STUDI
TIZIANESCHI
Annuario della Fondazione Centro Studi Tiziano e Cadore
Tiziano scultore?
Peter Lüdemann
Fig. 1. Monumento funebre
di Alvise Trevisan, Venezia,
basilica dei Santi Giovanni
e Paolo
Per quanto provvisto del doveroso punto interrogativo, il titolo del presente contributo potrebbe suscitare qualche giustificata perplessità. Sia dunque subito detto che
naturalmente non intendo suggerire che Tiziano maneggiasse egli stesso gli strumenti
del tagliapietra e che l’ipotesi sarà soltanto quella di prendere in esame l’eventualità di
un suo coinvolgimento nelle vicende della scultura veneziana a livello di disegnatore.
Eppure, anche con questo chiarimento, l’idea rimane un po’ spiazzante. Che un pittore
dell’Italia centrale a volte si prestasse a fornire progetti per statue e rilievi non sconvolgerà certo nessuno1 e finanche per Giovanni Bellini si è potuto ragionevolmente
ipotizzare una tale cooperazione con la bottega dei Lombardo2. Ma Tiziano? Proprio
lui che già in giovane età, nella cosiddetta Schiavona della National Gallery, scende in
campo per difendere la superiorità della pittura contrapponendo, con un’evidente vena
polemica, all’esuberante vitalità dell’immagine frontale della protagonista una seconda
rappresentazione della stessa (o almeno di una donna molto simile), ovvero il profilo
freddo, statico e in tutti i sensi inferiore del finto medaglione marmoreo scolpito nel
parapetto3? Proprio lui di cui si è voluto asserire che «the greatness of Titian as an
artist was solidly founded on three great qualities. First, the exclusiveness of his choice of painting as the language in which to express himself. Unlike most of his great
fellow-artists in Italy, Titian never felt any temptation to undertake experiments in
arts other than painting»4? In realtà, per quanto la nostra proposta di primo acchito
possa sembrare peregrina, qualche isolata apertura che punta nella medesima direzione
non è mancata: mentre ormai nessuno sostiene più quell’interpretazione del disegno
fiorentino di Francesco Maria Della Rovere a figura intera come schizzo preparatorio
per una statua del duca che in passato è stata talora messa in bocca a Panofsky soltanto
per confutarla e senza che il grande studioso abbia davvero formulato una proposta del
genere5, che Tiziano abbia ad esempio preso parte alla definizione della cornice per
l’Assunta dei Frari, risulta infatti assai scontato6. La congettura che vorremo sviluppare
non si limita tuttavia a mettere a fuoco impegni tanto modesti e tanto chiaramente
subordinati a imprese pittoriche, ma mira per così dire più in alto. Prendiamo dunque
immediatamente in considerazione l’opera su cui essa si impernia, cioè il monumento
funebre di Alvise Trevisan nella chiesa dei Santi Giovanni e Paolo (figg. 1, 2).
Da sempre destinato alla basilica domenicana, dove è attualmente addossato
alla parete nord della navata, la sua collocazione odierna risale però soltanto agli
anni ’80 del Seicento. Come ha stabilito Anne Markham Schulz nell’unico saggio
approfondito mai dedicato alla tomba Trevisan7, in origine quest’ultima occupava
infatti una nicchia sul fronte del cosiddetto barco, distrutto nel 1683, che all’altezza del secondo paio di colonne della navata separava il coro dei monaci dalla parte
dell’edificio accessibile anche al pubblico laico. Non si può dunque non condividere
l’osservazione della studiosa secondo cui tale sistemazione, compresa l’incorniciatura architettonica felicemente sopravvissuta allo spostamento, avrà finito con il
condizionare in maniera decisiva l’impianto formale del monumento8.
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Tiziano scultore?
Il tratto più peculiare e appariscente di quest’ultimo è infatti il suo ridotto sviluppo in altezza, componendosi esso, all’interno della già detta nicchia a pianta rettangolare sovrastata da una volta a botte retta da un ordine di paraste doriche, di un
sobrio parallelepipedo con un’ampia epigrafe su cui si avrà subito modo di tornare, e
di un altrettanto semplice elemento di transizione in forma di tronco di piramide dai
lati inflessi su cui si innesta immediatamente il catafalco con l’immagine del gisant.
Vestito di un abito talare molto scollato e con maniche lunghe che gli arriva fino alle
ginocchia e la cui stoffa pesante spiove in modo naturalistico sopra il bordo del giaciglio, il Trevisan poggia la testa con la barba, i baffi e una moderata zazzera tagliata
all’incirca all’altezza del labbro superiore su un doppio cuscino con nappe; il volto
con il naso forte e diritto, gli occhi chiusi un po’ sporgenti, gli zigomi pronunciati
e la bocca sensuale è lievemente girato verso l’esterno; le mani si incrociano sopra
l’addome. Sullo sfondo, il campo al di sotto dell’architrave è diviso in tre scomparti
rettangolari: in quello centrale un putto alato si puntella su una torcia fiammeggiante
rovesciata, mentre in ciascuno di quelli laterali sono accatastati un po’ alla rinfusa
alcuni grossi libri caratterizzati, in virtù delle legature restituite con meticolosa precisione, come volumi redatti parte in greco, parte in latino9. Mentre la lunetta si presenta oggi desolatamente vuota (e anche su tale lacuna occorrerà ancora soffermarsi)
al centro della volta a botte, una cornice ovale contiene un’immagine a bassorilievo
di Dio Padre con un mantello svolazzante e le braccia allargate che emerge a mezza
figura da una nuvola di angioletti sospesi in volo.
