CESURA - Rivista
2/2 (2023)
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Gli Autori
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CONFRONTI
Nuove prospettive per la storia diplomatica
FRANCESCO STORTI
Opportune innovazioni e giuste resistenze.
Un contributo di CESURA agli studi di
storia della diplomazia nel Rinascimento
Una delle prime notizie reperibili su un approccio tra una delegazione etiope e una potenza europea è la partecipazione degli
oratori del Negus all’investitura ducale di Gian Galeazzo Visconti, celebrata nella basilica di Sant’Ambrogio a Milano nel settembre del 1395: una notizia isolata e impossibile da inserire in un
preciso contesto. È tuttavia chiaro che, al di là dell’avarizia delle
fonti, quella visita, che comportò un viaggio di migliaia di miglia,
non poté essere effettuata, proprio in conseguenza di tali formidabili distanze, se non nel quadro di un più ampio disegno diplomatico che non aveva, credibilmente, come unico terminale la
Milano viscontea. Una densa nebbia avvolge d’altra parte la storia
delle delegazioni in Occidente del più remoto dei regni cristiani,
che con una certa difficoltà e molte falle è possibile ricostruire
per il secolo XV.
Nel 1402 un’ambasciata del Negus Dewit si recava a Venezia
allo scopo di richiedere reliquie della vera Croce e due anni più
tardi, a Roma, una delegazione abissina contrattava con la Santa
Sede l’indulgenza per i combattenti impegnati contro gli infedeli,
né sappiamo se in quelle occasioni venissero stretti patti e impegni
d’altro genere. Si registrano poi molti pellegrinaggi, perlopiù compiuti, come le ambasciate, da religiosi: a Bologna, a Padova, a
Roma, a Santiago, tra il 1407 e il 1408 e tra il 1427 e il 1430. La
meta privilegiata sembra essere stata comunque Roma, dove troviamo pellegrini etiopi nel 1431, nel 1436, nel 1438, nel 1465-1466,
nel 1480, nel 1483 e nel 1491. Parallelamente, e senza apparente
relazione con i contatti appena illustrati, ma con una certa coincidenza di date che fa riflettere, maturano alcune “riconoscibili” missioni diplomatiche: presso il re Alfonso V, soprattutto, a Valencia,
dove tra il 1427 e il 1428 venne stipulata la più importante alleanza
CESURA - Rivista, 2 (2023)
ISSN: 2974-637X
ISBN: 978-88-945152-2-0
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politico-militare tra il regno etiope e una potenza euro-mediterranea, sancita da un doppio patto matrimoniale rinnovato nel 1430
e abbandonato dopo la scomparsa della delegazione iberica inviata
nel Corno d’Africa: alleanza rilanciata nel 1448 a Napoli e qui ribadita nel 1450. In questa cornice di ufficialità va inserita inoltre la
partecipazione delle delegazioni del Negus al Concilio di Costanza
nel 1417-1418 e a quello di Firenze nel 1441-1442, nel corso del
quale Poggio Bracciolini e Biondo Flavio si intrattennero con i
colti membri della rappresentanza africana, come pure la partecipazione, a Roma, nel 1450 (di certo intercalata alla missione a Napoli cui si è appena fatto cenno), alle cerimonie di canonizzazione
di Bernardino da Siena 1. Potrei continuare, ma mi fermo.
Nell’introdurre il discorso sulla storia diplomatica del Rinascimento, si è deciso di far riferimento a questo puntiforme scenario
di contatti tra gli stati europei e la remota potenza etiope – tema
complesso – per precisare come oggi la storiografia sarebbe in
grado di racchiudere in un quadro coerente ciò che fino a ieri poteva apparire poco più di una fitta nebulosa di contatti di diversa
natura, indecifrabile se non grazie alla luce delle poche missioni
“ufficiali” cui si è fatto cenno: sì, perché è proprio questa “ufficialità”, in sintesi, a esser messa in discussione da una frangia sempre
più consapevole della storiografia che si occupa di diplomazia, capace di mettere a sistema contatti e relazioni della più diversa natura. Il riferimento è alla New Diplomatic History (d’ora in poi, NDH),
un indirizzo di ricerca che, a partire da prospettive di analisi interdisciplinari attivate attraverso il dialogo con le scienze sociali, internazionali e transnazionali, elude e supera il modello interpretativo, classico, di diplomazia interstatale, concentrandosi, a partire
dal concetto di non-state agency, su soggetti e agenti, appunto, non
ufficializzati (letterati, interpreti, mercanti, ecclesiastici, medici, intermediari, spie etc.), tenuti generalmente in secondo piano, se non
1
Gran parte dei dati qui riuniti sono reperibili in: V. Krebs, Medieval
Ethiopian Kingship, Craft, and Diplomacy with Latin Europe, Basingstoke 2021,
fornito di una vasta bibliografia aggiornata; per una ricostruzione puntuale
delle missioni / visite etiopiche in Italia, mi permetto di rimandare a: F.
Storti, Mediterraneo nero. Note sulla presenza africana subsahariana in Europa negli
ultimi secoli del medioevo, Roma, in corso di pubblicazione.
Opportune innovazioni e giuste resistenze
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del tutto ignorati, nelle indagini per così dire “ortodosse” rivolte
alle interazioni diplomatiche; un’impostazione epistemologica che
predispone a una nuova declinazione – e al conseguente ampliamento – dell’idea stessa di “spazio” del contatto diplomatico, non
più inteso come rigidamente ed esclusivamente concentrato nei
luoghi canonici del potere (corte, reggia, palazzo pubblico etc.),
così come a una più decisa valorizzazione di quegli elementi “alternativi” che concorrono a connotare il dialogo tra parti politiche
(non-verbal communication, gestualità, doni, scambi culturali) 2.
È evidente allora che, a partire da tali indirizzi e parametri, il
pulviscolo di contatti tra Europa e Corno d’Africa del XV secolo,
posto qui a caso esemplare di studio proprio perché realizzato da
elementi non investiti di ruoli definiti e articolato in forme eterogenee, potrebbe assumere un significato inedito, ricomponendosi
verosimilmente in uno scenario in cui distinguere i segni di un
dialogo strutturato tra quei lontani terminali politici. D’altronde,
è quanto finisce per fare in parte Verena Krebs nella sua recente
monografia sui rapporti tra Europa ed Etiopia nel medioevo, pur
non riferendosi alle categorie della NDH, ma utilizzandone di
fatto molti degli strumenti interpretativi: uno su tutti, la fondamentale sutura concettuale tra Mission e Pilgrimage che percorre
l’intero volume 3.
Detto ciò, nel comporre una sezione monografica della Rivista
riservata alla storia della diplomazia, CESURA ha inteso manifestare
la propria attenzione nei confronti di tali linee di indagine, pubblicando un gruppo di contributi che traducono le più significative
riflessioni emerse da un recente convegno internazionale di studi
dedicato, per l’appunto, alla NDH (A ‘New Diplomatic History’, methods and research perspectives, Salerno - Fisciano, 5 giugno 2023): il
2
Rimandando alla corposa bibliografia contenuta nei saggi riuniti in
questo numero, mi limito a citare, per la NDH, il manifesto programmatico
che le ha dato vita e la prima raccolta di ricerche dedicatale: J. Watkins, Towards a New Diplomatic History of Medieval and Early Modern Europe, «Journal of
Medieval and Early Modern Studies», 38 (2008), pp. 1-14; Practices of Diplomacy in the Early Modern World c. 1410-1800, cur. T. A. Sowerby, J. Hennings,
London - New York 2017.
3 Vd. nota 1.
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Francesco Storti
primo organizzato interamente sul tema in Italia e che ha visto la
presenza, accanto a nomi affermati, di giovani studiosi e studiose.
Si tratta di tre saggi, di altrettante autrici, che risultano perfettamente funzionali non solo a dar ragione della genesi e degli sviluppi della nuova storia diplomatica, ma a compendiarne altresì
l’efficacia euristica e il ventaglio delle traiettorie tematiche. Essi
sono stati disposti del resto, idealmente, a mo’ di piramide capovolta, con una base larga, in cima, costituita dal primo contributo,
cronologicamente trasversale e di impianto robustamente metodologico (Constructing and de-constructing diplomacy and diplomatic history
in the pre- and post-modern worlds. The New Diplomatic History in dialogue
with the International Relation Studies), nel quale Isabella Lazzarini,
studiosa abituata a percorrere i sentieri ripidi della sperimentazione
storiografica, offre un lucido bilancio delle trasformazioni della
storia diplomatica, legandole al processo di revisione del concetto
di stato-nazione e connettendole agli sviluppi della globalizzazione
e al dibattito attivatosi in tale contesto. Stringendo il campo, ma
proseguendo sulla linea metodologica, il contributo di Malika Dekkiche (New Diplomatic History and Mamluk Studies: Challenges and
Possibilities), studiosa belga, si concentra invece sulla storiografia
islamica impegnata nell’analisi della diplomazia del sultanato mamelucco e sui benefici che essa, già incline a valorizzare forme di
comunicazione non ufficiali, ricaverebbe dall’assunzione di un approccio ispirato alla NDH: un contributo di dilatazione tematica,
utile tra l’altro a forzare la prospettiva eurocentrica degli studi di
settore. Da parte sua, Imma Petito (Le geografie della diplomazia aragonese: il Regno, le Fiandre e l’Inghilterra. 1463-1483), giovane promotrice del convegno che ha dato vita alle riflessioni qui raccolte, presenta uno studio specificamente accordato ai canoni della NDH,
analizzando i rapporti tra Regno di Napoli e Inghilterra nella seconda metà del XV secolo a partire dall’inedita angolazione dei networks stesi dai mercanti napoletani e fiorentini operanti tra Bruges
e Londra: una triangolazione tra Mediterraneo, Fiandre e Inghilterra, che, in uno allo scenario africano dischiuso dalla Dekkiche e
sullo sfondo delle riflessioni della Lazzarini, concorre a definire
un’immagine concettualmente coerente dei nuovi orizzonti della
storia diplomatica.
Opportune innovazioni e giuste resistenze
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Rinnovamento metodologico e dilatazione delle prospettive di
indagine: se la NDH offre tutto ciò, e chi scrive ne è fermamente
persuaso, si sarebbe tuttavia fatto torto a un’intera generazione di
studiosi escludendo da questo numero monografico un lavoro di
profilo, per così dire, tradizionale. Lo si è fatto pertanto accogliendo il contributo di Gianluca Falcucci (Tra vecchie e nuove alleanze:
Ferrante d’Aragona, la politica di rapprochement con lo Stato della Chiesa
e la costruzione europea del blocco antifrancese. 1471-1472), egli pure giovane ricercatore, dedicato ai rapporti tra il Regno di Napoli e la
Santa Sede nella difficile congiuntura dell’elezione al soglio pontificio di Sisto IV: ricerca costruita sulla lettura accuratissima di una
considerevole mole di dispacci inediti e che apre squarci significativi sulle strategie diplomatiche attuate da Ferrante I di Napoli, un
personaggio largamente banalizzato in passato, cui proprio la storiografia diplomatica ha progressivamente restituito spessore politico.
Si è poco prima usato l’aggettivo “tradizionale” per introdurre
il contributo di Falcucci, ma va precisato che lo si è fatto in maniera
relativa, legandolo cioè alla specifica realtà scientifica del rilancio
degli studi di storia diplomatica del XV secolo avviato un quarto di
secolo fa dai grandi progetti, peraltro ancora aperti, di edizione dei
dispacci degli oratori residenti. Ebbene, val la pena notare come
quel rilancio, fondato su salde basi metodologiche, fu accolto allora
come una vera e propria rinascita degli studi diplomatici: per l’attenzione rivolta al dettato delle lettere degli oratori, alla lingua, alla
materialità della prassi scrittoria (aspetto fino allora ignorato), al
“gesto” e alla prossemica politica; per la valorizzazione delle infinite informazioni, in apparenza marginali, impigliate nella rete dei
minuziosissimi dispacci degli ambasciatori e delle lettere di migliaia
di altri corrispondenti presenti nei carteggi: informazioni tutte utili
a illustrare aspetti fondamentali della vita sociale dei soggetti coinvolti nell’azione diplomatica, degli interessi economici e culturali
di questi, dell’ideologia e persino dei sentimenti, in sintesi, di un
intero ceto politico (e non solo). Parliamo insomma di un quadro
vivace, già incline d’altronde a generare assunti che, come la dilatazione del concetto di spazio politico, risultano a fondamento
110
Francesco Storti
della NDH 4; né è un caso, credo, che alcuni di coloro che oggi sono
impegnati, e a giusta ragione, a testare i benefici interpretativi della
nuova storia diplomatica e a precisarne i contorni epistemologici,
si siano formati in quel clima scientifico. E dunque?
È mia convinzione che i confini tra quella che definiamo storia
diplomatica tradizionale, almeno di una parte di essa, e la New Diplomatic History, siano ben più permeabili ed esili di quel che sembra
e che siano destinati, nel tempo, a confondersi proficuamente, laddove, e vale per entrambi gli indirizzi di indagine, la bussola che
guida la ricerca punti su un lucido senso critico e su una perspicua
apertura gnoseologica: ma qui si rischia di cadere, e forse lo si è già
fatto, nell’ovvio!
4
Per tutti questi argomenti mi limito a citare, nella mole di riferimenti
disponibili, solo alcuni studi si sintesi e di orientamento: F. Senatore, Filologia e buonsenso nelle edizioni di corrispondenze italiane diplomatiche quattrocentesche,
«Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo», 110/2 (2008),
pp. 61-95; I. Lazzarini, Il gesto diplomatico fra comunicazione politica, grammatica
delle emozioni, linguaggio delle scritture (Italia, XV secolo), in Gesto e immagine tra
antico e moderno. Riflessioni sulla comunicazione non verbale, cur. M. Baggio, M.
Salvadori, Roma 2009, pp. 75-93; De l’ambassadeur: les écrits relatifs à l’ambassadeur et à l’art de négocier du Moyen Âge au début du XIXe siècle, cur. S. Andretta,
S. Péquignot, J-C. Waquet, Roma 2015 (in specie, i contributi qui offerti
da Covini, Figliuolo, Lazzarini e Senatore su norme e pratiche di comportamento dell’ambasciatore: pp. 88-161); F. Storti, Documenti perfetti e preziosi
equivoci. Considerazioni preliminari intorno agli “Studi sulle corrispondenze diplomatiche”, in Ancora su poteri, relazioni e guerra nel regno di Ferrante d’Aragona, cur.
A. Russo, F. Senatore, F. Storti, Napoli 2020, pp. 11-25; F. Storti, La comunicazione diplomatica nelle stanze segrete di Ferrante d’Aragona (1458-1494):
setting analitico o «artificio di franchezza», «Studi Storici», 61 (2020), pp. 71101; B. Figliuolo, La vita quotidiana dell’ambasciatore residente, in Ambassades et
ambassadeurs in Europe (XVe-XVIIe siècles), cur. J-L. Fournel, M. Residori, Genève 2020, pp. 69-88.
ISABELLA LAZZARINI
Constructing and de-constructing diplomacy and diplomatic
history in the pre- and post-modern worlds.
The New Diplomatic History in dialogue with the
International Relation Studies
Abstract: In 2008, John Watkins proclaimed that the time had come for a “new
diplomatic history”. Watkins’s manifesto was so successful because it arrived at the right
moment. A renovated diplomatic history is increasingly at the heart of a political history
more attentive than ever to how social structures and cultural practices shape political interactions that are both multiple and flexible. On the other hand, post-1989 IR studies
are facing new challenges: contemporary diplomacy is diverging from its classical Westphalian framework, and scholars and practitioners alike are looking for paradigms and models in order to deal with the challenges of globalisation. Moving from late medieval and
early Renaissance Italy as a case-study, the communication aims at dealing with such a
conceptual framework by focusing on a few key-concepts at the basis of the models of the
building of both the ‘modern state’ and the ‘modern diplomacy’, such as sovereignty and
territoriality.
Keywords: Diplomacy, International Relation Studies, Italian Renaissance
Received: 01/07/2023. Accepted after internal and blind peer review: 20/12/2023
isabella.lazzarini@unito.it
In 2008, John Watkins proclaimed that
the time has come for a multidisciplinary reevaluation of one of
the oldest, and traditionally one of the most conservative, subfields in the modern discipline of history: the study of premodern
diplomacy.
Watkins’s manifesto was so successful not only thanks to the
efficacity of its formula, but also because it arrived at the right
CESURA - Rivista, 2 (2023)
ISSN: 2974-637X
ISBN: 978-88-945152-2-0
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Isabella Lazzarini
moment 1. After being defined in the nineteenth century as one
of the backbones of the building of the nation-State, and being
neglected in the second half of the twentieth century as an inward-looking, all-political field, diplomatic history, renovated by
cultural history and historical anthropology, is increasingly at the
heart of a political history more attentive than ever to how social
structures and cultural practices shape political interactions that
are both multiple and flexible. On the other hand, and a few
years before, in 2003, Shaun Riordan, a former British diplomat
turned political consultant, wrote a short and provocative book
to foster a “New [contemporary] Diplomacy” which should face
«the complex, multi-layered network of relations between postmodern states», recognize non-state actors, and develop proactive strategies to deal with the global problems hampering our
multi-faceted contemporary world, characterized by what he calls
an «asymmetric multipolarity» 2. Post-1989 studies on international relations (IR) are indeed increasingly sailing through unchartered waters: contemporary diplomacy is diverging from its classical Westphalian framework, and scholars and practitioners alike
are looking for paradigms and models in order to deal with the
challenges of globalisation, digital communication, and a much
more multi-layered diplomatic agency than it was thought.
While undergoing a parallel process of critical discussion of
classical models and teleological ways towards or within modernity (that is, a system of sovereign Western-like nation-States
channeling diplomatic interaction into a formalised dialogue
1
Some of these issues have been discussed at the Third Conference of
the New Diplomatic History Network ‘Bridging Divides’, Roosevelt Institute for
American Studies, Middelburg, 24-26 October 2018 (I would like to
thank Giles Scott-Smith, Noe Cornago and Luciano Piffanelli who were
in my same panel on Thinking Diplomatic Theory, and all the friends of Diplomatica for that opportunity): see also I. Lazzarini, Storia della diplomazia e
International Relations Studies fra pre- e post- moderno, «Storica», 65 (2016), pp.
9-41.
2
S. Riordan, The New Diplomacy, Oxford 2003: https://www.
shaunriordan.org (consulted on 31st October 2023).
Constructing and de-constructing diplomacy and diplomatic history
113
among peers), diplomatic history and International Relations
Studies, together with research on International Law, are increasingly crossing their paths. The transformation of contemporary diplomacy in a globalised world has pushed research towards a re-reading of the same paradigms of sovereignty, territoriality, and boundaries – in a word, the notions of nationStates, international relations, and international law – that medieval and early modern historians are deeply scrutinising themselves. These traditionally disparate fields are starting to turn
towards each other in search of useful categories and concepts,
and new patterns of explanation.
1. Constructing and de-constructing diplomacy and political history: a
frame
1.1. Diplomacy
Medieval Europe was a complex system in which polities and
powers of different status and size developed in an unstable
combination of institutional multiplicity and legal pluralism.
The system was built on the reciprocal interplay of two universally sovereign authorities – the Empire and the Papacy – and a
myriad of more or less autonomous territorial polities among
which kingdoms and princes had the upper hand. Political authority was at the same time personalised and territorially distributed 3. In this frame, Italian Renaissance diplomacy – that is,
the diplomatic practice that developed among the many polities
composing the Italian peninsula in a period roughly spanning
from 1350 and 1520 – has traditionally been read as a turning
point towards modernity, thanks also to Garrett Mattingly’s
great book on Renaissance diplomacy. According to Mattingly –
or, maybe better, to the vulgarizing of Mattingly’s thought –
during the Renaissance permanent and reciprocal embassies increasingly controlled by the centralised power of kings and
3
J. Watts, The Making of Polities. Europe, 1300-1500, Cambridge 2009.
114
Isabella Lazzarini
princes gave birth to a “modern” way of disciplining political
interactions according to internationally recognised rules and
laws, thus counteracting the overlapping powers and multiple
loyalties so characteristic of the Middle Ages. Such diplomacy
became the trademark of a “modern” state characterised by hierarchy, centralised power, and bounded territory, and the Italian laboratory was the space in which this process took its first
steps 4.
In the past decades and at different pace, both medievalists
and early modernists have revised such a model: the most recent research is moving away from diplomacy as the backbone
of the building of the “modern State” and as an institutional
tool, an «histoire diplomatique en soi», as Lucien Febvre used to
say 5. It is rather considered as a social and cultural practice that
enabled Europeans and non-Europeans to engage with each
other in formal and informal, state and non-state contexts,
through the elaboration of common languages, shared practices
of communication, and political cultures. A relevant feature of
a multi-layered political system, diplomacy is seen as a flexible
activity in which a full range of dynamics often examined separately – negotiation, information gathering, representation, and
communication – interacted together in a process profoundly
linked to political and cultural transformations of power and
authority. The practices, customs, and languages of diplomacy
are at the heart of present-day research, which for the Middle
Ages is focusing its attention mainly on two turning points –
the twelfth and the fifteenth century – and on the continental
context but with a clear awareness of the influence of Latin
and Muslim Mediterranean societies on diplomatic interac-
4
G. Mattingly, Renaissance Diplomacy, Oxford 1955.
L. Febvre, Contre l’histoire diplomatique en soi. Histoire ou politique? Deux
meditations: 1930, 1945, in Id., Combats pour l’histoire, Paris 1953, pp. 61-70,
partic. p. 63; S. Péquignot, Berichte und Kritik. Europäische Diplomatie im
Spätmittelalter. Ein historiographischer Überblick, «Zeitschrift für Historische
Forschung», 39 (2012), pp. 65-95.
5
Constructing and de-constructing diplomacy and diplomatic history
115
tions 6. Interest in multiplicity and creativity in experimenting
innovative forms of interaction based on communication and
information gathering is gaining ground. We are increasingly
aware that the many European polities – kingdoms and principalities, cities and city-leagues, secular and ecclesiastical lordships, sometimes still included in composite systems (such as
the imperial territories both in the German and the northern
Italian regions), sometimes increasingly autonomous – elaborated innovative instruments and strategies of diplomatic communication at a different pace. Specific figures of formal and informal agents were assigned to diplomatic missions different in
length and scope; distinctive agreements became increasingly
common in ordering territorial hierarchies; rituals and protocols
both disciplined and publicly organised diplomatic interaction;
the emergence of the vernacular in political and diplomatic discourse increasingly required linguistic adaptations and mediation; lay literacy, and new systems of written records and archives developed to suit an increasingly dense and flexible
communication system 7.
6
The most recent reference work is obviously J.-M. Moeglin, S.
Péquignot, Diplomatie et «relations internationales» au Moyen Âge (IXe-XVe
siècle), Paris 2017. The broadness of scope and wealth of information of
this study are extremely useful as an introduction to the topic, even
though a monarch-centric idea of medieval diplomacy, no longer acceptable unless integrated and nuanced with more flexible models, still
resurfaces here and there in the book.
7
To complement Moeglin and Péquignot, and as a general reference
to the most recent studies and sources editions, I refer to the two critical
reviews by E. Scarton, «Con quelle accommodate manere». Imprese editoriali, diplomatici e diplomazia nel Quattrocento europeo e mediterraneo, «Nuova Rivista
Storica», 105 (2021), pp. 1223-1254, and P. Volpini, La diplomazia nella
prima età moderna: esperienze e prospettive di ricerca, «Rivista Storica Italiana»,
132 (2020), pp. 653-683.
116
Isabella Lazzarini
1.2. Politics and the State
We have arrived to this state of the art because in the past decades and at different pace, both medievalists and early modernists have worked on the traditional model of a classical diplomacy also through a more general calling into question the idea
of “modernity” (and, as a component of modernity, the role of
the Italian Renaissance). Research on medieval and early Renaissance politics has put political power and agency at the heart of
some of the most interesting efforts at a revision of the old
idea of the late Middle Ages as a transition from something distinctively medieval (let it be universal, imperial, feudal) to something else more modern (that is, more functional and rational,
closer to what is familiar to us). The confluence of cultural and
social anthropology, geography, gender studies and an attentive
and critical global history – that is, all the recent efforts to bring
the ideas of “authority”, “sovereignty”, and “legitimacy” into
the broader field of “power” and to detach it from its deep
western roots – has provided with a wealth of alternatives the
always re-surfacing grand narrative of the building of the
“modern” nation-State in its pristine form of a centralised,
bounded, sovereign kingdom 8.
The revision of both these models is forced upon scholars
by the changing world in which we all live and its challenges.
The heart of the problem is represented by the contemporary
and growing difficulties of the nation-State on which traditional
diplomacy seems to be grounded. Decolonisation after the Second World War and the implosion of the ex-Soviet galaxy definitively altered the previous international framework by multiplying the number of (more or less stable, and more or less historically credible) nation-States. However, the last three decades
8
I. Lazzarini, Introduction, in The Later Middle Ages, cur. Ead., Oxford
2021, pp. 1-17, partic. pp. 9-10. On one of the crucial facets of modernity – confessionalisation – and its revision, see now E. Bonora, Quale riforma? Roma e l’Europa multiconfessionale, «Studi storici», 64 (2023), pp. 2152, partic. pp. 35-41.
Constructing and de-constructing diplomacy and diplomatic history
117
have seen this same nation-State, which as a prevailing political
form was gaining planetary diffusion, being eroded in many of
its fundamental prerogatives by the process that Anne-Marie
Slaughter defines as the «hydra-headed phenomenon of globalisation» 9. In the various definitions that are given of contemporary globalisation, what seems common is the recognition of a
profound systemic change that, also thanks to the information
and communication revolution of new technologies, leads to
the multiplication of relationships between individuals and
groups across, above and below traditional territorial boundaries 10. The flows of people and goods and the circulation of information in the contemporary world have made such a leap
forward in terms of space, time and quantity as to cause profound qualitative changes in the political, social and civil fabric
of different countries, affecting both the forms of sovereignty
and the nature of authority, and finally the concept of territoriality 11.
Such transformation is prompting a revision of the notion
of nation-State itself in all the many fields in which it has been
central (politics and political history, and the related field of international relations, international law and the history of diplomacy). The use of new or renovated conceptual tools (from
lexical to methodological) is therefore helping in replacing the
idea of state/nation, with the more nuanced concepts of polity
and political agency, and the correlated reading of diplomacy as
more as an inter-polity and trans-polity political and cultural activity, regulated by the coexistence of numerous jurisdictions
closely interwoven to each other and framed by a legal pluralism
that is not forcibly confined to a “prehistory” of modern inter9
A.-M. Slaughter, A New World Order, Princeton 2004, p. 11.
Bibliography on this subject is immense: for our purpose here, see
I. B. Neumann, O. J. Sending, Governing the Global Polity: Practice, Mentality,
Rationality, Chicago 2011.
11
I. B. Neumann, Globalisation and Diplomacy, in Global Governance and
Diplomacy. Worlds Apart?, cur. A. F. Cooper, B. Hocking, W. Maley, London-Basingstoke 2008, pp. 15-28.
10
118
Isabella Lazzarini
national law nor excludes any diplomatic interaction prior to the
birth of the nineteenth-century nation-State. Such conceptual
shifts help in reducing both the sense of imperfection, partiality, or anticipation linked to the “medieval” diplomatic actors
and interactions, and the dramatic rupture supposedly due to
the irruption of “modernity” between the fifteenth and the sixteenth century. At the same time, it bans the idea of the exceptionality of some experiences at the expenses of others. The
Italian case is exemplary of such a risk, embodying both exceptionality and exception: Italy – that is, its many polities – is in
fact supposedly precocious in “inventing” modern diplomacy in
the late Middle Ages, and increasingly late on the main road towards the building of the modern state in the following centuries 12.
1.3. International law and ius gentium
Another layer can be added to such a revision: in order to analyse the main features of diplomacy in the late Middle Ages and
in the early modern period – that is, in order to produce a
“New Diplomatic History” – it is necessary to rapidly focus on
another pivotal field, that is international law (IL). Again, the
common understanding by international lawyers of the history
of their field which has dominated most of the twentieth century roots back to the final decades of the nineteenth century,
the heyday of the sovereign state and of Western imperialism.
The mainstream narration of the history of international law is
weighed down by its origins and is both state- and Eurocentric.
Historians of international law have reduced their histories of
international law to the place and time of the emergence of the
sovereign state, Europe since the early-modern age or, at the
12
I. Lazzarini, Communication and Conflict. Italian Diplomacy in the Early
Renaissance, 1350-1520, Oxford 2015; L’Italia come storia. Primato, decadenza,
eccezione, cur. F. Benigno, E. I. Mineo, Roma 2021.
Constructing and de-constructing diplomacy and diplomatic history
119
most, the late Middle Ages 13. However, recent research on the
present-day globalised world has increased the awareness of the
limits of the paradigm of the sovereign states’ monopoly in international relations. The resulting acceptance of the coexistence of different forms of normativity has had important reflexes on the way in which we look at the ius gentium in early
modern Europe and to its medieval foundations. The notion of
international law and its categories, born from a long process in
which the Middle Ages was mainly absent, are nowadays increasingly being revised and reformatted so as to ensure that
they can be effectively used to interpreter the medieval reality 14.
To this purpose, it is necessary to adopt a wide, functional understanding of what international law is, that is any legal organisation of traditional inter- or trans-polity activities, namely distribution of territory and resources, dispute settlement, warand peace-making, trade and communication, and diplomacy.
The historically contingent term of “international law”
came in vogue to specifically denote the law which regulates the
relations among sovereign states. It was for this purpose that its
major coiner, Jeremy Bentham (1748-1832), suggested it as an
alternative to “law of nations”, which to him encompassed
13
W. G. Grewe, The Epochs of International Law, Berlin 2000, pp. 1-33.
On the influence of post-colonized world in such a revision, see T. O.
Elias, Africa and the Development of International Law, Leiden - Dobbs Ferry
1972; R. Prakash Anand, The Influence of History on the Literature of International Law, in The Structure and Process of International Law: Essays in Legal
Philosophy, Doctrine, and Theory, cur. R. St. J. Macdonald, D. M. Johnston,
The Hague 1983, pp. 341-380, and, on the European side, C. H. Alexandrowicz, The Afro-Asian World and the Law of Nations (Historical Approach), «Recueil des Cours de l’Académie de Droit International», 123
(1968), pp. 117-214; W. Preiser, Frühe völkerrechtliche Grundlagen der
aussereuropäischen Welt. Ein Beitrag zur Geschichte des Völkerrechts, Wiesbaden
1976.
14
A. Wijffels, Ompteda revisited: the metamorphosis of scholarship on international law, «Irish Jurist», 38 (2003), pp. 312-330.
120
Isabella Lazzarini
both inter-state as well as trans-national private law 15. Bentham
was justified in this assessment. Law of nations, or rather the
original Latin phrase ius gentium, has over its long history held
both associations, often at the same time: from that perspective,
it would be the preferable term 16. That said, and well aware of
the many roots of this debate, Randall Lesaffer, coordinating a
major research work on this topic for Cambridge University
Press (The Cambridge History of International Law), still advocates
the use of “international law”: to current international lawyers,
the English version of ius gentium, “law of nations”, has lost its
historical fluency as, over the twentieth century, it has almost
become synonymous to public international law. Moreover, to
many it suggests its appropriation – “law of nations” – by polities as law-making authorities and thus indicates the exclusion
of tracks of transnational and common law. Moreover, “international law” is now the most established term, also in terms of
writing the history of the inter-polity law 17.
In this sense, and back to medieval diplomacy, I would
therefore rely on Dante Fedele’s recent affirmation that
in the last centuries of the Middle Ages, the ius commune functioned as a “common”, supra-national legal system (based on
Roman, canon and feudal law as interpreted and constantly
adapted to historical change by the legal scholars of the day)
which coexisted with a myriad of particular systems (iura propria)
in such a way as to realise unity in plurality (and viceversa).
International law would then
15
M. W. Janis, Jeremy Bentham and the Fashioning of International Law,
«American Journal of International Law», 78 (1984), pp. 405-423.
16
R. Lesaffer, Roman Law and the Intellectual History of International Law,
in Oxford Handbook of the Theory of International Law, cur. A. Orford, F.
Hoffmann, Oxford 2016, pp. 38-58.
17
I am referring here to the General Outline provided in 2021 by Randall Lesaffer to the research teams of the different volumes of The Cambridge History of International Law.
Constructing and de-constructing diplomacy and diplomatic history
121
encompass the multi-normative framework of a manifold system
of relationships that were established between political actors
empowered with various degrees of jurisdiction, and also [to]
cover both the rights and obligations of individuals (or groups of
individuals) under this system and (to some extent) the latter participation in it 18.
2. Concepts: sovereignty and territory in the pre-modern and modern world
The developments mentioned above have been imposed to historical research by the modern debate: the Middle Ages, however, has been influential also on modern research in an interesting bottom-up dialogue. In his 1987 book On Diplomacy: A Genealogy of Western Estrangement, James Der Derian refers more
than once to «a rise of a new medievalism». Such an assessment
is grounded on the general idea that
we are entering – and some say that we are already there – a period in which […], beset by internal disintegration and external regional combinations, the state is losing its previously unchallenged supremacy as the most significant entity in the international system 19.
Amid a changing world which no longer seems dominated
by a system of sovereign and territorial Western-like nationStates reciprocally interacting through codified and recognised
international rules, the Middle Ages resurfaces on the table of
contemporary scholars and attains a new level of interest because of the “non-modern” nature of medieval power. In such
a general context, the Middle Ages – juxtaposed to modernity
as a system of «overlapping authority and multiple loyalty» (ac-
18
D. Fedele, The Medieval Foundations of International Law. Baldus de
Ubaldis (1327-1400), Doctrine and Practice of the Ius Gentium, Leiden Boston 2021, pp. 12, 16.
19
J. Der Derian, On Diplomacy. A Genealogy of Western Estrangement,
Oxford - New York 1987, p. 79.
122
Isabella Lazzarini
cording to Hedley Bull in 1977) 20 «held together by a duality of
competing universalistic claims», as Jörg Friedrichs completes
Bull’s renowned definition in 2001 21 and regulated by a complex
system of legal pluralism becomes interesting to all those investigating the multiplicity of contemporary, post-modern diplomacy. It is, after all, a context of experimental, fragmented and
plural medieval polities and powers in which both the modern
nation-State and the system of international relations supposedly generated by the birth of classical diplomacy – the one defined by Satow in 1917 as «the application of intelligence and
tact to the conduct of official relations between the governments of independent states» 22 – and early modern and modern
international law are visibly absent. Some conceptual exchanges
in such a context are therefore increasingly common, even
though on both sides we face the methodological risk of stereotyping one context or the other. Often the Middle Ages is
not interpreted by IR or IL scholars according to its own logics,
but is reduced to a provider of simplified models and examples.
According to an equally simplified logic, medievalists sometimes use modern concepts and models without the appropriate
methodological cautions in order to make the Middle Ages
more palatable and accessible to modern audiences.
