinquecento è indagato da R. Morselli, Professione pittore, cit., pp. 32-48; Ead., Dalla Società
delle Quattro Arti alla Compagnia dei Pittori. La professione dell’artista nella Bologna del Cinquecento, in
Le métier de peintre en Europe au XVI e siècle, a cura di M. Hochmann, G.-M. Leproux, A. Nassieu Maupas,
Paris: Institut de l’histoire de l’art 2023, pp. 301-324.
39
Si veda la scheda di catalogo curata da A. Mazza, in Pinacoteca Nazionale di Bologna. Catalogo
generale, 2, cit., pp. 122-125.
452
Le residenze delle Compagnie delle Arti fra Cinque e Seicento
entro il 1577, e si era speso personalmente per la scissione dalle altre tre Arti, avvenuta
nel 156940; a lui si rivolsero, negli stessi anni, i Notai e gli Strazzaroli, commissionandogli
la pala per l’altare delle loro residenze private, la Sacra Famiglia con san Tommaso d’Aquino e san Petronio (Bologna, San Giovanni Battista dei Celestini, in deposito presso la parrocchiale di Tolè di Vergato) e il San Girolamo (Dublino, National Gallery of Ireland)41.
La tela per i Notai andava a collocarsi in un edificio prestigioso, a fianco di San Petronio,
di cui gli stessi, attestati dal 1256, sono proprietari dal 1283, quando Rolandino de’ Passeggeri donò loro i locali e fu il primo proconsole. La tela divenne il fiore all’occhiello del
salone, che serviva anche per le udienze degli Anziani, dei Magistrati e dei Riformatori
dello Stato di Libertà: questo era stato tinteggiato di verde e azzurro nel 1463, corredato
di un Cristo e un San Tommaso d’Aquino nella parete sopra il tribunale del correttore, e
all’inizio del Cinquecento ricoperto di un nuovo soffitto a cassettoni42; aveva in cima
alla facciata che dava sulla piazza l’arma pontificia di Gregorio XIII contornata da quattro Virtù attribuite a Bartolomeo Cesi, con scelta analoga ai Fabbri43.
Problematica, e aperta, rimane l’attribuzione della pala d’altare dei Merciai. La loro
residenza, ubicata fin dalla fine del XIII secolo sull’altro lato di Piazza Maggiore rispetto
a quella dei Notai, dove campeggiava la pala di Bartolomeo, è strutturata in maniera
non dissimile dalle altre, costituita da una grande aula in cima a una scala, illuminata da
grandi finestre; sopra la porta era fissata una lapide in pietra su cui era scolpita l’insegna
della compagnia, con le fiamme sopra due rettangoli disposti a croce e in cima tre gigli
in campo ceruleo. Sull’altare, interno all’aula, vi era una «Madonna col Bambino e i
santi Niccolò e Petronio», ora dispersa44. L’Oretti l’attribuiva a Bartolomeo Cesi45, ma
l’estensore dell’inventario 1693 fa convintamente il nome di Tiburzio Passerotti46. Le
40
Per il ruolo e il contributo economico di Passerotti alla separazione dalle tre Arti: C.C. Malvasia,
Felsina Pittrice, I, cit., p. 240.
41
A. Ghirardi, Bartolomeo Passerotti pittore (1529-1592), cit., pp. 208-209; il San Girolamo è stato
restituito all’artista da S. L’Occaso, Impronte di Michelangelo nella Mantova della Controriforma, «Atti
e memorie dell’Accademia Nazionale Virgiliana», LXXIV, 2006, p. 94; ricollegato agli Strazzaroli da A.
Ghirardi, Bartolomeo Passerotti per gli Strazzaroli: il San Girolamo di Dublino, «Intrecci d’arte», 9, 2020,
pp. 46-53.
42
San Tommaso è protettore dei Notai dal 1422, con penna in mano, oggetto presente nella loro insegna.
Per il palazzo non si hanno documenti successivi al 1474, ma si conserva in Archiginnasio un disegno per la
sistemazione del salone pubblicato da G. Cencetti, Il palazzo dei Notai in Bologna, Roma: Istituto nazionale
delle assicurazioni 1983, p. 38.