A prescindere per il momento da qualsiasi tentativo di inquadramento stilisticoattributivo per tessere prima di tutto la trama delle vicende esecutive dell’opera e
delle notizie concernenti la biografia e personalità di Alvise Trevisan, un punto di
partenza obbligato è costituito dalla sopraccennata epigrafe, che fornisce già una
messe di preziose informazioni:
ALOYSIO TRIVISANO VNICO FILIO • RARAE PROBITATIS
ADOLESCENTI • GRAECIS • LATINIS Q • LITERIS ERUDITO
QUI ET IN PHILOSOPHIAE STUDIIS EI10 GLORIAE
QUAM IN PATAVINO STUDIO IAM EXCITATAM
OMNIUM MOERORE MORS IMMATURA SUSTULIT
ET STUDIOSORUM OPTIME CONSULENS
HUIC COENOBIO SUOS OMNES LIBROS DONARI IUSSIT
PATER • ET LEONARDUS BARBARUS
BENEVOLENTIAE AC MOERORIS SOCII • P •
VIXIT ANN • XXIII • ET MS • III OBIIT SALUTIS ANN • M • D • XXVIII11
Offrendo dati anagrafici e notizie concernenti la vita del defunto, tra cui soprattutto la scomparsa inaspettata come studente all’università di Padova, il testo concorre dunque a rendere più comprensibili alcune specificità del monumento: l’abbigliamento del gisant, la tipica vestis oblonga degli iscritti all’ateneo patavino12, la presenza
dei libri negli scomparti dello sfondo, evidente allusione a quelli regalati al convento
domenicano, e l’assenza di un vero e proprio sarcofago dovuta a una morte avvenuta
lontano da Venezia in una città allora devastata da una terribile epidemia di “peste”
– in realtà probabilmente di tifo petecchiale13 – che avrà reso necessaria la sepoltura
in situ e magari perfino in una fossa comune14.
Oltre a conferire a quello che possiamo in tale modo chiamare il cenotafio Tre-
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Peter Lüdemann
Fig. 2. Monumento funebre
di Alvise Trevisan, Venezia,
basilica dei Santi Giovanni
e Paolo, dettaglio
visan uno status assolutamente eccezionale all’interno delle opere d’arte eseguite in
memoria di giovani rapiti da una morte immatura, in quanto non vi si ricordano
quasi mai i meriti di questi ultimi, ma l’amore e lo strazio dei superstiti15, le parole
dell’epigrafe trovano poi parziale conferma in una serie di testimonianze letterarie e
archivistiche che permettono di aggiungere qualche tessera al frammentario ritratto
di Alvise tracciato fin qui. Tra le prime andranno menzionati lo Stephani Plazonis
Asolani Praeexercitamentorum libellus, un manuale di grammatica uscito nel 1526 in
cui l’autore, già insegnante del Trevisan, lo ricorda come uno dei suoi allievi più
promittenti16, e il manoscritto MS lat XII, 211 (4179) della Biblioteca Nazionale
Marciana, una specie di zibaldone poetico-prosastico compilato da Marin Sanudo
che si apre con un poemetto in esametri latini in cui il nobiluomo vicentino Federico
Da Porto descrive una visita nella casa, biblioteca e collezione d’arte del cronista
fatta insieme a due compagni17. Il primo, un giovane di acuto ingegno e specchiati
costumi, con «tres vultus» e caro al padrone di casa, sarebbe Alvise Trevisan18, il
secondo invece, accolto malvolentieri, l’attore e commediografo padovano Angelo
Beolco, detto il Ruzzante, notoriamente inviso al Sanudo e verso il 1525, data presunta dell’evento, impegnato in recite teatrali promosse da un Domenico Trevisan
identificato a sua volta nel padre dello studente di filosofia rapito da morte immatura pochi anni dopo19. Purtroppo si tratta però di un’ipotesi che fa acqua da tutte
le parti. Il Ruzzante non coltivava nessun interesse per il collezionismo d’arte e di
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Tiziano scultore?
antichità, ridicolizzato come un culto perverso di cose morte20; il suo mecenate non
era affatto Domenico Trevisan di Zaccaria di Domenico, committente della tomba
ai Santi Giovanni e Paolo, bensì il Procuratore di San Marco Domenico di Zaccaria
di Febo21, anche lui padre di un Alvise, ma di un anno più giovane del nostro22; e il
poemetto del Da Porto non risale alla metà del terzo decennio ma a circa tre lustri
prima, quando Alvise Trevisan non era un adolescente di grandi promesse, ma appena un bambino23. Troppo giovane per fungere da protagonista nelle prime pagine
del codice marciano, egli affiora tuttavia nell’ultima parte come autore di due brevi
componimenti latini. Accanto agli interessi filosofici dovette dunque coltivare anche
velleità poetiche, cimentandosi in un carme contro la guerra e in un altro dedicato
al tema neopetrarchesco di un oggetto, in questo caso una pianta di ibisco, ardentemente invidiato perché toccato e accudito dall’amata24.
I suaccennati riscontri documentari, tutti all’Archivio di Stato di Venezia, sono
invece il registro della Balla d’Oro e la Cronaca matrimoni nel fondo dell’Avogaria di Comun, il testamento del genitore di Alvise, Domenico, e una delibera del
Capitolo dei padri domenicani dei Santi Giovanni e Paolo. Dai primi due emerge
come Alvise fosse figlio naturale (non viene mai presentato alla prova di età e di
nascita legittima e suo padre si sposa solo nel 1520)25, mentre nel terzo va rilevato
come il testatore vi richieda di venir sepolto davanti al monumento ormai realizzato
sotto una semplice lastra di marmo rosso con la scritta “pater inconsolabilis”26. Un
desiderio inaccettabile per la mentalità reazionaria del patriziato veneziano: la lastra
esiste infatti tuttora, ma nega a Domenico, intitolato “optimus senator”, finanche
l’espressione del suo umanissimo dolore, a evidenza ritenuto eccessivo per quello
che era “solo” un figlio illegittimo.
Di importanza decisiva ai fini di un giudizio storico-artistico risulta però soprattutto il verbale del Capitolo da cui si ricava:
1. che il diritto di erigere il cenotafio viene esplicitamente concesso in ricompensa
dei libri donati dal giovane Trevisan al convento nonché di un’elemosina il cui ammontare si lascia alla discrezione del padre;
2. che il monumento prende il posto già occupato dall’altare di Santa Caterina;
3. che esso in data 16 settembre 1528, quando i monaci si riuniscono, resta ancora
tutto da eseguire («pro sepoltura fienda»)27.