Methodological cautions apart, working on diplomacy in
past or present ages necessarily pushes scholars to consider the
nature of public authority and/or political organisms (whatever
their name: s/State, polity, power) in a given period and context,
and to take into account, define or compare some fundamental
concepts at work within the discourse on public power. Among
those concepts I will single out today at least sovereignty (and
authority/legitimacy) and territory (and boundaries).
20
H. Bull, The Anarchical Society: a Study in World Politics, London
1977.
21
J. Friedrichs, The Meaning of New Medievalism, «European Journal of
International Relations», 7 (2001), pp. 475-502, partic. p. 482.
22
E. M. Satow, Satow’s Guide to Diplomatic Practice, London 2009 (or.
ed., London 1917), p. 3.
Constructing and de-constructing diplomacy and diplomatic history
123
2.1. The Middle Ages
Medieval sovereignty is a problematic concept: in a world in
which – as Tabacco said as early as in 1970 – power was conceived as “allodial” – that is, a sort of private resource – and
public prerogatives (such as justice, war, fiscal revenues etc)
were exercised to various extent by polities and powers whose
authority was differently graduated, variably effective, and generally applied over territorially incoherent domains, sovereignty
could not be but limited and negotiated 23. Recent research
therefore has moved away from any rigid idea of statuality –
John Watts in 2009 was lapidary: «it is not necessary to frame –
one might almost say burden – the structural history of politics
with the notion of the state» 24 – and focused instead on the
«molecular and omnipresent character of power mechanisms» 25.
Difficult for everyone, the effort of freeing historical analysis
from the burden of teleological models coming from elsewhere
in time and space has been particularly exhausting for Italian
scholars who had to face the uphill climb of explaining the undeniable political creativity of a country out of the mainstream
leading to the standard monarchical nation-State 26. In this sense,
Giorgio Chittolini, in 1994 wrote that the “state” could be defined as
un sistema di istituzioni, di poteri e di pratiche […] che ha fra le
sue principali caratteristiche una sorta di programmatica permea-
23
G. Tabacco, L’allodialità del potere nel medioevo, in «Studi medievali»,
11 (1970), pp. 565-615.
24
J. Watts, The Making of Polities, p. 35: Watts refers in a footnote
here to R. Davies, The Medieval State: the Tyranny of a Concept, «Journal of
Historical Sociology», 18 (2003), pp. 280-300.
25
A. M. Hespanha, Storia delle istituzioni politiche, Milano 1994, pp. 1112, my translation in English (or. ed., Coimbra 1982).
26
It is worth recalling here at least Chabod’s attempt to recompose
the hiatus between the Italian ‘states’ and Renaissance Europe, F.
Chabod, Y’a-t’il un État de la Renaissance (1956), in Id. Scritti sul Rinascimento, Torino 1967, pp. 604-623.
124
Isabella Lazzarini
bilità da parte di forze e intenzioni diverse (o, se vogliamo, “private”), pur in un’unità complessiva di organizzazione politica 27.
In the medieval “state”, therefore, the institutions – that is,
the public frame of authority – represented the flexible network
through which many forces and different intentions intervened,
crossed and mixed at different pace. The idea of the composite
nature of late medieval political bodies – or “polities”, as the
plasticity of the English language allows us to say – has increasingly been at the heart of a series of discourses on political organisms that have progressively broadened to include entities
that are very different from each other in terms of both territorial dimension and institutional profiles, from empires to extensive monarchical domains, from urban federations or republican
governments to nation-based regnal polities 28. Such a composite nature is revealed not only by the structures and substructures of politics – such as institutional frames or fiscal, diplomatic, military or administrative networks – but also by informal arrangements such as networks, practices of grace and service or lineages, affinities, patronage, and feudal connections
(Chittolini’s intenzioni). This field of forces was the confrontation ground for languages and ideas of power and resistance
that shaped the political discourse and that could come as well
from above as from below 29. In this interpretation, authority is
27
G. Chittolini, Il ‘privato’, il ‘pubblico’, lo Stato, in Origini dello Stato, Processi
di formazione statale in Italia fra Medioevo ed Età moderna, cur. G. Chittolini, A.
Mohlo, P. Schiera, Bologna 1994, pp. 553-590, partic. 569.
28
For the notion of ‘composite states’, see J. H. Elliott, A Europe of
Composite Monarchies, «Past and Present», 137 (1992), pp. 48-71, and most
recently for Italy, M. Gentile, Leviatano regionale o forma-stato composita? Sugli
usi possibili di idee vecchie e nuove, «Società e Storia», 89 (2000), pp. 563-573.
For a re-reading of European political multiplicity between the Middle
Ages and the Early Modern Age, see W. Blockmans, Citizens and their Rulers in Empowering Interactions: Political Cultures and the Emergence of the State in
Europe, 1300-1900, cur. W. Blockmans, A. Holenstein, J. Mathieu, Aldershot 2009, pp. 281-291.
29
Research on these themes is nowadays huge: apart from the volumes of the ERC project Signs and States. Semiotics of the Modern State,
Constructing and de-constructing diplomacy and diplomatic history
125
at the heart of medieval political confrontation, and it does not
coincide with sovereignty, which is much more fragmented and
limited: as a consequence, legitimacy is difficult and fragile.
Territory is a problematic concept as well, together with the
interplay between territories and power: the assumption that the
historical process of modernity is based on the turning of
«scattered islands of political power» into a «solid block of territory in which one ruler had final authority» has long been the
backbone of the research of the “medieval origins” of the
modern state 30. Recent research has, on the contrary, emphasized that medieval jurists associated the idea of territory not
with an anachronistic concept of “state” but with the iurisdictio
linked to a stratified idea of a community (a universitas) holding
a bundle of rights over their respective spaces 31. A medieval territory was a space not defined by linear boundaries, but instead
politically modelled by processes of production of places characterised by some power and endlessly interacting in shared,
disciplined or hierarchised ways. As Luca Zenobi points out,
«territoria were then conceptualised as the jurisdictional spaces
whose principal investigator is Jean-Philippe Genet and that focus on
political languages in Europe between 14th and 17th centuries (see the
Éditions de la Sorbonne collection on Le pouvoir symbolique en Occident:
http://www.editionsdelasorbonne.fr/fr/collections/?collection_
id=77),
some references can be found in The Later Middle Ages (The Short Oxford
History of Europe series), cur. I. Lazzarini, Oxford 2021.
30
J. Strayer, On the Medieval Origins of the Modern State, Princeton 1974,
p. 31, lastly quoted by L. Zenobi, Beyond the State. Community and TerritoryMaking in Late Medieval Italy, in Constructing and Representing Territory in Late
Medieval and early Modern Europe, cur. M. Daen, K. Overlaet, Amsterdam
2022, pp. 53-80, partic. p. 54.
31
J. Canning, The Corporation in the Political Thought of the Italian Jurists
of the Thirteenth and Fourteenth Centuries, «History of Political Thought», 1/1
(1980), pp. 9-32; and in general J. M. Najemy, Stato, comune e “universitas”,
«Annali dell’Istituto Storico Italo-Germanico in Trento», 20 (1994), pp.
81-130. On iurisdictio, the first reference still is P. Costa, Iurisdictio. Semantica del potere politico nella pubblicistica medievale, 1100-1433, Milano 1969.
126
Isabella Lazzarini
of communities of people»: boundaries were therefore not linear, but personal 32.
2.2. The Modern Age
Sovereignty and territoriality are problematic categories for
modern research too: globalisation is indeed a game changer
not only for the history of diplomacy – or diplomacy itself –
but also for the territorial nation-States. John Ruggie in 1993,
on the footsteps of a debate originated by Bull’s The Anarchical
Society, clearly put on the table the theme of the «unbundling of
territoriality»: if in a generical middle ages power was characterized by overlapping authorities and non-exclusive forms of territoriality («the medieval system of rule was both personalised
and parcelled within and across territorial formations»), and in
the early modern age states were «territorially defined, fixed,
and mutually exclusive enclaves of legitimate domination», in
the 1990s such bundled territorialities were about to be unbundled by a “post-modern turn” towards a globalized political society in which political authority is organised in a nonterritorial,
functional way 33.
In western societies before the end of the cold war, sovereignty was a powerful concept because «conceptually, and in
practice, it connected the organisation of modern democracy
with the organization of the international system» seen as a system of discrete and bounded regions. After the 1990s, according to Ansell, sovereignty becomes a less useful concept because it is almost inextricably linked to territoriality; in this
sense, he argues, it is better to focus on the fact that what has
become unbundled is authority rather than territoriality. In
32
Zenobi, Beyond the State cit., p. 56: see now also L. Zenobi, Borders
and the Politics of Space in Late Medieval Italy. Milan, Venice, and Their Territories, Oxford 2023, partic. pp. 23-44.
33
J. G. Ruggie, Territoriality and Beyond: Problematizing Modernity in International Relations, «International Organization», 47 (1993), pp. 139-174,
partic. p. 142.
Constructing and de-constructing diplomacy and diplomatic history
127
some cases, authority is being unbundled within the territorial
state – as when public authority is being privatized or deconcentrated – or new forms of authority are being created beyond the
state. In still other cases, it is useful to think of authority as being
re-bundled – when discrete bundles of functional or territorial
authorities are joined together in new combinations (themselves
territorial or functional). Anyway, the mutually reinforcing relations among territory, authority and societal interests and identities can no longer be taken for granted 34. Some scholars, such as
Rebecca Adler-Nissen, argue that the characteristic form taken by
authority and sovereignty in the post-Westphalian age could be
defined as “late sovereignty”, a framework in which
nation-states continue to claim territorial authority, but non-state
polities also make claims to authority, often an authority that is
bounded not by territory, but by function.
Diplomacy in such a framework operates in a multidimensional order characterised by «constitutional pluralism and an
uneasy combination of “national” and “common” or “other”
interest» 35.
The debate about the changing nature of modern sovereignty and its relations with territory and authority is deeply
connected to the discussions about the nature and forms of
contemporary statuality. The analysis and conceptualisation of
the various ways in which the nation-State deals with the pluralism of social and political actors and practices derived from
globalisation is extremely interesting for a medieval historian
34
C. K. Ansell, Restructuring Authority and Territoriality, in Restructuring
Territoriality. Europe and the United States Compared, cur. C. K. Ansell, G. Di
Palma, Cambridge 2004, pp. 3-18, partic. pp. 4, 6-7, 9.
35
R. Adler-Nissen, Late Sovereign Diplomacy, in «Hague Journal of Diplomacy», 4 (2009), pp. 121-41 (re-edited in International Diplomacy, vol.
III, The Pluralisation of Diplomacy - Changing Actors, Developing Arenas, and New
Issues, cur. I. B. Neumann, H. Leira, Sage, Los Angeles, London, Delhi,
Singapore 2013, pp. 155-174): «the late sovereign order has rival representational practices of state and non-state polities with overlapping legal and
political authority and competencies», pp. 159-160.
128
Isabella Lazzarini
because of the conceptual effort it requires to scholars in order
to contemplating new models. The “state” – once again – is reimagined and re-labelled.
The propension to typologies is sometimes overwhelming:
Thomas Biersteker lists – provocatively – post-modern states,
defective states, self-restraining states; one could say, however,
that such a provocative list compares with Wim Blockmans’
2009 list of twelve possible late medieval political units ranging
from the free peasant or urban communities and their federations or leagues, to princely unions, integrated kingdoms, empires 36. The urge towards complexity could become anachronistic. However, some discourses on the nature of contemporary
polities are thought provoking. According to Ann Marie Slaughter, for instance, the changes that governmental institutions are
undergoing to answer to transnational needs and emergencies
not only prompted the shift from the idea of “national government” to the transnational concept of “global governance”,
but also pushed the unitary state to reinvent itself as a “disaggregated state”, that is an aggregation of distinct institutions
with separate roles and capacities, organised in horizontal and
vertical networks. These networks build regular and purposive
relations among similar governments units working across the
borders that divide countries from one another and that demarcate the “domestic” from the “international” sphere 37. In this
sense, the permeability between “domestic” and “international”
echoes the parallel revision of any rigid distinction between “inside” and “outside”, and a “political” and “diplomatic” sphere
in the medieval context which is increasingly gaining ground in
historical research. Saskia Sassen, even more interestingly, looks
36
T. J. Biersteker, State, Sovereignty, and Territory, in Handbook of International Relations, cur. W. Carlsnaes, T. Risse, B. A. Simmons, Los Angeles London - Delhi - Singapore, 2013, pp. 245-272; W. Blockmans, Citizens
and their Rulers, in W. Blockmans, D. Schläppi, Empowering Interactions. Political Cultures and the Emergence of the State in Europe, 1300-1900, London
2009, pp. 281-291, partic. pp. 284-285.
37
Slaughter, A New World Order cit., p. 14.
Constructing and de-constructing diplomacy and diplomatic history
129
at the internal dynamics by which the state reacts and change
within globalisation: according to Sassen, in fact, two sets of
dynamics drive globalisation. One of these involves the formation of explicitly global institutions and processes, such as
the World Trade Organization (WTO); another one does not
necessarily scale at the global level as such, but is enabled and
enacted by the state itself. A good part of this kind of globalisation consists in an enormous variety of micro-processes that
begin to denationalise what have been constructed as national
within the nation-State. While talking about denationalising the
essential form of the state, Sassen does not want to entail the
notion that the nation-State would disappear, but rather that in
addition to being the site for key transformation, it will itself be
a profoundly changed entity 38. In this direction, Neumann and
Pouliot, by using Foucault’s concept of gouvernamentalité, tend to
see the effects of globalisation on state government and power
not as deprivation in favour of non-state actors, but instead as a
re-alignment of governing towards a «global-level governmental
rationality» based on a mutual interaction between institutions
and the civil society. Globalisation influences not only the public face of authority but also society: their reciprocal reactions
to change, by making civil society “object and subject of government”, transform the nature of the state into something at
the same time open to external and internal inputs.
What all these theories – and possibly many others – have in
common is an attempt at reading contemporary changes outside the grand narrative of the nation-State: in doing so, they
are not attentive to, or interested in, the end of the state, but in
the transformation of public power.
38
S. Sassen, Territory, Authority, Rights. From Medieval to Global Assemblages, Princeton 2006, p. 423.
130
Isabella Lazzarini
3. An attempt at some conclusive notes
Research is reaching a point in which – despite the diversity of
methodological tools, conceptual models, and heuristic objectives – two strictly connected and complementary grand narratives are being deeply revised. Such grand narratives are the teleological trajectory of political power and authority towards the
“final” form of a nation-State which must become centralised,
bureaucratic, and territorially bounded; and, consequently, the
slow but inevitable diffusion of a “classical” diplomacy generated by the increasingly predominant system of nation-States as
previously defined. That is not to say that nation-States or a
diplomatic system mainly ruled by international law did not exist, even though the dismantling of the grand narrative of
modern diplomacy has gone as far as to say, with Noe Cornago,
that maybe «the widely held view of diplomacy as an exclusive
attribute of sovereign states is more an institutionalised political
discourse than the product of empirical evidence» 39. It rather is
to say that the nation-State and its international relations system
happened at some point, but are not “the” inevitable final result
of political evolution. On the other even in their climax, they
were not exclusive: other forms of power and authority existed,
and other ways and agents of interaction concurred to maintain
and enact dialogue, and to limit conflicts. History – at least medieval and early Renaissance history – and IR and IL studies –
at least a part of them – converge towards the revision of this
heavy, aggressive, Western, and ideological model: the nationState and its diplomatic system are but a historical possibility
and a theoretical model (an “anomaly”, as Friedrichs calls
them 40) amid many others.
39
N. Cornago, Diplomacy and Paradiplomacy in the Redefinition of International Security: Dimensions of Conflict and Co-operation, in Paradiplomacy in Action. The Foreign Relations of Subnational Governments, cur. F. Aldecoa, M.
Keating, London - Portland 1999, pp. 40-57, partic. p. 40.
40
Friedrichs, The Meaning of New Medievalism cit., p. 481.
Constructing and de-constructing diplomacy and diplomatic history
131
If this is true, comparisons and cross-disciplinary encounters can become challenging – complexity is never easy – but
extremely productive. If a rigid and teleological model deemed
to become the standard against which every other process must
be measured fades away, then comparing different contexts and
historical periods becomes more useful and conceptually significant. When finally freed by more or less conscious definitions
as pre- or post- modern/classic/national phenomena, historical
processes and dynamics re-acquire their richness, complexity,
and meaning.
MALIKA DEKKICHE
New Diplomatic History and Mamluk Studies:
Challenges and Possibilities
Abstract: While Mamluk scholars have increasingly studied on the diplomatic relations established between the sultanate and its various correspondents in both the Christian, Mongol and Muslim worlds, they have followed first the traditional diplomatic approach devoted to the study of peace and commercial treaties. More recently they have started distancing themselves from this approach to concentrate on questions of rituals, symbolic
and non-verbal communication and various agents involved in the diplomatic process. This
was however done without relating to broader methodological framework such as the one
proposed by the New Diplomatic History (NDH). In this paper, I therefore would like to
link those developments to the NDH and analyze what is, in that historiographic trend,
relevant for the source material available in our field. Furthermore, I would like to link
the NDH to another methodological approach that I see essential for our field, that of the
connected history.
Keywords: Mamluks, Islam, Connected History, Diplomacy
Received: 01/07/2023. Accepted after internal and blind peer review: 20/12/2023
malika.dekkiche@uantwerpen.be
Introduction
In his most famous 2008 article “Toward a New Diplomatic
history,” John Watkins highlighted and questioned one of the
great biases of scholarship regarding non-European diplomacy
in the premodern period, especially that of the Islamicate world
(“Arab and Ottoman powers”). Those “less important” or even
“primitive” polities were barely in contact with their more advanced European counterparts, and were therefore less worth
studying 1. This bias was not only spreading among Euro1
J. Watkins, Towards a New Diplomatic History of Medieval and Early
Modern Europe, «Journal of Medieval and Early Modern Studies», 38
(2008), pp. 1-14: partic. p. 4.
CESURA - Rivista, 2 (2023)
ISSN: 2974-637X
ISBN: 978-88-945152-2-0
134
Malika Dekkiche
peanists, but was also highly supported by specialists of the region who advocated for the “isolationist” nature of Islamicate
polities. This had obviously quite a harmful impact on the development of the field of premodern Islamic diplomacy.
This was however not the only bias. Another one has in fact
influenced the field even more and with a much longstanding
effect: the so-called Islamic conception of the world. In this
view, the world is divided between the house of Islam and the
house of war, and dominated by the jihad practice. Accordingly,
the Islamic world had to spread to the entire world and therefore, could not live at peace with the non-Muslim world. In this
context, diplomacy appears thus as a totally irrelevant means.
This theory had not only a great impact on how Islamic polities
supposedly interacted with their non-Muslim counterparts, but
it also denied them any internal contact as, the Islamicate world
is, according to this conception, one and unified. To make
things worse, the extant of traditional diplomatic documents we
have – as few as they are – strictly concerned contacts between
Muslim polities and non-Muslim (mostly Christian) polities, and
actually dealt with conflict resolutions (or commercial agreements). This thus only supported the bias further.
That is to say that in 2008, when Watkins article came out,
his call to reappraise Islamic-European diplomacy nearly did
not find any echo. Nearly, but not entirely, as there is indeed
one field that took up the challenge, namely Ottoman studies. It
seems in fact that the field of Ottoman studies in the Early
Modern period is quite a prolific laboratory of diplomatic studies, one in which both Europeanists and Ottomanists could
grow alongside and together 2. The Medieval period and its numerous Islamic powers however, has stayed deaf to the call. Or
at least until recently.
2
Diplomatic Cultures at the Ottoman Court, c. 1500-1630, cur. T. A. Sowerby, C. Markiewicz, New York - London 2021, is the latest and most
updated example of the work that developed in the field.
New Diplomatic History and Mamluk Studies
135
Before moving to the recent development of the field, I
would like first to briefly review the traditional trends and their
limits, in order to highlight some of the reasons for this supposed disinterest for diplomatic history in the field of “Medieval” Islamic studies. I will then move to discuss some of the
important debates and current evolutions within the field and
finally, I will focus on the progress that have been made in
Mamluk studies, which have shown promising avenues of inquiry and results.
Islamicate world and Diplomatic History: an overview
Before starting however, it is important to highlight one of
the major problems regarding the study of the Islamicate world
during the premodern period (pre-1500s), as it has a great impact not only on historical studies in general, but more importantly for us here, on diplomatic history too. It is indeed well
known that the Islamicate world, before the rise of the Ottoman empire, has not left us any archives, similar to those we
find in Europe in the same period. We have thus to rely mostly
on chronicles, and other more normative sources to study the
diplomatic exchanges that took place at the various Islamic
courts. The historiography of the time knew itself many developments between the 10th and the 13th century, and the way
authors have recorded and dealt with diplomatic contacts in not
always regular, not uniform. More importantly even, this recording is only partial and highly bias. Next to the chronicles,
there were also over time more and more normative works produced that also discussed diplomacy, or at least a type of “international” contacts and how those ought to be regulated. Despite this paucity of “traditional” diplomatic material however,
scholars were nevertheless quite interested on studies on Diplomacy, and this from early on.
Diplomatic history of the Islamicate world has even been
among the early field of study to develop, as it obviously involved the relationship of Islam with the outside world. That
field, that should or could thus have a great legacy, developed
136
Malika Dekkiche
however as one of the most traditional and static discipline.
One of the reasons for this is certainly the great focus devoted
to the legal basis of the diplomatic contact as it was established
based on the examples and precedents of the Prophet. Following that line, the study of diplomacy was understood as related
to the spread of the divine mission (risāla) and the concept of
mediation (sifāra). Both concepts are still associated to diplomacy until today, as the envoy (rasūl) carrying the mission, is one
of the most used terms to designate the messenger (not only
the messenger of God, both also messenger of the kings), and
sifārah designated nowadays the embassy. Given this somehow
restrictive understanding of diplomacy thus, the field has developed as to focus mostly on the Law of War, and by extension,
the Law of Peace as well. Following the model of the Classical
Muslim jurists who have elaborated on that topic, scholars thus
tend today to focus on specific aspects, such as the status of
foreigners and non-Muslim communities (dhimmīs) in Islamic
territory, treaty-making, commercial relations, and arbitration 3.
The examples and precedents of the Prophet and the early
caliphs represented thus the basis of Diplomatic studies from
the origin, and accordingly, the field developed first as a history
of the delegations exchanged by the Prophet and later on the
caliphs, with non-Muslim powers, in order to primarily call
them to Islam, to conclude treaties, pay tribute and ransom
prisoners. That is to say, that the field strictly followed an understanding of diplomacy that is dictated by the so-called Islamic conception of the world, and that responds to the rule
prescribed by the Siyar (commonly referred to as Islamic International law) 4. Though more flexible that the Islamic Law (sharīʿa)
3
See for example M. Khadduri, War and Peace in the Law of Islam,
Clark - New Jersey 2010; M. B. A. Ismail, Islamic Law and Transnational
Diplomatic Law. A Quest for Complementarity in Divergent Legal Theories, London 2016.
4
L. A. Bsoul, Islamic Diplomacy: Views of the Classical Jurists, in Islam and
International Law. Engaging Self-Centrism from a Plurality of Perspectives, cur. M.
L. Frick, A. Th. Müller, Leiden - Boston 2013, pp. 127-145; M. Khad-
New Diplomatic History and Mamluk Studies
137
in term of its sources of interpretation – with for example a
greater focus given to public interest and customs 5, the Siyar
nevertheless complies with the common understanding of a
confessional borders between the two worlds, and is concerned
that the interaction between the two conforms to that rule.
Prime among those is of course the question of the immunity
and inviolability of the messengers going from one world to the
other, with a focus on the granting of amān or safe-conduct 6.
What has attracted most scholarly attention however are the
rules for treaty making, which is considered by Islamic jurists as
the founding principle of diplomatic law in Islam. This tradition goes back to and, more importantly, is based on the precedent of the famous Treaty of Ḥudaybiyya that was concluded in
628 between the Prophet Muhammad and the Quraysh tribe of
Mecca 7. Among the major points of discussion are of course
the duration of the treaty (as no permanent peace condition
was legally possible in Islam), the status of the various parties
involved, as well as the rules of reciprocity that underlined all
diplomatic contacts 8. The study of the treaties, of truce, but also increasingly of trade, is therefore dominant in the field, as it
supposedly constituted the usual mode of interaction between a
Muslim polity and a non-Muslim one. One would therefore not
be surprised that Islamic diplomacy was thus for most of the
time restricted to the study of those contacts. And of course, it
is logically that scholars’ attention soon moved to Islam’s relation with its most imposing neighbor, the Byzantine empire.
duri, The Islamic Law of Nations. Shaybānī’s Siyar, Baltimore 1966, p. 17; S.
A. Romahi, Studies in International Law and Diplomatic Practice with Introduction to Islamic Law, Tokyo 1980; Khadduri, War and Peace cit.; Ismail, Islamic Law cit.; Y. Istanbuli, Diplomacy and Diplomatic Practice in the Early Islamic
Era, Oxford 2001.
5
Ismail, Islamic Law cit., pp. 59-62.
6
Al-Qalqashandī, Ṣubḥ al-aʿshā, 13:321. Also see J. Wansbrough, The
Safe-Conduct in Muslim Chancery, «Bulletin of the School of Oriental and
African Studies», 34/1 (1971), pp. 20-35.
7
Ismail, Islamic Law cit., p. 98.
8
Ismail, Islamic Law cit., p. 75.
138
Malika Dekkiche
The study of the diplomatic contacts between the caliphates
(Umayyad and Abbasid) and the Byzantine empire in fact represents another kind of precedent in the way diplomatic studies
of the Islamicate world developed. This history, mostly based
on the investigation of the chronicles, is first and foremost on
the model of a histoire évenementielle of the contacts between the
two polities.
The various embassies and their motives were cautiously
recorded and organized in so-called phases of development of
the relation 9. Whereas the phases of conflicts and their resolutions through treaties are of course predominant, scholars increasingly observed and switched their focus to the peaceful
contacts that took place on both side of the confrontation period. During those periods, many contacts took place, that had
as primary goal the exchanges of prisoners, but that also progressively gave place to a peaceful mode of communication and
interaction. It is during this period that some sort of Cultural
diplomacy operated between the two courts, which is also viewed
by scholars as another way to assess legitimacy and compete for
supremacy over the region 10. Now whereas we can question the
true nature of those accounts found in chronicles, which often
appeared to have been more topoi, used to address an internal
audience, those accounts nevertheless show that diplomacy had
an important role to play in authors’ mind.
Be that as it may, what is for us here of the greatest importance is that through the switch of focus towards Cultural
Diplomacy, instead of the traditional pair “Conflict/Diplomacy,”
scholars were able to focus on new themes and topics, not covered previously. Several important aspects of the diplomatic
contact are then put into light. First and foremost are the ceremonial aspects and all their splendors, including the material
9
H. N. Kennedy, Byzantine-Arab diplomacy in the Near East from the Islamic conquests to the mid eleventh century, in Byzantine Diplomacy, cur. J. Shepard, S. Franklin, Alderhsot 1992, pp. 133-143.
10
N. M. El-Cheikh, Muḥammad and Heraclius: a study in legitimacy,
«Studia Islamica», 89 (1999), pp. 5-21.
New Diplomatic History and Mamluk Studies
139
culture attached to it. Within the latter, the exchanges of gifts
are particularly appealing 11. Next to the material aspect, the
human component is also increasingly studied, especially the
central figure of the exchanges, the ambassador. Next to the
chronicles that of course mentioned him, his role within the
mission and sometimes his excellent or poor qualities, we find
around the 10th century in the Islamicate world, various sources
that deal partially of completely with that function. The Book of
the Messengers of the Kings (Kitāb rusul al-Mulūk) by Ibn al-Farrāʾ is
a famous – though unique – example 12. Other works belonging
to this genre of Advice literature also increasingly include references to the ambassador and his important role as representative of his king abroad, attesting thus of the importance of the
function by then 13.
Through the study of Islamic powers’ diplomatic relationship with the Byzantine Empire, the field of diplomatic studies
has thus greatly expanded. From the mere studies of the treaties and negotiation at time of conflict, the field has switched to
a peaceful mode of interaction, that is not only full of symbolic
11
Anthony Cutler has been particularly active in that field, with original studies devoted to the gift culture involved among the two courts.
Two most famous contributions are his Gifts and gift exchange as aspects of
the Byzantine, Arab, and related economies, «Dumbarton Oaks Papers», 55
(2001), pp. 247-278, and Significant gifts: patterns of exchange in Late Antique,
Byzantine, and early Islamic diplomacy, «Journal of Medieval and Early Modern Studies», 38/1 (2008), pp. 79-101.
12
The importance of the work was first highlighted by the Syrian
scholar Ṣalāḥ al-Dīn al-Munajjid who edited it in 1947 (reprinted in
1972). It was made known to an even broader public in 2015, through
the translation (and annotation) done by M. Vaiou, Diplomacy in the Early
Islamic World A Tenth-Century Treatise on Arab-Byzantine Relations. The Book
of Messengers of Kings (Kitāb Rusul al-Mulūk) of Ibn al-Farrāʾ, London - New
York 2015.
13
The Book of Government or Rules for Kings. The Siyar al-Muluk or Siyasatnama of Nizam al-Mulk, ed. H. Darke, London 2002; Al-ʿAbbāsī, Āthār aluwal fī tartīb al-duwal, Beyrouth 1989, pp. 191-195; Al-Qalqashandī, Ṣubḥ
al-aʿshà 6, pp. 358-361.
140
Malika Dekkiche
communication and ceremonial, but that also supports the establishment of legitimacy and consequently ideologies. Next to
the caliphs and emperors, other actors involved in the contacts
are also given more and more attention, such as the ambassadors, but also increasingly, the merchants – though the latter are
sadly less documented. These various lines of inquiry have thus
set the trends for the study of diplomacy in the Islamicate
world, though they did not entirely get rid of the longstanding
focus on the treaty making. This is particularly striking looking
at yet another favorite subject of inquiry in the field of Islamic
Diplomacy, namely the period of the Crusades.
Until the past decade, the period of Frankish venture in the
Levant was mostly studied from the perspective of Holy War
and the Jihad, with consequently a great focus the Law of War.
The historiography of that period has in fact, from both sides,
cultivated an antagonist narrative on the model of “We vs.
Them” and more importantly “Christianity vs. Islam” that still
resonates until today. Following that approach, previous scholarship has mostly focus on the study of the confrontations and
the treaties 14. We had to wait the year 2000’s with the increasing
“pluralist” approach to Crusading studies, to observe not only a
reintegration of the Islamic perspective within the greater narrative, but also for scholars to take some distance from the antagonist approach to focus on the mode of coexistence. That
scholarship indeed pointed at a world, that was much more
complex, and importantly, much more permeable to the Other
than once thought. The study of diplomacy during that period
has thus shown the development of complex mechanism that
14
Surprisingly Arabists are rather later comer in the field of Crusading studies, but they have generally followed the pattern established by
“Europeanists”: Check Hamilton Gibb, Claude Cahen (and students),
Lyons and Jackson (1982); Möhring (1980); Emmanuel Sivan (1968).
New Diplomatic History and Mamluk Studies
141
matches the realpolitik of the time, and that could be characterized of a sort of Cross-cultural diplomacy 15.
The establishment of a modus vivendi between the Franks and
Muslim polities in Syria and Egypt has thus demonstrated the
open character of Islamic diplomacy. This has important consequences for the study of diplomacy. First of all, those studies
have pointed at a much greater diversity of the diplomatic actors involved in Diplomacy. Whereas scholarship had previously
mostly focused on the diplomatic contacts established by the
caliphs, with foreign kings or emperors, the period of the Crusades revealed a much diverse palette of Islamic polities eligible
to deal with the Frankish rulers. Furthermore, those studies
have also showed the development of a shared culture of concluding and drafting treaties, that could be accepted and understood by both Islamic and Christian traditions. But the true legacy of the period resides in the increasing contact attested between the Islamic polities in Syria and Egypt with the Italian
mercantile communities, which would truly set the basis of later
contacts between the Islamicate world and Latin Christian Europe.
If the 200 years of Frankish settlement in the Levant have
had a great historiographic impact, that has shaped most of the
bias of our perception of the relationship between Islam and
Christianity, they however barely altered the Islamicate world.
This was quite different from the most traumatic event experienced by the Muslim communities at the time at the hands
of the Mongols. With the Mongol invasions of the early 13th
century indeed, it is indeed an entirely new page that is turned
for the Islamicate world. This starts of course with the destruction of Baghdad and the collapse of the Abbasid caliphate,
which put an end to six centuries of Islamic domination in the
region. But it is also the subsequent opening of Asia to Latin
15
M. Köhler, Alliances and Treaties between Frankish and Muslim Rulers in
the Middle East: Cross-Cultural Diplomacy in the Period of the Crusades, Leiden Boston 2013.
142
Malika Dekkiche
Christian merchants and travelers, increasing mobility and contacts in the region tremendously. Within the Islamicate world
itself, we enter a period of great institutional and socio-cultural
transformations, as well as of great challenges and questioning.
Surprisingly (or not), this period is also one of great opportunity for various groups and trends that were able to develop and
spread, give rise to an extremely rich culture in many domains.
This is during that time that the Mamluk Sultanate of Egypt
and Syria came to power (1250-1517). I will now turn to this
power and its relevance for not only diplomatic studies, but
more particularly for the New Diplomatic History (NDH).
Mamluk Studies
The presentation of the evolution of Diplomatic studies of
the Islamicate world above has shown that that field of study
has for the longest time followed the traditional path of the
“Old” Diplomatic history. One that is concentrated on the reconstitution of a sort of national history, here under religious
(i.e. Muslim vs. Christian) or regional (i.e. East vs. West) labels.
Scholarship, be it the one supporting the conflict theory or the
peaceful narrative, usually looks at the conclusion of treaties,
negotiation process between political entities. Sometimes, when
sources allow it, scholars expand towards a study of cultural diplomacy and of the actors, such as the ambassadors, that were
involved in the diplomatic contacts. But even then, the material
available stays quite limited and does not seem to have much to
offer for the methodology promoted by the NDH. This however could theoretically change if we consider the period starting in the 13th century, and this particularly if we look at the
Mamluk sultanate.
This power, that is in fact quite atypical even within the History of the Islamicate world, is exceptional in many aspects.
First and foremost, the Sultanate was the only stable power in
the region during some 250 years. Due to its famous victories
against both the Crusaders and the Mongols, it acquired a certain prestige within the Islamicate world, both on the Eastern
New Diplomatic History and Mamluk Studies
143
and Western sides. Second, it was located in Egypt-Syria-Hijaz,
and therefore not only dominated pilgrimage sites for both
Muslim and Christian communities, but maybe more importantly, was as the crossroads of Indian and Mediterranean trades,
which it dominated through the establishment of monopolies.
Those two aspects of course demonstrate how the Mamluk Sultanate was an ideal diplomatic interlocutor for both Muslim and
non-Muslim (i.e., Christian and Mongol) polities. But what
makes it even more exceptional is that, unlike many of its predecessors or contemporaries, that power has produced an incredible number of sources, many of which have survived.