43
BCABo, ms. Gozz. 67, cc. 33-34. L’opera di Cesi è ricordata anche da C.C. Malvasia, Pitture di
Bologna, cit., p. 157.
44
AABo, Visite pastorali, 66, pp. 311-314. Sul dipinto G.P. Cammarota, Le origini della Pinacoteca
Nazionale di Bologna. Una raccolta di fonti, I. 1797-1815, Bologna: Minerva 1997, p. 696.
45
«Nell’altare vi è una bella tavola, con la Madonna col Bambino in braccio e ai lati li Santi Petronio e
Niccolò, suo protettore dell’arte e un angeletto, è opera scielta di Bartolomeo Cesi», BCABo, M. Oretti, ms.
B 30, cit., p. 294.
46
AABo, Visite pastorali, 66, p. 313, «Visitavit idem altare in cuius picta tabula, et quae est excellentis
pennicilli pictoris nostri bononiensis Tiburtii Passarotti comparent egrege picti sanctus Nicolaus episcopus
huius civitatis protector, sanctus Petronius, ac inter ipsos sanctos residet augustissima angelorum Regina
cum Infante Divino, atque his subtis est quoque, in puelli forma, gloriosissimus sanctus Ioannes Baptista,
453
Giulia Iseppi
attribuzioni fornite da questo documento si rivelano affidabili, ma in questo caso l’associazione di Tiburzio a una pala con questo soggetto non è confermata da nessun’altra
fonte antica. L’Oretti, di contro, appare piuttosto certo della sua attribuzione a Cesi, che
riprende anche nelle Notizie de’ professori del disegno47. Il nome di Cesi compare anche
nell’Indice alfabetico del 1797, ma già l’anno successivo, quando le opere furono prelevate, il dipinto non risulta più sull’altare, sostituito da una perduta copia della Madonna
di san Girolamo di Correggio (Parma, Galleria Nazionale)48. A favore dell’assegnazione
a Cesi del quadro, che rimane tuttora irrintracciabile, va il fatto che nel 1599 il pittore
aveva dipinto un San Nicola per la corporazione dei Merciai di Imola49.
Di una testimonianza assai precoce gode la pala commissionata dai Falegnami per la
propria aula in vicolo delle Cimarie: si tratta di uno Sposalizio della Vergine ricordato da
Masini (1666) e da Malvasia (1686) come opera di Orazio Samacchini50. L’opera, che si
inseriva nella devozione cinquecentesca giuseppina sulla scorta dei Vangeli apocrifi, dove
il santo viene visto come capofamiglia e protettore della comunità, rimase in loco fino alle
soppressioni e confluì nelle raccolte dell’Accademia. Fu donata ai frati Cappuccini nel
1822 (Bologna, San Giuseppe di via Saragozza), ma deve essere riconosciuta come opera
di Ercole Procaccini51.
All’inizio del Seicento una nuova campagna decorativa investe gli altari delle residenze delle Arti. Corporazioni danarose, già dotate di un’identità forte e destinate a rafforzare la loro egemonia economica nel corso del secolo, come Macellai e Salaroli, possono
permettersi di collocare sui loro altari le immagini dei santi che la devozione coeva rendeva più popolari. Tra questi san Carlo Borromeo, canonizzato nel 1610 da Paolo V, che per
Bologna assumeva un significato ancor più pregnante nel veder fatto santo il vescovo che
era stato nominato Legato della città nel 1560, assurto poi fra i protettori di Bologna52.
visumque fuit hanc aram retinere graduarium, candelabra, vasa, sanctissimum Crucifixum, necessarias
tabellas et suppedaneum».
47
BCABo, ms. B 124, II, c. 226.
48
BCABo, ms. Gozz. 68, c. 27; BCABo, M. Oretti, ms. B. 30, cit., p. 294.
49
Il quadro è stato identificato da Vera Fortunati con quello conservato in San Domenico, cfr. V.