Se nessun cenno emerge invece dalle carte d’archivio per quanto riguarda l’autore
o gli autori della struttura, che potranno dunque essere recuperati soltanto su fondamento stilistico, l’unico tentativo di sciogliere la questione applicando tale criterio si
imbatte però in un ostacolo difficilmente superabile.
Confrontando l’opera con le poche sculture documentate di Bartolomeo di Francesco Terrandi da Bergamo conosciuto soprattutto grazie ad alcune lettere scritte nel
1527 da Lorenzo Lotto ai dirigenti del Consorzio della Misericordia di Santa Maria
Maggiore della stessa città orobica, Anne Markham Schulz arriva infatti ad attribuire
allo stesso Bartolomeo anche la tomba Trevisan28 e bisogna ammettere che da un
punto di vista meramente formale tale proposta possiede un indubbio fascino. Basti
rievocare come la sua Santa Maria Maddalena (fig. 3), commissionata nel 1524 per
l’altare di Verde della Scala nella distrutta chiesa di Santa Maria dei Servi e trasferita
all’inizio dell’Ottocento ai Santi Giovanni e Paolo29, anticipi una modellazione dei
panneggi risolti in ampie pieghe di impronta classicheggiante comparabile all’approccio agli stessi elementi avvertibile nel monumento funebre del giovane Alvise.
Una certa affinità stilistica e fisiognomica fra la statua di quest’ultimo e il San Menna
(fig. 4) già sull’altare maggiore di San Geminiano e pervenuto dopo l’abbattimento
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Fig. 3. Bartolomeo di
Francesco Terrandi da
Bergamo (Bartolomeo
Bergamasco), Santa Maria
Maddalena, Venezia, basilica
dei Santi Giovanni e Paolo
Peter Lüdemann
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Tiziano scultore?
dell’edificio in età napoleonica a San Giovanni dei Cavalieri di Malta30, suggerisce una conclusione analoga:
confermando che l’effigie del Trevisan, come avremo
modo di vedere con maggiori dettagli, non è un ritratto dal vivo, la somiglianza con il san Menna induce a
pensare che le due figure in questione potrebbero essere
riconducibili se non alla stessa mano esecutiva almeno
alla stessa bottega scultorea.
Il guaio è però che il Bergamasco risulta già passato a
miglior vita il 26 giugno del 1528, quando l’intagliatore
in legno Giovanni Antonio Terrandi rivendica l’eredità
del fratello morto verosimilmente da non molto31, ma
pur sempre quasi tre mesi prima che i domenicani dei
Santi Giovanni e Paolo concedano a Domenico Trevisan il luogo dove innalzare il monumento funebre del
figlio a quanto pare ancora in vita a fine aprile32. Visto
che rimaniamo abbastanza convinti che il gerundio «sepultura fienda» vada tradotto come “da fare” e in ogni
caso non autorizzi l’affermazione apodittica secondo
cui in quel momento l’opera «was already underway»33,
le scadenze si direbbero dunque non solo proibitive per
una sua realizzazione materiale da parte di Bartolomeo
Terrandi, ma almeno molto strette per un ruolo davvero centrale dello scultore a livello di ideazione. Se, piuttosto che ricorrere all’inverificabile escamotage esegetico
secondo cui la voce del Consiliorum liber patrum ratificherebbe soltanto ex post facto una decisione stabilità già
da tempo34, proponiamo dunque di prendere in esame
l’idea di una responsabilità inventiva di Tiziano e/o di
un suo eventuale collaboratore di bottega almeno per
la parte figurativa del cenotafio, il motivo non risiede
ovviamente nel fatto che nel 1528-29 il maestro fosse
per così dire già sul luogo – impegnato nel dipingere
l’Uccisione di san Pietro Martire perita in un incendio nel
186735 – per quanto anche questa banale presenza fisica potrebbe aver avuto un suo peso, ma in una triplice
convergenza di indizi.
Innanzitutto andrà sottolineato come un coinvolgimento di Tiziano nella vicenda del nostro monumento
funebre, lungi dal rappresentare una semplice congettura, costituisca un fatto documentato. Se in apertura si è già brevemente accennato alla lacuna costituita dalla lunetta oggi vuota, da fonti sei-settecentesche come Ridolfi36 e Zanetti37 si può infatti
apprendere che essa conteneva in origine niente meno che un’opera del Cadorino (o
almeno eseguita nella sua bottega), ovvero un dipinto a chiaroscuro che combinava
ingegnosamente una Sant’Anna Metterza con due monaci domenicani con un Matrimonio mistico di santa Caterina e la cui composizione ci è tramandata, sia pure con
qualche infedeltà, da una xilografia attribuita al Boldrini e databile agli anni trenta
del Cinquecento (fig. 5) nonché da due incisioni su rame più recenti38. A suggerire
una certa integrazione del suo creatore nel processo inventivo del cenotafio concorre
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Fig. 4. Bartolomeo di
Francesco Terrandi da
Bergamo (Bartolomeo
Bergamasco), San Menna,
Venezia, chiesa di San
Giovanni dei Cavalieri di
Malta
Peter Lüdemann
Fig. 5. Nicolò Boldrini
(attr.), da Tiziano,
Matrimonio mistico di
santa Caterina con i santi
Anna, Giuseppe e due angeli,
xilografia
inoltre il fatto che il soggetto della tela perduta alla fine del Settecento fosse perfettamente intonato all’impianto iconografico della tomba, da un lato riservando un posto
di primo piano a una santa “dotta” e perciò tanto cara all’ordine domenicano quanto
adatta a uno studente di filosofia come Alvise Trevisan, dall’altro commemorando
la patrona di quell’«altare Sanctae Caterinae» di cui il monumento aveva occupato
il sito, se non addirittura, con un’azione del tutto in linea con la mentalità del cattolicesimo premoderno e non senza precedenti, ricompensando la sua titolare dello
“sfratto” subito39.