Those sources mostly belong to historiography, but remarkably,
we do possess for this rule many administrative sources as well,
that are narrative, documentary and even archival. There are
many reasons for the explosion of this source production, from
a kind of “democratization” of knowledge to the encyclopedic
trends of the time, but this should not occupy us here. What is
however striking is that all those sources provide us with a very
vivid picture of the diplomatic relations that were taking place
in the Mamluk realm, especially in its capital, Cairo.
It is therefore not surprising that the field interested scholars from early on, though it was again in a more traditional way.
Early research indeed tends to focus on the archival material
kept in Europe, especially in Spain and Italy, and thus naturally
look at the Mediterranean trade. Already in the late 1930s, Aziz
Suryal Atiya published his Egypt and Aragon: Embassies and diplomatic correspondence between 1300 and 1330 A.D., which was based
on the Arabic documents kept in Barcelona in the Archives of
the Crown of Aragon 16. Thirty years later, it was the turn of the
Italian archive of Venice to reveal its potential through John
Wansbrough’ studies. In 1961, this scholar had submitted his
Ph.D. dissertation at the University of London on the commercial relationship between Egypt and Venice in the 15th century,
16
A. S. Atiya, Egypt and Aragon: Embassies and diplomatic correspondence
between 1300 and 1330 A.D., Leipzig 1938.
144
Malika Dekkiche
which will lead to several publications on that theme during that
decade. Those studies aimed first and foremost to present, edit,
translate and study various documents, letters and treaties, that
dealt with commerce and trade negotiation at the time 17. Wansbrough was however more interest in diplomatics and trade,
than in diplomacy itself, even though his article on a Mamluk
ambassador in Venice, will have a great impact in the future, as
we will see 18.
Wansbrough’s studies were emblematic of two trends. One
related to an earlier interest at the time for diplomatics in the
1960s, especially in the field of Fatimid studies, which led to the
publication of Fatimid decrees and petitions by Samuel M.
Stern, followed by a couple of studies on Ayyubid and Mamluk
documents 19. The second trend concerns the increasing focus
of scholars for Mediterranean trade, and consequently on the
commercial relations that took place between the Mamluk sultans, Italians mercantile powers and the Crown of Aragon. Eliyahu Ashtor’s Levant trade in the later Middle Age is one of the
17
J. Wansbrough, Documents for the History of Commercial Relations between Egypt and Venice, 1442-1512, Ph.D. Dissertation University of London 1961; Id., A Mamluk letter of 877/1473, «Bulletin of the School of
Oriental and African Studies», 24/2 (1961), pp. 200-213; Id., Venice and
Florence in the Mamluk commercial privileges, «Bulletin of the School of Oriental and African Studies», 28/3 (1965), pp. 483-523. Id., A Mamlūk
commercial treaty concluded with the republic of Florence, 894/1489, in Documents
from Islamic chanceries, cur. S. M. Stern, Oxford 1965, pp. 39-79.
18
J. Wansbrough, A Mamluk ambassador to Venice in 913/1507, «Bulletin of the School of Oriental and African Studies», 26/3 (1963), pp.
503-530.
19
S. M. Stern, A Fāṭimid Decree of the Year 524/1130, «Bulletin of the
School of Oriental and African Studies», 23/3 (1960), pp. 439-455; Id.,
Three Petitions of the Fatimid Period, «Oriens», 15 (1962), pp. 172-209; Id.,
Fāṭimid Decrees. Original Documents from the Fāṭimid Chancery, London 1964;
Id., Two Ayyūbid decrees from Sinai, in Documents From Islamic Chanceries, cur.
S. M. Stern, London 1965, pp. 9-38; Id., Petitions from the Mamlūk Period
(Notes on the Mamlūk Documents from Sinai), «Bulletin of the School of Oriental and African Studies», 29/2 (1966), pp. 233-276.
New Diplomatic History and Mamluk Studies
145
famous large-scale examples of this trends 20, but there was in
the 1980s and 1990s a consequent effort from scholars to publish and study most of the commercial treaties involved between those powers 21. One way or the other however, we see in
those studies a strict focus on the publication of the document
and on the modalities that developed in the making of those
commercial treaties, with only a minor concern for broader diplomatic aspects.
If trade was of course an important aspect of Mamluk contacts with Latin Christians, one should not forget that this period was also one of intense confrontation on the military field
as well. This is obvious from scholarship from before the year
2000’s, which follows the trends described earlier, namely the
study of the treaties and peace resolution, and this primarily in
the case of inter-confessional relations. The fact that the Mamluk Sultanate came to power while defeating the two major enemies of Islam at the time is of course not coincidental. Their
victories in Mansura in 1250 against the Crusaders and ʿAyn
Jālūt in 1260 against the Mongols were crucial to the establishment of their power respectively in Egypt and Greater Syria,
and they were consequently being used as legitimizing principle
for those slave-soldiers who had greatly benefits of these various external challenges to impose themselves above their patron through a military coup. It is thus logical that scholars have
20
E. Ashtor, Levant trade in the later middle ages, Princeton 1983. This
monograph was preceded by a collected essays volume on the same
theme: Id., Studies on the Levantine trade in the middle ages, London 1978.
21
P. M. Holt, Qalāwūn’s treaty with Genoa in 1290, «Der Islam», 57
(1980), pp. 101-108; Id., al-Nāṣir Muḥammad’s letter to a Spanish ruler in
699/1300, «al-Masāq», 3 (1990), pp. 23-29; Id., The Mamluk sultanate and
Aragon: The treaties of 689/1290 and 692/1293, «Tārīḫ», 2 (1992), pp. 105118; D. Coulon, Le Commerce barcelonais avec la Syrie et l’Égypte d’après les
actes du notaire Tomàs de Bellmunt (1402-1416), in Le Partage du monde:
échanges et colonisation dans la Méditerranée médiévale, cur. M. Balard, A. Ducellier, Paris 1998, pp. 203-229; D. S. Richards, A late Mamluk document
concerning Frankish commercial practice at Tripoli, «Bulletin of the School of
Oriental and African Studies», 62/1 (1999), pp. 21-35.
146
Malika Dekkiche
first concentrate on that aspect. It is however striking that save
for Peter M. Holt’s study Early Mamluk Diplomacy on Mamluk’s
treaties with the Franks during the reigns of the first two sultans Baybars and Qalāwūn 22, that clearly refers to Diplomacy,
studies of the late 1990’s usually concentrate on the warlike aspect. This is for example the case of the classical MongolMamluk study by Reuven Amitai, which is entitled Mongols and
Mamluks: The Mamluk-Īlkhānid war, 1260-1281 23, or Shai Har-El’s
study of Ottoman-Mamluk confrontation, Struggle for Domination
in the Middle East. The Ottoman-Mamluk War, 1485-91 24. It seems
thus that generally Diplomacy was not considered as a usual
practice of the Sultanate, and when it was, it was seen from the
rather limited perspective of treaty making.
If the Latin Christian powers and Mongols attracted the
most scholarly attention, there was also very early on an interest
22
P. M. Holt, Early Mamluk diplomacy (1260-1290): Treaties of Baybars
and Qalāwūn with Christian Rulers, Leiden 1995. This monograph was preceded by a series of articles on particular treaties: P. M. Holt, MamlukFrankish diplomatic relations in the reign of Baybars (658-76/1260-77), «Nottingham Medieval Studies», 32 (1988), pp. 180-95; P. M. Holt, MamlukFrankish diplomatic relations in the reign of Qalāwūn (678-89/1279-90), «Journal of the Royal Asiatic Society», 2 (1989), pp. 278-289; Id., Qalāwūn’s
treaty with Acre in 1283, «English Historical Review», 91 (1976), pp. 802812; Id., Qalāwūn’s treaty with the Latin kingdom (682/1283): Negotiation and
abrogation, in Egypt and Syria in the Fatimid, Ayyubid and Mamluk eras (Proceedings of the 1st, 2nd, and 3rd International Colloquium, Katholieke Universiteit
Leuven, May, 1992, 1993, and 1994), cur. U. Vermeulen, D. De Smet,
Leuven 1995, pp. 325-334; P. M. Holt, The treaties of the early Mamluk sultans with the Frankish states, «Bulletin of the School of Oriental and African Studies», 43 (1980), pp. 67-76; Id., Treaties between the Mamluk Sultans
and the Frankish authorities, in XIX. Deutscher Orientalistentag: Vorträge, (Freiburg im Breisgau, 28 September-4 October 1975), cur. W. Voigt, Wiesbaden
1977, pp. 474-476.
23
R. Amitai, Mongols and Mamluks: The Mamluk-Īlkhānid war, 12601281, Cambridge 1995.
24
S. Har-El, Struggle for Domination in the Middle East. The OttomanMamluk War, 1485-91, Leiden - New York 1995.
New Diplomatic History and Mamluk Studies
147
on the contacts with other realms, such as Armenia 25 and the
Byzantines 26, but also western Islamic lands 27. Those studies,
even though not based on archival materials but on copies of
documents kept in chancery manuals or collections of letters
nevertheless followed the trends described above. This was
however going to change at the turn of the year 2000s, and this
in several directions, as we will see 28.
NDH and Mamluk Diplomatic Studies: Parallel trajectories?
By the time of the publication of Watkins’ article, the field
of Medieval Islamic Diplomatic studies was in fact busy with its
own set of challenges and internal transformation, one that was
quite far from the guidelines promoted by the new discipline.
Indeed, what was keeping scholars busy in 2007 was not so
much the study of “Diplomacy,” but rather another aspect of
Diplomatic studies, namely diplomatics. For the first time since
M. Canard, Le Royaume d’Arménie-Cilicie et les Mamlouks jusqu’au traité
de 1285, «Revue des études arméniennes», 4 (1967), pp. 217-259.
26
M. Canard, Le Traité de 1281 entre Michel Paléologue et le Sultan
Qalâʾun, Qalqashandî, Ṣubḥ al-aʿshâʾ, «Byzantion», 10 (1935), pp. 669-680;
Id., Les Relations diplomatiques entre Byzance et l’Égypte dans le Ṣubḥ al-Aʿshâ de
Qalqashandî, in Atti del XIX Congresso Internazionale degli Orientalisti
(Roma, 23-29 settembre 1935), Roma 1935, pp. 579-580.
27
M. Canard, Les Relations entre les Mérinides et les Mamelouks au xive
siècle, «AIÉOA», 5 (1939-1941), pp. 41-81; M. Chapoutot-Remadi, Les
Relations entre l’Égypte et l’Ifriqya aux XIIIe et xive siècle d’après les autres [sic]
Mamlûks, in Actes du premier congrès d’histoire et de la civilisation du
Maghreb/Ashghāl al-muʾtamar al-awwal li-tārīkh al-Maghrib al-ʿarabī waḥaḍāratih, I, (Tunis, December 1974), Tunis 1979, pp. 139-159; G. S. Colin, Contribution à l’étude des relations diplomatiques entre les musulmans
d’Occident et l’Égypte au xve siècle, in Mélanges Maspero, III, Le Caire 1940, pp.
197-206.
28
On the latest developments of the field see M. Dekkiche, Mamluk
Diplomacy: the present state of Research, in Mamluk Cairo, a Crossroads for Embassies. Studies in Diplomacy and Diplomatics, cur. F. Bauden, M. Dekkiche,
Leiden - Boston 2019, pp. 105-182, and more generally, the entire Mamluk Cairo volume.
25
148
Malika Dekkiche
Claude Cahen’s 1963 call for the development of the field of
Diplomatics in Arab-Islamic studies and the publication of
Samuel M. Stern’s Fatimid Decrees 29, a volume was published in
the Annales Islamologiques, that was entirely devoted to that discipline and was calling for its (re-)establishment30.
At the basis of the debate underlying this trend was of
course the already mentioned problem of lack of original documents in the field of Medieval Islamicate studies, which scholars started to question and nuance. According to them, the lack
of archives did not equal the lack of documents, as there were
plenty of documents available both in original form and
through copies, which had a great value not only for the study
of diplomacy, but even more importantly, for the study of diplomatics. Unsurprisingly, many of the scholars involved in this
movement belonged to the field of Mamluk studies. As just
mentioned, what set the Mamluk sultanate apart from previous
or even contemporary realms, is indeed the source material
available. Next to the classical chronicles – which constitute the
primary sources for the study of diplomacy in the medieval Islamicate world – we do possess for this power numerous archival sources kept in European lands, as well as many administrative sources – chancery manuals and inshāʾ collections – that
have kept copies of original documents now lost.
If those concerns may seem odd to an external audience,
one should never forget that the field of Islamicate studies
(previously better known at Oriental studies) developed first
and foremost among philologists, who give a great attention to
29
C. Cahen, Notes de diplomatique arabo-musulmane, «Journal Asiatique»,
251 (1963), pp. 311-325. Efforts to develop Arabic Islamic diplomatics
have been made within the Fatimid studies in the 1960s, especially by
Samuel M. Stern. See for example his S. M. Stern, Fāṭimid Decrees. Original
Documents from the Fāṭimid Chancery, London 1964.
30
M. Favereau, Dossier: Les Conventions diplomatiques dans le monde musulman. L'Umma en partage (1258-1517), «Annales Islamologiques», 41
(2007), pp. 11-20. This volume focuses on the diplomatic conventions,
and thus the relation between diplomatics and diplomacy.
New Diplomatic History and Mamluk Studies
149
the edition and translation of texts. Documents however were
traditionally not included into the philologists’ tasks, but rather
were the prerogative of the papyrologists 31. Due to the increasing focus on copies of documents kept in manuscript collections however, but also the discovery of original chancery documents reused as draft paper in Arabic manuscripts, philologists
and historians in the field realized the need to better understand
diplomatics’ rule.
Those discussions concerning the development of diplomatics, far from being antiquarian, have had a great impact on
two consequent developments in the Islamicate studies: one
concerns the reappraisal of the concept of Archives and Archival practices in the Islamicate world, and more importantly
for the subject of this paper, it created a new craze for diplomatic studies in general.
This not only led scholars to reevaluate the previous work
done on documents, in a new and innovative way, but more importantly it opened the field to an entire new world of possibilities. One is of course the increasing efforts in developing studies in diplomatics, which not only contributed to a better understanding of chancery practices and rules for document writing 32, but which also encouraged scholars to use copies of doc31
One of the most active scholar in that field is G. Khan, A Copy of a
Decree from the Archives of the Fāṭimid Chancery in Egypt, «Bulletin of the
School of Oriental and African Studies», 49 (1986), pp. 439-453; Id., The
historical development of the Structure of the Medieval Arabic Petitions, «Bulletin
of the School of Oriental and African Studies», 53/1 (1990), pp. 8-30;
Id., Bills, Letters and Deeds: Arabic papyri of the 7th to 11th centuries, New
York 1993; Id., Arabic Papyri in The codicology of Islamic manuscripts: proceedings of the Second Conference of Al-Furqān Islamic Heritage Foundation, 4-5 December 1993, cur. Y. Dutton, London 1995, pp. 1-16. Id., Arabic Legal and
Administrative Documents in the Cambridge Genizah Collections, Cambridge
2006. But more generally on Arabic papyrology see the work of Andreas
Kaplony, who also directs the Arabic Papyrology Database with Petra M.
Sijpesteijn and other.
32
A pioneer in the study of Mamluk document and diplomatics is
Donald S. Richards who published extensively in that field, especially for
150
Malika Dekkiche
uments kept in chancery manuals and collections of letters. The
focus on the latter will help the field developing further as the
material kept there mostly focused on intra-Muslim diplomatic
exchanges, a field that was until then greatly neglected.
Following the Annales Islamologiques volume of 2007, the major line of inquiry thus was to try to establish what the diplomatic conventions of Islamic polities were. With the broadening of the source materials to copies of letters kept in chancery
manuals and collection of letters, scholars were for once able to
focus on the diplomatic exchanges taking place within the Islamicate world itself, as those collections have predominantly
kept copies of letters and documents exchanged between Islamic polities.
While those corpora have been known for a while already,
they were mostly looked at from a literary perspective, or sometimes for their contents. But for the first time here, there were
consistently looked at for their diplomatic features.
A year later, 2008, two other monographs were published
that show some parallel developments of Islamic diplomatic
studies. Adrian Gully’s The Culture of Letter-Writing33 and Anne F.
Broadbridge’s Kingship and Ideology in the Islamic and Mongol
World 34, were indeed important contributions that set the basis
for future research focus: the diplomatic correspondence and
the use of diplomacy in Islam as a means to establish kingship
and ideology.
internal documents: D. S. Richards, Documents from Sinai Concerning Mainly
Cairene Property, «Journal of the Economic and Social History of the Orient», 28 (1985), pp. 225-293; Id., A Mamlūk Emir’s Square Decree, «Bulletin
of the School of Oriental and African Studies», 54/1 (1991), pp. 63-67;
Id., A Late Mamluk Document Concerning Frankish Commercial Practice at
Tripoli, «Bulletin of the School of Oriental and African Studies», 62/1
(1999), pp. 21-35; Id., Mamluk Administrative Documents from St Catherine's
Monastery, Leuven - Paris - Walpole 2011.
33
A. Gully, The Culture of Letter Writing in Pre-Modern Islamic Society,
Edinburgh 2008.
34
A. F. Broadbridge, Kingship and Ideology in the Islamic and Mongol
Worlds, Cambridge 2008.
New Diplomatic History and Mamluk Studies
151
Following those two trends, my own doctoral work at the
time, developed further those lines in combination with a focus
on diplomatic convention and diplomatics 35.
Since that period, studies on Islamicate diplomacy in the later Medieval period never ceased to expand, this especially in the
field of Mamluk studies. Whereas the study of diplomacy was
previously restricted to the study of the treaty of peace or of
trade as we have seen, the new material investigated revealed a
broader palette of themes and topics involved in the practice of
diplomacy within the Islamicate world. The definition or the
concept of diplomacy itself appears thus as a much broader
process of elite communication, based on the exchanges of
embassies and letters, than just merely a means to end or prevent conflict.
Its medium of communication, the letter, was thus central
to the diplomatic contact, and became the center of attention
of scholarship. With the increasing focus on diplomatics mentioned earlier, scholars started investigating the convention for
drafting letters, and what those had to reveal regarding the dynamics of the contacts. My own research focused on the semiotic value of the letters, has for example shown how the format
of the letters was used by Islamic chanceries to establish a hierarchy of status among the correspondents 36. But more importantly, the study of diplomatics has demonstrated how letters contributed to the establishment of sovereignty 37, how they
M. Dekkiche, Le Caire, Carrefour des ambassades. Étude historique et diplomatique de la correspondance échangée entre les sultans mamlouks circassiens et les
souverains timourides et turcomans (Qara Qoyunlu-Qaramanides) au XVes. d’après
le BnF ms. Ar. 4440, 2 voll., Ph.D. dissertation, University of Liège
(2011).
36
M. Dekkiche, Diplomatics, or another Way to See the World, in Mamluk
Cairo cit., pp. 185-213.
37
L. Reinfandt, Strong Letters at the Mamluk Court, in Mamluk Cairo
cit., pp. 214-237.
35
152
Malika Dekkiche
acted as legitimating means and how they supported the ideologies throughout the various courts 38.
With this craze for diplomatic studies within the Islamicate
world and the new focus on the non-verbal communication,
chronicles were also investigated anew. Scholars increasingly devoted their attention to the rich and complex ceremonial displayed during the reception of emissaries by the various court
and the material culture, with a focus on the ambassador role,
their lodgings, and the exchanges of gifts 39. While some of
those developments surely resonate to specialists in the NDH,
none of those studies and trends mentioned however make any
reference to that field, nor do they attest of its existence, or at
least not until recently. It is of course difficult to provide any
concrete reason or explanation to these parallel trajectories, but
we can only be glad the two have finally met as the field of Islamicate diplomacy has a lot to gain from this methodology, as I
will now show.
NDH and Mamluk Diplomatic Studies: A Connected Approach
Putting the spotlight on non-European diplomacy can not only
help us to understand intra-Asian or intra-African diplomacy in
their own right but will also shed light on why Europe was anomalous too. Diplomacy also has much to offer global history and
its methods. Global history tends to focus on empire, longdistance trade, migration, biological exchange, material culture
and the globalization of knowledge but rarely looks at diplomatic
interactions. Yet studies of diplomacy can offer important into
global connectedness and information communities. Too often,
38
Broadbridge, Kingship and Ideology cit.
La Correspondance entre souverains, princes et cites-États: Approches croisées
en l’Orient musulman, l’Occident latin et Byzance (XIIIe-début XIVe siècle), cur.
D. Aigle, S. Péquignot, Turnhout 2013; D. Behrens-Abouseif, Practising
Diplomacy in the Mamluk Sultanate: Gifts and Material Culture in the medieval
Islamic world, London - New York 2014; Mamluk Cairo cit.; Material Culture
and diplomatic contacts between the Latin West, Byzance and the Islamic East (11th15th cent.), cur. F. Bauden, Leiden - Boston 2021.
39
New Diplomatic History and Mamluk Studies
153
scholars analyse a diplomatic relationship by looking at it from
one end of what was a two-way relationship. Analysing it from
the point of view of both partners will produce a more sophisticated understanding of specific international relationships. Even
more importantly, more comparative studies will help the field to
advance by creating a body of work that permits scholars to draw
conclusions about bigger patterns in diplomatic practice based on
religion, the type of polity and the region(s) in which diplomatic
relations were occurring 40.
Discussing the future of the NDH, Tracey A. Sowerby
rightly pointed at the need to switch focus to non-European diplomacy, and to approach this from the perspective of global
history. In what follows, I would like to develop that further,
highlighting not only the great potential of intra-Muslim contacts from a global diplomatic perspective, but also more importantly I would like to propose a more promising methodology, than the comparative one mentioned in the quote, namely
the Connected history.
As just stated above, what set the Mamluk sultanate apart
from previous or even contemporary realms, is the number and
variety of the source material available. Next to the chronicles,
and documentary material available (both original or in copies),
the Mamluk period also produced many other works that could
be used to study diplomatic contacts, such as the so-called Advice and panegyric literature, Epic literature, topographical
works, and last but not least, prosopographical works, such as
the biographical dictionaries. Scholars have usually restricted
themselves to the use of one or the other sources, leaving aside
those that did not belong to the traditional diplomatic sources
(i.e., documents, chronicles). Mamluk sources however have revealed the great potential of alternative sources, especially if
one wishes to go beyond the traditional diplomatic approach.
Finally, whereas Mamluk diplomatic study usually followed the
unilateral trends –that is the study of the contacts based on
40
T. A. Sowerby, Early Modern Diplomatic History, «History Compass»,
14/9 (2016), pp. 448-449.
154
Malika Dekkiche
Mamluk sources only –, the switch of focus to copies of documents kept in chancery manuals and more importantly collection of letters, have open the way to new insights. Indeed, collection of letters have also kept copies of letters received by the
sultans from foreign courts.
Given the lack of information and documentation we face
for the contemporary Muslim dynasties, this is a very valuable
material to be exploited. This also marks the start of more
global, or connected, kind of study of Islamic diplomacy, as all
those materials combined, from the various parties involved,
shows a quite different picture of the diplomatic process in the
Islamicate world. This approach is also most rewarding for the
NDH as we will now see.
So those developments have had a major impact on the way
Diplomatic studies has further developed as it not only expanded the scope of diplomacy beyond the strict war-peace framework, but it also broadened the themes and medias involved in
diplomatic communication. More concretely, those developments created original contributions, which without recognizing
or referring to the NDH, nevertheless touched similar theme,
such as political culture and socio-political practice, and mode
of communication and exchange.
One of the major contributions that best characterized that
process is the already mentioned 2008 study by Anne Broadbridge, Kingship and Ideology in the Islamic and Mongol worlds, which
was itself already building up on an ongoing trend of studies
on legitimacy. In the past decade, scholars have followed that
line of inquiry further and have used diplomatic studies to understand how Muslim powers first established their legitimacy
and then how they communicated their claims to an external
audience through the exchanges of embassies. The period considered is in fact one of great challenges, but also opportunities,
in the Islamicate world. After the Mongol invasions in the region and the collapse of the Abbasid caliphate in Baghdad, Islamic leadership was left with a vacuum soon to be competed
for among rival contenders. An entirely new set of ideologies
emerged among those various polities, which were mostly sup-
New Diplomatic History and Mamluk Studies
155
ported by newcomers in Islam and had therefore to find other
ways to legitimize themselves. Diplomacy, through the exchanges of letters and messengers, appears thus during this period as
the perfect medium to establish, communicate and test those
new discourses and claims. Studies along those lines have focus
on the Mamluk sultanate contacts with their major rival within
the Islamic world, such as the Mongol Ilkhanids 41, but also their
post-Mongol successors in the East, such as the Timurids 42 and
the Turkmen dynasties (Qara Qoyunlu and Aq Qoyunlu) 43 and
the Ottomans 44.
Those studies on legitimacy are however still very much
based on cases of struggles between the Mamluk sultans and
41
R. Amitai, Holy war and rapprochement: Studies in the relations between the
Mamluk sultanate and the Mongol ilkhanate (1260-1335), Turnhout 2013; Id.,
Muslim-Mongol diplomacy, in Medieval Islamic civilization: An encyclopedia, I,
cur. J. W. Meri, New York 2006, pp. 540-542; J. Pfeiffer, Aḥmad Tegüder’s
second letter to Qalāʾūn (682/1283), in History and historiography of post-Mongol
Central Asia and the Middle East: Studies in honor of John E. Woods, cur. J.
Pfeiffer, S. A. Quinn, Wiesbaden 2006, pp. 167-202.
42
A. Darrāj, L’Égypte sous le règne de Barsbay, 825-841/1422-1438,
Damascus 1961; M. Dekkiche, New source, new debate: Re-evaluation of the
Mamluk-Timurid struggle for religious supremacy in the Hijaz (Paris, BnF MS ar.
4440), «Mamlūk Studies Review», 18 (2014-2015), pp. 247-271.
43
Darrāj, L’Égypte sous cit.; M. Dekkiche, The letter and its response: The
exchanges between the Qara Qoyunlu and the Mamluk sultan: MS Arabe 4440
(BnF, Paris), «Arabica», 63/6 (2016), pp. 1-47; M. Melvin-Koushki, The
Delicate Art of Aggression: Uzun Hasan’s fathnama to Qaytbay of 1469, «Iranian
Studies», 44/2, (2011), pp. 193-214; F. Bauden, Diplomatic entanglements
between Tabriz, Cairo, and Herat: A Reconstructed Qara Qoyunlu Letter Datable
to 818/1415, in Mamluk Cairo, a Crossroads for Embassies. Studies in Diplomacy and Diplomatics, cur. F. Bauden, M. Dekkiche, Leiden - Boston 2019,
pp. 410-483.
44
C. Y. Muslu, Ottomans and the Mamluks: Imperial diplomacy and warfare
in the Islamic world, London - New York 2014; K. D’Hulster, Fixed rules to
a changing game? Sultan Meḥmed II’s Realignment of Ottoman-Mamluk Diplomatic Conventions, in Mamluk Cairo, a Crossroads for Embassies. Studies in Diplomacy and Diplomatics, cur. F. Bauden, M. Dekkiche, Leiden - Boston 2019,
pp. 484-508.
156
Malika Dekkiche
their foreign counterparts, and greatly focus on the issue of
sovereignty in a traditional way. This was however only one aspect of the contacts that were established among Muslim polities, as those also kept communication canals opened also in
time of peace, this, through the intermediary of emissaries that
were travelling from one court to another.
The diplomatic relationship established between the Mamluk Sultanate and other Muslim powers at time of peace have
been increasingly investigated during the past decade. This
switched focus was again greatly favored by the new interest in
collection of letters kept in manuscripts mentioned earlier.
While those copies of letters were previously seen as a mere exercise of good style and were thus greatly neglected, the new
studies in diplomatics were able to demonstrate their value both
for diplomatics, but also for the study of diplomacy more generally. As already mentioned, those collections are particularly
interesting as they kept the copies of letters that were exchanged between Muslim powers, revealing a whole new aspect
of internal Islamic diplomacy. This is of great relevance for our
discussion of NDH and this for several reasons.
First and foremost, most of the copies kept in those collections were exchanged at time of peace and demonstrated an active use of diplomacy throughout the Islamicate world during
that period. Based on this material, we can further develop a
better definition of diplomacy, that is not restricted to prevent
or end war, but as an important means of communication
among Islamic polities broadly defined. Broadly defined indeed,
as those letters do not only concern sultans and kings, but also
members of their broader family or household. This has of
course a major repercussion as for our understanding of the actors involved in the exchanges of embassies (the “right of embassy”), and more generally for our understanding of Islamic
sovereignty and its nature. Until recently the study of Diplomacy in the Islamicate world was restricted to the study of the exchanges of embassies between caliphs and sultans or kings only.
These collections show however the use of parallel diplomacy
at stakes among various family members competing for some
New Diplomatic History and Mamluk Studies
157
kinds of external recognition and support. Furthermore, those
letters also reveal an entire new set of nuances in the diplomatic
convention in the establishment of hierarchies among correspondents.
We have already mentioned that the period represented a
very fertile one as for the development of new ideologies and
legitimizing tools and discourses. It was however not just a matter of gaining recognition by foreign peers, but more importantly to place oneself on the complex chessboard of power. The Islamicate world that emerged at the time was a very hierarchical world with various centers that competed for supremacy, be it effective and/or symbolic. Following a
longstanding geo-administrative tradition, the Mamluk chancery
had developed very efficient means to textually organize the
world around Cairo, creating thus a hierarchy among the correspondents, namely the various Islamic polities. This hierarchy
was of course not outspoken but established throughout a
complex system of rules applied to diplomatic conventions,
that were shared by all Muslim powers as well attested in their
exchange of letters.
It is indeed within the correspondences that we can find the
witness of this implicit hierarchies. The recent studies in diplomatics have indeed been able to reconstitute a hierarchical chart
of the correspondents of the Mamluk sultanate, based on various diplomatic features of the letters. The format of the papers
and its size, the space between the lines, the opening formulae
of the letters and the honorific titles, as well as the type of signature added on the document, were all effective means to establish and communicate the hierarchy of the correspondents.
This was mostly a type of non-verbal communication that illustrated the semiotics value of the documents 45. Chancery manuals of the Mamluk period detail at length those rules and pro45
The first extended study on the semiotic value of document was
certainly John Wansbrough’s seminal study, J. Wansbrough, Lingua Franca in the Mediterranean, Richmond 1996. Building up on this theory see
Dekkiche, Diplomatics, or Another Way cit., pp. 185-213.
158
Malika Dekkiche
vided concrete examples of copies of letters. Next to those, letters kept in collections can also be added to this material to
provide more nuance to this hierarchy, since they concern actors not always mentioned in the manuals. If the establishment
of hierarchy was thus first and foremost established and developed within the chancery, their medium – the letter – circulated
to foreign court so that this system progressively spread to and
was adopted by a broader audience.
If the rule pertaining to the establishment of hierarchies
thus first developed at the chancery for the drafting of documents, they were soon to spread to other diplomatic conventions. The most obvious and public one was of course the arrival and reception of ambassadors in the Mamluk capital. Be at
war or at peace, exchanges of embassies have been extensively
recorded in the rich Mamluk sources mentioned above. Chronicles provided the daily events taking place in the capital, among
which of course the arrival and reception of foreign ambassadors. Though those records are not uniform – some embassies
are mentioned with more or less details, from one sentence to
several pages depending on the importance of the sending
power – the average ones follow a same structure of narrative
that aims to imply the “hierarchy” mentioned before. Concretely, each mission was received with a ceremonial that matches
with the status of the sending rulers. Chroniclers seemed to
have understood this rule of status quite well, as their narrations of the arrival and reception of ambassadors display a specific structure that relates to this status. They start with the
mention of the sending ruler, they list the members of the welcoming delegations (in hierarchical order), they indicate the
lodging for the ambassador (also matching his status), and then
move to the reception that usually took place several days after
arrival in Cairo. The account of the reception also focuses on
several ceremonial aspects, indicative of the status, such as the
location of the reception, the members of the elite that were
present at the public audience, and the details of the gifts that
were given to the sultan (with value). If more detailed, chroniclers also refer to the various activities offered to the members
New Diplomatic History and Mamluk Studies
159
of the embassies until their departure. Finally, ambassadors of
high status also see their departure ceremony recorded, with the
list of the gifts (and their value) that were sent with the Mamluk
ambassador that was designated to accompany the mission back
home.
The reception of the embassies was the most public part of
the diplomatic exchanges and of course the one that interested
the chroniclers the most. Whereas scholars have been often using those accounts in chronicles as a factual data there have
been in the recent past increasing effort to go beyond that. The
ceremonial ritual and its symbolic are now increasingly considered as part of the non-verbal type of communication that was
deployed at the occasion of the diplomatic encounter and that
represented the application of the rule of hierarchy described
above 46. Studies have thus attempted to establish a typology of
those contacts between the Mamluk sultanate and their foreign
counterparts based on those implicit rules displayed through
the ceremonial and the reception of the embassies in Cairo 47.
Another line of inquiry linked to the ceremonial is of course
the material culture linked to it. The materiality of diplomatic
contacts is indeed predominant in our sources. There are of
course the material features of the documents themselves
which we have already mentioned, but also the accounts of the
reception of embassies are also full of material references.
Those can be divided in three categories. To start with there
are the references to the buildings involved in both the lodging
and the reception of the ambassadors. While most of them are
not extent anymore, the various topographical works we have
for Mamluk Cairo, and even some later representations, allow
46
M. Dekkiche, Diplomacy at Its Zenith: Agreement between the Mamluks
and the Timurids for the sending of the Kiswah, in Material Culture and diplomatic
contacts between the Latin West, Byzance and the Islamic East (11th-15th cent.),
cur. F. Bauden, Leiden 2021, pp. 115-142.
47
Dekkiche, Diplomacy at Its Zenith cit.; Muslu, The Ottomans and the
Mamluks cit.; Mamluk Cairo cit. (especially the chapters by Yehoshua
Frenkel, Marie Favereau, Kristof D’Hulster and Rémi Dewière).
160
Malika Dekkiche
us to identify many of those buildings. The lodgings of ambassadors, often mentioned, have however not been studied systematically, especially in regards with the hierarchical typology
of the correspondents. Indeed, when ambassadors were not
lodged in the ambassadorial house, they were given residency in
the houses of important emirs in specific part of the city, such
as the famous Bayn al-Qaṣrayn 48. The relations between those
emirs and the ambassadors or their mission has not yet been investigated either. I will come back to that point later. If the
lodgings of the ambassadors still have to be studied further, the
places linked to the reception, the citadel and the famous Īwān,
however have attracted most scholarly attention 49. Finally, the
last category of material references concerns the gifts that were
exchanged during the arrival and the departure receptions. We
have already seen that this aspect of the diplomatic exchange
was already a common topic in Muslim-Byzantine diplomacy,
and thus has a longstanding tradition. Surprisingly, it is only in
2014 that a monograph was devoted to the topic gift-giving
within the field of Mamluk diplomacy 50. Doris BehrensAbouseif ’s study mostly focus on the listing of the various gifts
exchanged with the Sultans over time and still leave much place
48
On the emir’s house, see J. Loiseau, Reconstruire la Maison du Sultan:
Ruine et recomposition de l’ordre urbain au Caire (1350-1450), 2 voll, Cairo
2010; and on the Bayn al-Qaṣrayn, see J. Van Steenbergen, Ritual, Politics
and the City in Mamluk Cairo: the Bayna’l-Qaṣrayn as a dynamic ‘lieu de mémoire’, 1250-1382, in Court ceremonies and rituals of power in Byzantium and the
Medieval Mediterranean: comparative perspectives, cur. A. Beihammer, S. Constantinou, M. Parani, Leiden - Boston 2013, pp. 227-276.