Fortunati, Bartolomeo Cesi, in Pittura bolognese del ’500, cit., II, p. 806; ma in seguito espunto dal catalogo di
Cesi e restituito ad Atanasio Fontebuoni da A. Mazza, Un “San Nicola”, tra Cesi e Fontebuoni, «Accademia
Clementina. Atti e Memorie», 24, 1989, pp. 41-47; A. Mazza, Sul crinale tra Cinque e Seicento: il Martirio di
Sant’Orsola di Ludovico Carracci, in Ludovico a Imola. Il Martirio di Sant’Orsola di Ludovico Carracci nella
chiesa di San Domenico, Imola: La Mandragora 2001, pp. 34-35 e fig. 15 a p. 33.
50
A. Masini, Bologna Perlustrata, cit., I, p. 257; C.C. Malvasia, Le pitture di Bologna, cit., p. 315.
51
G.P. Cammarota, Le origini della Pinacoteca Nazionale di Bologna, cit., I, p. 706, che riporta l’attribuzione a Samacchini registrata, sulla scorta delle fonti, da J. Winkelmann, Orazio Samacchini, in Pittura
bolognese del ’500, cit., II, p. 632; nello stesso volume Benati accettava la proposta di G. Cirillo, G. Godi, Di
Orazio Samacchini e altri bolognesi a Parma, «Parma nell’arte», 14, 1982, p. 18, di restituirlo a Procaccini,
inserendolo nella sua voce, D. Benati, Ercole Procaccini, in Pittura bolognese del ’500, cit., II, p. 449.
52
Borromeo non arriverà mai fisicamente a Bologna, mandando in sua vece Pier Donato Cesi, che per
le sue opere durante la legazione consultò sicuramente il Borromeo. Per l’analisi della sua figura in relazione
a Bologna si rimanda a A. Borromeo, Cesi, Pier Donato, in DBI, vol. 24, 1980, p. 261; R. Tuttle, Il palazzo
dell’Archiginnasio in una relazione inedita al cardinale Carlo Borromeo, in L’Archiginnasio, il palazzo, l’università, la biblioteca, a cura di G. Roversi, Bologna: Credito Romagnolo 1987, I, pp. 65-82.
454
Le residenze delle Compagnie delle Arti fra Cinque e Seicento
La nota tela di Alessandro Tiarini per la residenza dei Salaroli (Bologna, Pinacoteca Nazionale, circa 1618) si affianca perciò al più particolare San Carlo orante con chierici che
andò a posizionarsi sull’altare dei Macellai fino alle soppressioni, ordinato forse in un
anno prossimo al 1621, data impressa su una lapide sopra la porta esterna che ricordava
il rifacimento dei locali53.
A questa fase di rimodernamento secentesco dovrà essere anche ricondotta la pala
d’altare della compagnia dei Calzolai. Rimasta laconicamente una «tavola dell’altare» al
momento delle soppressioni, l’Oretti la descrive senza attribuirla come la «Madonna che
tiene il Bambino e due angiolini che la coronano, e li SS. Crispino e Crispiniano, S. Giuseppe e S. Paolo»54. L’inventario del 1693 descrive la stessa opera attribuendola a Giovanni Battista Bolognini (1611-1688)55: sebbene dispersa, l’attribuzione calza con la notizia
precedentemente fornita dalla visita pastorale del 1653 in cui il visitatore ordina di togliere dall’altare della residenza, lasciandola comunque all’interno del locale, l’immagine dei
due santi protettori dei calzolai, Crispino e Crispiniano, probabilmente per restituire il
suo posto al polittico disperso attribuito erroneamente dalle guide a Michele di Matteo56.
Bolognini, allievo e collaboratore di Guido Reni fra gli anni Trenta e Quaranta, doveva
essere divenuto un buon riferimento per le richieste delle corporazioni: i Falegnami, che
tenevano salda sull’altare la pala del Procaccini, arricchirono però l’aula della residenza con
un suo dipinto raffigurante «li bambocci dell’arte», un’interessante rappresentazione di
costume purtroppo non pervenuta all’Istituto57.