Il nostro secondo indizio si impernia invece su un’argomentazione più propriamente stilistica. Da quasi un secolo, in virtù della sua voluta presa di distanza dalle
minuzie descrittive della precedente tradizione lombardesca a favore di ampi panneggi solcati da lunghe pieghe tubolari e naturalisticamente sottoposti alla legge di
gravità, la figura giacente del giovane Alvise, nei pochi interventi che l’hanno presa in
esame40, è stata sempre considerata il parallelo scultoreo più pertinente alla maniera
moderna che ha preso il sopravvento nella pittura veneziana grazie a Giorgione e, ovviamente, soprattutto Tiziano. Come mai, ci chiediamo dunque, accreditare questa
vera e propria svolta all’oscuro Bartolomeo Bergamasco anziché a un sommo artista
ancorché di solito impegnato in un altro genere?
Infine il terzo punto che ci obbliga a un ragionamento un po’ più complesso prendendo le mosse dalle tristi vicende storico-biografiche riassunte in apertura. Come è
già stato menzionato, la figura del Trevisan sicuramente non rappresenta un ritratto
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Tiziano scultore?
dal vivo. Nel momento della sua partenza alla volta di Padova, i suoi familiari non
potevano sospettare imminente la necessità di far scolpire l’effigie di uno studente poco più che ventenne per il suo monumento funebre, mentre nella primavera/
estate del 1528 nessun artista, neppure se ne avesse avuto la possibilità, si sarebbe
precipitato nella città universitaria devastata da un morbo micidiale per recarsi al
capezzale di un moribondo affetto da una malattia estremamente contagiosa e registrarne i lineamenti. Lo scultore a cui fu affidata l’esecuzione del gisant, chiunque
possa essere stato (e a questo punto non vorrei minimamente escludere che si trattasse di qualche membro della bottega del bergamasco sopravvissuta alla morte del
suo titolare), oppure l’artista che gli fornì un disegno per il progetto, dovette dunque
far ricorso a un’immagine preesistente e mi chiedo se tale funzione non possa averla
svolta proprio il ritratto tizianesco già Altman del Metropolitan Museum (fig. 6) la
cui associazione alla famiglia Grimani è peraltro destituita di qualsiasi fondamento
documentario41. Almeno una certa affinità fisiognomica tra il giovane statunitense e
il nostro Alvise “marmoreo”, soprattutto se guardato da una certa angolazione, mi
sembra infatti assai suggestiva, a cominciare dagli occhi un po’ sporgenti, passando
per il naso affilato e solo lievemente ricurvo e per la bocca dalle labbra piene e sensuali
58
Fig. 6. Tiziano, Ritratto di
giovane uomo, New York,
The Metropolitan Museum
of Art
Peter Lüdemann
Fig. 7. Bartolomeo di
Francesco Terrandi da
Bergamo (Bartolomeo
Bergamasco), San
Sebastiano, Venezia, chiesa
di San Rocco
Fig. 8. Michelangelo
Buonarroti, Schiavo ribelle,
Parigi, Musée National du
Louvre
fino alla barba, che inizia con un piccolo ciuffo sotto il labbro inferiore, e al mento
sfuggente con la caratteristica fossetta a dividerlo (che d’altronde potrebbe in tale
modo corrispondere a un tratto reale dell’effigiato e non soltanto a un’idiosincrasia
stilistica dello scultore).
Certo, siamo del tutto consapevoli di come il ritratto newyorkese venga in genere
assegnato a una fase molto precoce nella carriera del suo creatore e che una cronologia intorno al 1505-10 esclude ovviamente che si tratti del Trevisan nato appena un
lustro prima. D’altra parte andrà però ricordato che le datazioni dell’opera oscillano
entro un arco di tempo eccezionalmente ampio che si spinge dal 1506-07 sostenuto
da Augusto Gentili42 fino al 1523-25 del Pignatti43. Alla luce di quest’ultima datazione tornerebbe infatti a essere del tutto legittima l’identificazione con un Alvise
tra i diciotto e i vent’anni, tanto più che la recente lettura del dipinto, proposta da
Marianne Koos, come rappresentante tipico di un nuovo genere di ritratto sentimentale e “lirico”44 si sposerebbe naturalmente alla perfezione con l’impegno del giovane
come poeta dilettante cui abbiamo già potuto fare riferimento, permettendo di contestualizzare biograficamente l’approccio suggerito dalla studiosa tedesca.
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Tiziano scultore?
Preferendo comunque lasciar aperta una questione
troppo spinosa per risolverla in poche righe (vista la
mancanza quasi totale di dati accertati concernenti la
ritrattistica del Vecellio anteriore al 1530), vorrei invece chiudere il mio breve intervento con il tentativo
da un lato di ampliare l’idea che ne costituisce la spina dorsale e dall’altro di prevenire un argomento che
sembrerebbe opporsi a essa. In apparenza con buoni
motivi si può infatti obiettare che fra le opere documentate di Bartolomeo Terrandi e quelle ragionevolmente a lui attribuite nonché di cronologia così alta
che egli avrebbe avuto tutto l’agio sia di concepirle che
di attendere alla loro esecuzione, almeno l’una o l’altra,
ad esempio la già citata Santa Maria Maddalena, se ne
presenta almeno qualcuna in termini non meno “tizianeschi” del gisant della tomba Trevisan. Legittima
sarebbe pertanto la domanda se anche per queste opere
si dovrà togliere l’invenzione al bergamasco e accreditarla al Cadorino. Ebbene, proprio questo non lo vorrei affatto escludere e penso anzi che esista se non altro
qualche labile traccia di una più prolungata osmosi fra
le botteghe dei due artisti.