49
D. Behrens-Abouseif, The citadel of Cairo: Stage for Mamluk ceremonial,
«Annales Islamologiques», 24 (1988), pp. 25-79; N. O. Rabbat, The citadel
of Cairo: A new interpretation of royal Mamluk architecture, Leiden - New York
- Cologne 1995.
50
D. Behrens-Abouseif, Practising diplomacy in the Mamluk sultanate:
Gifts and material culture in the medieval Islamic world, London 2014. Before
her, E. I. Muhanna, The sultan’s new clothes: Ottoman-Mamluk gift exchange in
the fifteenth century, «Muqarnas», 27 (2010), pp. 189-207, had already tackles
that topic briefly.
New Diplomatic History and Mamluk Studies
161
to the study of the significance of those gifts. More recently,
the material culture of the diplomatic contact within the Mamluk sultanate more broadly defined has been tackled more systematically in a volume edited by Frédéric Bauden entirely devoted to the Material culture and diplomatic contacts 51.
Finally, a last aspect of diplomacy has recently increasingly
been put into light, namely the diplomatic agents. We have already mentioned earlier the figure of the ambassador, as the key
figure of the diplomatic exchanges. Due to its role and its
strong association to kingship, it was since the 10th century his
role and description was included in various works belonging to
the Advice literature. Chronicles, especially in earlier period, also often described at length conversations that supposedly took
place between rulers and ambassadors on various topic associated to the rule or religion. This stereotypical material however
usually tends to focus on either the “good” or “bad” ambassador, or described the ideal figure of the envoy, but has in fact
little to say about the reality of the function. The historiographical and administrative materials we possess for the Mamluk period however started adding to our knowledge. Since envoys are
often mentioned by name and/or function, they can better be
identified throughout the proposographical works of the period, which comes to greatly nuance the theoretical picture found
in normative source. Scholars have now started investigating the
reality of the embassy more closely, but there still reminds
much to do in that area 52.
But more recently, scholars have also started to investigate
other agents involved in the diplomacy, such as the various sec-
51
Material Culture and diplomatic contacts between the Latin West, Byzance
and the Islamic East (11th-15th cent.), cur. F. Bauden, Leiden 2021.
52
Since Wansbrough study of the Mamluk ambassador in Venice,
Wansbrough, A Mamluk ambassador cit., pp. 503-530, not much was done
around that topic until Broadbridge’s recent study, A. F. Broadbridge,
Careers in Diplomacy among Mamluk and Mongols, 658-741/1260-1341, in
Mamluk Cairo cit., pp. 263-301.
162
Malika Dekkiche
retaries involved either in the drafting of the documents 53, or in
the reception, the military elite that also filled in diplomatic
tasks from Cairo54, the great translators who served as intermediaries especially with the Latin and Greek Christians 55, and finally the European consuls and notaries 56. Those studies show
not only a greater plurality of the agents involved in the diplomatic process, but also the openness of the system who allowed
the agents to fill in various roles, this across various borders. I
will come back to this point.
Though many of the themes just presented may sound familiar to an audience involved in the NDH, – such as the mode
of communication, cultural exchanges, plurality of the agents
involved, and so on –, it is striking that nearly none of those
studies mentioned make references to the NDH. Knowing now
the general state-of-the art in premodern Islamic diplomacy, we
can more easily understand how the new discipline may have
gone unnoticed. However, next to the old-fashioned character
of the field, one can legitimately wonder whether a New Diplomatic History of the Islamicate world is possible. While I
have argued that the period of the Mamluk sultanate in Cairo
represented a good case to start with, I also recognize that the
exceptionality of that field of study. Periods that preceded it, or
even some contemporary rulers, are indeed much less documented, or at least, the types of sources available can more difficulty apply the methodology proposed by the NDH. There
53
Dekkiche, Le Caire cit., pp. 276-287; M. Walravens, A Networked
Diplomacy: Maḥmūd Gāwān’s Bahmani Sultanate and the fifteenth-century Islamic
World, Ph.D. thesis, University of Antwerp, defended in 2022.
54
Dekkiche, Le Caire cit., pp. 276-287.
55
K. Yosef, Mamluks of Jewish Origin in the Mamluk Sultanate, «Mamlūk
Studies Review», 22 (2019), pp. 49-95.
56
F. J. Apellániz, Pouvoir et finance en Méditerranée pré-moderne: Le deuxième état mamelouk et le commerce des épices (1382-1517), Madrid 2009; G.
Christ, Trading conflicts: Venetian merchants and Mamluk officials in late medieval
Alexandria, Leiden 2012; A. Rizzo, Le Lys et le Lion: Diplomatie et échanges
entre Florence et le sultanat mamelouk (début XVe-début XVIe s.), 3 voll., Ph.D
dissertation, Université de Liège and Aix-Marseille Université 2017.
New Diplomatic History and Mamluk Studies
163
are however certainly ways to remedy to this, especially if we
focus on the cultural and social components of the research
lines promoted by NDH. Be that as it may, even the field of
Mamluk study and Mamluk diplomacy has so far developed far
from the NDH, even if many of the studies mentioned earlier
actually share similar interest and methods with it. While it will
of course be irrelevant to go back to those to label them de facto under that stamp, I would like to directly propose new lines
of inquiry to push the field further.
The field of Mamluk Diplomacy has so far show most potential in the field of intra-Muslim diplomacy, as those are the
contacts that Arabic sources have the most recorded and detailed. Therefore, the field of inter-confessional/cultural diplomacy has stayed somehow in the margin. This is in fact quite
surprising when one knows how much interests has been given
in the past the Mamluk commercial relations. While scholars
have stayed so far attached to the history of the treaties and negotiations between the European mercantile powers and the
Mamluks, there has been recently an important step taken in
the direction of a renewal. Not surprisingly, this switch of focus has come from the “Italian” side, from scholars working on
the commercial relations between the Mamluk sultanate and the
Venetians, and more recently the Florentines 57. Unlike most
previous studies on the commercial relations, those have concentrated on the sources produced by the notaries and the consuls, and not merely the treaties or the end product of the diplomatic mission, shedding thus light not only on the mechanism
of negotiation but also more importantly on the integration of
the foreign officials into the Mamluk system, and on the consequent creation of a kind of shared diplomatic culture among
those agents. This line was even developed further by Francisco
Apellániz’s latest book, Breaching the Bronze wall.
57
Apellániz, Pouvoir et finance cit.; Christ, Trading conflicts cit.; Rizzo, Le
Lys et le Lion cit.
164
Malika Dekkiche
Those studies are obviously important for what they can reveal of the commercial relationship between the Mamluks and
the Italians and other Franks, but what is I think even more interesting is their insight into Mamluk diplomacy and Mamluk
diplomatic apparatus – something Arabic sources have been describing but mostly theoretically. What those European/Italians
sources show on the other hand is a system way much open
than as once thought, even in the case of the contacts between
Muslim and non-Muslim. Those sources also pointed further to
the hybrid character of many diplomatic officials who seem to
have been acting as both Venetian and Mamluk agents. While
the history of the contacts between Mamluk/Muslim power
and Christian powers have so far been written from the “state
actor”-perspective, and mostly focus on the treaties, the switch
to the level of the “agents” perspective seems very promising
to better understand the dynamics that developed on the
ground. This change in perspective seem in fact to indicate a
much-shared culture, which goes against the common antagonist discourse that usually characterize Muslim-Christian relation. This hybrid, or trans-imperial character of the gobetweens have already been pointed out by scholars working on
the Early Modern period, especially in the case of the dragoman and venetian intermediaries 58.
While the NDH can here clearly bring a relevant methodology to the study of the Muslim-Christian relation, it would also
gain a lot if combined with yet another methodology, one promoted by the Connected history. Unlike Comparative history
that tends to focus on what differs between societies, Connected history, on the contrary, tries to reconnect the pieces that
have been put apart by nationalistic trends. Most research in
that field has so far concentrated on the Early Modern studies,
which is seen as a period of intense connectedness on a global
58
N. E. Rothman, Brokering Empire, Trans-Imperial subjects between Venice and Istanbul, Ithaca - New York 2012; Id., The Dragoman Renaissance.
Diplomatic Interpreters and the Routes of Orientalism, Ithaca - New York 2021.
New Diplomatic History and Mamluk Studies
165
scale. The same argument is, I believe, also valid for the late
Medieval period, especially during the time of Mamluk sultanate rule, when polities from all Afro-Eurasia region were in
constant contacts and exchanges. Instead of looking at the particular archives or documentary production of those polities
and diplomatic agents in parallel, such as most studies currently
do, the Connected history promotes to include them all in one
single study. Whereas this approach may be difficult to follow if
we stay attached to the state level, the switch of focus towards
the other agents, on lower level, may prove much rewarding. As
already mentioned, recent research has pointed to the openness
of the diplomatic system within the Islamic world, which integrated various hybrid agents, creating on the ground a much
more mixed, or connected, world, than once thought. The documentary production as well should be questioned anew, as
those hybrid agents seemed to have worked together with Islamic chanceries and notaries or judges to establish documents
understood and accepted by all traditions. The study of intraMuslim diplomacy mentioned earlier has already started applying this methodology, and has shown promising results as we
have seen. Such methodology however will certainly have an
even much greater impact when applied to inter-confessional
diplomacy in the Mediterranean region59.
59
This however is obviously not the work of one single scholar, and
should instead be developed collaboratively, on a big scale. In 2023 such
enterprise has started with the DiplomatiCon project which I direct together with Isabella Lazzarini, Frédéric Bauden and Roser Sallicru. The
project aims not only to recreate a connected archive of the Diplomatic
contact between the Mamluk Sultanate, the Italian and Iberian polities in
the Mediterranean, but also to highlight the diplomatic networks of the
agents involved in diplomacy and to map the various spaces used and
produced. Finally, the project also studies the common/shared chancery
practice that developed along the way.
IMMA PETITO
Le geografie della diplomazia aragonese:
il Regno, le Fiandre e l’Inghilterra (1463-1483)
The geographies of Aragonese diplomacy: the Kingdom, Flanders, and England (14631483)
Abstract: Could the political-diplomatic history of the Kingdom of Naples benefit
from the methodological and epistemological innovations of the New Diplomatic History
(NDH)? If so, in which way? Considering which geographies, sources, and protagonists?
This essay will attempt to answer these questions by examining the relationships between
the kingdom of Naples and of England from the 1460s to the 1480s and the role of
Flanders as a commercial and diplomatic centre in these relationships during the second
half of the 15th century. It will focus on the activities of some Neapolitan and Florentine
merchants between Bruges, and London and their professional, family and friendship networks at the service of Naples.
Keywords: Diplomatic setting, Human Geography, Merchants, Low Countries
Received: 01/07/2023. Accepted after internal and blind peer review: 20/12/2023
immapetito@vub.be
Ripensare le geografie della diplomazia al tempo di Ferrante: New
Diplomatic History e storia del Regno
Nel quadro di rinnovamento metodologico e contenutistico
che ha caratterizzato gli studi intorno all’istituzione diplomatica,
la New Diplomatic History (NDH) propone modelli interpretativi
che integrano, oltre alla storia politico-istituzionale, quella sociale, culturale ed economica, prediligendo prospettive di ricerca
interdisciplinari, globali, internazionali e transnazionali 1.
1
Nel corso del lavoro sono state utilizzate le seguenti sigle: ASNa =
Archivio di Stato, Napoli; ASMi, SPE = Archivio di Stato, Milano, Fondo
CESURA - Rivista, 2 (2023)
ISSN: 2974-637X
ISBN: 978-88-945152-2-0
168
Imma Petito
A partire dalle riflessioni sulle metodologie più originali della NDH – e con l’ambizione di superare l’alveo classico dell’analisi della prassi diplomatica – questo contributo 2 propone
uno studio sulle relazioni tra il regno di Napoli e quello
d’Inghilterra prendendo in esame contesti spaziali diversificati,
come le Fiandre e alcune figure di mercanti a esse collegate
(operanti a Bruges e a Londra) che assunsero ruoli strategici
nella costruzione del circuito informativo napoletano e, più in
generale, sull’uso dei saperi e delle competenze della mercatura
come risorsa per la diplomazia.
In un contesto documentario frammentario come quello regnicolo 3 l’apertura verso differenti spazi, luoghi, attori e fonti –
Sforzesco, Potenze Estere; BL = British Library; CSP = Milan Calendar of State Papers and Manuscripts in the Archives and Collections of Milan 1385-1618,
cur. A. B. Hindes, London 1912; Foedera = Foedera, Conventiones, Literae et
Cujuscunque Generis Acta Publica inter Reges Angliae et alios, ed. T. Rymer,
vol. XII, London 1711; SAB = Stadsarchief, Bruges; TNA, E = The National Archives of the UK, Londra, Exchequer, King’s Remembrancer, Particulars
of Account and other records relating to Lay and Clerical Taxation; TNA, C =
The National Archives of the UK, Londra, Chancery and Supreme Court of Judicature, Patent Rolls.
2
Sono grata ai maestri Francesco Storti e Francesco Senatore per
l’apporto prezioso alla definizione della pubblicazione di questa ricerca,
al maestro Bart Lambert per avermi pazientemente accompagnato tra la
documentazione conservata allo Stadsarchief di Bruges, al direttore del
DIPSUM - UNISA Carmine Pinto per il continuo supporto. Ringrazio
anche il Network NDH – e, in particolare, Giles Scott-Smith – con il
quale ho avuto modo di confrontarmi e discutere in occasione della Fifth
Conference of the New Diplomatic History Network – Diplomacy situated, settings,
personas, practices tenutasi all’Università di Turku (Finlandia) nei giorni 2527 maggio 2023.
3
Le fonti di epoca aragonese conservate presso l’Archivio di Stato di
Napoli sono state colpite più duramente rispetto a quella di altre epoche.
Gran parte dei registri della cancelleria lì conservati è andata perduta nel
corso delle insurrezioni del 1647 e del 1701; poi, sull’incendio appiccato dai
tedeschi nel 1943 a villa Montesano (San Paolo Bel Sito - NA), v. J. Mazzoleni, Le Fonti documentarie e bibliografiche dal sec. X al sec. XX conservate presso
l’Archivio di Stato di Napoli, I, Napoli 1974-1978, pp. IX-X, 59-60; S. Palmieri, Degli Archivi napoletani. Storia e tradizione, Bologna 2002, pp. 257-292.
Le geografie della diplomazia aragonese
169
naturalmente nuovi e distinti rispetto a quelli tradizionalmente
considerati – introduce scenari innovativi e sviluppa ulteriormente quella narrazione storiografica meridionale che soffre, si
sa, di una carenza strutturale di documentazione primaria di tipo diplomatico 4.
Il focus verte sulla macchina diplomatica internazionale (e
sulla sua logistica) costruita da Ferrante e dai suoi collaboratori
tenendo conto delle relazioni tra il secondo aragonese e Edoardo IV di York. L’alleanza Napoli - Londra ben si presta, a mio
avviso, alle sperimentazioni metodologiche proposte dalla ‘nuova storia diplomatica’ non solo per l’eterogeneità delle fonti a
disposizione, ma anche per la molteplicità di spazi, luoghi e attori coinvolti nell’azione negoziale.
Nel cercare di tracciare brevemente il discorso sulle tendenze contemporanee di storia della diplomazia e NDH – dunque,
di contestualizzare storiograficamente anche questo contributo
– mi limiterò qui a citare i lavori più recenti e significativi.
Nel primo numero della rivista «Diplomatica. A Journal of
Diplomacy and Society» 5, pubblicato nel 2019, troviamo una
buona rassegna di studi circa le metodologie e i temi (e anche le
sfide) della NDH; tra questi, vi è il saggio di Fiona McConnell –
studiosa di geografia politica e geografia umana, di diplomazia
“dei margini”, dell’Organizzazione delle nazioni e dei popoli
non rappresentati 6, di non-state agency – dal titolo Rethinking the
Geographies of Diplomacy 7. Quindi, nulla a che fare con la diplomazia “italiana” tardomedievale o rinascimentale. Ma McCon4
Per un quadro generale v. F. Senatore, Callisto III nelle corrispondenze
diplomatiche italiane. La documentazione sui Borgia nell’Archivio di Stato di Siena,
«Revista Borja», 2 (2008-2009), pp. 141-182.
5
La rivista è pubblicata da Brill in collaborazione con New Diplomatic History (NDH) Network. Per uno sguardo d’insieme sul progetto
v. https://brill.com/view/journals/dipl/dipl-overview.xml [ultimo accesso 01/11/2023].
6
Unrepresented Nations and Peoples Organization (UNPO).
7
F. McConnell, Rethinking the Geographies of Diplomacy, «Diplomatica»,
1 (2019), pp. 46-55, https://brill.com/view/journals/dipl/1/1/articlep46_46.xml [ultimo accesso 01/11/2023].
170
Imma Petito
nell in quell’occasione richiamò l’attenzione sull’utilizzo della
geografia e sulle potenzialità che una prospettiva interdisciplinare può rappresentare per gli studi sulla diplomazia. A tal
proposito si esprimeva così:
My aim in this short intervention is to sketch out the potentially
productive lens that a geographical approach to diplomacy can
offer in terms of diversifying the conceptual framings that can be
brought to bear on diplomacy, widening the empirical lens so that
a broader range of practices, actors and objects come into view
when we consider “diplomacy,” and embracing an open and integrative approach to interdisciplinary thinking about diplomacy 8.
Questo contributo, a mio avviso, segnala due snodi decisivi
che legano la diplomazia e la geografia: la questione degli spazi
e dei luoghi, la questione degli attori. La pratica diplomatica, infatti, è per sua natura considerata come una rete di relazioni bilaterali e/o multilaterali organizzata in una serie di punti nodali;
mi riferisco, anzitutto, ai luoghi tradizionalmente designati per
l’agire politico-diplomatico, per stupire l’altro – sfondi di comportamenti altamente ritualizzati – come le corti, ad esempio,
ma anche a spazi geografici più ampi che per loro posizione e
composizione ospitano una moltitudine di contesti, attori e opportunità politiche, economiche, socioculturali, come le Fiandre
nel XV secolo. La diplomazia è, quindi, la pratica della negoziazione e della mediazione tra poteri e gruppi di individui, veicolata – oltre che dalla comunicazione scritta e orale, dai gesti, dai
cerimoniali, dai doni – dagli spazi: per tali ragioni, questi ultimi
possono essere considerati come elementi costitutivi delle esperienze diplomatiche.
Il lavoro di McConnell se, da un lato, fornisce il frame storiografico rispetto al tema delle relazioni internazionali, dall’altro rilancia la centralità della geografia per lo studio della pratica
negoziale e dei soggetti in essa coinvolti. Evitando, quindi, possibili distorsioni interpretative, questo contributo delinea un’architettura metodologica che integra geografia, geografia umana
8
McConnell, Rethinking the Geographies cit., p. 48.
Le geografie della diplomazia aragonese
171
e storia della diplomazia e che, con molta cautela, può essere
impiegata e applicata anche ad altri contesti politici, istituzionali
e cronologici 9.
Nel 2020 John Watkins 10 ha riproposto in chiave aggiornata
e critica parte dei contenuti del suo saggio Towards a New Diplomatic History of Medieval and Early Modern Europe (2008) 11, a lungo considerato come ‘manifesto’ della ‘nuova storia diplomatica’
per l’Europa medievale e moderna. Sono passati più di dieci
anni dalla pubblicazione di quell’articolo e passi avanti sono stati compiuti nel panorama storiografico italiano12, europeo e internazionale 13. Il focus delle ricerche si è ormai spostato dai risul9
Un buon esempio di applicazione del metodo storico alla geografia
politica (e non alla geografia umana), per la Penisola alla fine del medioevo, è il volume di F. Somaini, Geografie politiche italiane tra Medioevo e Rinascimento, Milano 2012.
10
J. Watkins, Premodern Non-State Agency. The Theoretical, Historical, and
Legal Challenge in Beyond Ambassadors. Consuls, Missionaries, and Spies in Premodern Diplomacy, cur. M. A. Ebben, L. Sicking, Leiden - Boston 2020, pp.
19-37.
11
J. Watkins, Towards a New Diplomatic History of Medieval and Early
Modern Europe, «Journal of Medieval and Early Modern Studies», 38
(2008), pp. 1-14.
12
Per il contesto peninsulare, mi limito qui a citare l’ottima rassegna
di I. Lazzarini, Una ‘nuova storia diplomatica’, una ‘nuova storia politica’:
studi e tendenze recenti su pratiche e linguaggi della diplomazia in Italia tra tardo
medioevo e primo Rinascimento, in Roma centro della diplomazia internazionale tra
Quattrocento e Cinquecento, cur. A. Fara, E. Plebani, Roma 2019, pp. 1-13.
13
Si rimanda a: Esperienza e diplomazia / Expérience et diplomatie. Saperi,
pratiche culturali e azione diplomatica nell’Età moderna (secc. XV-XVIII)
/Savoirs, pratiques culturelles et action diplomatique à l’époque moderne (XVeXVIIIe s.), cur. S. Andretta, L. Bély, A. Koller, G. Poumarède, Roma
2020; Diplomatie et «relations internationales» au Moyen Âge (IXe-XVe siècle),
cur. J. M. Moeglin, S. Péquignot, Paris 2017; Practices of Diplomacy in the
Early Modern World c.1410-1800, cur. T. A. Sowerby, J. Hennings, London - New York 2017. Rispetto alla mediazione linguistica, altro aspetto
interessante della pratica negoziale, v. Translators, Interpreters, and Cultural
Negotiators. Mediating and Communicating power from the Middle Ages to the
Modern Era, cur. F. M. Federici, D. Tessicini, London 2014 e ai linguaggi
della comunicazione politica Les languages de la négociation. Approches histo-
172
Imma Petito
tati della negoziazione – come alleanze, accordi e trattati – ai
processi per raggiungere tali obiettivi. La diplomazia appare
sempre più come un fenomeno socialmente e culturalmente significativo.
Watkins introdusse un altro tema, pur cruciale, la cosiddetta
non-state agency premoderna come spazio ideale per interrogarsi
nuovamente su concetti chiave come stato e diplomazia 14. La
non-state agency è, però, un concetto poroso soprattutto nell’universo complesso del lungo Quattrocento e, in particolar modo,
nel contesto regnicolo.
Non è questa l’occasione per ritornare su tali termini e sulle
questioni storiografiche con essi connessi. A lungo gli storici
hanno privilegiato, a proposito della pratica negoziale, una prospettiva in cui gli stati erano considerati come attori primari del
sistema delle relazioni diplomatiche. Watkins suggerì, invece, di
adottare prospettive proprie della teoria dell’interdipendenza
complessa 15; l’elemento che qualifica l’interazione sociale sta
nell’influenza che ciascun partner esercita sull’altro 16. In altre parole, l’interdipendenza è un processo di reciproca influenza delle esperienze, delle motivazioni, delle preferenze, dei comportamenti tra due o più persone che interagiscono. Ma in che modo è possibile utilizzare questo assunto teorico nel contesto degli studi sulle diplomazie? Prestando maggiore attenzione agli
riennes, cur. D. Couto, S. Péquignot, Rennes 2017; Diplomazie. Linguaggi,
negoziati e ambasciatori fra XV e XVI secolo, cur. E. Plebani, E. Valeri, P.
Volpini, Milano 2017.
14
È stata in più occasioni sottolineata l’opportunità di liberare il
campo d’indagine dall’ipoteca statalista. Per tanto tempo alla diplomazia
(e alla comparsa delle ambasciate residenti) è stato attribuito un ruolo
cruciale nella costruzione dello Stato moderno; sulla questione v. Lazzarini, Una ‘nuova storia diplomatica’ cit., pp. 2-4.
15
Per uno sguardo d’insieme sulla teoria dell’interdipendenza sociale
v., Interpersonal Relations. A Theory of Interdependence, cur. H. H. Kelley, J. W.
Thibaut, New York 1978.
16
A tal proposito, v. J. G. Holmes, Interpersonal expectations as the building blocks of social cognition. An interdependence theory perspective, «Personal Relationships», 9/1 (2002), pp. 1–26.
Le geografie della diplomazia aragonese
173
agenti “non statali” come i missionari, i mercanti, le organizzazioni religiose transnazionali, le spie e alla vasta gamma di intersezioni possibili dei loro circuiti; spostando il focus dai rapporti
tra stati a quelli tra individui (interpersonali). L’espressione ‘relazione interpersonale’, quindi, si riferisce al legame che intercorre tra due o più persone e non necessariamente riferito alla
sola sfera privata; queste relazioni si possono basare anche su
impegni sociali e/o professionali. Gli studi di storia degli scambi culturali hanno cominciato a mettere a fuoco la centralità della figura del diplomatico e di altri attori, delle reti mercantili,
quali motori di influenze reciproche fra gruppi, culture e società
distinte 17. Il confronto con il “diverso” e la percezione di sé che
ne deriva, sono stati anch’essi delle lenti attraverso cui decifrare
i testi e i comportamenti degli agenti presso altri poteri.
Il saggio di Watkins si inserisce nel recente volume Beyond
Ambassadors: Consuls, Missionaries, and Spies in Premodern Diplomacy 18 che ben si presta a essere un buon riferimento metodologico per lo studio di questa moltitudine di attori e reti.
Tornando al nostro caso, quanto fin qui detto (rispetto al
contesto storiografico e metodologico di riferimento) rende
quasi naturale e necessario – se si intende ragionare e poi allargare la visione sulla strategia diplomatica di Ferrante d’Aragona
con Edoardo IV York – prendere in esame lo ‘spazio di mezzo’
– ovvero le Fiandre – tra il Regno e l’Inghilterra.
Re Ferrante fu un attore di rilievo nella politica peninsulare,
mediterranea ed europea della seconda metà del Quattrocento;
questo è un dato storiograficamente acquisito 19. Figlio naturale
17
Rispetto all’Inghilterra, in tempi più recenti, sono emersi, assieme
all’attenzione agli aspetti istituzionali, interessanti riflessioni di natura sociopolitica e sociale, come nelle raccolte di saggi Anglo-italian cultural relations in the Later Middle Ages, cur. M. Campopiano, H. Fulton, York 2018,
e The Fifteenth Century IV. Political Culture in Late Medieval Britain, cur. L.
Clark, C. Carpenter, Woodbridge 2004.
18
Beyond Ambassadors. Consuls cit.
19
Sulle pratiche diplomatiche al tempo di Ferrante v. E. Pontieri, Per
la storia del regno di Ferrante I d’Aragona re di Napoli: studi e ricerche, Napoli
174
Imma Petito
di Alfonso il Magnanimo, il secondo aragonese dovette dimostrare, con maggior decisione, il suo valore politico. L’azione
governativa si sviluppò attraverso una spiccata razionalità riformatrice e sul piano militare e diplomatico si occupò di proteggere il regno dai pericoli interni ed esterni – due sollevazioni
in poco più di vent’anni (1459 e 1485), le pretese angioine sul
trono – e di espanderne gli interessi e le influenze attraverso un
intricato sistema di alleanze e una politica matrimoniale più o
meno efficace 20. Napoli partecipò a numerosi conflitti militari
del tempo sia nel contesto italiano che in quello europeo. Lungamente si è riflettuto, e si continua a riflettere, sulla corte,
sull’Umanesimo monarchico, sull’azione politica e militare in
Italia e in Europa (soprattutto rispetto alla Francia, alla Borgogna e al Mediterraneo), sull’apparato ideologico e “propagandistico” del regno di Napoli, sotto Alfonso il Magnanimo e poi
Ferrante 21.
Continua a mancare, invece, uno sguardo più organico
sull’intreccio degli interessi articolati intorno a Ferrante e a
1969, pp. 209-370; P. M. Dover, Royal Diplomacy in Renaissance Italy: Ferrante d’Aragona (1458-1494) and his Ambassadors, «Mediterranean Studies»,
14 (2005), pp. 57-94; Poteri, relazioni, guerra nel regno di Ferrante d’Aragona
cur. F Senatore, F. Storti, Napoli 2011; Ancora su poteri, relazioni, guerra nel
regno di Ferrante d’Aragona: studi sulle corrispondenze diplomatiche II, cur. A.
Russo, F. Senatore, F. Storti, Napoli 2020; relativamente agli anni Cinquanta e Sessanta del ‘400 cfr. V. Ilardi, Studies in Italian Renaissance Diplomatic History, London 1986, pp. 129-166.
20
Sulla comunicazione politica e le prassi di governo costruite dal
sovrano aragonese rinvio a F. Senatore, La cultura politica di Ferrante
d’Aragona, in Linguaggi politici nell’Italia del Rinascimento. Atti del Convegno,
Pisa, 9-11 novembre 2006, cur. A. Gamberini, G. Petralia, Roma 2007; F.
Storti, «El buen marinero». Psicologia politica e ideologia monarchica al tempo di
Ferdinando I d’Aragona re di Napoli, Roma 2014; a G. M. Cappelli, Maiestas.
Politica e pensiero politico nella Napoli aragonese (1443-1503), Roma 2016; per
il re Ferrante in particolare, v. ivi, pp. 61-87.
21
Sul rapporto tra Umanesimo e ideologia politica alla corte del secondo aragonese v. F. Delle Donne, G. Cappelli, Nel Regno delle lettere.
Umanesimo e politica nel Mezzogiorno aragonese, Roma 2021; per il regno di
Ferrante v. ivi, pp. 99-166.
Le geografie della diplomazia aragonese
175
Edoardo IV 22, alla loro alleanza, che costituiva, a mio avviso,
una delle più potenti cellule della coalizione antifrancese nella
seconda metà del XV secolo.
Dunque, la storia politico-diplomatica del regno di Napoli
può beneficiare delle innovazioni metodologiche ed epistemologiche della NDH? Se sì, in che modo? Considerando quali
geografie, fonti e protagonisti? Risponderò a questi interrogativi
prendendo in esame i rapporti tra il regno di Napoli e quello
d’Inghilterra tra gli anni Sessanta e Ottanta del Quattrocento e
analizzando come e in che misura le Fiandre rappresentassero
una giuntura geografica (commerciale e diplomatica) strategica
nell’Europa della seconda metà del XV secolo. Esaminerò
l’attività occasionale di alcuni mercanti regnicoli e fiorentini attivi tra la Penisola, Bruges e Londra e i loro networks professionali, familiari e d’amicizia al servizio di Napoli.
Verranno utilizzate alcune fonti inedite conservate presso i
National Archives of UK (Londra, Regno Unito), e lo Stadsarchief Brugge (Bruges, Belgio). Si tratta in gran parte di fonti di
natura amministrativa ed economica che documentano luoghi,
spazi e attori nuovi. A queste, va aggiunta la corrispondenza diplomatica tra gli ambasciatori milanesi presso le corti di Napoli,
Roma e altre potenze quali Francia, Borgogna, Inghilterra, e i
22
Per un quadro generale sulle corrispondenze diplomatiche del regno d’Inghilterra nel Medioevo cfr.: P. Chaplais, English Diplomatic practice
in the Middle Ages, London - New York 2003 (partic. pp. 75-251); Id., Essays in Medieval Diplomacy and administration, London 1981; English Medieval
Diplomatic Practice, Part I, Documents and Interpretation, cur. P. Chaplais,
London 1975-1982; D. E. Queller, The Office of Ambassador in the Middle
Age, Princeton - New Jersey 1967; J. Ferguson, English Diplomacy, 14221461, Oxford 1972 (nello specifico, pp. 75-82; 120-145; 146-174); The
English Goverment at work, 1327-1336, I. Central and prerogative administration,
cur. W. A. Morris, J. R. Strayer, Cambridge - Massachusetts 1947 (sul
funzionamento della “macchina” diplomatica del regno, pp. 300-331); G.
P. Cuttino, English Diplomatic Administration, 1259-1339, Oxford 1971 (per
un focus sugli uffici coinvolti nella diplomazia, pp. 127-186). V. anche V.
Ilardi, Studies in Italian Renaissance Diplomatic History, London 1986, pp.
400-402 nota 2.
176
Imma Petito
duchi di Milano e le lettere di alcuni mercanti fiorentini del banco Medici di Bruges.
Queste fonti eterogenee per tipologia e provenienza documentano l’attività diplomatica di Ferrante in un contesto più
ampio consentendo uno studio approfondito dei reali meccanismi che legavano il regno di Napoli a quello d’Inghilterra.
Attraverso alcuni studi di caso si tenterà – senza alcuna pretesa
di esaustività e completezza – di dimostrare come anche l’analisi
della prassi diplomatica napoletana può potenzialmente attingere
(e beneficiare delle) alle metodologie proprie della NDH.
Una premessa: Napoli al centro della strategia di Edoardo IV
Al fine di evidenziare il ruolo della monarchia napoletana
nella strategia del re inglese, qui si intende affrontare il tema degli ordini cavallereschi monarchici curiali 23, con un particolare
focus sull’utilizzo della Giarrettiera da parte dello York nel contesto peninsulare 24.
23
Maurice Keen, riprendendo D’Arcy Jonathan Dacre Boulton, distinse tre grandi classi di associazioni cavalleresche: ordini curiali, votivi e
confraternite (seguendo le definizioni di Boulton, rispettivamente Confraternite religiose, immaginarie e devozionali laiche). Quelli definiti curiali sono fondati da un lignaggio sovrano dotato di statuti e capitoli regolari, l’elezione dei membri è direttamente soggetta alla volontà del fondatore/capo; altri sono votivi perché formati in vista di un preciso obiettivo militare o politico da raggiungere (la loro esistenza era subordinata al
compimento di una determinata impresa); infine, le confraternite, o meglio, società cavalleresche, dotate di regole interne che eleggono autonomamente i propri membri. A tal proposito, cfr. M. Keen, Chivalry, New
Haven - London 1984, pp. 183-184, e D’A. J. D. Boulton, The Knights of
the Crown. The monarchical orders of knighthood in later medieval Europe 13251520, Woodbridge 1987, pp. 16-26.
24
L’ordine della Giarrettiera fu fondato da Edoardo d’Inghilterra.
Riguardo alla storia cfr. tra loro, seppur datati: E. Ashmole, The Institution,
Law, and Ceremonies of the Most Noble Order of the Garter, London 1971; J.
Anstis, The Register of the Most Noble Order of the Garter, 2 voll., 1724; G. F.