Ben due corporazioni si rivolsero, secondo quanto indicano le fonti, a Francesco Gessi
(1588-1649), che a Bologna si era precocemente ritagliato un ruolo di autonomia professionale sganciandosi dall’atelier di Guido Reni, ma che allo stesso tempo riscuoteva
successo di pubblico per la sua capacità di stemperare con morbidezza d’affetti lo stile
appreso dal maestro. Già Antonio Masini, un decennio dopo la morte dell’artista, registra
sull’altare della residenza dei Brentadori una tavola di cui non chiarisce il soggetto58. L’edi53
Sul dipinto di Tiarini, E. Negro, N. Roio, Alessandro Tiarini, Reggio Emilia: Credem 2000, p. 145;
il San Carlo di Massari è stato ceduto in deposito alle suore salesiane e si trova nel convento della Visitazione
presso gli Alemanni; non è stato possibile visionarlo. G.P. Cammarota, Le origini della Pinacoteca Nazionale
di Bologna, cit., I, p. 695; BCABo, ms. Gozz. 67, c. 29, «Sopra la porta esterna si legge: Lagniorum universitatis
restaurata anno D. MDCXXI».
54
BCABo, ms. B 30, cit., p. 293; G.P. Cammarota, Le origini della Pinacoteca Nazionale di Bologna,
cit., I, p. 442.
55
AABo, Visite pastorali, 66, p. 338, «In picta tabula comparent Imago augustissime Celorum Regine,
Dei filium inter brachia complexantis, eiusque a lateribus Sancti Petrus, et Paulus, ac parte, ab altera Sancti
Crispinus et Crispinianus ex claro pennicillo Ioannis Baptiste Bolognini pictoris bononiensis».
56
AABo, Visite pastorali, 38, 1653, p. 173, «sed cum sit addita icona sc.torum Crispini et Crispiniani
supra d. altare, mandavit tolli, et in alio aliquo loco reponi»; C.C. Malvasia, Pitture, scolture e architetture,
cit., 1782, p. 350 lo data al 1426 e lo descrive sopra al “banco”. L’opera coincide probabilmente con il dipinto
disperso, attribuito ad Alberto de Set in G.P. Cammarota, Le origini della Pinacoteca Nazionale di Bologna,
cit., I, pp. 703 e 725.
57
BCABo, ms. Gozz. 68, c. 198.
58
A. Masini, Bologna Perlustrata, cit., I, p. 407: «Compagnia dei Brentatori del suo protettore S.
Alberto fa la festa, la tavola del cui altare dal Gessi fu dipinta».
455
Giulia Iseppi
ficio si trovava all’altezza dell’odierna via de’
Pignattari, che collega Piazza Maggiore con
vicolo Colombina; veniva chiamata anche via
del Dazio del Vino a motivo della presenza di
un trebbo dei travasatori del vino59. Il dipinto di Gessi è ricordato, sempre con soggetto
anonimo, dall’Oretti60, ma nell’edizione delle Pitture di Malvasia del 1782 viene descritta
come una «tavolina con S. Alberto»61. Al
momento della soppressione nel 1797 l’opera si presentava «assai pregiudicata»62;
nell’Elenco dei quadri confluiti nella Galleria
di San Vitale (1801) viene descritta come un
«Sant’Alberto che libera un’ossessa del Cesi»63; identificata nel catalogo dei quadri della Pinacoteca nel 1820 come «Sant’Antonio
che benedice un indemoniato. Alto p. 9.3 largo p. 5.2», Cammarota l’associa al Miracolo
di san Filippo Benizzi, ceduto nel 1846 a Santa Maria della Carità in via San Felice, dove
oggi ancora si trova nella seconda cappella a
destra64. In realtà il quadretto non può coincidere con quello già presso i Brentadori, es2. Giovan Francesco Gessi, San Rocco con il
sendo opera chiaramente settecentesca, attricane, Berlino, Gemäldegalerie
buito da Adriana Arfelli alla scuola di Ercole
Graziani: è probabile che l’opera sia andata perduta tra il 1801, quando viene indicato
un determinato soggetto, e il 1820, quando si perde l’identificazione con sant’Alberto65.