Nel San Sebastiano dell’altare maggiore della chiesa
di San Rocco (fig. 7), alla cui impresa collettiva realizzata tra il 1520 e il 1524 molto probabilmente fu
Bartolomeo stesso a contribuire, si è infatti colta in
termini plausibili un’eco dello stesso Schiavo ribelle di
Michelangelo visto di fronte (fig. 8) che quasi contemporaneamente, secondo il consenso una volta tanto
davvero (quasi) unanime degli studiosi, Tiziano guarda di profilo per ricavarne la figura del medesimo santo
martire nel Polittico Averoldi45 (figg. 9, 10). Su questo
sfondo si impone però inevitabile l’interrogativo concernente le modalità con cui lo scultore veneto-lombardo avrà conosciuto la statua del grande fiorentino
tutt’altro che facilmente accessibile nella stessa Roma
se quarant’anni fa si è ipotizzato addirittura un precoce viaggio, non documentato, di Tiziano nell’Urbe e
la mediazione di Eleonora Gonzaga Della Rovere per
spiegare l’impiego dello Schiavo nella pala bresciana46.
Ma anche se questa congettura – per quanto mi consta,
mai ripresa da nessuno – non risulterà molto convincente, ancora meno ci persuade l’idea che a Venezia
circolassero diverse riproduzioni in scala ridotta della scultura michelangiolesca gelosamente tenuta sotto
chiave dal suo autore. Non sarà dunque la via d’uscita
più plausibile supporre che una piccola copia in cera,
gesso o terracotta vista nella bottega di Tiziano abbia
permesso al Terrandi già all’inizio del terzo decennio
60
Peter Lüdemann
Fig. 9. Tiziano, Polittico
Averoldi, Brescia, chiesa
dei Santi Nazaro e Celso,
dettaglio
Fig. 10. Michelangelo
Buonarroti, Schiavo ribelle,
Parigi, Musée National du
Louvre
di ricavarne gli spunti elaborati nel Sebastiano di San Rocco? Lasciando in sospeso
anche questo suggerimento, non ci spiace affatto, e pare anzi sintomatico e del tutto
appropriato alla sua impostazione come work in progress, chiudere questo intervento,
così come l’abbiamo aperto, con un punto interrogativo.
61
Tiziano scultore?
Note
1
2
3
4
5
6
62
Come ha dimostrato R. Bartalini, Le occasioni del Sodoma. Dalla Milano di Leonardo alla
Roma di Raffaello, Roma 1996, pp. 59-60, un
disegno di Raffaello nel Gabinetto di Disegni e Stampe degli Uffizi – per cui si veda
la scheda di S. Ferino-Pagden in Raffaello a
Firenze. Dipinti e disegni delle collezioni fiorentine, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina, 1984), a cura di
C. Pirovano, Firenze 1984, cat. 18, pp. 312314 – dovette infatti nascere come modello
per la Discesa al limbo di un ignoto bronzista
(Cesarino di Francesco da Perugia?) originariamente destinata alla cappella Chigi in
Santa Maria della Pace a Roma, ma pervenuta, insieme a un altro tondo a rilievo con
una Incredulità di San Tommaso, all’abbazia di
Chiaravalle presso Milano.
Secondo W.R. Rearick, La Scuola Grande di
S. Marco: la tradizione artistica del passato e le
prospettive future, in La Scuola Grande di S.
Marco. I saperi e l’arte, a cura di N.-E. Vanzan
Marchini, Treviso 2001, pp. 33-55, pp. 36-38,
sarebbe stato il Bellini a disegnare i rilievi figurativi della facciata della Scuola dei Caleghèri e della Scuola Grande di San Marco.
L. Freedman, “The Schiavona”: Titian’s Response to the Paragone between Painting and
Sculpture, in “Arte Veneta”, XLI, 1987, pp.
31-40; R. Goffen, Titian’s Women, New Haven-London 1997, pp. 51-52, mentre B.L.
Brown, Sculpted in my heart: Titian and the
Secrets of La Schiavona, in “Artibus et historiae”, XL, 2020, 81, pp. 115-136, pp. 126131, vi scorge da ultimo piuttosto una sfida
alla poesia a cui la pittura contenderebbe la
capacità di “scolpire nel cuore” anche i caratteri di una persona (amata).
J. Wilde, Venetian Art from Bellini to Titian,
Oxford 1974, p. 121.
Oltre a G. Dillon, scheda in Tiziano, catalogo della mostra (Venezia, Palazzo Ducale Washington, National Gallery of Art, 1990),
a cura di D.A. Brown, F. Valcanover, Venezia
1990, cat. 27, pp. 224-226 (p. 224), si veda già
W.R. Rearick, scheda in Id., Tiziano e il disegno veneziano del suo tempo, Firenze 1976, pp.
46-49, cat. 21 (p. 48), ancora senza esplicito
riferimento a Panofsky che in realtà parlava soltanto di un presunto (e mai realizzato)
«ritratto monumentale e commemorativo,
commissionato dopo l’assassinio di Francesco Maria nel 1538». E. Panofsky, Tiziano.
Problemi di iconografia [1969], trad. di M.
Folin, Venezia 1992, p. 91, n. 1.
D. Rosand, Tiziano: l’Assunta, in “Eidos: rivista di arte, letteratura e musica”, n.s., III,
7
8
9
10
11
12
13
14
15
1988, pp. 4-23, pp. 7-8; R. Goffen, Devozione e committenza. Bellini, Tiziano e i Frari
[1986], trad. italiana di M. Folin, Venezia
1991, cap. 3, in part. p. 148, n. 69; M. Ceriana, La scultura veneziana al tempo di Giorgione, in Da Bellini a Veronese. Temi di arte
veneta (Istituto Veneto di Scienze, Lettere
ed Arti, Studi di Arte veneta, 6), a cura di
G. Toscano, F. Valcanover, Venezia 2004, pp.
252-297, p. 280.
A. Markham Schulz, The Cenotaph of Alvise Trevisan in SS. Giovanni e Paolo, in Renaissance Studies in Honor of Craig Hugh
Smith (Villa I Tatti series, 7), a cura di A.
Morrogh, F. Gioffredi Superbi, 2 voll., Firenze 1985, II, pp. 413-436. Inoltre, più di
recente e in sintesi, Ead., scheda in La Basilica dei Santi Giovanni e Paolo. Pantheon della
Serenissima, a cura di G. Pavanello, Venezia
2013, cat. 44, pp. 197-200.
Ead., The Cenotaph cit., p. 416; Ead., Cenotafio cit., p. 197.