Beltz, Memorial of the Most Order of the Garter from it’s foundation to the present
time. Including the History of the Order. Biographical Notices of the Knights in the
Le geografie della diplomazia aragonese
177
Le relazioni tra Ferrante e Edoardo IV 25 si articolarono attraverso un’architettura negoziale intricata e, dal punto di vista
logistico, laboriosa, coprendo un arco cronologico che va dal
1463 alla morte del re inglese (1483) 26. In questo lungo ventennio si possono distinguere tre momenti decisivi: il primo va collocato tra gli anni 1463-1468; il secondo tra il 1470-1476; il terzo tra il 1478-1480. Ogni fase si contraddistinse per particolari
manovre politiche e diplomatiche e il leitmotiv ricorrente, per ciascuna di esse, fu senz’altro l’utilizzo degli ordini monarchico cavallereschi. Anzi, in questo scenario, l’innalzamento al rango di
cavaliere può essere considerato come il culmine della pratica
negoziale. Di seguito vedremo perché le scelte fatte da Edoardo
IV in termini di candidature al cavalierato dell’ordine inglese furono significative, in particolar modo, se rilette in uno scenario
politico e diplomatico all’interno del quale il re di Napoli era un
tassello significativo. Edoardo IV utilizzò ampiamente la Giarrettiera consapevole del potere simbolico e del risvolto politico
(e pratico) derivante dallo scambio degli ordini cavallereschi 27.
Reigns of Edward III and Richard II, London 1973; N. H. Nicolas, History of
the Orders of Knighthood of the British Empire, 4 voll., London 1842; N. H.
Nicolas, Observations on the Institution of the Most Noble Order of the Garter,
«Archeologia», 31 (1846), pp. 1-163; R. Barber, Edward Prince of Wales and
Aquitaine. A Biography of the Black Prince, London 1978, pp. 83-92; J. Vale, Edward III and Chivalry, Chivalric Society and its Context 1270-1350,
Woodbridge 1982, pp. 76-91. Per una rassegna aggiornata e completa
dell’ordine v., anche, Boulton, The Knights of the Crown cit., pp. 96-166.
25
Sulla figura di Edoardo IV cfr.: C. L. Scofield, The Life and Reign of
Edward the Fourth, King of England and of France and Lord of Ireland, 2 voll.,
London 1923; v., inoltre, R. A. Griffiths (The Life and Reign of Edward the
Fourth, King of England and of France and Lord of Ireland 2 voll., cur. R. A.
Griffiths, Stroud 2016); C. Ross, Edward IV, London 1974; H. Kleineke,
Edward IV, London - New York 2009.
26
Sulle relazioni tra Napoli e l’Inghilterra negli anni Settanta del
Quattrocento, mi permetto di rimandare a I. Petito, L’accerchiamento antiangioino: le relazioni tra Napoli e l’Inghilterra negli anni settanta del ‘400, «Archivio Storico per le Province Napoletane», 138 (2020), pp. 19-30.
27
Cfr. C. H. Clough, The Order of the Garter and fifteenth-century Italian
Ruling Dynasties, «The Ricardian», 19 (2009), pp. 50-62 e Id., The relations
178
Imma Petito
Per buona parte del suo regno lo York, proprio come Ferrante, dovette fronteggiare il problema della legittimazione e
delle lotte intestine 28. Nel 1988, Anthony James Pollard suggerì
(per la prima volta) una rilettura delle Guerre delle Rose in un
contesto diplomatico euro-mediterraneo segnando così il superamento della tradizionale prospettiva anglo-centrica nel metodo di analisi storica di quei fatti 29. Come sottolineò Michael
Hicks 30, queste guerre si differenziarono dagli altri conflitti inglesi per diverse ragioni 31; tra queste, almeno due risultano significative per il discorso che qui si intende costruire: la dimensione internazionale degli scontri e la sostanziale mancanza di risorse sofferta dalla corona inglese. A questi si aggiungeva poi,
un altro fattore intrinseco del sistema monarchico, ovvero, la
fragilità strutturale dell’esercito regio dello York 32. Quanto fin
qui detto si riflette nella strategia diplomatica messa a punto da
Edoardo IV e all’interno della quale Ferrante divenne un partner
chiave 33. Il cambiamento di passo che ci sposta da una scala
between the English and Urbino Courts, 1474-1508, «Studies in the Renaissance», 14 (1967), pp. 202-218.
28
Per uno sguardo d’insieme sul contesto statuale europeo mi limito
qui a citare: J. Watts, The making of polities: Europe, 1300-1500, Cambridge
2014; The new Cambridge Medieval History, c.1415-c.1500, VII, cur. C. Allmand, Cambridge 1998.
29
J. Pollard, The Wars of the Roses, London 1988, pp. 3-4.
30
M. Hicks, English Political Culture in the Fifteenth Century, London New York 2002, pp. 210-215; cfr. M. Hicks, Edward IV, London 2004,
pp. 123-147.
31
Hicks, English Political Culture cit., p. 210.
32
Lo storico si esprimeva così: «It was to the advantage of such rebels
that England, unlike the strongest contemporary states, had no professional military machine: no standing army, no committed garrisons in mainland
England and scarcely any navy», Hicks, English Political cit., p. 207.
33
Lo studioso mise in evidenza anche un’altra componente cruciale
della biografia dello York (non ancora sufficientemente approfondita dagli storici) e che, in qualche modo, si rifletterebbe sulle sue scelte di politica estera. Edoardo era nato e cresciuto in Francia e per alcuni mesi, durante la sua infanzia, soggiornò anche presso Calais, «an enclave in
French speaking Burgundy». A tal proposito Hicks: «He certainly learnt
Le geografie della diplomazia aragonese
179
domestica a una europea e mediterranea fu quasi necessario e si
era già avvertito al momento del conferimento della Giarrettiera
al re di Napoli nel 1464 e della stipula di una lega nel 1468, tra
l’Inghilterra, il Regno e le altre potenze antifrancesi 34.
Napoli divenne un alleato fondamentale (e anche uno dei
primi) per la corona inglese, evidentemente per la condivisione
di un progetto militare antifrancese; la stabilità di entrambi i regni risultava costantemente esposta, infatti, al rischio delle rivendicazioni francesi. Inoltre, l’attenzione di Edoardo IV si volse verso Ferrante, perché attratto dalla rilevante posizione politico-diplomatica che il re di Napoli occupava sia a livello peninsulare che internazionale.
Il Regno era un pilastro della politica dell’equilibrio nel contesto italiano e (anche) europeo. Alcuni esempi ci permettono di
dare concretezza a queste affermazioni.
Antonio da Trezzo, ambasciatore milanese a Napoli, in una
lettera del 5 dicembre 1463, indirizzata al duca Francesco Sforza, a proposito dell’alleanza tra Ferrante e Edoardo IV, si esprimeva così:
Pur ad questa parte dice così che la maiestà soa è de questa natura
che voria de li amici assai, ma non voria ancora perdere quelli che
sa gli sono amici come è el re de Ingliterra, quale sempre è stato
afecto ad questa casa et non aquistarse però per amico el re de
Franza, benché non se tenga havere cum la maiestà soa alcuna
much of its strategic value, the importance of the wool trade and hence
of the merchants of the staple of Calais, and of international commerce
in the Channel on which the Yorkists preyed», Hicks, English Political Culture cit., p. 126.
34
Rimando a The Parliament Rolls of Medieval England 1275-1504, XIII,
Edward IV 1461-1470, cur. R. Horrox, Woodbridge 2005, pp. 362-363
(TNA, C 65/108. RP. V622-623, m. 32-33). La stessa alleanza fu poi rinnovata anche nel 1475: nel mese di febbraio Cristoforo di Bollaro, ambasciatore milanese in Francia, scriveva al duca Galeazzo Maria Sforza della
proclamazione, conclusa a Calais, di una lega tra l’Inghilterra e i re di
Spagna, Aragona, Scozia, Danimarca, Portogallo, Napoli e Sicilia, CSP,
Milan, pp. 191-192, cfr. K. Dockray, Edward IV. A source book, Stroud
1999, pp. 128-129.
180
Imma Petito
inimicicia, et per questo considerato masime la impresa che novamente ha tolta del prefato re de Ingliterra non gli pare cum honore suo potere fare cum manco che non lo facia invitare et così
gli pare che se facia per ogni modo, dicendo che non fa invitare
dicto re de Ingliterra come inimico del re de Franza, ma come
inimico de la casa d’Angiò et amico de la maiestà soa 35.
Qui si ragionava sulla possibilità di estendere l’invito per le
nozze Aragona-Sforza 36 anche al duca di Borgogna e al re di
Francia (non di escludere Edoardo), nel contesto della missione
in Inghilterra dell’ambasciatore napoletano Garçia Betes 37.
Le parole del legato milanese confermavano, in sostanza, il
primo pilastro dell’alleanza Napoli - Londra e la condivisione di
un nemico comune costituiva un valido incentivo per la stipula
di accordi; non solo:
lo invito del re de Ingliterra non gli pare se debia lasare per alcuno modo, subiungendo che se ad la signoria vostra paresse se dovesse etiam invitare el re de Franza, ve piacia avisarce qua, perché
la maiestà soa mandaria ad invitarlo per persona de più condictione che non è dicto Garsia, dicendo che non se tene niente ofeso dal prefato re de Franza, ance ha desiderio havere cum sì ogni
bona amicicia et inteligentia quale paresse ad la signoria vostra, a
la quale remete ne facia quella opera gli parerà, dicendo apresso
che la impresa ha tolta del re de Ingliterra non l’obliga ad fare in
favore del dicto re de Ingliterra quando volesse fare contra re de
Franza, sed solum l’obliga ad non dare aiuto ad esso re de Franza,
né ad altri che volessero fare contra esso re de Ingliterra, né li altri
de la dicta compagnia se’l non ce havesse grande iustificatione de
35
ASMi, SPE, Napoli, 213, 82, Antonio da Trezzo a Francesco Sforza (Troia, 5 dicembre 1464).
36
Si tratta delle nozze tra Alfonso, duca di Calabria e Ippolita Maria
Sforza.
37
Per ulteriori dettagli su questa missione e sul Betes v. Petito,
L’accerchiamento antiangioino cit., p. 25.
Le geografie della diplomazia aragonese
181
farlo, perché l’uno de dicta compagnia non se pò trovare ad fare
contra l’altro 38.
Questo passaggio è significativo per mettere in evidenza due
tratti – correlati fra loro – del legame tra i due regni: l’uso degli
ordini cavallereschi (secondo pilastro dell’alleanza), le implicazioni ad essi collegate. In questo scenario, occorre una rilettura
anche delle dinamiche diplomatiche tra Napoli e Milano e tra
quest’ultima e la Francia, a mio avviso cruciali. Il coinvolgimento diretto di Edoardo IV nella politica peninsulare sostenuto da
Ferrante e da Sisto IV può essere riletto anche come strategia
per controbilanciare la forte presenza di Luigi XI, quale arbitro
unico delle questioni italiane. Napoli e Roma furono al centro
del programma inglese per fronteggiare le mire espansionistiche
della Francia.
Da Trezzo, in una lettera dell’11 novembre del 1464, riferì al
duca notizie sul conferimento dell’ordine della Giarrettiera da
Edoardo IV a Ferrante 39:
La maiestà del re de Ingliterra pare che habia una certa sua impresa o vero ordine, come comuniter hanno questi reali, nella quale
possono intrare fin al numero de XXIIII° re, signori et cavalleri
degni. La quale impresa se chiama la Garatera et portasse alla
gamba, cum alcune obligatione da observarse per quelli che ce intrano. La quale impresa esso signore re, per uno suo scudero,
38
ASMi, SPE, Napoli, 213, 82, Antonio da Trezzo a Francesco Sforza (5 dicembre 1464).
39
Il 17 novembre 1464 Ferrante ricevette la Giarrettiera nella città di
Aversa. I contatti tra Napoli e Londra sono stati generalmente sottovalutati e ridotti – innescando una visione incompleta e circoscritta dei fatti –
allo scambio degli ordini cavallereschi, in forza delle informazioni conservate nella Cronica di Napoli di Notargiacomo, che descrive la consegna
della giarrettiera all’aragonese (v. Notargiacomo [Della Morte], Cronica di
Napoli, cur. P. Garzilli, Napoli 1845, p. 110) e nelle cedole di tesoreria
dell’anno 1465, all’interno delle quali sono annotate le spese della missione diplomatica in Inghilterra, affidata a Turco Cicinello (cfr. ASNa,
Tesoreria generale antica 1/IV, ff. 75-77, partic. f. 77; cfr. Barone, Le cedole di
tesoreria, pp. 21-22; G. Vitale, Araldica e politica. Statuti di Ordini cavallereschi
“curiali” nella Napoli aragonese, Salerno 1999, pp. 60-62 nota 37).
182
Imma Petito
cum graciose lettere et digne parole, ha mandata ad presentare ad
questo signore re nostro, pregandolo instantissimamente la voglia
pigliare etc. 40.
Il legato, poi, informò il suo signore su quanto la corte aragonese fosse impegnata a lavorare, proprio sui capitoli dell’ordine:
La maiestà sua, nanti che habia voluto aceptare, ha voluto bene
intendere et fare vedere et examinare li capituli et obligatione de
dicta impresa, se sonno de natura che habiano ad despiacere ad
altri. Et cognossuto che non gli è cosa da farne gran caso, excepto
de uno capitulo, circa la natura del quale non me extendo, perché
facio pensero, tolto haverà esso signore re la dicta impresa, mandarne la copia de tuti, ha deliberato sua maiestà aceptarla et credo
domenica proxima, che serano XVIII del presente, l’aceptarà cum
quelle cerimonie che se recerca. Et allora avisarò etiam vostra excellentia che cosa sia questa Garatera, che me pare intendere sia
uno cerchio d’oro, ornato de petre, che se porta alla gamba, ma
non l’ho veduta ancora 41.
Quello che emerge da questa missiva è ragguardevole rispetto al processo che precede, in genere, l’investitura, ovvero la
presentazione dei capitoli dell’ordine, l’analisi dei contenuti e
degli obblighi in essi racchiusi. Dimostra, altresì, come la membership implichi conseguenze tutt’altro che formali, tant’è che il
re ritenne opportuno escludere un capitolo tra quelli presentati.
L’elezione al rango di cavaliere di un ordine monarchico curiale 42 era l’espressione più significativa di un’alleanza e implicava
fedeltà, lealtà, comunione di intenti ecc. Non mi dilungherò in
questa sede sugli ordini cavallereschi e sul dibattito storiografico
ad essi collegati, né a illustrare l’uso sapiente e strategico delle
imprese da parte di Edoardo IV e di Ferrante, né a spiegare le
40
ASMi, SPE, Napoli, 213, 21, Antonio da Trezzo a Francesco Sforza (Aversa, 11 novembre 1465).
41
ASMi, SPE, Napoli, 213, 21, Antonio da Trezzo a Francesco Sforza (Aversa, 11 novembre 1465).
42
Cfr. Boulton, The Knights of the Crown cit., pp.96-166. Keen, Chivalry
cit., pp. 16-26.
Le geografie della diplomazia aragonese
183
motivazioni politico-diplomatiche per ciascun conferimento;
tenterò di chiarire soltanto come e in che misura il re di Napoli
influenzò lo York nelle scelte dei canditati al cavalierato della
Giarrettiera.
Il re inglese, infatti, nominò al rango di cavalieri diverse personalità della penisola italiana – oltre al re di Napoli (1464) – in
successione 43: Francesco Sforza, duca di Milano (prima
dell’aprile 1463, non fu eletto perché probabilmente non accettò le insegne), Iñigo d’Avalos, conte di Monteodorisio e gran
camerario del Regno (1467), Federico da Montefeltro (1475),
Ercole d’Este, duca di Modena e Ferrara (1480)44. Queste nomine appaiono sufficientemente significative se rilette e collocate in un contesto politico-diplomatico più ampio e all’interno
del quale il re di Napoli operava come un elemento chiave nei
piani di Edoardo IV.
Basta considerare che Federico da Montefeltro fu al costante servizio del Regno e del papato, che Iñigo d’Avalos era uno
dei personaggi più in vista della corte aragonese, nonché consigliere diretto di Ferrante, e che Ercole I d’Este era marito di
Eleonora d’Aragona, figlia del re napoletano. Nelle scelte di
Edoardo IV si legge in trasparenza, pertanto, la ferma regia di
Ferrante, il quale, a mio avviso, contribuì largamente a plasmare
la linea politica peninsulare del re inglese.
Sembra altrettanto significativo che tutti loro fossero anche
stati eletti membri dell’ordine dell’Ermellino 45; l’appartenenza a
43
Per Francesco Sforza e Iñigo d’Avalos, non c’è la conferma della
loro elezione; v. Clough, The Order of the Garter cit., p. 55.
44
Clough, The Order of the Garter cit., pp. 50-62; cfr. anche H. E. L.
Collins, The Order of the Garter 1348-1461. Chivalry and Politics in Late Medieval England, Oxford 2000, p. 185 nota 135. Per una lista di tutti i cavalieri
della Giarrettiera durante il regno di Edoardo v. Beltz, Memorial cit., pp.
clxiii-clxvi; 6-33.
45
Boulton, The Knights of the Crown cit.; per l’ordine della Giarrettiera
v. pp. 96-166. Keen, Chivalry cit., pp. 397-426, cfr. Vitale, Araldica e politica cit.
184
Imma Petito
quest’ultimo si configurava, anzi, come uno dei prerequisiti cardine per la nomina nel “circolo” della Giarrettiera.
Uno schema di alleanze che si completa con l’inclusione del
re Giovanni II d’Aragona, zio di Ferrante 46, impegnato a reprimere la spinta secessionista catalana scoppiata in Cerdagne e
Rossiglione, sostenuta dagli angioini e dal re di Francia.
Possiamo cautamente supporre che le scelte operate dal re
inglese in termini di candidati al cavalierato della Giarrettiera nel
contesto italiano (e internazionale, con specifico riferimento al
ramo Trastámara), siano state largamente influenzate dal secondo aragonese. Il ruolo di Ferrante si rivelò strategico per le manovre politiche di Edoardo IV anche in ambito internazionale e
soprattutto nei confronti della corona d’Aragona. Nel piano antifrancese di Edoardo IV, il re Giovanni II si configurava come
un alleato altrettanto indispensabile. Con la strategia anglonapoletana si assiste ad una molteplice riproposizione di schemi
diplomatici entro i quali gli ordini cavallereschi costituiscono il
fulcro.
Un laboratorio per la diplomazia: le Fiandre
Tornando alla NDH e al rapporto tra geografia e diplomazia, il focus va diretto sulle dimensioni spaziali della pratica negoziale anglo-napoletana e sulla centralità delle Fiandre 47 come
fulcro del flusso informativo e di distribuzione delle notizie – in
larga parte sostenuto dai circuiti mercantili fiorentini e toscani –
tra Londra e la Penisola. Questo spazio geografico fu strategico
dal punto di vista socioeconomico e politico-diplomatico e, anche, nel quadro delle relazioni tra Ferrante e Edoardo IV.
46
Il re inglese nominò ed elesse al rango di cavalieri dell’esclusivo
ordine anche Carlo il Temerario, Ferdinando re di Castiglia e d’Aragona,
figlio di Giovanni II, zio di Ferrante e, infine, Giovanni II, re del Portogallo cfr. Beltz, Memorial cit., pp. CLXIII-CLXVI; 6-33; Clough, The Order of
the Garter cit., pp. 50-62.
47
Mi riferisco, in questa occasione, esclusivamente alla contea delle
Fiandre.
Le geografie della diplomazia aragonese
185
L’asse Fiandre-Inghilterra 48 e la rete dei mercanti e banchieri
italiani operanti tra Bruges e Londra è stato recentemente oggetto di una ricerca che fornisce un interessante diagramma dei
movimenti delle compagnie 49. La posizione geografica dei territori sotto il controllo di Filippo il Buono, poi di Carlo il Temerario fu determinante per il consolidamento del peso economico, politico e militare dei duchi di Borgogna nel XV secolo 50. Le
città fiamminghe costituivano un punto di passaggio necessario
per raggiungere l’Inghilterra.
La presenza nelle Fiandre di oratori provenienti da tutta Italia estende le opportunità di confronto nell’analisi di uno stesso
fatto e consente, al tempo stesso, di valutare le molteplici espe48
Sulle relazioni tra Borgogna e Inghilterra v. M. R. Thielemans,
Bourgogne et Angleterre, Relations politiques et économiques entre les Pays-Bas bourguignons et l’Angleterre, 1435-1467, Bruxelles 1966.
49
F. Guidi Bruscoli, Mercanti-banchieri fiorentini tra Londra e Bruges nel
XV secolo in Mercatura è arte. Uomini d’affari toscani in Europa e nel Mediterraneo tardomedievale, cur. L. Tanzini, S. Tognetti, Roma 2012, pp. 11-44.
50
Sui rapporti commerciali, culturali e artistici tra le Fiandre e la Penisola, mi limito qui a citare: Europe’s Rich Fabric. The Consumption, Commercialisation, and Production of Luxury Textiles in Italy, the Low Countries and
Neighbouring Territories (Fourteenth-Sixteenth Centuries), cur. B. Lambert, K.
Wilson, London - New York 2019; L. Galoppini, Mercanti Toscani e Bruges
nel tardo Medioevo, Pisa 2014; F. Veratelli, À la mode italienne. Commerce du
luxe et diplomatie dans les Pays-Bas méridionaux, 1477-1530. Édition critique de
documents de la Chambre des comptes de Lille, Lille 2013; B. Lambert, The city,
the duke and their banker. The Rapondi family and the formation of the Burgundian
state (1384-1430), Turnhout 2006; P. Stabel, Venice and the Low Countries:
Commercial Contacts and Intellectual Inspirations, in Renaissance Venice and the
North. Crosscurrents in the Time of Bellini, Dürer, and Titian, cur. B. Aikema,
B. L. Brown, New York 1999, pp. 30-43; R. de Roover, Money, Banking
and Credit in Medieval Bruges. Italian Merchant-bankers, Lombards, and MoneyChangers. A Study in the Origins of Banking, London - New York 1999; G.
Petti Balbi, Mercanti e nationes nelle Fiandre. I genovesi in età bassomedievale, Pisa 1996. Per uno sguardo d’insieme sulle relazioni culturali e diplomatiche tra il regno di Napoli sotto Alfonso il Magnanimo e le Fiandre, v. C.
Challéat, Dalle Fiandre a Napoli. Committenza artistica, politica, diplomazia al
tempo di Alfonso il Magnanimo e Filippo il Buono, Roma 2012.
186
Imma Petito
rienze di vita di attori diplomatici provenienti da contesti diversi. In questa direzione, per il tramite dei Paesi Bassi è possibile
uno sguardo diverso – da quello tradizionale – sulle relazioni tra
il Regno, la Penisola e l’Inghilterra.
Questo punto d’osservazione (geografico) permette la riformulazione del questionario d’indagine rispetto alla negoziazione, perché dilata il panorama ad attori e pratiche nuove. In
altre parole, il superamento di una visione bipolare delle relazioni (in questo caso Napoli-Londra) consente di privilegiare le
connessioni e le interazioni sociali e, tra le altre, di superare la
tradizionale divisione tra diplomazia formale e informale. Le
Fiandre, quindi, nel Quattrocento, erano un luogo di incontro
di differenti diplomazie su scala europea. Faticosi negoziati e
trattati ufficiali ebbero luogo a Bruges e in altre città fiamminghe. Nel corso del XV secolo la presenza di oratori, ambasciatori e corrispondenti diventò sempre più numerosa e stabile,
dando vita a un fitto e quasi giornaliero scambio di lettere con
le corti di appartenenza. La ragione dell’intensificarsi di queste
reti si può riconoscere nella centralità dei Paesi Bassi come insostituibile crocevia per la circolazione delle informazioni tra il
regno d’Inghilterra e la Penisola. In tale contesto, si osserva la
proliferazione di strumenti informativi che includevano la corrispondenza diplomatica, in larga parte, quella tra gli ambasciatori
milanesi in Borgogna, Francia e Inghilterra e i duchi di Milano,
e le lettere redatte da mercanti e banchieri. A ciò si aggiungevano le conversazioni orali e informali tra gli stessi attori. Tali dispositivi di comunicazione si diffondevano attraverso corrieri,
messaggeri, mercanti e ambasciatori.
Da tale ampio panorama trarrò soltanto pochi esempi soprattutto durante le Guerre delle Rose. In questa congiuntura
politica le città fiamminghe, più sicure di Londra, divennero
uno snodo strategico per la circolazione e lo smistamento delle
notizie provenienti dall’Inghilterra. Gli ambasciatori erano soliti
Le geografie della diplomazia aragonese
187
raccogliere notizie giunte dai mercanti a Londra e poi inserirli
nei loro report 51.
È significativo – a proposito dell’importanza di Bruges – un
passaggio contenuto in una lettera di Pietro Alipandro, oratore
milanese in Borgogna, al duca Galeazzo Maria Sforza. In
quell’occasione, l’ambasciatore riferì allo Sforza della sua permanenza nella città fiamminga, presumibilmente, a casa Portinari; da lì rese noto di ricevere costantemente aggiornamenti su
quanto stava accadendo in Inghilterra 52.
Questa missiva, più di altre, mette in chiaro immediatamente il ruolo di Bruges come punto strategico (e sicuro) d’osservazione e di ricezione dei fatti dell’«insula» e, al contempo, illumina quali furono gli spazi in cui il flusso informativo dall’Inghilterra veniva vagliato e, poi, trasmesso a sua volta. Mi riferisco alla casa del mercante fiorentino, manager della filiale del
banco Medici di Bruges, Tommaso Portinari, di cui parlerò, però, più dettagliatamente nella prossima sezione.
Come accennato in precedenza, Bruges fu tappa necessaria
per i legati diretti in Inghilterra, Borgogna e Francia, per la sua
posizione geografica – dunque dal punto di vista logistico degli
spostamenti – ma anche per le molteplici opportunità che essa
poteva offrire in termini di sociabilità. Fu in queste città che gli
51
In riferimento alle reti informative dei mercanti: «[…] erano naturalmente in prima linea nel proporsi come collettori continui di informazioni di ogni genere e come potenziali serbatoi di mediatori e agenti diplomatici», I. Lazzarini, I circuiti mercantili della diplomazia italiana nel Quattrocento, in Governo dell’economia: Italia e Penisola Iberica nel basso Medioevo, cur.
L. Tanzini, S. Tognetti, Roma 2014, pp. 155-177, partic. p. 165. Sulla definizione di circuito v. Réseaux marchands et réseaux de commerce: concepts récents, réalités historiques du Moyen Âge au XIXe siècle, cur. D. Coulon, Strasbourg 2010.
52
D’ora in avanti citerò direttamente l’edizione in inglese della corrispondenza degli ambasciatori milanesi, non potendo disporre della documentazione originale. «I am not going to England, as I can watch this
parliament from Bruges. I am awaiting some secret courier, to wit the
one whom Martino da Sexto spoke of here in the house of Thomas Portenaro», CSP, Milan, p. 172, (Bruges, 31 dicembre 1472).
188
Imma Petito
ambasciatori ebbero modo di comunicare tra loro e relazionarsi,
di preparare al meglio le pratiche di negoziazione. La permanenza nelle Fiandre era un’occasione formativa per i legati e, in
questo processo, i mercanti in loco predisponevano una prima
forma di assistenza di know how locale.
È quanto emerge in una lettera, ancora dell’Aliprando, questa volta a Cicco Simonetta, consigliere e segretario del duca di
Milano 53. Il legato milanese segnalava la presenza, nella città di
Anversa, dei seguenti oratori: Francesco Bertini, ambasciatore
del re di Napoli 54, Leonardo Bembo al servizio di Venezia e
quello pontificio, Luca di Tollenti, vescovo di Sebenigo, anche
lui veneziano.
La compresenza è significativa se inserita in uno scenario
politico-diplomatico più ampio. Il vescovo d’Andria, infatti, nel
gennaio del 1472 si trovava in Borgogna per ratificare, a nome
di re Ferrante, i capitoli della Lega di Saint Omer (1° novembre
1471) 55. Questa coalizione univa la Borgogna, l’Inghilterra,
l’Aragona e il regno di Napoli 56. La Repubblica veneziana, il 18
53
«The Venetian Ambassador, Leonardo Bembo, who is here with
the Bishop of Capaz, Ambassador of King Ferrando, and the Bishop of
Sebenigo on behalf of the pope, who is also a Venetian», CSP, Milan, p.
163 (Anversa, 4 ottobre 1472). In un’altra missiva (Gravelines, 25 novembre 1472) Aliprando riferisce che il vescovo è ancora lì insieme al
legato pontificio, CSP, Milan, pp. 64-68; cfr. sulle missioni degli ambasciatori napoletani in Inghilterra negli anni Settanta del ‘400, Petito,
L’accerchiamento antiangioino cit., pp. 19-30.
54
Il Bertini, forse originario di Lucca, servì, in qualità di diplomatico,
alcuni personaggi di chiesa, tra il 1450 e il 1460 e dal 1465 Ferrante. Grazie
all’influenza del re aragonese ottenne il vescovado d’Andria (20 ottobre
1465) e poi di Capaccio (18 settembre 1471), v. I. Walter, Bertini, Francesco,
in Dizionario-Biografico degli Italiani, IX, Roma 1967, ad vocem. Cfr. R. J.
Walsh, Charles the Bold and Italy 1467-1477. Politics and personnel, Liverpool
2005, p. 196 nota 6; Petito, L’accerchiamento antiangioino cit., p. 22; Vespasiano Da Bisticci, Le vite, ed. A. Greco, I, Firenze 1970, pp. 289-290.
55
Petito, L’accerchiamento antiangioino cit., pp. 19-30.
56
Sul trattato si vedano R. Vaughan, Charles the Bold: the last Valois
duke of Burgundy, Woodbridge 2002, pp. 75-80 e relativa bibliografia; M.
Jacoviello, Venezia e Napoli nel Quattrocento. Rapporti fra i due Stati e altri sag-
Le geografie della diplomazia aragonese
189
giugno del 1472 a Péronne, strinse federazione con il duca di
Borgogna rafforzando, dunque, ulteriormente il fronte antifrancese e la Lega 57. Le tensioni politiche d’Oltralpe favorirono anche l’intesa tra Ferrante e la Repubblica veneta (1471), culminate in un accordo di quindici anni 58. Non è possibile, dunque,
escludere del tutto che questa compresenza nelle città fiamminghe di più ambasciatori abbia favorito la comunicazione e la negoziazione, anche tra le potenze italiane. Tornando alla missiva,
l’ambasciatore riferì anche del soggiorno di un altro legato,
quello del duca di Bretagna 59.
Questi particolari restituiscono appieno quanto detto in
precedenza rispetto al ruolo delle Fiandre, spazio nel quale gli
ambasciatori preparavano puntualmente le loro pratiche, avvalendosi di un cospicuo materiale informativo e mantenendo un
costante confronto con altri inviati. Possiamo ipotizzare che le
stesse ragioni furono anche alla base del soggiorno a Bruges,
piuttosto lungo – tanto da destare sospetto a Luchino Dalla
Chiesa – dell’ambasciatore del re di Napoli 60 Bertini inviato in
Inghilterra dall’inizio del mese di aprile ad agosto del 1469 61.
Un network mercantile napoletano tra Bruges e Londra?
La ricorrenza a un uomo d’affari con funzioni diplomatiche
o paradiplomatiche fu frequente nel basso medioevo e in uno
gi, Napoli 1992, pp. 56-59; R. Fubini, Italia Quattrocentesca. Politica e diplomazia nell’età di Lorenzo il Magnifico, Milano 1994, p. 330, e Pontieri, Per la
storia del regno cit., pp. 251-262. Rispetto al contesto statuale europeo rimando a Watts, The making of polities cit., pp. 339-419.
57
Jacoviello, Venezia e Napoli cit., p. 59.
58
Ivi, p. 56.
59
«The Ambassador of Britanny, indeed, has remained here to negotiate some truces», CSP, Milan, p. 163 (Anversa, 4 ottobre 1472).
60
«The ambassador of the King of Naples left several days ago and
is still at Bruges. I have never been able to learn the reason for his coming», CSP, Milan, p. 134, Luchino Dalla Chiesa a Galeazzo Maria Sforza
(Londra, 16 agosto 1469).
61
Petito, L’accerchiamento antiangioino cit., pp. 19-30.
190
Imma Petito
spazio sociale in cui i meccanismi di differenziazione dei saperi
e di specializzazione funzionale delle figure professionali furono
abbozzati ma ancora indefiniti. I lavori di Lazzarini hanno dimostrato per il Quattrocento italiano quanto spesso il ruolo di
mercante si aprisse a quello di informatore, consigliere politico,
diplomatico e ambasciatore 62. L’intersezione mercatura/informazione/diplomazia, tangibile appieno nelle Fiandre come «plaque tournante» del commercio europeo 63, trova conferma nella
prassi diplomatica aragonese e nelle relazioni con Borgogna e
Inghilterra.
La distanza tra il Regno di Napoli e l’«insula» giocò, senz’altro, un ruolo determinante nel coinvolgimento di una moltitudine di attori e agenti della mediazione, nel sistema di informazione e comunicazione tra i due sovrani.
Le ambizioni di Ferrante, oltre che politiche, erano anche
ovviamente economiche e ciò è evidente dalla presenza, tra le
Fiandre, Southampton e Londra, di un numero cospicuo di galee del Regno 64. «Galley of our brother, the king of Naples»;
62
Figure studiate sono, per esempio, quelle di Bonaccorso di Neri
Pitti (1354- 1432) e Giovanni di Orsino Lanfredini (1437-1490). Su mercatura e diplomazia cfr. Lazzarini, I circuiti mercantili cit., pp. 155-177; Id.,
Mercatura e diplomazia: itinerari di mobilità sociale nelle élite italiane, qualche esempio fiorentino, XV secolo, in Mobilità sociale nel Medioevo italiano: competenze, conoscenze e saperi tra professioni e ruoli sociali (secc. XII-XV), cur. L. Tanzini, S.
Tognetti, Roma 2016, pp. 273-297; E. Scarton, Giovanni Lanfredini. Uomo
d’affari e diplomatico nell’Italia del Quattrocento, Firenze 2007; N. Di Cosmo L. Pubblici, Venenzia e i Mongoli. Commercio e diplomazia sulle vie della seta nel
medioevo, Roma 2022; Lettere e registrazioni di mercanti-banchieri e ambasciatori
per la storia di Roma nel contesto italiano ed europeo (XIV-XVI secolo), cur. A.
Fara, E. Plebani, Roma 2022.
63
Veratelli, À la mode italienne cit.
64
A tal proposito David Abulafia scrive: «Ferrante […] intendeva
inoltre armare una flotta regale le cui galee potessero raggiungere terre
lontane come l’Inghilterra […]», D. S. H. Abulafia, I regni del Mediterraneo
occidentale dal 1200 al 1500. La lotta per il dominio, Bari 2012 (ed. or. The
Western Mediterranean Kingdoms 1200-1550. The Struggle for Dominion, London 1997), p. 227.