Dalla residenza dei Filatoglieri proviene la tela di San Rocco con il cane (Berlino,
Gemäldegalerie, inv. n. 1492) (fig. 2): prelevata dall’oratorio dei Filippini nel 1819, venduta a Felice Cartoni e poi a Edward Solly come generica “scuola di Guido”, confluì nei
musei berlinesi. Fu in un primo tempo considerata opera di Guido Reni e, prevista per
l’esposizione, fu restaurata da Jakob Schlesinger. Dopo una revisione dell’autografia nel
M. Fanti, Le vie di Bologna, cit., p. 616.
BCABo, M. Oretti, ms B 30, cit., c. 294, «Dietro a San Petronio, ove all’altarino vi è la bella tavolina
del Gessi».
61
C.C. Malvasia, Pitture, scolture e architetture, cit., p. 142.
62
BCABo, ms. Gozz. 68, c. 198.
63
ASBo, Assunteria d’Istituto, Diversorum, Accademia Clementina, b. 34, n. 6, Elenco dei quadri dalle
soppresse corporazioni ora esistenti nella galleria di San Vitale, 1801 circa, in G.P. Cammarota, Le origini della
Pinacoteca Nazionale di Bologna, cit., I, come Elenco V, n. 623, p. 535.
64
Catalogo 1820, n. 910, in G.P. Cammarota, Le origini della Pinacoteca Nazionale di Bologna, cit.,
I, p. 739.
65
Arcidiocesi di Bologna, Ufficio Beni Culturali, Inventario Beni Culturali Mobili, n. 0092.
59
60
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Le residenze delle Compagnie delle Arti fra Cinque e Seicento
1829 fu però mandata a Königsberg in Prussia (odierna Kaliningrad) al museo provinciale,
tornando poi a Berlino qualche decennio dopo66. La provenienza della tela è specificata
da Francesco Alberi nel catalogo dei quadri della Pinacoteca del 1810/1167, facendo riferimento alla corporazione di operai altamente specializzati nella lavorazione della seta
grezza, preposti alla gestione dei filatoi posti all’interno dei mulini da seta lungo i canali,
detentori di una tecnica di lavorazione di cui la città andava orgogliosa e che costituiva
una delle maggiori fonti di reddito locali. I Filatoglieri furono a lungo soggetti all’arte
della Seta nonostante i diversi tentativi di affrancamento: solo nel 1614 riuscirono a costituirsi ufficialmente in Arte autonoma grazie all’approvazione degli statuti da parte del
Senato e del Legato Maffeo Barberini68. Ma già dalla fine del Cinquecento essi agivano
come compagnia separata, scegliendo come patrono san Rocco e come luogo di officiatura
pubblica l’altare maggiore dell’omonima chiesa in capo al Pratello, alla quale essi «erano affezionatissimi: sia mo per voto o per qualche loro particolar devozione non si sa di
certo»69. Siccome nel 1606 era stato loro proposto dalla confraternita che gestiva la chiesa, rifatta in quel torno d’anni, di arrogarsi il giuspatronato di una cappella, essi scelsero
la principale, impegnandosi a fabbricarla e decorarla in poco tempo. Nel 1608 risultava
tuttavia ancora spoglia e, per non ricevere il visitatore generale con imbarazzo, fu posto a
ornamento dell’altare il San Rocco e il cane di Ludovico Carracci, monumentale pastello
su carta (Bologna, Pinacoteca Nazionale) commissionato nei primi anni del secolo dalla
confraternita, pensandolo come sistemazione temporanea70. Essa però divenne definitiva
quando nel 1626, per volontà dei Filatoglieri e con il beneplacito della confraternita, fu
incollato su tela e ingrandito da Girolamo Curti, il Dentone, fungendo anche da stendardo
processionale che una volta all’anno veniva portato dalla chiesa di San Rocco alla Madonna del Borgo71. Nel frattempo, però, i Filatoglieri dovevano procurarsi una residenza: una
prima soluzione fu individuata grazie alla stessa confraternita di San Rocco, che propose
di accoglierli temporaneamente «in un luogo» dei loro appartamenti presso la chiesa, in
particolare nell’«ultima camera a piano dell’oratorio che guarda da una parte nella piazzetta e dall’altra verso le mura di S. Isaia», adattandola a propria residenza. Fu concesso di
utilizzare anche il nuovo oratorio, che in quel periodo veniva decorato dagli allievi di Lu66
Si veda la ricostruzione delle vicende di vendita in G.P. Cammarota, Le origini della Pinacoteca
Nazionale di Bologna. Una raccolta di fonti, II. Dalla rifondazione all’autonomia (1815-1907), Bologna:
Minerva 2004, pp. 172-180; R. Skwirblies, Altitalienische Malerei, cit., p. 573, n. 27.