N. Pickwoad, Portraits with books, in Los retratos de Lorenzo Lotto. Atti del congresso internazionale (Madrid, 2018), a cura di E.M.
Dal Pozzolo, Madrid 2022, pp. 125-135.
Non ET, come trascrive Markham Schulz,
The Cenotaph cit., p. 423, n. 4, proponendo
una traduzione inglese pasticciata e scorretta
(ivi, p. 414).
“Ad Alvise Trevisan, unico figlio, giovane di
rara probità ed erudito nelle lettere greche e
latine, che una morte precoce per il dolore
di tutti rapì a quella gloria che anche negli
studi di filosofia egli era già avviato a ottenere nell’ateneo patavino e che, prendendo
lodevole cura degli studiosi, dispose che tutti
i suoi libri fossero donati a questo convento,
il padre e Leonardo Barbaro, compagni nella benevolenza come nel lutto, fecero erigere
[questo monumento].Visse ventitré anni e
tre mesi. Morì nell’anno della salute 1528”
[traduzione di chi scrive].
Markham Schulz, The Cenotaph cit., pp. 425426, n. 16.
M. Sanudo, I Diarii di Marino Sanuto, a cura
di R. Fulin et al., 58 voll., Venezia 1879-1902,
XLVII (1897), col. 42: «A Padova è grandissima mortalità de petechie, adeo ne muor 30,
40 et 50 al zorno, che è una extremità».
Markham Schulz, The Cenotaph cit., p. 417;
Ead., Cenotafio cit., p. 199; Ead., The History
of Venetian Renaissance Sculpture, ca. 14001530, 2 voll., Turnhout 2017, I, p. 370.
U. Pfisterer, Lysippus und seine Freunde.
Liebesgaben und Gedächtnis im Rom der Renaissance oder: Das erste Jahrhundert der Medaille, Berlin 2008, pp. 16-48: «Totengedenken an Frühverstorbene ist Liebesgedenken»
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(p. 38). Un’ulteriore parziale eccezione a tale
regola potrebbe essere la lastra tombale del
giovane Matteo Costanzo la cui iscrizione rileva sia il lutto del padre e committente Tuzio che il valore guerriero e la tempra morale
del defunto (“egregia corporis forma insigni
animi virtute [...] ob bene gestam militiam”).
Si veda S. Settis, Giorgione in Sicilia. Sulla
data e la composizione della Pala di Castelfranco, in Giorgione. “Le maraviglie dell’arte”, catalogo della mostra (Venezia, Gallerie dell’Accademia, 2003-04), a cura di G. Nepi Scirè, S.
Rossi, Venezia 2003, pp. 33-61; A. Zamperini, scheda in Giorgione, catalogo della mostra
(Castelfranco Veneto, Museo Casa Giorgione, 2009-10), a cura di E.M. Dal Pozzolo,
L. Puppi, Milano 2009, catt. 126-127, pp.
493-496; F. Cortesi Bosco, Matteo Costanzo nella guerra del Casentino. Considerazioni
sull’esecuzione della tavola di Giorgione a Castelfranco, ivi, pp. 113-122; nonché, da ultimo,
P. Lüdemann, Giorgiones Pala di Castelfranco. Ein ›Scheingrabmal‹ für Muzio Costanzo?,
in “Wallraf-Richartz-Jahrbuch”, LXXVIII,
20017, pp. 73-87, con ulteriore bibliografia.
[S. Piazone], Stephani Plazoni Asolani Praeexercitamentorum libellus et rhetorices
compendium recte dispositum cum quaddam
percomoda paraphrasi ad communem omnium
studiosorum adolescentium utilitatem, Venetiis,
apud Gregorium de Gregoriis, 1526, c. iiir.
BNMVe, MS lat., XII, 211 (4179), cc. 1r-6v,
pubblicato e commentato in A. Caracciolo Aricò, Il terzo visitatore nella biblioteca di
Marin Sanudo il Giovane e nelle sue camere, in
“Studi veneziani”, LXII, 2011, pp. 375-418.
«Tres fuimus, memini: primus, cognomine
gentis / Clarior, hic tres vultus habet assidue
/ Qui, tibi tam teneris semper delectus ab
annis, / Nullus et in tota carior urbe tibi est
/ Quem merito laudas semperque extollis ad
oras / Moribus hic gratus, gratior ingenio; /
Quem totiens tota queris nimis anxius urbe,
/ Quo sine, grata satis tibi nec vita foret». Caracciolo Aricò, Il terzo cit., p. 398.
Ivi, pp. 386-393.
G. Padoan, Ruzzante e le «merdolagie» di Domenico Grimani [1968], in Id., Momenti del
Rinascimento Veneto, Padova 1978, pp. 227238, in part. pp. 227-230, 238.
Come hanno già intuito, pur senza produrre riscontri archivistici esaurienti, B. Nardi,
La scuola di Rialto e l’umanesimo veneziano
[1963], in Id., Saggi sulla cultura veneta del
Quattro e Cinquecento, Padova 1971, p. 80, e
Markham Schulz, The Cenotaph cit., p. 414.
Presentato nel 1524 all’età di diciotto anni
agli Avogadori di Comun per la consueta
prova di nascita legittima, Alvise Trevisan
di Domenico, Procuratore di San Marco,
nasce infatti nel 1506. ASVe, Avogaria di
Comun, Balla d’Oro, Reg. 165/IV, c. 360v.
Per il rapporto di discendenza si veda inoltre
M. Barbaro, Arbori de’ patritii veneti, ASVe,
miscellanea codici, serie I: storia veneta, nn.
17-23, 23, p. 114v.