Le geografie della diplomazia aragonese
191
questa espressione è conservata in una lettera 65 scritta da
Edoardo IV indirizzata a Thomas Cook, mercante di stoffe e
uomo d’affari inglese, attivo a Londra tra la prima e la seconda
metà del XV secolo 66. Lo York chiese al Cook – il quale deteneva diverse proprietà in città, usualmente cedute in affitto a mercanti italiani – di favorire uomini del re Ferrante nella ricerca di
alloggi:
The captain and patron of the galley of our brother, the king of
Naples, have been with us and asked for a place in the city of
London for the factors of their king. They consider your place
65
Questa missiva è contenuta in un manoscritto del XV secolo, oggi
conservato presso la Brtish Library di Londra noto come John Vale’s Book
e edito in The politics of Fifteenth-Century England John Vale Book, edd.,
Stroud 1995 (cfr. BL, Ms, Add. 48031). Dal 1460 al 1484, John Vale fu
un collaboratore di Thomas Cook. Vale trascrisse gran parte dei documenti conservati nell’archivio della famiglia Cook presso la quale era impiegato. Il manoscritto contiene atti ufficiali concernenti economia, amministrazione, governo e politica di Londra, in particolare lettere del re
indirizzate al Mayor della città, conservati dalla famiglia Cook (padre e poi
il figlio) grazie all’espletamento dello loro cariche e, al contempo, corrispondenza e altro materiale concernenti la vita privata di Thomas.
L’archivio, oggi non più esistente (potrebbe essere paragonato per natura
e composizione a quello del mercante Francesco Datini), sopravvive nella trascrizione fatta dal Vale. Quest’ultimo operò una selezione dei documenti più significativi. Per l’origine del manoscritto v. The politics of Fifteenth-Century cit., pp. 103-123; per quanto in esso è contenuto, ivi, pp.
127-268.
66
Thomas Cook (1410-1478) fu un mercante inglese, esponente di
un’importante famiglia di uomini d’affari e politici londinesi, figlio del già
noto Robert, impegnato nelle attività commerciali di Londra. Cook ricoprì anche cariche politiche di rilievo: Sheriff of London dal 1453–1454, alderman dal 1456 e membro del parlamento della città dal 1460 al 1470 e
Lord Mayor per l’anno 1462–1463; sul personaggio cfr: The politics of Fifteenth-Century, pp. 74-103; A. P. Beaven, The Aldermen of the City of London
Temp. Henry III – 1912, London 1908, pp. 1-20; 159-168.
192
Imma Petito
where Staldo Altoviti once lived suitable, and we trust you will
lease it to them at the usual rate 67.
Si tratta, presumibilmente del comandante Agnello de’ Pericho 68 che, come vedremo, fu un protagonista chiave del commercio aragonese, tra Londra, Southampton e Bruges. Inoltre,
nella missiva è esplicito il riferimento al circuito mercantile fiorentino e a Stoldo Altoviti 69, personaggio, a mio avviso, cruciale
nella trasmissione del flusso informativo napoletano in Inghilterra, tra gli anni Sessanta e Settanta del ‘400. Egli apparteneva
alla nota famiglia fiorentina Altoviti e Londra era il centro precipuo dei suoi interessi 70. Lo stesso mercante dovette, infatti,
segnalare l’alloggio di Cook ai napoletani e supportarli anche
nel loro soggiorno in città. Fu, in più occasioni, al servizio di
Ferrante e Federico da Montefeltro, in qualità di portavoce alla
corte inglese e di messaggero, in una congiuntura politicodiplomatica cruciale nelle relazioni tra Napoli-Londra,
67
Questa edizione, così come tutte le altre del John Vale’s Book, è stata da me modificata perché in inglese antico, The politics of Fifteenth-Century
cit., p. 169.
68
Scarse le notizie biografiche. Un certo «Anell de Naple» figura
come mercante residente a Londra insieme alla moglie «Katherine de
Naples», TNA, E/179/236/85 (29 settembre, 1441). In TNA, E
179/235/58 (9 agosto, 1456) è registrato il pagamento di tasse, in qualità
di mercante residente straniero, di «Angell de Naplus». Sulle comunità di
stranieri in Inghilterra e, in particolare, a Londra, cfr: Immigrant England,
1300–1500, cur. W. M. Ormrod, B. Lambert, J. Mackman, Manchester
2019; The Views of the Hosts of Alien Merchants, 1440-1444, cur. H. Bradley,
London 2012. V., anche, il database online England’s Immigrants 13301550.
Resident
Aliens
in
the
Late
Middle
Ages
https://www.englandsimmigrants.com/ [Ultimo accesso 01/11/2023].
69
Molto scarse le notizie biografiche disponibili; sulla famiglia fiorentina Altoviti v. L. Passerini, Genealogia e storia della famiglia Altoviti, Firenze 1871.
70
Tre furono i membri della famiglia Altoviti di nome Stoldo che
vissero in anni corrispondenti a quelli del mercante qui citato: Stoldo di
Simone e Caterina di Carlo, Stoldo di Giovanni e di Tita di Cristofano,
Stoldo di Niccolò e di Caterina di Antonio, cfr. Passerini, Genealogia e storia cit., pp. 36-88.
Le geografie della diplomazia aragonese
193
all’interno della quale – come detto in precedenza – si inserisce
il conferimento dell’ordine della Giarrettiera al duca di Urbino.
Altoviti fu raccomandato più volte da Federico al re inglese e a
esponenti della sua corte 71:
Quotiens acciderit quod Dominatio Vestra velit ad me litteras dare, poterit tuto mittere per manus Stoldi de Altovitis mechatoris
Florentini, qui est Londris quique est optimis moribus praeditus
et mecum summa benevolentia coniunctus 72.
Agì, quindi, in qualità di informatore e messaggero. A lui
venivano recapitate lettere dalla Penisola a Londra e viceversa 73.
Una cedola della tesoreria napoletana dell’11 luglio 1471
traccia il pagamento di 66 ducati in favore di Leonardo Fiorentino 74, per i suoi viaggi da e verso Bruges 75. A quest’ultimo era
affidato il compito di ricevere le lettere dell’ambasciatore Francesco Bertini, contenenti notizie dei successi di Edoardo IV, e
di recapitare messaggi di Ferrante diretti al medesimo legato.
Dunque, per la trasmissione delle lettere e delle istruzioni il re di
Napoli si servì dei mercanti fiorentini diretti nelle Fiandre; da lì
la corrispondenza veniva poi, affidata ad altri uomini d’affari
per essere recapitata a Londra, o direttamente all’ambasciatore,
se di stanza a Bruges o nelle altre città fiamminghe.
71
Si tratta di Thomas Bourchier (1412-1486) arcivescovo, lord cancelliere e cardinale inglese, Richard Beauchamp (1435 c.-1503), barone di
Beauchamp e cavaliere di Bath, Thomas Rotherham (1423-1500), lord
cancelliere e, tra le altre, arcivescovo di York.
72
Federico da Montefeltro Duca d’Urbino. Lettere di stato e d’arte (14701480), ed. P. Alatri, Roma 2011, p. 72.
73
Federico da Montefeltro cit., pp. 58-59; 64-67; 70-73; 77-78; 89-90.
74
Non è stato possibile identificarlo; molto probabilmente si tratta di
Leonardo Spinelli, mercante toscano operante in quegli anni a Napoli,
insieme ad Alessandro Bardi, cfr. M. Jacoviello, Affari di Medici e Strozzi
nel regno di Napoli nella seconda metà del Quattrocento, «Archivio Storico Italiano», 144/2 (1986), pp. 169-196.
75
Barone, Le cedole di tesoreria cit., p. 60; cfr. Petito, L’accerchiamento antiangioino cit., pp. 21-22.
194
Imma Petito
Non solo, Ferrante si servì della rete bancaria fiorentina presente a Napoli per trasferimenti sicuri di denaro e lettere di
cambio a vantaggio degli oratori napoletani impegnati in missioni diplomatiche fuori dal contesto peninsulare. A tal proposito, una cedola del 20 settembre 1468 attesta che Pere Bernat,
reggente della Tesoreria regia, pagava tramite la filiale napoletana del banco di Filippo Strozzi 280 ducati al Bertini, in vista
della sua spedizione in Francia e in Inghilterra 76. Occorre notare
come il Banco Strozzi potesse potenzialmente garantire agli
ambasciatori un supporto finanziario continuo, oltre che nella
capitale del regno, a Bruges e in diverse città del nord Europa,
per il tramite delle altre diramazioni dello stesso banco.
In precedenza, si è accennato al ruolo svolto da Tommaso
Portinari (1428-1501) 77, uomo d’affari e manager del banco Medici della filiale di Bruges, a partire dall’aprile 1465. In questa
sede non mi dilungherò molto sul personaggio, ma illustrerò
come, il suo network servì oltre che i duchi di Milano e quelli di
Borgogna, anche Napoli.
Nato da una nota famiglia fiorentina di mercanti, Tommaso
appena adolescente si trasferì nella città fiamminga per imparare
l’arte del commercio al fianco dello zio Bernardo (1407-1455),
direttore del banco Medici della città. Affiancò altri governatori
della filiale medicea come Gerozzo de’ Pigli e Agnolo Tani
(1415-1492). Egli poté beneficiare, così come altri mercanti, di
contesti operativi legati all’esercizio della professione, avvalen-
76
Dopo il 1465 famiglie in vista di mercanti fiorentini, come, per
esempio, gli Strozzi, i Medici, ma anche Gondi, Pandolfini e Nasi erano
tornati nel Regno per lo svolgimento dei loro affari. Riguardo la presenza
dei mercanti fiorentini Medici e Strozzi nel Regno mi limito qui a citare
Jacoviello, Affari di Medici e Strozzi cit., pp. 169-196.
77
La bibliografia sul personaggio è imponente e nota, soprattutto per
quel che concerne il suo ruolo di consigliere presso i duchi di Borgogna.
Cfr.: Correspondance de la filiale de Bruges des Medici, ed. A. Grunzweig, Bruxelles 1931; R. De Roover, The rise and decline of the Medici bank 1397-1494,
Washington 1999; Walsh, Charles the Bold and Italy cit.; Guidi Bruscoli,
Mercanti-banchieri fiorentini cit.
Le geografie della diplomazia aragonese
195
dosi dei metodi e delle competenze derivanti direttamente dalla
propria ars.
Queste figure, dalle culture e dai saperi diversi da quelli di
un ambasciatore, svolgevano un effettivo servizio diplomatico
(nel caso di Portinari, presso i duchi di Borgogna e Milano) e
collaboravano in modo decisivo anche alla raccolta e alla trasmissione delle informazioni. Ad esempio, Francesco Maletta,
ambasciatore milanese in Francia, affidò al Portinari alcune lettere indirizzate al legato del re di Napoli 78 in Inghilterra 79.
La permanenza nella città fiamminga, poi il ruolo di direttore della filiale, consentirono al mercante fiorentino di realizzare
e coltivare la sua rete sociale e relazionale – quindi un circuito
personale e professionale – composto da altri mercanti fiorentini a Bruges e Londra 80 e da colleghi del banco Medici della città
inglese 81, di Milano 82 e di altre filiali italiane.
Tuttavia, anche gli ambasciatori milanesi, borgognoni, napoletani, veneziani e pontifici costituirono una componente essenziale della rete del Portinari e ciò grazie anche al suo incarico di
78
Si tratta di Turco Cicinello.
«The king complained to me about an ambassador of King Fernando, who was in England and was negotiating peace between the English and the King of Spain. He said that I should write to him, and accordingly I did so at once, urging him to desist from this business. I sent
the letters to Thomaxo Portanari, to send to him. Since then, the king
has told me that the ambassador has gone to Spain for this agreement.
Your lordship may see fit to advise King Ferdinand getting him to write
that he must not meddle with this but attend to his principal embassy»,
CSP, Milan, p. 113 (Abbeville, 11 settembre 1464).
80
Per esempio, Portinari sposò Maria, figlia naturale di Francesco di
Giovanni di Piero Bandini Baroncelli, anche legata con i Pazzi; la filiale
dei Pazzi a Bruges era diretta da Pier Antonio di Gaspare di Piero Bandini, la cui sorella, inoltre, era andata in sposa a Lorenzo di Matteo Strozzi,
che pure operava sulla medesima piazza.
81
Simone Nori, Gherardo Canigiani, Giovanni de’ Bardi, Tommaso
Guidetti.
82
Mi riferisco ai fratelli Portinari, Pigello e Accerito.
79
196
Imma Petito
consigliere di Filippo il Buono, prima, e poi di Carlo il Temerario.
Portinari sviluppò e consolidò, progressivamente, conoscenze e abilità connesse alla sua professione (hard skills), essenziali per condurre con efficacia l’attività di mercatura. Parallelamente, egli accrebbe le cosiddette competenze trasversali (soft
skills) che comprendevano qualità personali e relazionali. Inoltre, acquisì specifiche competenze linguistiche dimostrando una
fluente padronanza del francese, una conoscenza basilare del
fiammingo e, molto probabilmente del latino.
Queste abilità permisero al mercante fiorentino, tra le altre,
di servire i duchi di Borgogna e Milano, in attività diplomatiche
e paradiplomatiche. La rete del Portinari favorì la corte napoletana e le altre della Penisola anche indirettamente, fornendo una
narrazione dettagliata e continua degli scontri tra Lancaster e
York. Attraverso la corrispondenza con Cosimo e Lorenzo de’
Medici 83 nota anche alla corte sforzesca 84, e diffusa, in specie,
83
Di seguito alcuni esempi tratti dalla corrispondenza con Cosimo.
Tommaso Portinari a Cosimo de Medici (Bruges, 15 giugno 1464): «[…]
io vi scrissi utimamente d’Anversa donde mi parti per essere a Lilla, dove
si truova questo Signore e ‘I figluolo chon tutta la Corte, per alchune
buone facende. E tornando, ho trovato questo aportatore che parte per
Milano e non hò tempo a scrivervi a lungho. Voi arete inteso delle nuove
d’Inghilterra del ducha di Somsestri […]. Il Re Adouardo avea avuto la
più parte di que’ luoghi teneva e doverrà dipoi avere avuto tutto e resta
pacificho Re d’Inghilterra […]. Vervych dichono verrà in brieve a Chalese e, ancora, che la voce sia per chagione di questa gornata, io stimo che
piutosto sia per altra chagione. La praticha, dettavi in altra, seghuita e
spero che arà buona chonclusione e tutto passa per mio mezzo, di che
spero, mediante la grazia di Dio, aquisteremo honore e utile […]», Correspondance de la filiale cit., pp. 138-140; cfr.; Correspondance de la filiale cit., pp.
125-128, Tommaso Portinari a Cosimo de Medici (Bruges, 29 aprile
1464).
84
Qualche stralcio conservato presso ASMi: Lettera di Tommaso
Portinari (Bruges, 18 aprile 1468): «When I was returning here from the
Court, I met on the way the person who was sent to England on the
matter of the dispensation of the marriage. From him and also by letters
thence I learned how, by the counsel of the king, it had been concluded,
Le geografie della diplomazia aragonese
197
attraverso una rete di ambasciatori presso le maggiori potenze
italiane.
In altre parole, le notizie che giungevano a Milano grazie ai
report di Portinari – e alla corrispondenza con i suoi fratelli Pigello e Accerito, a capo della filiale milanese – rimbalzavano,
poi, da un ambasciatore all’altro, da una corte all’altra. Il mercante fiorentino era particolarmente utile ai milanesi perché le
lettere e il denaro potevano essere trasmessi facilmente e in sicurezza tra Bruges e Milano, grazie alla presenza delle filiali medicee in entrambe le città.
Insomma, i mercanti napoletani disponevano di un giro
d’affari circoscritto rispetto a quelli dell’Italia centrosettentrionale e, dunque, di un circuito commerciale e informativo di dimensioni ridotte 85 ma, tuttavia, potevano contare
sull’intervento diretto di Edoardo IV:
When we were lately at the castle of Windsor, we sent letters asking you to lease a place of yours in the city of London to certain
that the dispensation is not good, and the legate who is in England for
the pope, who the first day had to say that it was in good form and that
he would dispense as he had orders from the pope to do, had since
changed his mind and spoken as if the matter was doubtful to him. Accordingly, the king has written to the Duke here that he wishes to have it
examined by his Council and they will act according to its finding. And
whereas the marriage was to take place the 4th of May and Madame was
to be there some days before, the king asks that the day may be postponed until the 8th of June. He was going with this news to find the
duke and I have not yet heard how his lordship received it. I fear much
that he was greatly enraged, as much because it will seem to him a thing
which proceeds from intrigue as on account of the great trouble and expense he has had to incur. You shall be advised of what ensues», CSP,
Milan, p. 122; cfr.: CSP, Milan, p. 195, copia della lettera di Tommaso
Portinari a Lorenzo de’ Medici (Bruges, 24 giugno 1475), CSP, Milan, p.
195.
85
Il fenomeno, per intensità e consistenza, non può essere, di certo,
paragonato alla presenza nelle acque britanniche delle galee genovesi, veneziane o fiorentine, cfr. Ross, Edward IV cit., p. 363.
198
Imma Petito
subjects of the king of Naples. We trust this will be done immediately 86.
Il re raccomandò più volte a Cook i mercanti e i fattori regnicoli in città, anche attraverso l’intervento di altri esponenti
della corte inglese, in particolare, di Thomas Montgomery
(1433-1495) 87.
A questi solleciti seguì la risposta dell’alderman 88, il quale giustificava il ritardo nell’esecuzione delle volontà del re spiegando
di aver affidato le sue proprietà a Gherardo Canigiani (14241484) 89, allora collaboratore di Simone Nori nella gestione della
filiale londinese del banco Medici. I mercanti fiorentini erano
soliti gestire o subaffittare immobili di uomini d’affari inglesi in
città, che di solito, cedevano ad altri membri della loro stessa
rete. Inoltre, Canigiani (come Nori e altri) possedeva proprietà a
Londra 90.
86
Lettera di Edoardo IV a Cook, The politics of Fifteenth-Century cit., p.
169.
87
Mi riferisco a una terza lettera indirizzata al Cook (non pervenuta),
scritta dal Montgomery. Quest’ultimo fu diplomatico e consigliere di
Edoardo IV, fu nominato dallo stesso cavaliere, dopo la battaglia di
Towton del 29 marzo 1461, per la fedeltà e il servizio militare svolto durante le Guerre delle Rose.
88
The politics of Fifteenth-Century cit., p. 265.
89
«It is so that now of late the king’s highness that addressed his letters to me at the time in the favour of certain merchants and factors belonging to the king of Naples, willing me to let my house, that S. N.
[Simone Nori] now kept, and right diligently they solicited me for the
answer to their pleasure which I would with good have given their inn at
the lasted desire of the king good grace, ne had so been that the kings
said highness had instantly desired me by the means of you, Master
Mongomery, and in the favour of my good friend G. Canigiani to let the
said house into him», The politics of Fifteenth-Century cit., p. 265. Su tutta la
questione v. The politics of Fifteenth-Century cit., pp. 80-81.
90
Lo stesso risulta per gli anni 1464, 1465, 1468, 1469 residente a
Londra e householder; cfr., a tal proposito, TNA, E 179/144/68, (24 aprile
1464); E 179/144/69 (24 aprile 1464); E 179/236/96/2, (16 luglio
1465); E 179/236/111, (1468c.) E 179/144/67, (14 giugno 1469). Cfr.
Immigrant England, 1300–1500 e il database online England’s Immigrants
Le geografie della diplomazia aragonese
199
Non vi è una data certa per le missive sopra citate, ma probabilmente sono da collocarsi cronologicamente tra la fine del
1464 e l’inizio del 1465, perché Cook fu, proprio in quegli anni,
alderman del distretto di Broad Street Ward e trattandosi di alloggi
e di equilibri interni alle comunità mercantili italiane presenti in
città, poté direttamente mediare la questione. Si noti, inoltre,
come Thomas Cook fu anche alderman di alcuni distretti, non
lontani da Langbourn Ward 91, tradizionalmente abitati dai mercanti dell’Italia centrosettentrionale e dove, per esempio, erano
collocate anche le stesse proprietà di Simone Nori. Inoltre,
dall’ultima lettera, si legge «by your own Sir T. Cook knight»,
titolo, quello di cavaliere, che il mercante inglese ricevette solo
nel maggio 1465 da Edoardo IV.
Questi anni furono cruciali per la costruzione dell’alleanza
Napoli-Londra e, molto intensi, dal punto di vista delle trattative. Dunque, possiamo dedurre da queste fonti la presenza anche di un circuito mercantile napoletano – facente capo a de’
Pericho – sovrapposto a quello, ben più radicato e fitto, di fiorentini e toscani. I mercanti del Regno – che godevano della
protezione dello York – parteciparono alla vita economica della
città di Londra, nella quale condividevano spazi, affari e circoli
informativi con i fiorentini e altri. In una missiva del 12 aprile
1469 a Galeazzo, Luchino Dalla Chiesa esprimeva le sue perplessità e quelle dei mercanti milanesi sulla presenza del Bertini
alla corte inglese, probabilmente lì, per convenire, tra le altre,
sulla vendita di allume 92 napoletano 93. Aspetto, del resto,
1330-1550.
Resident
Aliens
in
the
Late
Middle
Ages
https://www.englandsimmigrants.com/ [Ultimo accesso 01/11/2023].
91
Si tratta di Vintry (1456-1458), Broad Street (1458-1468), Bread Street
(1470-1471). V., a tal proposito, A. P. Beaven, Aldermen of the City of London: Langbourn ward’, in The Aldermen of the City of London Temp. Henry III –
1912, London 1908, pp. 166-172. Cook fu anche vice di John Crosby,
altro mercante londinese, alderman per i distretti di Broad Street (14681470) e Bishopsgate (1470-1476), cfr. Id., Notes on the aldermen, 1240-1500,
in The Aldermen of the City cit., pp. 159-168; Id., Chronological list of aldermen:
1400-1500, in The Aldermen of the City cit., pp. 1-20.
92
A. Feniello, L’allume di Napoli nel XV secolo, in L’alun de Méditerranée,
cur. P. Borgard, J. P. Brun, M. Picon, Napoli 2005, pp. 97-103.
200
Imma Petito
quest’ultimo, che non escluderei del tutto, data la lega internazionale (politica ed economica) del 1468 94 e la presenza di mercanti napoletani tra Londra e, come si vedrà, Southampton e
Bruges.
Per gli anni che seguono abbiamo una lettera patente
(Westminster, 3 maggio 1478) promulgata in favore del capitano de’ Pericho e della sua galea di stanza nel porto di Southampton 95.
Edoardo IV garantì la sua tutela al capitano,
all’imbarcazione del «praecarissimo Consanguineo nostro Regi
de Neapole», a tutto l’equipaggio e alla merce:
ex ratione regiae nostrae praerogativae, securitati dilecti nobis
Agnelli de Pericho, Capitanei e Patroni unius Galeasiae de Neapole, modo existentis in Portu Villae nostrae Southamptoniae, e
pertinentis praecarissimo consanguineo nostro Regi de Neapole,
prospicientes, de gratia nostra speciali e ex mero motu nostro, ne
illi aliqua violentia, arestum, districtio, sive imprisonamentum, vel
aliquod aliud detrimentum, occasione alicuius debiti, transgressionis, conspirationis, vel alicuius alterius actionis, placiti realis sive personalis, seu condempnationis ipsius Agnelli, occasione
praemissorum, seu alicuius vel cuiuscumque alterius rei sive actionis, versus praefatum Agnellum seu versus Galeasiam suam
93
«Several days ago, an ambassador of the King of Naples arrived
here; we cannot learn the reason. It is true that some of our merchants
say that he has come to obtain that no alum except that of his master’s
shall be brought to this island, but I believe he has come for a greater
matter, as he has taken a house and professes that he means to stay some
months. If I hear anything later, I will advise your lordship», CSP, Milan,
p. 128, Luchino Dalla Chiesa a Galeazzo Maria Sforza (Londra, 12 aprile
1469).
94
Si tratta di quella citata a p. 12 e che coinvolgeva potenze quali
l’Inghilterra e i re di Spagna, Aragona, Scozia, Danimarca, Portogallo,
Napoli e Sicilia.
95
Da Thomas Rymer intitolata «De Protectione pro Galeasia Regis
de Neapole», v. TNA, C 66/542, m. 24. Foedera, p. 59. Cfr. Calendar of the
Patent Rolls, preserved in the Record Office. Prepared Under the Superintendence of
the Deputy Keeper of the Records. Edward IV, Edward V, Richard III. A.D.
1476-1485, London 1901, p. 88.
Le geografie della diplomazia aragonese
201
praedictam, ad sectam seu sectas alicuius personae seu marinarii
aut aliquarum personarum vel marinariorum dictae Galeasiae, ante haec tempora habitarum sive motarum, seu imposterum, durantibus praesentibus protectione e salvagardia nostris, habendarum seu movendarum, inferatur, pro indempnitate ipsius Agnelli
prospicere volentes ut tenemur, suscepimus ipsum Agnellum, e
Deputatos suos, ac Galeasiam praedictam, una cum omnibus inde
apparatubus quibuscumque, necnon omnia bona et Catalla dicti
Agnelli mobilia e immobilia, in protectionem, tuitionem, e defensionem, e salvam gardiam nostras speciales, […] in cuius rei testimonium has literas nostras fieri fecimus patentes, per totum
tempus praesentis viagii dicti Agnelli duraturas 96.
In questa città la presenza dei mercanti del Regno non era,
allora, sporadica 97. Le ragioni di un ricorrente napoletano in un
processo indirizzato al balivo di Southampton ne sono la prova 98. Jerome 99 Compagnia, mercante e capitano di una galea
proveniente da Napoli, denunciò Paul Astrina per le attività vessatorie ai danni della sua nave e della merce in essa contenuta. Il
mercante richiese protezione al balivo e al sindaco della città.
Siamo, dunque, di fronte a forme di garanzia differenti tra
loro, esercitate dell’autorità monarchica inglese in favore dei
mercanti napoletani.
L’attività di de’ Pericho al servizio di Ferrante non fu circoscritta all’Inghilterra. È, infatti, attestata la sua presenza e quella
di altre galee napoletane a Bruges e nelle Fiandre già a partire
dal 1441 100 e, più tardi, in un processo (risolto in suo vantaggio)
dinnanzi alla corte civile della città fiamminga 101.
96
Foedera cit., p. 59
Il fenomeno, per intensità e consistenza, non può essere, di certo, paragonato alla presenza delle galee genovesi, veneziane o fiorentine, v. Ross, Edward IV cit., p. 363.
98
La datazione del processo non è certa. Si ipotizza 1475-1480 o
1483-1485, TNA, C1/64/396.
99
Girolamo.
100
SAB, Poortersboeken, 130, R. 1434-1450, f. 36v.
101
«Fut fait pardevant la plaine chambre deschevins de Bruges, entre
Jehan Reynbault, dit Bourguignon, de Chalon en Bourgogne, et Daniel
97
202
Imma Petito
A partire dagli anni Quaranta del ‘400 Agnello si mosse tra
Bruges e Londra, attraverso una partecipazione attiva nelle rispettive comunità cittadine e una collaborazione con i mercanti
del posto, e con quelli fiorentini e toscani. Sviluppò, senz’altro,
delle competenze professionali e trasversali (simili a quelle del
Portinari e ad altri mercanti del suo tempo) e di know how locale.
Fu, per tali ragioni, portavoce degli interessi economici e diplomatici di Ferrante alla corte inglese e riuscì ad ottenere, con
relativo successo, l’intervento e il sostegno diretto di Edoardo
IV per la protezione commerciale delle galee napoletane. Non
solo, de’ Pericho favorì anche la mediazione del re inglese a sostegno della comunità napoletana nella città di Londra, come si
evince dalle lettere dello York a Cook. Il capitano fu, quindi, a
mio avviso, un riferimento per mercanti e ambasciatori del Regno a Londra e Bruges. Nei progetti di Ferrante, inseriti nel più
ampio contesto di valorizzazione del potenziale economico del
regno 102, l’Inghilterra rappresentava oltre che un alleato chiave,
uno scalo commerciale di grande prestigio, strategico per
l’acquisto delle stoffe, in particolare della lana e per la vendita di
allume 103.
Il circuito mercantile regnicolo – seppur di dimensioni ridotte rispetto a quello di altre potenze italiane – con a capo
Agnello de’ Pericho contribuì ai piani ambiziosi di Ferrante. Gli
orizzonti commerciali e diplomatici di Napoli potevano, in forza di concordati e alleanze, espandersi tra le Fiandre e il regno
d’Inghilterra.
Morel de Savoye, demandeurs d’une part; et messire Agnelo Proche, capitaine des galeaches du Roy Ferrant de Naples, deffendeur d’autre part»,
Cartulaire de l’ancienne estaple de Bruges. Recueil de documents concernant le commerce
intérieur et maritime, les relations internationales et l’histoire économique de cette ville, II,
ed. L. G. Van Severen, Bruges 1904 (Bruges, 9 maggio 1474), pp. 218-219,
cfr. SAB, Civiele Sententiën, Kamer (165), 1473-1474, f. 2v.
102
Riguardo l’interventismo produttivo e commerciale della Corona
v. E. Sakellariou, Southern Italy in the Late Middle Ages. Demographic, Institutional and Economic Change in the Kingdom of Naples, c.1440-c.1530, Leiden Boston 2012.
103
Abulafia, I regni del Mediterraneo cit., p. 227.
Le geografie della diplomazia aragonese
203
Alcune note conclusive
Si è tentato qui di sperimentare l’applicazione del quadro
metodologico innovativo proposto dalla New Diplomatic History,
per lo studio delle diplomazie del Regno nel XV secolo.
L’utilizzo dei criteri propri della NDH, si è concretizzato nel
ragionare, e poi allargare la visione, sulla strategia diplomatica di
Ferrante con Edoardo IV – prendendo in esame lo ‘spazio di
mezzo’ – ovvero le Fiandre – tra Napoli e l’Inghilterra. I rapporti tra le due monarchie erano tutt’altro che sporadici, come
dimostrato dall’utilizzo strategico degli ordini cavallereschi monarchico curiali. Infatti, la dimensione euro-mediterranea delle
Guerre delle Rose favorì lo sviluppo di manovre diplomatiche
complesse ed estese all’interno delle quali l’utilizzo dell’ordine
della Giarrettiera fu cruciale. È, appunto, in questo scenario internazionale che vanno rilette le nomine, oltre che di Ferrante,
di Iñigo d’Avalos, Federico da Montefeltro ed Ercole d’Este al
prestigioso sodalizio. Questa trama fu il prodotto di un’intensa
attività diplomatica che trovò il suo spazio privilegiato nella corte napoletana. La Napoli aragonese – regno antifrancese per eccellenza – fu un partner chiave per la costruzione del progetto
politico-militare di Edoardo IV, sia nel contesto peninsulare che
in quello internazionale. Conseguentemente, in questo quadro
relazionale vivace e duraturo, innervato su progetti militari e
obiettivi politico-diplomatici condivisi, le Fiandre rappresentarono un punto d’osservazione (geografico) privilegiato. Infatti,
nuove fonti, quali processi e sentenze, insieme alla tradizionale
corrispondenza diplomatica e mercantile, hanno restituito le vicende di alcune figure di mercanti fiorentini e regnicoli operanti
tra Bruges e Londra, che assunsero ruoli strategici nella costruzione del circuito informativo anglo-napoletano.
Si è osservato, attraverso gli esempi di Stoldo Altoviti,
Tommaso Portinari e Leonardo Fiorentino, con la partecipazione di Gherardo Canigiani e Simone Nori, come e in che misura
il network mercantile toscano servì Napoli, contribuendo alla
fluida circolazione delle notizie e, dal punto di vista logistico, al
trasporto di missive – dalla Penisola a Londra e viceversa – e al
204
Imma Petito
supporto della comunità napoletana nella ricerca di alloggi tra i
distretti di Langbourn Ward e Broad Street Ward (grazie alla mediazione di Agnello de’ Pericho presso Edoardo IV), tradizionalmente nelle mani di uomini d’affari londinesi e dell’Italia centrosettentrionale. Non solo, come è emerso da alcune cedole
della tesoreria regia, la filiale del Banco Strozzi di Napoli forniva
il supporto necessario in termini di pagamenti e lettere di cambio agli ambasciatori diretti in Inghilterra. La presenza delle filiali strozziane anche in altre città dell’Europa del nord poteva
offrire sostegno finanziario agli oratori lontani dalla propria patria: l’ambasciatore che giungeva in una città nuova entrava immediatamente in contatto con la rete mercantile e bancaria, e
non solo per cambi o prestiti, ma anche per ottenere protezione
e supporto in contesti sconosciuti.
A questi va aggiunto Agnello de’ Pericho, capitano delle galee regnicole, grazie al quale è stato possibile fornire un primo
schema del circuito mercantile napoletano tra Bruges, Southampton e Londra. Probabilmente residente nella capitale del
regno inglese a partire dal 1440, de’ Pericho fu cruciale per la
costruzione e poi il supporto di una rete relazionale fatta di
mercanti e legati napoletani, grazie anche alla proficua collaborazione con le comunità mercantili inglesi e fiorentine a Londra.
L’azione di de’ Pericho fu anche politica e diplomatica; più
volte, egli fu portavoce del Regno alla corte dello York. Riuscì,
infatti, a guadagnare, con relativo successo, l’intervento e il sostegno diretto di Edoardo IV affinché le galee napoletane ottenessero protezione e i mercanti regnicoli un alloggio in città, alle stesse condizioni economiche (vantaggiose) tradizionalmente
riservate ai toscani. Quanto detto emerge chiaramente dalle lettere di Edoardo IV all’alderman Thomas Cook. Il capitano fu,
quindi un riferimento per Ferrante d’Aragona e poi, per mercanti e ambasciatori napoletani. Sviluppò, senz’altro, delle competenze professionali e trasversali. Il campo d’azione di de’ Pericho si estese anche alle Fiandre; si tratta di una presenza, quella del capitano napoletano, tutt’altro che sporadica, come è
emerso nella serie Civiele Sententiën, Kamer, conservata presso
Le geografie della diplomazia aragonese
205
Stadsarchief di Bruges, preziosa perché punto d’osservazione privilegiato sulla città fiamminga.
Riusciamo a cogliere appieno, nello spettro delle relazioni
Regno di Napoli-Inghilterra che la diplomazia, intesa come pratica della negoziazione e della mediazione tra poteri e gruppi di
individui, fu veicolata anche da spazi che, per loro posizione e
composizione, ospitarono attori multiformi e offrivano, al contempo, differenziate opportunità politiche, economiche e socioculturali, come, appunto, le Fiandre nel XV secolo. L’apertura
verso nuovi contesti geografici, infatti, ci consente di illuminare
attori e pratiche differenti e di nutrire ulteriormente il discorso
sulla macchina diplomatica di Ferrante, anche dal punto di vista
prettamente logistico.
Possiamo, dunque, cautamente supporre la presenza di un
circuito mercantile del Regno – seppur di dimensioni ridotte rispetto a quello di altre potenze italiane – con a capo Agnello de’
Pericho, tra Bruges e Londra.