67
R. Skwirblies, Altitalienische Malerei, cit., p. 573, n. 205.
68
Gli statuti sono conservati in BCABo, ms. Gozz. 222, rinvenuti da R. Greco Grassilli, La confraternita di San Rocco in capo al Pratello, Bologna 1990, p. 101, n. 6, volume cui si fa riferimento per i successivi
documenti citati.
69
R. Greco Grassilli, La confraternita di San Rocco, cit., p. 47.
70
Il cartone servì da modello per il gonfalone che fu portato in pellegrinaggio a Venezia dalla confraternita, eseguito dall’allievo Baldassare Aloisi detto il Galanino, con ritocchi di Ludovico, donato alla confraternita veneziana (Venezia, Scuola grande di San Rocco). Cfr. R. Greco Grassilli, La confraternita di San
Rocco, cit., pp. 43-46.
71
Posero sopra l’arco della cappella l’iscrizione «Societas, et Universitatis Filiatolierum f.f. Anno
domini 1626» e la propria arma, un rocchetto con fuso e barbino. Cfr. AABo, Miscellanee Vecchie, b. 176,
fasc. 65, in R. Greco Grassilli, La confraternita di San Rocco, cit., p. 24.
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Giulia Iseppi
dovico, quando i confratelli non lo usavano per le loro riunioni. Tutto questo finché l’Arte
non avesse trovato una propria residenza, cosa che dovette avvenire in tempi brevi: nel
1616 due confratelli di San Rocco si recarono «in una camera dietro Reno dove si radunavano li signori Filatoglieri, per accomodare varie differenze»72. L’archivio dell’arte è
andato disperso e non è consentita maggior precisione, ma la residenza dovette rimanere
sempre in questa zona, probabilmente coincidente con un locale in Borgo delle Casse,
dove Guidicini indica una loro proprietà che fu lasciata nel corso del Settecento per
trasferirsi in via Lame73. Borgo delle Casse, eliminato con la costruzione di via Marconi,
congiungeva grosso modo via San Felice con l’attuale via Riva Reno74. Si trattava di una
strada aperta sull’antico canale di Reno, di cui dal 1580 la compagnia aveva la gestione
nei mesi estivi. Sarà probabilmente questa la stanza della residenza in cui finì nel 1633 il
quadro di Ludovico, sequestrato dai Filatoglieri e oggetto di un lungo processo nel 1636
in cui la confraternita di San Rocco chiese la restituzione in quanto legittima proprietaria75. Del processo purtroppo non esistono gli esiti, ma nel 1650 l’opera si trovava già di
nuovo al suo posto, sull’altare della chiesa76. In tutte queste vicende, l’esistenza della tela
di Francesco Gessi non è mai stata presa in considerazione. I contatti di Guido Reni, suo
maestro, con l’Arte della Seta già dall’inizio degli anni Venti sono noti, ma i legami con
la corporazione si devono forse più al padre del pittore, Ottavio, che si era inserito nel
commercio dei veli di seta grazie a una collaborazione con il negozio di Porfirio Linder
e di Simone Tassi77. L’artista, che in anni giovanili aveva partecipato alla decorazione
dell’oratorio di San Rocco (San Rocco trovato morto in prigione78 e, forse, alcuni riquadri
del soffitto), intorno al 1626, l’anno dell’intervento sul cartone di Ludovico, realizza
l’Annunciazione divisa in due parti sopra le aperture architravate del presbiterio dell’oratorio, di cui oggi, dopo vari spostamenti e danneggiamenti nel corso dell’Ottocento, è
rimasto integro solo l’Arcangelo Gabriele 79. Gessi rimane, per un collegamento personale
ASBo, San Rocco, 6/6589, in R. Greco Grassilli, La confraternita di San Rocco, cit., p. 50.