23 Una cronologia alta del poemetto, appena
posteriore all’assedio di Padova del 1510
menzionato ai vv. 149-150 (Caracciolo Aricò, Il terzo cit., p. 411), è imposta da diverse
considerazioni. Dai versi «Quadraginta novem et duo mille volumina sunt hic / bis positus (iuras) nec liber ullus adest» («Ci sono
2049 volumi / e nessun libro, come assicuri,
vi è collocato due volte») emerge come la
raccolta di libri del Sanudo ammonti a 2049
opere tutte in copia unica, quindi ancora agli
inizi, ben lungi dalla cifra di 6500 che il proprietario indica nel suo testamento del 1533
(G. Berchet, Prefazione [ai Diarii di Marin
Sanudo], Venezia 1902, p. 104). Caracciolo
Aricò, Il terzo cit., p. 400, propone invece
senza necessità l’emendamento/storpiatura
«Quadraginta novem et duo mille volumina
sunt hic / Bis positum (iuras); nec liber ullus
abest», arrivando all’arbitraria affermazione
che il numero di 2049 andrebbe raddoppiato in 4098 e mettendo in bocca al Sanudo
l’assurda pretesa di possedere tutti i libri del
mondo. Ivi, pp. 394-396. Il giorno prima
(«hesterna [...] luce») la biblioteca sarebbe
inoltre stata visitata da un senatore di casa
Bembo, evidentemente Bernardo, morto nel
1519. Ivi, pp. 396-397, 400, n. 12; sull’umanista, padre di Pietro, si veda inoltre N. Gianetto, Bernardo Bembo. Umanista e politico veneziano, Firenze 1985. Dell’invalicabile termine ante quem che ne discende, la Caracciolo
Aricò non sembra tuttavia preoccuparsi più
di tanto. La struttura complessiva del manoscritto impone infine una data ancora più
alta, visto che le entrate successive, in gran
parte datate o databili grazie a riferimenti
contestuali, si snodano secondo una rigida
griglia cronologica: segue immediatamente una lettera del 1508 (cc. 9r-10v), e solo
parecchi fogli più avanti si arriva al 1513 di
alcune poesie sull’elezione di papa Leone X.
(cc. 19v-22r).
24 Ivi, cc. 170r-v. Per il tema dell’animale, pianta oppure oggetto inanimato che desta la gelosia dell’amante, particolarmente fortunato
nella cosiddetta poesia cortigiana fiorita intorno al 1500, si veda il sonetto “O felice animal, felice dico” di Serafino Aquilano in Id.,
Sonetti e altre rime, a cura di A. Rossi, Roma
2005, pp. 96-97, e i numerosi riscontri in A.
Rossi, Serafino Aquilano e la poesia cortigiana,
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Tiziano scultore?
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Brescia 1980, in part. pp. 42-44, 118, 122,
126-127, 129, 135, 143, 149, nonché, per
eventuali echi figurative del diffusissimo topos poetico, E.M. Dal Pozzolo, Cani in grembo e uccelli in gabbia: il tormento dell’amante
[2001], in Id., Colori d’amore. Parole, gesti e
carezze nella pittura veneziana del Cinquecento, Treviso 2008, pp. 149-159, pp. 152-155.
Il suo nome dovrebbe infatti precedere immediatamente quello dell’altro Alvise Trevisan in ASVe, Avogaria di Comun, Balla
d’Oro, Reg. 165/IV, c. 360v. Per il matrimonio tardivo di Domenico Trevisan quondam
Zaccaria quondam Domenico, ivi, Cronaca
matrimonio, Reg. 107/2, c. 320r.
ASVe, Notarile testamenti, busta 1207, n.
289, cit. anche in Markham Schulz, The Cenotaph cit., p. 424, n. 8.
«Die 16 septembris [1528]. Congregato
consilio magistrorum & patrum per omnes
sancitum fuit quod daret locus pro sepultura
fienda magnifico Domino Domenico Trivisano qui locus est ubi olim erat altare Sanctae
Caterinae Scolae Sancti Joan[n]is Evangelistae: Elemosina pro loco sepulturae sit in pectore suo, et hoc propter memoriale beneficii
quod conventui reliquit filius suus Dominus
Aloisyus dando conventui multos libros grecos & novitiis nostris multos in grammaticalibus». ASVe, Santi Giovanni e Paolo, busta
XI, Consiliorum liber patrum, c. 20v.
Markham Schulz, The Cenotaph cit., pp. 419422.
Ead., Bartolomeo di Francesco Bergamasco,
in Interpretazioni veneziane. Studi di storia
dell’arte in onore di Michelangelo Muraro, a
cura di D. Rosand, Venezia 1984, pp. 257274, pp. 264-266, e Ead., scheda in La Basilica cit., cat. 41, pp. 191-192.
Ead., Bartolomeo cit., pp. 260-264.
Ead., Woodcarving and Woodcarvers in Venice. 1350-1550, Firenze 2011, pp. 120, n. 297,
193, doc. XII; Ead., Cenotafio cit., p. 200.
Come ricorda Sanudo, I Diarii cit., XLVII,
col. 258, il 19 di quel mese partecipa infatti alle celebrazioni della domenica dei Santi
Apostoli fra altri patrizi anche il padre del
giovane Alvise, «sier Domenego Trivixan fo
avogador, vestito di veludo cremexin», dunque chiaramente non ancora in lutto per la
morte del figlio.
Markham Schulz, The Cenotaph cit., p. 414.
Ead., The History cit., I, p. 370.
Sulla distrutta Uccisione di san Pietro Martire,
si veda, oltre ad A. Gentili, Tiziano, Milano
2012, pp. 115-117, soprattutto P. Meilman,
Titian and the Altarpiece in Renaissance Venice, Cambridge 2000, pp. 82-132, e da ultimo
A. Ballarin, L’uccisione di san Pietro martire
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di Tiziano, in “PIETRO PICTORE ARETINO”. Una parola complice per l’arte del Rinascimento. Atti del convegno internazionale di
studi (Venezia, 2018), a cura di A. Bisceglia,
M. Ceriana, P. Procaccioli, Venezia 2019,
pp. 117-131, pp. 119-128; Id., Pordenone ma
anche Correggio e Michelangelo, Milano 2019,
pp. 90-100.
C. Ridolfi, Le Maraviglie dell’Arte. Ovvero le
Vite degli illustri pittori veneti e dello Stato, a
cura di D. von Hadeln, 2 voll., Berlin 191424, I (1914), p. 203.