La distanza tra Napoli e l’«insula» giocò, senz’altro, un ruolo
determinante nel coinvolgimento di una moltitudine di attori e
agenti della mediazione, nel sistema di informazione e comunicazione tra i due sovrani. Anzi, favorì appieno la contaminazione tra mondo mercantile e ambiente politico e diplomatico.
L’alleanza Napoli-Londra ben si è prestata, a mio avviso, alle
sperimentazioni metodologiche proposte dalla ‘nuova storia diplomatica’ non solo per l’eterogeneità delle fonti a disposizione
ma anche per la molteplicità di spazi, luoghi e attori coinvolti
nell’azione negoziale. Nelle relazioni tra il Regno e l’Inghilterra,
la mercatura e l’uso di saperi e competenze proprie dell’ars rappresentarono una risorsa indispensabile per la diplomazia.
L’apertura verso nuove geografie ha permesso di sviluppare
ulteriormente il discorso sulla rete diplomatica internazionale (e
sulla sua logistica) costruita da Ferrante e dai suoi collaboratori
e colmare, sebbene solo parzialmente, il vuoto storiografico che
contribuisce a rendere opache le relazioni tra il secondo aragonese e Edoardo IV.
GIANLUCA FALCUCCI
Tra vecchie e nuove alleanze:
Ferrante d’Aragona, la politica di rapprochement
con lo Stato della Chiesa e la costruzione europea
del blocco anti-francese (1471-1472)
Between old and new alliances: Ferrante of Aragon, the policy of rapprochement with the
State of the Church and the European construction of the anti-French bloc (1471-1472)
Abstract: The essay aims to examine the political relationship between the Papal
State and the Kingdom of Naples after the election of Pope Sixtus IV in 1471. The
main filter through which the analysis will be conducted is the Sforza correspondence from
Naples and Rome to Milan. Despite the new pope’s initial concessions, the breakthrough
desired by Ferrante regarding certain disputes with the Papal States was subordinated to
the papal demand to receive the ambassadorship of obedience. Ferrante’s refusal began a
controversy that protracted for about three months during which the ambassadorship of
obedience was declined from the king into an instrument of political bargaining with the
Holy See and diplomatic mediation with the other States on the background of a dynamic
political framework that saw the Kingdom of Naples allied with Venice and the Duchy of
Burgundy in opposition to the Franco-Sforza block.
Keywords: History of the Renaissance, Kingdom of Naples, Ferrante of Aragon,
Pope Sixtus IV, Diplomatic history
Received: 01/07/2023. Accepted after internal and blind peer review: 20/12/2023
gianluca.falcucci@uniroma1.it
Non ne facia tropo demostratione. Ferrante d’Aragona e la
morte di papa Paolo II
L’avviso della morte di papa Paolo II, secondo quanto attesta
Notar Giacomo nella sua Cronica, giunse al re il 28 luglio mentre
CESURA - Rivista, 2 (2023)
ISSN: 2974-637X
ISBN: 978-88-945152-2-0
208
Gianluca Falcucci
soggiornava a Carinola. A spedirglielo fu il protonotario apostolico Pedro Guillermo de Rocha, suo oratore residente in Curia 1.
La notizia suscitò un certo sollievo nella corte, come riferisce l’oratore milanese a Napoli, Giovanni Andrea Cagnola, in
una missiva del 31 luglio a Galeazzo Maria Sforza 2, messo al
corrente dell’invio a Ferrante, da parte del Collegio cardinalizio,
di due epistole per notificargli la morte del papa, cosicché potesse «havere per recomandato el stato de sancta Chiesia, como
1
«Della quale morte ne fo dato aviso in Carinola ali 28 decto de domenica hora XV per lo Reverendo Pietro Guglielmo Roccha apostolico
prothonotario et suo oratore» (Notar Giacomo, Cronica di Napoli, ed. P.
Garzilli, Napoli 1845, p. 123, con qualche adeguamento ortografico). Il
Rocha ricoprì un ruolo centrale in ambito diplomatico, ricevendo le nomine di plenipotenziario del re, referendario e presidente del Sacro Consiglio. Dal 1461 era referendario apostolico. Di lui, il cronista Giacomo
Gherardi da Volterra scrisse: «natione Hispanus, patria Valentinus, oppido Sciativa celeberrimo ortus, quippe quod Calixtum III pontificem maximum tulerit et nepotes eius duos sancte romane Ecclesie cardinales:
Rodoricum et Ludovicum, nec non Ausiam Sancte Sabine etiam cardinalmen quem Montis Regalis dicimus» (C. Eubel, Hierarchia Catholica Medii Aevi, II, Monasterii 1914, p. 227; G. Crisci, Il cammino della Chiesa Salernitana nell’opera dei suoi vescovi: sec. V-XX, I, Napoli - Roma 1976, pp. 412416; Il diario romano di Jacopo Gherardi da Volterra dal VII settembre
XCCCCLXXIX al XII agosto XCCCCLXXXIV, ed. E. Carusi, in Rerum
Italicarum Scriptores (2a ed.), XXIII/III, Città di Castello 1904, p. 110).
2
«In questa corte se è preso gran leticia de la morte del papa, licet la
mayestà del re mecho non ne facia tropo demostratione, né anche me ne
maraviglio, perché cossì è sua natura de non fare may tropo demostratione né de leticia né de tristitia»: Giovanni Andrea Cagnola a Galeazzo
Maria Sforza, Napoli, 31.VII.1471, Archivio di Stato di Milano (ASMi),
Fondo sforzesco potenze estere (SPE), Napoli, 220, cc. 33-34). La reazione di Ferrante denoterebbe una certa indifferenza difficile da credere
se si tiene conto del rapporto conflittuale con papa Barbo. Il comportamento del sovrano risulta, in realtà, in sintonia con il suo atteggiamento
dissimulante. L’Aragonese, consapevole che ogni sua mossa era posta al
setaccio degli oratori esteri, conosceva bene il linguaggio diplomatico che
nel Quattrocento era accordato, come ha evidenziato Francesco Storti, a
«raffinati registri di una comunicazione tutta giocata sull’illusione, volta a
coprire più che a svelare» (F. Storti, L’arte della dissimulazione: linguaggio e
strategie del potere nelle relazioni diplomatiche tra Ferrante d’Aragona e Giovanni
Antonio di Balzo Orsini, in I dominii del principe di Taranto in età orsiniana
(1399-1463), cur. F. Somaini, B. Vetere, Galatina 2009, pp. 79-104).
Tra vecchie e nuove alleanze
209
quello che sempre l’hano conosciuto devoto et inclinato a la conservatione d’esso stato» 3. Il sovrano non tardò a rispondere, garantendo «conservatione et defensione» 4; non si sottrasse, però, al
desiderio di rivolgere un invito «a volere havere gran risguardo ne
la electione farano del pontifico», affinché si potesse giungere alla
designazione di «un homo da bene, che sia inclinato a la salute et
defensione del sancta Chiesia, et de la christianità» 5.
Gli auspici dell’Aragonese scaturivano dalla volontà di inaugurare una nuova fase distensiva con la Santa Sede dopo i dissidi vissuti con papa Barbo, di cui il re aveva recentemente criticato l’indolenza nei riguardi della questione turca e la mancata
nomina del Rocha ad arcivescovo di Salerno 6.
C’è da dire che il Regno di Napoli, come ha evidenziato
Riccardo Fubini, aveva intrattenuto fino a quel momento relazioni altalenanti con la Santa Sede. Ai legami di cordialità instaurati alla fine del pontificato di papa Eugenio IV e per la durata di quello di Niccolò V, seguì l’attrito con papa Callisto III,
deciso nel rifiutare l’investitura di Ferrante all’avvenuta morte di
3
Giovanni Andrea Cagnola a Galeazzo Maria Sforza, Napoli,
31.VII.1471, ASMi, SPE, Napoli, 220, cc. 33-34.
4
Ibid.
5
Ibid.
6
«Intra dopoy sua mayestà in rasenamento mecho de le nove ha da
Roma et se dolse molto con me del papa per difficultarse et alongarse
tanto circha queste cose del Turcho como dice fa et maxime circha li capituli facti per dicta casone lì, secondo ha da Roma, digando che molto
se maraviglia de sua sanctità siando le cose de Italia in tanti periculi quanto sono. […] Post multa compresi che sua mayestà è molto mal contenta
de la prefata sanctità […] et recorda che haviva scripto a sua sanctità volesse conferire lo archiepiscopato de Salerno a monsignore Rocha, et più
volte etiam repplicato et che fin mo non gli’à voluto compiacere, anze ha
temptato de darlo ad altri, quali non l’hano voluto acceptare per intendere la voluntà de sua mayestà inclinata a esso monsignore Rocha, unde per
questa casone etiam molto se dolse» (Id. a Galeazzo Maria Sforza, Napoli, 25.II.1471, ASMi, SPE, Napoli, 220, c. 183). Il pontefice aveva tentato
di conferire la carica al cardinale Niccolò Forteguerri, al quale era spettato mediare con il duca d’Ascoli, Orso Orsini, circa le pretese di Ferrante
sui territori della Romagna (Giovanni Antonio Ferrofino a Galeazzo Maria Sforza, Roma, 13.VIII.1471, ASMi, SPE, Roma, 68).
210
Gianluca Falcucci
Alfonso nel 1458. Una maggiore distensione si ebbe con Pio II,
che la accordò nel novembre dello stesso anno, ma l’equilibrio
si infranse con la successione al soglio di Pietro del veneziano
Paolo II Barbo 7.
Il suo pontificato, «improntato a un rigido spirito legalitaristico e dottrinario» 8, fu segnato da aspri conflitti con il Regno
come in occasione del tentativo del pontefice di assoggettare,
nel 1467, il castrum Tolphe appartenente ai feudatari Ludovico e
Pietro della Tolfa, il cui sottosuolo era ricco di giacimenti di allume sui quali la Santa Sede vantava i diritti sovrani. In quella
circostanza Ferrante, cointeressato alla lucrosa esportazione del
minerale di cui anche il suo Regno era produttore, inviò truppe
in soccorso dei dòmini di Tolfa, minacciando la città di Roma e
dando ordine al suo esercito di ricondurre alla fedeltà regia il
ducato di Sora 9. Trascorsero alcuni mesi e le tensioni raggiunse7
R. Fubini, Italia quattrocentesca. Politica e diplomazia nell’età di Lorenzo il
Magnifico, Milano 1994, p. 205. Vd. anche P. M. Dover, Royal diplomacy in
Reinessance Italy (1458-1494) and his ambassadors, «Mediterranean Studies.
The journal of the Mediterranean Studies Association», 14 (2005), pp.
68-69.
8
Fubini, Italia quattrocentesca cit., p. 209.
9
La minaccia aragonese aveva spinto Paolo II a ordinare che le milizie di nuova leva occupassero i confini dello Stato della Chiesa in direzione di Napoli. La conquista papale di Tolfa non riuscì e l’anno seguente si venne a un pacifico accomodamento: la piazza fu acquistata dalla
Camera Apostolica per 17.300 ducati d’oro versati ai signori di Tolfa grazie alla mediazione di Orso Orsini. Per la storia del commercio e dello
sfruttamento delle cave di allume, scoperte nel 1461 da Giovanni di Castro vd. G. Zippel, L’allume di Tolfa e il suo commercio, «Archivio della Società Romana di Storia Patria», 30 (1907), pp. 5-52, 389-462; J. Delumeau, L’alun de Rome: XVe-XIXe siècles, Paris 1962. Per regolare la concorrenza dell’allume regnicolo, Paolo II stipulò un accordo l’11 giugno
1470 con Ferrante per dar vita alla «compagnia et unione de tutte allumiere», una società per lo sfruttamento comune che non ebbe vita lunga,
essendo stato rescisso il contratto da Sisto IV nel 1472 (I. Ait, Dal governo
signorile al governo del capitale mercantile: i Monti della Tolfa e le lumere del papa,
in Le monopole de l’alun pontifical à la fin du Moyen Age, «Mélanges de l’École française de Rome - Moyen Âge», 126-1 (2014) http://journals.openedition.
org/mefrm/1964). Sull’episodio specifico e più in generale sulla politica
egemonica messa in atto da Ferrante, cfr. M. S. De Filippo, Ferrante
Tra vecchie e nuove alleanze
211
ro il calor bianco quando il sovrano sostenne militarmente
l’autoproclamato signore di Rimini, Roberto Malatesta, riuscendo nell’intento di impedire, con l’appoggio di Firenze, che la città cadesse sotto il diretto dominio dello Stato della Chiesa, alleatosi per l’occasione con Venezia in un conflitto che rischiò di
compromettere i già precari equilibri peninsulari 10.
d’Aragona e la ricerca di un’egemonia politica napoletana in Italia, Tesi di dottorato in “Storia della società europea”, Università degli Studi di Napoli
Federico II, a. a. 2008 - 2011, tutor prof. F. Senatore, co-tutor prof.
Francesco Storti. Verso la fine della guerra di successione napoletana, già
Pio II aveva puntato a estendere il controllo pontificio sul ducato di Sora, approfittando della campagna militare che, contemporaneamente, il re
conduceva più a sud contro Marino Marzano (ivi, p. 45 nota 153).
10
L. von Pastor, Storia dei Papi dalla fine del Medio Evo, cur. A. Mercati,
II, Roma 1932 (ed. or., Freiburg im Breisgau 1886-1932), pp. 399-400; F.
Gregorovius, Storia della città di Roma nel Medio Evo, III, Roma 1901 (ed.
or. Stuttgart 1859-1872), pp. 829-830; E. Pontieri, Per la storia di Ferrante I
d’Aragona, re di Napoli. Studi e ricerche, Napoli 1969, pp. 236-238. L’aiuto di
Firenze e Napoli a Roberto Malatesta fu mal digerito dal papa, particolarmente critico nei riguardi del re, che, scrisse l’oratore sforzesco Nicodemo Tranchedini, «havia voluto da lui fin ad havergli facto domandare
Ascoli quamprimum fo assumpto al pontificato et altre domande adeo
enorme». Circostanze che spinsero il pontefice ad affermare che mai «gli
poria esser amico né persona se posseva fidare de lui, tanto è ficto e de
mala natura» (Nicodemo Tranchedini, Roma, 3.X.1469, in L. von Pastor,
Storia dei Papi cit., p. 408). L’insofferenza di papa Barbo lo indusse a progettare, come confidò il cardinale Francesco Gonzaga al padre Ludovico,
di «smembrare un puocho quello Reame, perché, habialo chi se voglia,
non fa a proposito né del Papa né del Duca che sia tanto potente» (Fubini, Italia quattrocentesca cit., p. 206 nota 74). Tra settembre e novembre
1468 Borso d’Este fu promotore di una coalizione per un intervento militare nel Mezzogiorno, cui aveva aderito il pontefice che ambiva a bloccare preventivamente Milano e Firenze. Dal canto suo, Ferrante poteva
fare leva sull’interesse della Lega particolare sottoscritta l’anno precedente con Firenze e Milano per contenere il papa e i veneziani in Romagna,
mascherando i propri interessi dietro la facciata della triplice alleanza (De
Filippo, Ferrante d’Aragona e la ricerca di un’egemonia politica cit., p. 46). Sul
turbolento quadro politico italiano di quegli anni e le strategie di Ferrante
per contenere Milano vd. V. Ilardi, Ferrante d’Aragona e Galeazzo Maria
Sforza: nemici cordiali, alleati ostili, in La discesa di Carlo VIII in Italia (14941495). Premesse e conseguenze, cur. D. Abulafia, Napoli 2005 (ed. or. Aldershot 1995), pp. 103-127.
212
Gianluca Falcucci
Eppure non erano mancate convergenze tra i due rivali come, ad esempio, nel 1465 in occasione della guerra mossa da
Paolo II contro i signori Francesco e Deifobo di Anguillara,
nemici del re che per l’occasione inviò truppe a sostegno
dell’esercito pontificio comandato dal cardinale Niccolò Forteguerri e dai condottieri Federico da Montefeltro e Napoleone
Orsini, che in breve tempo espugnarono le rocche ribelli 11. Le
pretese papali sarebbero state anche nei successivi anni motivo
di reiterati antagonismi, determinando, come ha ricordato Giovanni Pillinini, «instabilità nel Regno non solo a causa delle pretese dei papi di essere riconosciuti come fonte del potere regio,
ma anche di interferire nella vita interna dello Stato napoletano,
aiutati dalla feudalità locale» 12. Dal canto suo, Ferrante covava
analogo interesse a voler ostacolare il vicino, intralciando la graduale opera di consolidamento e rafforzamento dello Stato della
Chiesa attuato dai pontefici per riportare sotto il Patrimonium
ampi territori nelle mani dei signori locali.
Informato della morte del papa, l’Aragonese rivolse un messaggio al popolo romano, esortandolo a non intralciare la nuova
elezione 13, spedendo «lettere a tutte le terre de la Chiesia, per le
11
Pastor, Storia dei Papi cit., p. 392; Gregorovius, Storia della città di
Roma nel Medio Evo cit., p. 830; Angelo De Tummulillis da Sant’Elia, Notabilia temporum, ed. C. Corvisieri, Livorno 1890, pp. 129-130.
12
G. Pillinini, Il sistema degli stati italiani 1454-1494, Venezia 1970, p.
100.
13
«Poy sua mayestà scrive a Romani con confortargli vogliano perseverare in solita fide et devotione verso sancta Chiesia, et che vogliano
essere propitii a la electione del pontifico et non fare altra novità né mostra alchuna, perché li cardinali patiscano impressione veruna circa la loro electione, aciò che liberamente possano elegere quello che a nostro
signore Dio et al Spirito Sancto piacerà» (Giovanni Andrea Cagnola a
Galeazzo Maria Sforza, Napoli, 31.VII.1471, ASMi, SPE, Napoli, 220, cc.
33-34). Alla morte del pontefice, non erano seguiti tumulti in città: «fin
mo’ non è sequito, salvo da Romani a Romani, cose tamen da non ne
fare gran caso etiam che omne nocte se amazino et feriscano alcuni per
loro private passione, alcuni ancora per qualche picole robarie» (Nicodemo Tranchedini a Galeazzo Maria Sforza, Roma, 1.VIII.1471, ASMi,
Sforzesco, 68). L’agitazione dei Romani era stata evitata da alcune conces-
Tra vecchie e nuove alleanze
213
quale le conforta et persuade a star perseverante a la devotione
et obedientia» 14, e invitando gli alleati, Federico da Montefeltro
e Roberto Malatesta, a non «fare novità» nei possedimenti pontifici 15. Si decise, infine, il trasferimento a Roma dell’oratore
Aniello Arcamone, partito il giorno 31 con l’obiettivo «di fare
qualche pratiche circha questa electione» 16.
Di sua santità ha continue bone parolle. L’elezione di papa Sisto IV
L’elezione di papa Sisto IV, al secolo Francesco della Rovere,
avvenne il 9 agosto «hora XVI», tre giorni dopo l’apertura del
conclave dove si erano riuniti diciassette elettori divenuti diciotto il giorno 7 con l’aggiunta del cardinale Giacomo Ammannati
Piccolomini precedentemente indisposto 17. Il Sacro Collegio era
sioni deliberate dai cardinali a favore del popolo (Pastor, Storia dei Papi
cit., p. 430).
14
Giovanni Andrea Cagnola a Galeazzo Maria Sforza, Napoli,
31.VII.1471, ASMi, SPE, Napoli, 220, cc. 33-34.
15
Ibid. A seguito della morte di Paolo II, il Malatesta aveva occupato
alcuni possedimenti della Chiesa in Romagna, salvo poi ritirarsi dopo il
richiamo di Ferrante. Per l’alleanza con i due condottieri, conclusa il 4
febbraio 1469, vd. Lorenzo de’ Medici, Lettere, I, ed. R. Fubini, Firenze
1977, pp. 544-545.
16
Giovanni Andrea Cagnola a Galeazzo Maria Sforza, Napoli,
31.VII.1471, ASMi, SPE, Napoli, 220, cc. 33-34. Aniello Arcamone fu
giureconsulto e diplomatico napoletano. Nel 1466 fu nominato presidente della Regia Camera della Sommaria e tre anni dopo consigliere del Sacro Reale Collegio. Inviato del re a Firenze, Venezia e Roma, dove soggiornò in maniera discontinua per molti anni. Le sue fortune declinarono
a seguito della congiura dei baroni del 1486, quando fu arrestato assieme
alla propria famiglia e i suoi beni furono confiscati. Trascorse alcuni anni
in prigionia, fino alla liberazione su cauzione nel 1490 (Regis Ferdinandi
primi Instructionum Liber, ed. L. Volpicella, Napoli 1916, pp. 265-266; E.
Scarton, La congiura dei baroni del 1485-87, in Poteri, relazioni, guerra nel regno
di Ferrante d’Aragona. Studi sulle corrispondenze diplomatiche, cur. F. Senatore,
F. Storti, Napoli 2011, pp. 213-290).
17
Pastor, Storia dei Papi cit., pp. 431- 432. A raggiungere in tempo
Roma per il conclave furono i cardinali Berardo Eroli, Amico della Rocca (detto Agnifilo), Giacomo Ammannati Piccolomini, Bartolomeo Ro-
214
Gianluca Falcucci
composto da venticinque membri, ma la morte repentina del
pontefice non permise a sette di essi di presenziarvi 18. Dei diciotto, di cui tre esteri 19, faceva parte anche l’arcivescovo di Napoli
Oliviero Carafa, nominato cardinale da papa Barbo nel 1467 20.
Accese polemiche avevano coinvolto i porporati ancor prima che si riunissero nella Cappella Niccolina circa la possibilità,
poi negata, di ammettere in conclave i cardinali in pectore Giovanni Battista Savelli e Pietro Foscari – nominati segretamente
da Paolo II – i quali, ricorda l’oratore sforzesco Giovanni Bianco, avevano fatto «instantia de prendere el capello et intrare in
conclave» nonostante «la magior parte de cardinali non se ne
cumtentano» 21.
Da un dispaccio del protonotario apostolico Pietro Modignani si apprende dei diverbi in merito tra i cardinali Bessarione,
favorevole all’ammissione, e Latino Orsini che era invece contrario, con momenti di palpabile tensione raggiunti quando Mariano Savelli, capitano della guardia del Palazzo Apostolico, fece
«occultare in le stalle del palazo ducento fanti […] et diceva che
voleva che suo fratello fusse admisso in cumclave» 22. La rivalità
nell’organo elettivo, suddiviso tra cardinali “pieschi” e “paole-
verella e Francesco Gonzaga (ivi, p. 430; Nicodemo Tranchedini a Galeazzo Maria Sforza, Roma, 1.VIII.1471, ASMi, SPE, Roma, 68).
18
Per una dettagliata cronaca delle ultime ore del pontefice vd. Id. a
Galeazzo Maria Sforza, Roma, 2.VIII.1471, ASMi, SPE, Roma, 68.
19
Roderic de Borja, Bessarione e Guillaime d’Estounteville.
20
Eubel, Hierarchia Catholica cit., pp. 63, 200, 249. Oliviero Carafa ottenne giovanissimo la nomina di arcivescovo di Napoli il 29 dicembre
1458. Fu ordinato cardinale presbitero del titolo dei Santi Marcellino e
Pietro il 18 settembre 1467, passando al titolo di Sant’Eusebio il 5 settembre 1470 (Regis Ferdinandi primi Instructionum Liber cit., pp. 311-313).
21
Giovanni Bianco a Galeazzo Maria Sforza, Roma, 1.VIII.1471,
ASMi, SPE, Roma, 68.
22
Pietro Modignani a Galeazzo Maria Sforza, Roma, 1.VIII.1471,
ASMi, Sforzesco, 68. Per le azioni di Bessarione in conclave vd. Angelo De
Tummulillis, Notabilia temporum cit., pp. 177-178; E. Lee, Sixtus IV and
Men of Letters, Roma 1978, pp. 30-31.
Tra vecchie e nuove alleanze
215
schi”, era dunque alta e tra gli aspiranti alla tiara emergevano in
particolar modo l’Orsini e Guillaime d’Estouteville 23.
Se il cardinale di Rouen, appoggiato dal ducato di Milano,
cercava di assicurarsi il favore di Galeazzo al quale prometteva
l’agognato titolo regale e il cappello cardinalizio per il fratello
Ascanio 24; l’Orsini si vociferava essere tra i favoriti del re di Napoli, che da lui era stato incoronato dodici anni prima 25, salvo
poi intavolare trattative con lo Sforza dopo aver appreso
dell’appoggio congiunto di Venezia e Napoli al Bessarione, pre23
«Le pratiche fra questi signori cardinali sono grandissime et palese
più che mai me le recordi in simili casi, et non è veruno de loro che non
se persuada tochi a lui el papato, excepti Santa Maria in Portico [Battista
Zeno] et Santa Lucia [Giovanni Michiel]. Tuti l’altri se aiutano cum li pedi et
cum le mane, et chi piu po inganare el compagno. Adeo che no è veruno
si bono abitratore che possa arbitrare in chi habia cadere questo pontificato. Ciascuno va cum la lingua dove el dente gli dole et facilmente se
persuade quel che vorìa». Riguardo l’appoggio di Ferrante a Latino Orsini, l’oratore sforzesco informò il duca che da Napoli giungevano «avisi
che ’l serenissimo re Ferdinando vole fare papa per forza el cardinale Ursino o, saltem, Theano [Niccolò Forteguerri] et Ravena [Bartolomeo Roverella]»
(Nicodemo Tranchedini a Galeazzo Maria Sforza, Roma, 1.VIII.1471,
ASMi, SPE, Roma, 68). Il 6 agosto Tranchedini riferì di lettere riguardanti
l’idea di Ferrante di mandare «a questi confini de Campagna lo illustrissimo duca de Calabria cum parechie squadre per fare spale a qualche suo
amico al pontificato. Et in quel’hora ce forono lictere del cavallere Ursino, che se retrovaria questa nocte passata a le sue terre, poco de là da Tivoli, cum parechie squadre del segnore re, quale erano in Abruzo. Et pur
per dare favore, che ’l papato pervenga in qualche amico del re». Ricevuta la notizia, di cui l’oratore non escludeva la diffusione per condizionare
il voto, i cardinali vagliarono l’ipotesi di «fare el conclave in castello Sancto Angelo» (Id. a Galeazzo Maria Sforza, Roma, 6.VIII.1471, ASMi,
SPE, Roma, 68).
24
Ascanio era stato avviato alla carriera ecclesiastica in tenera età, divenendo commendatario dell’abbazia di Chiaravalle e protonotario apostolico nel 1465. Le mosse del d’Estouteville miravano a un vasto disegno consistente nel «cointeressare la Francia in un’operazione mirante a
sganciare l’area padana dalla soggezione virtuale al Reich tedesco, e con
ciò estromettere del tutto la presenza imperiale dall’Italia» (M. Pellegrini,
Ascanio Maria Sforza, La parabola politica di un cardinale-principe del rinascimento, I, Roma 2002, pp. 35-36).
25
Pastor, Storia dei Papi cit., p. 431.
216
Gianluca Falcucci
ferito dalla Serenissima, e a Bartolomeo Roverella 26, che contava
sulla legittimazione guadagnata presso la Casa d’Aragona ai
tempi del Piccolomini, quando era riuscito a mediare l’intervento pontificio in occasione del conflitto angioino-aragonese 27.
La promessa del d’Estouteville al duca di Milano di un titolo
regale rispondeva in pieno alle ambizioni di Galeazzo, che si rivelarono superiori rispetto a quelle del padre Francesco Sforza.
Se quest’ultimo, infatti, aveva sperato invano di ricevere
l’investitura ducale dall’imperatore Federico III d’Asburgo, Galeazzo puntava al titolo di re della Lombardia. Per questo motivo, nel mese di aprile del 1471, servendosi dell’intermediazione
del duca Sigismondo d’Austria, aveva offerto all’imperatore
50.000 ducati «pro consequenda investitura ducatus Mediolani»,
dimostrandosi disposto a pagare «aureos centummilia» se il ducato fosse stato elevato «in titulum et dignitatem regiam» 28. Per
26
Giovanni Antonio Ferrofino a Galeazzo Maria Sforza, Roma,
6.VIII.1471, ASMi, SPE, Roma, 68. Il Ferrofino era stato inviato a Roma
per sostenere l’elezione del d’Estouteville, ma, valutate le difficoltà di
quest’ultimo – essendo il collegio a maggioranza italiana e poco incline al
partito francese – prese contatti con il cardinale di Frascati attraverso il
fratello, Napoleone Orsini, al quale fu offerta la nomina di capitano generale. I progetti del Ferrofino, approvati dal Gonzaga, incontrarono le
riserve del Tranchedini, che suggerì di trattare con il cardinale Orsini al
punto estremo del conclave e non prima di esso, dovendosi evitare lo
scandalo che era toccato a Ferrante per essersi pronunciato apertamente
in favore dei suoi candidati. Dalla missiva si apprende anche dei lunghi
ragionamenti avuti dal Ferrofino con Pietro Riario, nipote del della Rovere, «che è el corde suo et va pratycando lui el papato» (ibid.).
27
E. Traniello, Roverella, Bartolomeo, in Dizionario Biografico degli Italiani,
LXXXVIII, Roma 2017, ad vocem.
28
C. Paganini, Divagazioni sulla documentazione fra Milano e l’Impero per
l’investitura ducale, in Squarci d’archivio sforzesco. Mostra storico-documentaria dell’Archivio di Stato di Milano, Como 1981, p. 35; F. Cusin, I
rapporti tra la Lombardia e l’Impero dalla morte di Francesco Sforza all’avvento di
Lodovico il Moro (1466-1480), Trieste 1934, pp. 37-40. Le prime due proposte da avanzare all’imperatore – la prima delle quali presentata a Sigismondo d’Austria attraverso Gaspare abate di San Giorgio – risalgono
rispettivamente all’8 e al 15 aprile 1471. La richiesta di agosto è inserita in
una missiva indirizzata il giorno 12 al cardinale Piccolomini, partito da
Tra vecchie e nuove alleanze
217
conseguire il proprio obiettivo il duca di Milano si sarebbe rivolto anche al cardinale Francesco Todeschini-Piccolomini, legato
apostolico presso l’imperatore durante la dieta di Ratisbona, affinché avanzasse a Federico III d’Asburgo la richiesta di concessione dei privilegi ducali in cambio di una somma oscillante
tra i 30.000 e i 50.000 ducati. Nel mese di agosto Galeazzo aumentò la posta, chiedendo al cardinale di Siena di perorare la
dignità regale come meritato compenso dei servigi prestati dal
padre, il quale aveva salvato l’Italia dai veneziani. Le istanze, tuttavia, furono rispedite al mittente dall’imperatore, per nulla intenzionato ad accondiscendere il duca di Milano che, nel frattempo, aveva trovato una sponda politica e militare in Luigi XI
di Francia, sebbene l’alleanza con il Regno di Napoli fosse servita, fin dai tempi della sua successione, a fungere da deterrente
per l’aggressiva politica espansionista francese 29.
Attraverso i dispacci di Nicodemo Tranchedini, oratore
sforzesco residente in Curia, siamo a conoscenza di due liste relative agli elettori del conclave, spedite a Milano il 28 agosto su
richiesta di Galeazzo. Sebbene in esse non sia possibile isolare
con esattezza i singoli scrutini, la prima attesta l’indicazione del
voto espressa dai cardinali, mentre la seconda riporta quante e
quali preferenze ricevette ognuno di essi 30. Premessa la cautela
con la quale accostarsi alla fonte, siamo in grado di conoscere i
voti in tre diversi scrutini del Carafa, che in nessuno di essi votò
per il della Rovere, guadagnando, a sua volta, un solo voto dal
rodigino Roverella 31, la cui candidatura fu, in un primo momento, tra le più forti assieme a quella di Filippo Calandrini. EnRoma il 18 marzo per Ratisbona dopo avere ricevuto l’incarico il 13 febbraio (ibid.).
29
Ilardi, Ferrante d’Aragona e Galeazzo Maria Sforza cit., pp. 123-124.
Sui rapporti tra Milano e la Francia vd. Id., France and Milan: the uneasy alliance, 1452-1466, in Gli Sforza a Milano e in Lombardia e i loro rapporti con gli
stati italiani ed europei (1450-1535). Convegno internazionale. Milano 18-21
maggio 1981, Milano 1982, pp. 415-448.
30
Pastor, Storia dei Papi cit., doc. in app. pp. 761-763 note 108-109.
31
I tre voti del Carafa andarono rispettivamente al Bessarione, Berardo Eroli e Bartolomeo Roverella.
218
Gianluca Falcucci
trambi guadagnarono sette voti a testa, seguiti a breve raggio
dall’anziano cardinale greco Bessarione, da Niccolò Forteguerri
e dal d’Estouteville con sei preferenze ciascuno; l’Orsini si fermò a due voti, mentre ad essere eletto pontefice, con dodici
preferenze nello scrutinio finale, fu il savonese Francesco della
Rovere 32, affermato teologo e generale dell’ordine francescano,
nominato cardinale di San Pietro in Vincoli nel 1467 33.
32
Pastor, Storia dei Papi cit., pp. 432-433. Pastor, sulla scorta del Platina, pone l’accento sul ruolo avuto dal cardinale Gonzaga, che assieme
all’Orsini e al Borja avrebbero garantito con i loro voti l’elezione del della
Rovere in cambio di ingenti benefici. Da un dispaccio dell’oratore mantovano Giovan Pietro Arrivabene alla madre del Gonzaga si apprende
che il favore di quest’ultimo per il cardinale ligure era dipeso
dall’appoggio al della Rovere del duca di Milano, consapevole delle magre possibilità del d’Estouteville di riuscire nell’elezione (Giovan Pietro
Arrivabene, Roma, 11.VIII.1471, in Pastor, Storia dei Papi cit., pp. 432433; Battista Platina, Historia delle vite dei sommi pontefici, Venezia 1592 (ed.
or., Venezia 1479), p. 303; Anonimo, Modo che si tiene nell’ellettione del Papa
(Cod. Urb. Lat. 844, foll. 3v-5r), in Lee, Sixtus IV and Men of Letters cit., p.
219). Le cronache di Leone Cobelli, Giovanni di Iuzzo e Stefano Infessura riferiscono del ruolo decisivo avuto dal conclavista Riario nell’opera
di convincimento degli indecisi (L. Cobelli, Cronache forlivesi di Leone Cobelli dalla fondazione della città sino all’anno 1498, edd. G. Carducci, E. Forti,
Bologna 1874, p. 258; G. di Iuzzo, Cronache di Viterbo e di altre città scritte
da Niccola della Tuccia, in Cronache e statuti della città di Viterbo, ed. I. Ciampi,
Firenze 1872, p. 104 nota 2; S. Infessura, Diario della città di Roma, ed. O.