G. Guidicini, Cose notabili della città di Bologna, cit., II, p. 318.
74
Ivi, I, p. 249; M. Fanti, Le vie di Bologna, cit., pp. 497-498.
75
Il processo, tenutosi davanti al vicario generale Domenico Odofredi, è analizzato da R. Greco Grassilli, La confraternita di San Rocco, cit., pp. 47-52 e L. Ciammitti, Vago e forte: Ludovico e Galanino per lo
stendardo di San Rocco: un processo a Bologna nel 1636, Bologna: Compositori 2001, pp. 11-14.
76
Registrata dalla prima edizione di A. Masini, Bologna Perlustrata, 1650, p. 452, come «mirabile disegno».
77
Questa notizia trova un parziale appoggio nella presenza di quadri di Gessi nell’inventario dei beni
di Porfirio Linder (1667) e di Simone Tassi (1671); era probabilmente quest’ultimo a influenzare le scelte
collezionistiche del socio, in quanto mercante, amico dei pittori e in rapporto con la famiglia Gessi, alla quale
passò la cappella Tassi in San Leonardo, decorata dal Sant’Antonio da Padova in adorazione del Bambino di
Elisabetta Sirani (1662, Bologna, Pinacoteca Nazionale, inv. n. 425). Cfr. R. Morselli, Collezioni e quadrerie
nella Bologna del Seicento: inventari 1640-1707, Los Angeles: Getty Information Institute; Torino: Fondazione Istituto bancario San Paolo 1998, pp. 416-419, n. 51; pp. 416-421, n. 74.
78
Assegnatogli già da A. Masini, Bologna Perlustrata, cit., 1666, p. 451.
79
La coppia dell’Annunciazione è attribuita a Gessi a partire da Malvasia (1686); dopo la soppressione
dei locali nel 1798, le due tele sono nel 1801 già «pregiudicate» nel deposito di San Vitale; tornarono in oratorio probabilmente alla metà del XIX secolo perché giudicate «non necessarii per la Pinacoteca», e risultano in loco nell’edizione del 1845 della Guida di Bianconi. Le tele furono probabilmente depositate nel corso
72
73
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Le residenze delle Compagnie delle Arti fra Cinque e Seicento
e professionale, uno dei punti di riferimento dell’Arte anche nella maturità, per cui si
presume che i Filatoglieri si siano potuti rivolgere all’artista per decorare l’altare della
loro residenza, così da colmare il vuoto lasciato nel tentativo di sistemarvi il cartone di
Ludovico. Un’esecuzione abbastanza tarda, dopo il 1636, anno del processo, collima con
quanto scrive Francesco Alberi nel Catalogo dei Quadri esistenti nella Reale Pinacoteca
(1810/11), «Fatto in vecchia età»80. L’ipotesi che si avanza è che nel momento in cui
i Filatoglieri si videro costretti a restituire l’opera di Ludovico, chiesero una nuova pala
sostitutiva a Francesco Gessi per la loro residenza privata: il forte debito compositivo che
l’artista mostra nei confronti del prototipo ludovichiano, anziché nel ricordo del San
Rocco in carcere di Carpi di Guido (Modena, Galleria Estense), realizzato nel 1617-18
nel pieno del tirocinio di Gessi presso il maestro, lo collega ancora più strettamente alle
vicende del quadro carraccesco81. Ne costituisce la sua diretta, consapevole, probabilmente voluta interpretazione: una seconda icona non narrativa di santo isolato sulla tela
di sottinsù, offerto alla venerazione dei filatori della seta.
del Novecento nella chiesa di Sant’Anna in via Sant’Isaia, da cui tornarono nel 1954, quando l’Annunciata
era già in stato deprecabile. L’Angelo fu invece ricollocato al suo posto nell’oratorio nel 1988 e restaurato nel
1993. Cfr. R. Greco Grassilli, San Rocco nel Pratello: arte e storia a Bologna, Bologna: Forni 2000, pp. 84-88.
80
R. Skwirblies, Altitalienische Malerei, cit., p. 573.
81
S. Pepper, Guido Reni. L’opera completa, Novara: De Agostini 1988, p. 240, n. 52.
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