A.M. Zanetti, Della Pittura Veneziana e delle
Opere Pubbliche de’ Veneziani Maestri Libri V,
Venezia 1771, p. 123.
Sul chiaroscuro tizianesco e le stampe derivate da esso, si veda J. Żarnowski, Una composizione smarrita di Tiziano, in “Rivista d’Arte”,
XVII, 1935, pp. 201-208, più di recente, M.
Muraro, D. Rosand, Tiziano e la silografia veneziana del Cinquecento, Verona 1976, cat. 47,
pp. 112-113, nonché da ultimo M. Grosso,
Su Lampson e Tiziano, in Luigi Guicciardini
nell’Europa del Cinquecento. Letteratura, arte e
geografia tra Italia e Paesi Bassi. Atti del convegno internazionale (Roma, 2015), a cura di
D. Aristodemo, C. Occhipinti, Roma 2018,
pp. 243-302, pp. 253-257.
La commissione ed esecuzione della Pala
di San Giobbe di Giovanni Bellini, ad esempio – seguite di poco all’iniziativa del doge
Cristoforo Moro per cui l’altare maggiore
della chiesa omonima fu riconsacrato a san
Bernardino da Siena, accolto per di più tra
gli speciali protettori della Repubblica – potrebbero essere state intese anche come una
specie di risarcimento per l’antico patrono
“diseredato”. R. Goffen, Bellini, S. Giobbe
and Altar Egos, in “Artibus et historiae”, VII,
1986, 14, pp. 57-70, p. 62; Ead., Giovanni
Bellini [1989], trad. di A. de Lorenzi, Milano 1990, pp. 154-156; C. Schmidt Arcangeli,
La sapienza nel silenzio: riconsiderando la Pala
di San Giobbe, in “Saggi e memorie di storia
dell’arte”, XXII, 1998 (1999), pp. 9-54, p. 22.
Un caso parallelo coinvolge inoltre nel 1517
l’altare della Purgazione nei Frari. Cfr. Goffen, Devozione e committenza. Bellini, Tiziano
e i Frari cit., p. 108.
L. Planiscig, Del giorgionismo nella scultura
veneziana all’inizio del Cinquecento, in “Bollettino d’arte”, XIV, 1934-35, pp. 145-155, p.
149; Markham Schulz, The Cenotaph cit., p.
422; Ead., Cenotafio cit., p. 200.
T. Pignatti, Giorgione, 2 ed., Venezia 1978,
cat. A35, p. 127. Non ci convince neppure
l’opinione sostenuta da Ph. Rylands, Palma il Vecchio. L’opera completa, Milano 1988,
cat. 58, pp. 227-228, p. 228; D.A. Brown,
Peter Lüdemann
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scheda in Bellini, Giorgione, Tiziano e il Rinascimento della pittura veneziana, catalogo
della mostra (Washington, National Gallery
of Art - Wien, Kunsthistorisches Museum,
2006-07), a cura di D.A. Brown, S. FerinoPagden, Milano 2006, cat. 52, pp. 262-263;
M. Koos, Bildnisse des Begehrens. Das lyrische
Männerporträt in der venezianischen Malerei
des frühen 16. Jajhrhunderts ‒ Giorgione, Tizian und ihr Umkreis, Emsdetten 2006, pp.
207-208, secondo cui il dipinto del Metropolitan Museum e il cosiddetto Ritratto di
un poeta di Jacopo Palma il Vecchio alla National Gallery di Londra raffigurerebbero lo
stesso modello, identificato da M. Paoli, Lo
specchio del Rinascimento. Novità su Tiziano e
Dosso che ritraggono Ariosto / The mirror of the
Renaissance. New findings on Titian and Dosso
portraying Ariosto, Lucca 2015, pp. 45-58, in
part. pp. 56-58, ultimo assertore dell’ipotesi,
nel patrizio veneziano Niccolò Dolfin, poeta
nonché nel 1516 curatore dell’edizione De
Gregoriis del Decameron.
A. Gentili, Venezia - New York e ritorno:
la storia assai singolare di un ritratto forse di
Giorgione, in “Venezia Altrove”, 2006, pp. 8397, p. 89.
Pignatti, Giorgione cit., cat. A35, p. 127.
Koos, Bildnisse cit., in part. pp. 29, 176-179,
207-208.
Markham Schulz, The History cit., I, pp. 367-
369. Sul Polittico Averoldi e le sue presumibili
fonti figurative, si veda B. Passamani, Tiziano, Averoldi, Brescia. Il polittico di San Nazaro tappa nodale nell’arte di Tiziano e polo
catalizzatore per la pittura bresciana del primo
Cinquecento, in Il polittico Averoldi di Tiziano restaurato, catalogo della mostra (Brescia,
Museo di Santa Giulia, 1991), a cura di E.
Lucchesi Ragni, G. Agosti, Brescia 1991, pp.
7-32, in part. pp. 9-13; W.R. Rearick, Il disegno veneziano del Cinquecento, Milano 2001,
pp. 59-61, e da ultimo B.M. Savy, scheda in
Tiziano e la pittura del Cinquecento tra Brescia
e Venezia, catalogo della mostra (Brescia, Museo di Santa Giulia, 2018), a cura di F. Frangi,
Cinisello Balsamo 2018, cat. 26, pp. 96-99.
46 E. Battisti, Di alcuni aspetti non veneti in Tiziano, in Tiziano e Venezia. Atti del convegno internazionale di studi (Venezia, 1976),
a cura di M. Gemin, G. Paladini, Vicenza
1980, pp. 213-225. Sulla difficile accessibilità dello Schiavo ribelle, si vedano anche L.
Beschi, Collezioni d’antichità a Venezia ai
tempi di Tiziano, in “Aquileia Nostra. Rivista
dell’Associazione Nazionale per Aquileia”,
XLVII, 1976, coll. 1-44, col. 29, e G. Agosti,
Sui gusti di Altobello Averoldi, in Il polittico
Averoldi cit., pp. 55-80, p. 62: entrambi, rare
voci fuori dal coro, tendono a ricondurre la
figura di Tiziano piuttosto a una vista laterale del Laocoonte.
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