Tommasini, Roma 1890, p. 75). Sisto IV il 16 dicembre ricompensò il
giovane con la nomina cardinale presbitero di San Sisto nonostante le
riserve espresse dai cardinali. Stesso trattamento riservò a un suo secondo nipote, Giuliano della Rovere, futuro papa Giulio II, che ebbe in eredità il titolo di cardinale di San Pietro in Vincoli. Sulle capitolazioni elettorali sottoscritte dal della Rovere vd. U. Mannucci, Le Capitolazioni del
conclave di Sisto IV (1471), «Romische Quartalschrift», 29 (1915), pp. 7390. Sull’abile ruolo politico di Pietro Riario nei primi anni di pontificato
di Sisto IV vd. P. Farenga, «Monumenta Memoriae». Pietro Riario fra mito e
storia, in Un pontificato ed una città. Sisto IV (1471-1484). Atti di Convegno,
Roma, 3-7 dicembre 1984, cur. M. Miglio, F. Niutta, D. Quaglioni, C.
Ranieri, Roma 1986, pp. 179-216; Pastor, Storia dei Papi cit., pp. 455 ss.
33
Per un profilo biografico di Francesco della Rovere vd. Lee, Sixtus
IV and Men of Letters cit.; G. Lombardi, Sisto IV, papa, in Dizionario Biografico degli Italiani, XCII, Roma 2018, ad vocem; G. Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, LXVII, Venezia 1854, pp. 64-76.
Tra vecchie e nuove alleanze
219
Dell’elezione, Ferrante «ne hebbe aviso in Napoli X augusti
hora prima noctis» 34. Il giorno 25, «in quintadecima hora», ebbe
luogo la solenne cerimonia dell’incoronazione, durante la quale
il papa ricevette la tiara di Gregorio Magno dalle mani del cardinale Roderic de Borja, per poi prendere possesso del Palazzo
del Laterano secondo il cerimoniale del tempo 35.
Le speranze riposte da Ferrante nel nuovo pontefice sono
testimoniate dalle «continue bone parolle» che Giovanni Andrea
Cagnola ebbe modo di ascoltare dal re, il quale, essendo «ben
hedificato de questo papa», nutriva fiducia nella risoluzione di
alcune vertenze 36. Da un dispaccio del 31 agosto siamo informati di come Ferrante si fosse subito congratulato con papa
della Rovere attraverso i propri oratori, informandolo degli spinosi problemi riguardanti il censo e alcuni territori contesi con
lo Stato della Chiesa 37. I suoi obiettivi erano ambiziosi e nel
34
Notar Giacomo, Cronica di Napoli cit., p. 123.
Pastor, Storia dei Papi cit., p. 440. La presa di possesso fu segnata
dal tumulto che interessò la piazza del Laterano, dove il popolo, schiacciato dalla scorta a cavallo, iniziò ad inveire contro il corteo, mettendo in
pericolo l’incolumità del pontefice sottratto alla calca dal cardinale Orsini
(ivi, p. 440; Gregorovius, Storia della città di Roma nel Medio Evo cit., p. 835;
Infessura, Diario della città di Roma cit., p. 75; Platina, Historia delle vite dei
sommi pontefici cit., p. 303). Per una dettagliata descrizione dell’incoronazione vd. Giovanni Bianco a Galeazzo Maria Sforza, Roma,
26.VIII.1471, ASMi, SPE, Roma, 68.
36
«Questo signore re, per quanto posso intendere, sta pure bene
hedificato de questo papa, perché di sua santità ha continue bone parolle
et in specie del facto de le terre gli ha facto domandare et de li defferentie de censi» (Giovanni Andrea Cagnola a Galeazzo Maria Sforza, Napoli, 31.VIII.1471, ASMi, SPE, Napoli, 220, cc. 45-46).
37
In occasione del secondo concistoro, il Rocha e l’Arcamone avevano consegnato al pontefice lettere per aggiornarlo dell’avanzata del
Turco, che deliberava «fare doe torre a la boca de un porto de scontro a
terra de Otranto a centocinquanta miglia in Campagna, dove capperíano
assaissimi naviglii senza possere essere offesi. Et dove el Turco facilmente porìa sittuare tal forteza, et terra, che ce habitariano molti de li suoi,
cum grandissimo incommodo de la religione cristiana, praesertim de Italia, praecipue del Reame di Napoli». I due furono rassicurati che sia il papa che il collegio cardinalizio «concorreriano sempre pro viribus cum sua
mayestà al obstaculo de tal conato del Turco, como se apartiene al debito
35
220
Gianluca Falcucci
primo caso miravano ad attenuare i vincoli di vassallaggio che lo
obbligavano a versare alla Sede Apostolica un censo annuale di
48.000 ducati 38.
Come evidenziato da Ludwig von Pastor, i registri di introito del pontificato di Paolo II non attestavano alcun tributo del
sovrano, che cercò di convertire senza successo il censo nella
donazione di una simbolica «chinea». Relativamente alle contese
territoriali, il proposito era di rientrare in possesso di Pontecorvo e Terracina, le cui sovranità erano state assunte dalla Chiesa
in seguito alla guerra sostenuta da Ferrante contro Giovanni
d’Angiò, quando papa Pio II Piccolomini aveva appoggiato militarmente gli Aragonesi. Il re rivendicava anche la sovranità sul
contado di Fano, sul vicariato di Mondavio e Senigallia, contesi
tra Roma e Roberto Malatesta, ma reclamati dalla corona come
pegno dei debiti contratti da Sigismondo Pandolfo Malatesta
con Alfonso d’Aragona, nonostante Pio II ne avesse investito il
nipote Antonio Piccolomini 39. Gli interessi in Romagna, un’area
distante dai bellicosi confini regnicoli, giocavano da tempo un
ruolo strategico e puntavano a stabilire un presidio aragonese
lungo la dorsale adriatica in funzione simultaneamente antipapale e anti-sforzesca40. Altrettanto spinosi risultavano, infine, i
loro» (Nicodemo Tranchedini a Galeazzo Maria Sforza, Roma,
12.VIII.1471, ASMi, SPE, Roma, 68).
38
La bolla di investitura di Pio II aveva stabilito la scomunica,
l’interdetto e, in casi estremi, la deposizione del re e la perdita del feudo nel
caso di mancato pagamento del censo (Pastor, Storia dei Papi cit., p. 394).
39
Lorenzo de’ Medici, Lettere cit., p. 542; Fubini, Italia quattrocentesca
cit., pp. 277-278. Antonio Piccolomini era a sua volta genero di Ferrante,
avendo sposato nel 1461 Maria d’Aragona, figlia naturale del re, che gli
conferì in dote il feudo di Amalfi con il titolo ducale. A seguito del matrimonio, ebbe numerosi incarichi nel Regno di Napoli. Deceduta Maria
nel 1470, l’anno seguente sposò Maria di Marzano (G. De Blasi, Piccolomini, Antonio, in Dizionario Biografico degli Italiani, LXXXIII, Roma 2015, ad
vocem). Per le contese territoriali e il debito di Sigismondo Pandolfo Malatesta con Alfonso vd. A. Falcioni, Malatesta, Sigismondo Pandolfo, in Dizionario Biografico degli Italiani, LXVIII, Roma 2007, ad vocem.
40
Sia presso il vicariato di Mondavio che la signoria di Montemarciano – occupata da Jacopo (Giacomo) Todeschini Piccolomini – era
Tra vecchie e nuove alleanze
221
riconoscimenti della sovranità regia sia sul ducato di Sora, i cui
signori Cantelmo erano stati presi in raccomandigia ai tempi di
papa Piccolomini, che su Pontecorvo, sottomessasi alla Chiesa
nel 1464 41.
Le premesse per una svolta si concretizzarono il 30 agosto
con la rapida nomina del protonotario Rocha ad arcivescovo di
Salerno 42, e la concessione della ricca commenda della Badia di
Montecassino – rimasta vacante dopo la morte del cardinale
Ludovico Trevisan 43 – al figlio del re, Giovanni d’Aragona 44.
presente un contingente militare aragonese come presidio (Fubini, Italia
quattrocentesca cit., p. 278).
41
Lorenzo de’ Medici, Lettere cit., p. 338.
42
La nomina gli aprì la strada al cardinalato, che non giunse sia a
causa di un raffreddamento dei rapporti con Ferrante sia in virtù della
mobilitazione per la nomina di Giovanni d’Aragona (C. Capra - C. Donati, Milano nella storia dell’età moderna, Milano 1997, p. 32 nota 90; F. Somaini, Un prelato lombardo del IV secolo: il card. Giovanni Arcimboldi vescovo di Novara, Arcivescovo di Milano, I, Roma 2003, pp. 377-378 nota 197). Si rimanda al contributo di Somaini per il processo di «clericalizzazione delle rappresentanze diplomatiche» (ivi, pp. 376-377).
43
La storia della badia di Montecassino si intreccia, dopo la morte
del Trevisan, con quella di Chiaravalle, oggetto di contesa tra il ducato di
Milano e Paolo II. Il regime commendatizio di Montecassino aveva impoverito i redditi e nociuto al regime disciplinare di un monastero che,
trovandosi entro i confini regnicoli, era visto da Ferrante come propria
pertinenza. L’intenzione di Paolo II di tenere in sospeso la nomina del
nuovo commendatario ed estromettere le intromissioni secolari era quello di favorire la ripresa della vita monastica all’interno dei due cenobi. Il
pontefice pensò di aggregarle alla Sede Apostolica e di intraprendere al
loro interno, attraverso un commissario delegato apostolico, «una riforma che avrebbe soppresso il regime commendatizio e imposto il passaggio della comunità dei monaci residenti a un regime più austero». Sia lo
Sforza che Ferrante si opposero per evidenti ragioni politico-economiche
e, anche grazie alla mediazione del Sacro Collegio, riuscirono ad avanzare
le candidature di Giovanni d’Aragona e Ascanio Sforza (Pellegrini, Ascanio Maria Sforza cit., pp. 13-16).
44
Giovanni nacque a Napoli il 25 giugno 1456 da Isabella Chiaromonte. Nel 1465, ad appena nove anni, fu nominato luogotenente generale del Regno, ricevendo la commenda dell’Abbazia della Santissima
Trinità de la Cava e nel 1467 il titolo commendatario dell’Abbazia di
Montevergine. Il 30 agosto 1471 Sisto IV gli concesse la commenda
222
Gianluca Falcucci
Papa della Rovere, consapevole di dover ricucire gravi
strappi diplomatici con alcuni Stati secolari, mostrava, come
scrisse l’oratore mantovano Bartolomeo Bonatti 45, «voler star
bene cum ogniuno» al punto che Ferrante ebbe «aviso da soy
oratori che la prefata santità ha comisso queste cose a VII cardinali» 46.
dell’Abbazia di Montecassino. Nel 1472 divenne affidatario dell’abbazia
cistercense di Monte Aragón, in Spagna. Fu designato cardinale diacono
nel concistoro del 10 dicembre 1477 con il titolo di Sant’Adriano al Foro,
e il 25 gennaio dell’anno seguente gli venne imposto nel duomo di Napoli il cappello cardinalizio. Nel 1479 fu nominato protonotario apostolico
e legato pontificio in Ungheria, mentre il 14 gennaio 1480 divenne cardinale presbitero del titolo di Sant’Adriano. Nominato arcivescovo di Salerno nel 1483, a seguito del decesso del Rocha, il 10 settembre dello
stesso anno ricevette il titolo di cardinale di Santa Sabina in Roma. Inviato nella città papale dal padre per trattare con papa Innocenzo VIII del
censo e dei mancati tributi versati alla Santa Sede, vi morì il 17 ottobre
1485 (Eubel, Hierarchia Catholica cit., pp. 18, 63, 65, 66, 141, 210, 227,
242; Regis Ferdinandi primi Instructionum Liber cit., pp. 257-259); per un approfondimento vd. E. Pàsztor, Aragona, Giovanni d’, in Dizionario Biografico
degli Italiani, III, Roma 1961, ad vocem. Per il testo della bolla di concessione della commenda vd. E. Gattula, Historia Abbatiae Cassinensis per saeculorum seriem distributa, II, Venetiis 1733, p. 568. A congratularsi con Giovanni fu il cardinale Giacomo Ammannati Piccolomini in una lettera latina di risposta a una precedente (non pervenuta) inviatagli dal figlio del re,
la cui benemerenza era stata raccomandata al cardinale toscano dal vescovo Giovanni Antonio Campano, «qui litteris primo, mox etiam verbo
tanta est testificatus de te, tu, quod ex sommo rege sis natus, in postremis reponat. Memorat mores, ingenium, mansuetudinem, beneficentiam,
litteras, ante omnia religionem, quam non instituto accepisse, sed cum
lacte nutricis fuxisse videris» (Giacomo Ammannati Piccolomini a Giovanni d’Aragona, Roma, s.d., in I. A. Piccolomini, Lettere (1444-1479), ed.
P. Cherubini, III, Roma 1997, p. 1415).
45
Bartolomeo Bonatti, Roma, 2.IX.1471, in Pastor, Storia dei Papi cit.,
p. 441 nota 5. Sulla politica conciliativa di Sisto IV nei primi tempi della
sua elezione vd. Lee, Sixtus IV and Men of Letters cit., pp. 31 ss.
46
Giovanni Andrea Cagnola a Galeazzo Maria Sforza, Napoli,
31.VIII.1471, ASMi, SPE, Napoli, 220, cc. 45-46. Il pontefice informò il
Tranchedini di aver preso tale decisione «per mettere tempo» poiché
consapevole di «non essere ben informato» delle vicende (Nicodemo
Tranchedini a Galeazzo Maria Sforza, Roma, 16.VIII.1471, ASMi, SPE,
Roma, 68). Del nuovo papa, lo Sforza riferì all’oratore mantovano Zacca-
Tra vecchie e nuove alleanze
223
Il confronto tra le parti ebbe luogo la sera del 15 settembre,
quando in casa del Bessarione si riunirono la commissione cardinalizia e gli oratori aragonesi. Vale la pena riportare integralmente un breve sunto del dibattimento steso dal Tranchedini
poco dopo lo scioglimento della riunione:
Questa sera se sono adunati a casa de Niceno [Bessarione] el cardinale Ursino [Latino Orsini], vicecancelliere [Roderic de Borja],
Sancta Croce [Angelo Capranica], Spoliti [Berardo Eroli], San
Marco [Marco Barbo], et Monferra [Teodoro Paleologo di Monferrato], quali sono li deputati ad intendere le differentie fra el papa, el serenissimo re Ferdinando. Cum li quali se trovò etiamdio
monsegnore nostro de Mantoa [Francesco Gonzaga], per casone
de le zoie. Et perché l’arcivescovo de Salerno, cioè Rocho, se trova alquanto febricitante, fo exposto per messere Annelo che ’l
prefato segnore re domanda a nostro signor el ducato de Sora, el
vicariato de Mondavio, et la remissione de soi censi secondo el
consueto. Et che le doe prime domanda de iusticia, la terza de
gratia. Exquo forono facte tra loro molte discussione, mostrando
ciaschuna de le parte avanzargli rasone un mondo. Per li cardinali
se allegava che papa Pio havea possuto iuridicamente sententiare
de Sora quel che sententiò, et che del vicariato non se era possuto
ria Saggi: «Questo papa serà un bon homazo e non serà homo de fati, ma
sene starà neutrale» (Zaccaria Saggi a Ludovico Gonzaga, Cremona,
22.VIII.1471, in Carteggio degli oratori mantovani alla corte sforzesca (14501500), VIII, Roma 2000, ed. M. N. Covini, pp. 548-551). In una seconda
missiva, Saggi rivelò come il duca di Milano, indispettito della complicità
tra Venezia e Napoli, si fosse ora convinto che il pontefice «entri col re e
con venetiani», non credendo «ch’el condiscenda a la voglia sua, la quale
seria che sua santità non restasse in amicitia col re» (Id. a Ludovico Gonzaga, Cremona, 22.VIII.1471, ivi, pp. 551-556). Il 12 settembre l’oratore
riferì del nuovo ripensamento di Galeazzo sul della Rovere, di cui ne parlava «adesso assay ferialmente, dicendo che l’è un papissimo e ch’el compiace d’ogni cosa che gli sia richiesto, che non procedde per altro però se
non per havere compiaciutto il re di molte cose, prima de l’abadia di
Montecassino, del arcivescovato di Salerno et hora è la praticha di rendere le terre e passi che tiene la Chiesa che sonno del Reame, e l’offerta de
li L millia ducati l’anno e del per la spesa contra il Turcho». Motivi per
cui del papa si diceva che «l’è un buon cristiano e che non vol niente, ad
altri pare ch’el facci da savio e buon pastore» (Id. a Ludovico Gonzaga,
Milano, 12.IX.1471, ivi, pp. 572-575).
224
Gianluca Falcucci
di[sp]onere, ch’el pervenisse al genero del re [Antonio Piccolomini]. Et che li censi montano gran soma de denari. Messer Annelo
allegava in contrario a le prime doe parte. Et che li censi se erano
consueti pagare cum uno cavalo leardo per ciaschun anno. Tandem
remasero che serìano col papa et aliis, o el papa o loro responderiano più per ordine al segnore re o ad esso messere Annelo 47.
L’acceso confronto portò a uno stallo dipeso essenzialmente
dal veto cardinalizio che diede, di fatto, avvio alla controversia tra
Ferrante, inamovibile nelle sue richieste, e Sisto IV, la cui elezione
era stata accolta positivamente sia a Milano, dove era vecchia conoscenza del duca e figurava nella sua lista dei favoriti 48, che a Firenze, dove Lorenzo de’ Medici progettò in breve tempo
l’ambasceria di obbedienza 49. Anche Venezia si mosse in questa
direzione, in base a quanto riferiva al re l’oratore Angelo Probo
d’Atri, che notificava l’interesse della Serenissima di «conchordare
47
Nicodemo Tranchedini a Galeazzo Maria Sforza, Roma,
15.IX.1471, ASMi, SPE, Roma, 68.
48
Il 26 novembre 1467 il della Rovere aveva scritto a Galeazzo,
chiedendogli di sostenere la sua nomina a vescovo di Novara, posizione
che gli avrebbe permesso di sovvenire alla propria povertà di mezzi. Lo
Sforza, nonostante una nuova richiesta del 15 dicembre, non lo accontentò, sostenendolo, però, per l’arcicardinalato di Genova. In una successiva lettera del 2 gennaio 1468, il generale francescano confessava al duca
la «tenuis conditio» del suo stato economico (G. Lombardi, Sisto IV, papa, in Dizionario Biografico degli Italiani, XCII, Roma 2018, ad vocem). Poco
prima del conclave, Cicco Simonetta aveva scritto agli oratori a Roma
che il desiderio del duca era che diventasse papa uno tra d’Estouteville,
Capranica, Gonzaga, della Rovere, Ammannati e Agnifilo (Pastor, Storia
dei Papi cit., p. 761 nota 1).
49
Lorenzo de’ Medici, Lettere cit., pp. 317-318 nota 1. In una missiva
del 23 settembre Nicodemo Tranchedini informava lo Sforza che a Roma non si avevano ancora notizie circa la venuta dell’ambasceria napoletana e degli altri Stati italiani «excepto quelli de signori fiorentini, quali se
dice venerano cum li vostri» (Nicodemo Tranchedini a Galeazzo Maria
Sforza, Roma, 23.IX.1471, ASMi, SPE, Roma, 68, cc. 37-38). Per un approfondimento sulle ambascerie e sui cerimoniali di corte connessi alla
morte e l’elezione dei pontefici vd. A. P. Bagliani, Morte e elezione del papa.
Norme, riti e conflitti. Il Medioevo, Roma 2013; M. A. Visceglia, Morte e elezione del papa. Norme riti e conflitti. L’età moderna, Roma 2013.
Tra vecchie e nuove alleanze
225
omne cosa così piccola como grande, con li oratori de la mayestà
del re. Et che faciano con loro tute le demostratione de unione» 50. Un’idea che vide solo inizialmente il sovrano favorevole a
patto che tra le richieste dei levantini al papa figurasse l’accordo
per la guerra al Turco 51, cruccio delle due potenze che per questo
motivo avevano siglato, il 1° gennaio 1471, una Lega particolare
di mutua assicurazione dal pericolo ottomano e dalle trame dello
Sforza e Luigi XI di Francia 52. Un preludio delle successive leghe
che ambedue i potentati avrebbero separatamente contratto con
50
Giovanni Andrea Cagnola a Galeazzo Maria Sforza, Napoli,
7.IX.1471, ASMi, SPE, Napoli, 220, cc. 52-53. Angelo Probo d’Atri fu
ambasciatore a Venezia. Su di lui vd. L. Sorricchio, Angelo e Antonio Probo,
ambasciatori aragonesi, «Archivio storico per le province napoletane», XXI,
fasc. 1 (1896), pp. 148-169. Dal dispaccio si evince il desiderio apparente
del duca di intercedere presso il pontefice in favore di Ferrante che, scrive Cagnola, «ne piglia gran piacere et molto ne rengratia vostra excellentia con dire che acepta l’offerta de quella, la quale molto pregha voglia
dargli tuti quelli adiuti et favori che po presso la prefata santità». Nel mese di giugno era stato l’Aragonese a rivolgersi con successo a Paolo II per
favorire la revoca di una bolla (probabilmente «In coena domini») promulgata contro lo Sforza (Giovanni Andrea Cagnola a Galeazzo Maria
Sforza, Napoli, 10.VI.1471, ASMi, SPE, Napoli, 220, cc. 6-7). In cambio
dell’appoggio al re, il duca di Milano aveva preteso che il sovrano garantisse per scrittura la neutralità nel caso di una guerra mossa a Venezia
(Lorenzo de’ Medici, Lettere cit., pp. 321, 335). Sui rapporti tra Galeazzo
e Paolo II vd. Somaini, Un prelato lombardo del IV secolo cit., pp. 374-375
nota 193.
51
Giovanni Andrea Cagnola a Galeazzo Maria Sforza, Napoli,
7.IX.1471, ASMi, SPE, Napoli, 220, cc. 52-53. Poco dopo, Cagnola attestò il ripensamento del re, che «mo me pare che sia d’altra opinione, anze, intendo pur da bon loco che ’l gli pare che al presente debìano stare
sopra de loro perché pur spera che questo papa che se demonstra desideroso a questa impresa contra el Turcho farà et operarà qualche ben».
52
I capitoli della lega furono inviati a fine marzo a Paolo II, che
«prima facie mostra haverne umbreza pur dice che, viste che hebbe essi
capituli et bene intesi, benedisse essa liga et approbala» (Id. a Galeazzo
Maria Sforza, Napoli, 27.III.1471, ASMi, SPE, Napoli, 220, cc. 202-203).
Per i legami tra Venezia e Napoli vd. M. Jacoviello, Venezia e Napoli nel
Quattrocento. Rapporti fra i due Stati e altri saggi, Napoli 1992, pp. 56-58; Ilardi, Ferrante d’Aragona e Galeazzo Maria Sforza cit., p. 116.
226
Gianluca Falcucci
Carlo il Temerario, duca di Borgogna, in funzione anti-francese
e anti-sforzesca 53.
Vale la pena soffermarsi in breve sul progressivo raffreddamento dei rapporti tra Napoli e Milano, incrinati già a seguito
della guerra di Rimini del 1469, che aveva visto su fronti opposti il Regno di Napoli e lo Stato della Chiesa. In quell’occasione,
la condotta indipendente assunta sul terreno diplomatico da
Galeazzo, che aveva scelto di trattare direttamente con il papa e
non supportare militarmente il sovrano, fu ritenuta non aderen53
Fubini, Italia quattrocentesca cit., p. 274. La lega tra Venezia e Napoli
fu firmata da Ferrante il 19 aprile 1471(Pontieri, Per la storia di Ferrante I
d’Aragona cit., p. 249; De Filippo, Ferrante d’Aragona e la ricerca di
un’egemonia politica cit., pp. 60-62). L’alleanza tra la Borgogna e Napoli fu
ratificata il 15 agosto e annunciata pubblicamente a Napoli il 1° novembre, andando a inserirsi nei più ampi patti anti-francesi sottoscritti lo
stesso giorno a Saint-Omer tra gli Aragona di Spagna, i principi di Castiglia (Ferdinando e Isabella) e Carlo di Borgogna. I capitoli dell’alleanza
con la Borgogna furono inviati in novembre a Venezia, che il 15 giugno
dell’anno successivo avrebbe concluso a Péronne un’alleanza con il ducato francese (Vittore Soranzo e Zaccaria Barbaro alla Signoria, Napoli,
2.XI.1471, in Corrispondenze diplomatiche veneziane da Napoli - Dispacci di Zaccaria Barbaro (1° novembre 1471 – 7 settembre 1473), ed. G. Corazzol, Roma
1994, p. 32; Fubini, Italia quattrocentesca cit., p. 274). Per le trattative e
l’alleanza tra Venezia e la Borgogna vd. P. M. Perret, Histoire des relations
de la France avec Venise, I, Paris 1898, pp. 550-593. L’alleanza tra Napoli e
la Borgogna prevedeva difesa reciproca in caso di attacco fino a conclusione del conflitto. L’intervento poteva essere effettuato con uomini o
denari. I contingenti da impiegare sarebbero stati di 1000 lance da 3 uomini (all’italiana) o 600 lance con fanteria equivalente a 400 lance, per
Ferrante, mentre Carlo avrebbe dovuto inviare in soccorso di Napoli 500
lance da 3 uomini alla maniera francese e 1000 arcieri o balestrieri a cavallo. Per quanto riguarda il denaro, invece, si sarebbero dovuti fornire
120.000 ducati per ogni anno di guerra in due rate. La scelta tra uomini e
denaro spettava alla parte attaccante e si sarebbe dovuta attuare rispettivamente entro 3-5 mesi dalla richiesta, salvo complicazioni di tipo geografico per l’invio di uomini. Non era possibile per le parti firmare pace
unilaterali con stati contro i quali entrambe le potenze fossero state in
guerra. Veniva, infine, lasciata una riserva di ingresso nella lega a Venezia
(De Filippo, Ferrante d’Aragona e la ricerca di un’egemonia politica cit., p. 156).
Per il testo del trattato vd. R. J. Walsh, Charles the Bold and Italy (14671477): politics and personel, Liverpool 2005, Appendice n. 44.
Tra vecchie e nuove alleanze
227
te agli accordi della Lega particolare da Ferrante, rivelatosi fino
a quel momento abile manovratore del giovane duca di Milano.
L’insofferenza di quest’ultimo nei confronti dell’ingerenza napoletana è testimoniata da un esposto indirizzato agli oratori
sforzeschi a Firenze, nel quale sono elencati gli elementi di contrasto con Ferrante, accusato da Galeazzo di essersi intromesso
nei rapporti con la madre Bianca Maria per condizionarne la
politica; di aver trattato con il papa in maniera unilaterale la
condotta del conte di Urbino per la campagna del 1467; di essersi opposto all’intervento milanese in Piemonte a favore di
Luigi XI; di aver cercato di far chiudere al pontefice la pace del
1468 senza tenere conto dei legami tra Milano e la Francia; infine, di aver cercato di usarlo come pedina alternativamente contro il pontefice o contro i veneziani, attraverso promesse di
guerra all’uno e all’altro, chiedendogli, inoltre, di farsi portavoce
presso il re di Francia delle istanze aragonesi in Catalogna 54.
L’immagine del duca vittima esclusiva delle manipolazioni del
sovrano contrasta, d’altro canto, con il pervicace ostruzionismo
di Galeazzo nei riguardi delle mosse di Ferrante. Come testimonia, ad esempio, il tentativo di rovesciamento di Jacopo III
Appiano – signore di Piombino posto sotto la protezione
dell’Aragonese – attuato da un gruppo di fuoriusciti con
l’appoggio dello Sforza e di Lorenzo de’ Medici nel marzo del
1471. L’operazione militare, di scarsa rilevanza militare ma dal
forte impatto politico, nacque in occasione della sfarzosa visita
a Firenze del duca di Milano, animato dal desiderio di rinsaldare
l’alleanza con Firenze in vista di un’aperta rottura con Napoli e
Venezia 55. Il colpo di mano sforzesco a Piombino, pur fallendo
a causa del tardivo arrivo dei fanti ducali, avrebbe suscitato l’ira
di Ferrante, che, dopo avere ottenuto il sostegno diplomatico di
54
De Filippo, Ferrante d’Aragona e la ricerca di un’egemonia politica cit, pp.
51-58. Sui rapporti altalenanti tra il re e il duca vd. anche Ilardi, Ferrante
d’Aragona e Galeazzo Maria Sforza cit., pp. 49-71.
55
Per un approfondimento sulla visita a Firenze di Galeazzo vd. R.
Fubini, La visita a Firenze del duca di Milano, in Lorenzo de’ Medici. Studi, cur.
G. C. Garfagnini, Firenze 1992.
228
Gianluca Falcucci
Venezia e di Siena, preparò l’invio di galee e decise di rendere
pubblica la lega sottoscritta con Venezia. Al sovrano, tuttavia,
convenne superare velocemente lo screzio con Firenze per favorire l’avvicinamento di Lorenzo de’ Medici all’asse NapoliVenezia nella prospettiva di una progressiva offensiva politicodiplomatica contro Milano e la Francia 56.
Dopo Firenze e Venezia, la designazione dell’ambasceria
d’obbedienza al papa fu deliberata anche a Napoli. Ne fornisce
nota una missiva dell’8 settembre spedita da Giovanni Andrea
Cagnola al duca di Milano 57, a sua volta indeciso se partecipare
o meno in prima persona alla delegazione da lui designata 58. La
scelta del re su chi dovesse capeggiarla cadde sull’«illustrissimo
et reverendissimo monsegnore don Johanne, suo figliolo» 59, che
nel giorno precedente, per «refferire gratia» al padre di avergli
fatto concedere l’abbazia di Montecassino, aveva recitato nella
56
De Filippo, Ferrante d’Aragona e la ricerca di un’egemonia politica cit, pp.
130-131. Sull’operazione militare a Piombino affidata al conestabile Benedetto del Borgo vd. L. Cappelletti, Storia della città e stato di Piombino dalle
origini fino all’anno 1814, Bologna 1897, p. 110.
57
Giovanni Andrea Cagnola a Galeazzo Maria Sforza, Napoli,
8.IX.1471, ASMi, SPE, Napoli, 220, c. 58.
58
Lorenzo de’ Medici, Lettere cit., p. 337 nota 5. Per l’ambasciata milanese erano stati designati i fratelli del duca Ascanio, protonotario apostolico, e Sforza Maria, duca di Bari. Seguivano: Jacopo Antonio della
Torre, vescovo di Parma; Giovanni Arcimboldi, vescovo di Novara; Paolo, vescovo di Helianpolis e confessore ducale; i consiglieri segreti Pier
Maria Rossi, Giovan Ludovico Pallavicino, Nicodemo Tranchedini, Pietro da Gallarate, Giovanni Agostino da Vimercate; Ambrogio Grifo, dottore in arti e medicina. Lungo il tragitto, la delegazione avrebbe dovuto
fare tappa a Bologna, Firenze e Siena secondo quanto stabilito dal duca
nelle istruzioni ai propri oratori, dalle quali si apprende del compito affidato ad Ascanio di leggere l’orazione «congratulatoria» al pontefice (Galeazzo Maria Sforza agli ambasciatori sforzeschi, Vigevano, 16.IX.1471,
ASMi, SPE, Roma, 68). Il testo dell’orazione latina è reperibile in ASMi,
SPE, Roma, 68, cc. 10-11. La delegazione giunse a Roma il 13 ottobre, ma
Galeazzo vi aveva inviato già il fratello Ludovico Maria, che aveva privatamente onorato il pontefice il giorno dopo l’elezione.
59
Giovanni Andrea Cagnola a Galeazzo Maria Sforza, Napoli,
8.IX.1471, ASMi, SPE, Napoli, 220, c. 58.
Tra vecchie e nuove alleanze
229
cappella reale una gradita «orazioncella» in presenza dell’ambasciatore fiorentino 60, di quello sforzesco e di «molte gente» 61.
Per la scelta degli accompagnatori, emersero le candidature di
rilievo del duca d’Ascoli 62, del duca d’Andria 63 e del conte di
Fondi 64.
La controversia tra Ferrante d’Aragona e la Santa Sede
D’un tratto, l’organizzazione del viaggio fu sospesa a causa del
rifiuto del papa di derogare i diritti sul vicariato, pur mostrandosi disponibile a «componere quella delli censi et de le terre del
reame». A farne menzione è Cavalchino Guidoboni, ex segretario sforzesco residente a Napoli, al collega Cicco Simonetta,
messo al corrente di come Ferrante fosse anche «molto scandelizato et suspecto» dopo aver appreso di manovre attuate a danno dei suoi interessi dagli oratori sforzeschi a Roma 65.
Galeazzo, fingendo di accogliere la richiesta di intercessione
avanzatagli dal re, faceva buon visto e cattivo gioco, pressando il
papa perché respingesse le pretese dell’Aragonese e trattando
contemporaneamente l’alleanza con Firenze e con Luigi XI, al
quale offriva la disponibilità ad andare a Roma a prestare obbedienza anche a nome suo 66.
60
Bernardo Buongirolami.
Giovanni Andrea Cagnola a Galeazzo Maria Sforza, Napoli,
8.IX.1471, ASMi, SPE, Napoli, 220, c. 58.
62
Orso Orsini, duca d’Ascoli e conte di Nola e di Atripalda. Su di lui
Regis Ferdinandi primi Instructionum Liber cit., pp. 384-386.
63
Pirro Del Balzo, duca d’Andria e di Venosa, Gran Connestabile
del Regno e presidente del Sacro Regio Consiglio (ivi, pp. 274-278).
64
Onorato Gaetani, duca di Fondi, logoteta e protonotario del Regno (ivi, pp. 334-336).
65
Cavalchino Guidoboni a Cicco Simonetta, Napoli, 2.X.1471,
ASMi, SPE, Napoli, 220, c. 74.
66
Lorenzo de’ Medici, Lettere cit., pp. 321, 341. L’influenza di Galeazzo sul pontefice può essere desunta, a titolo esemplificativo, da una
istruzione inviata a Nicodemo Tranchedini, invitato a «servare che la
sancità de nostro signore non restituesse alla mayestà del re quelle terre
61
230
Gianluca Falcucci
Sisto IV, dal canto suo, stava prendendo tempo, affermando
di non voler «componere le cose del re» poiché avrebbe perso
«l’obedientia» del re di Francia e dello stesso duca di Milano
che 67, poco tempo prima, aveva formalmente accolto la richiesta
di Tommaso Soderini, ambasciatore fiorentino a Milano, «che
questo acto de obedientia se facci unitamente con tutti li ambassatori de sua mayestà et signori fiorentini et nostri» 68 a esaltazione della Lega particolare stipulata nel 1467 69.
che la domanda quando bene in el dare l’obedientia gli fosse usato questa
exceptione». Il Tranchedini avrebbe dovuto chiedere al pontefice «da
parte nostra che niente non vogli consentire la restitutione de dicte terre.
Imperò che facendolo, poy chiarirla che le farà grandissimo dispiacere
alla mayestà del christianissimo signore re de Franza et non mancho ad
nuy né più ne bastaria l’animo de parlare ad esso signore re de Franza del
facto de obedientia» (Galeazzo Maria Sforza a Nicodemo Tranchedini,
Pavia, 9.IX.1471, ASMi, SPE, Roma, 68).
67
Cavalchino Guidoboni a Cicco Simonetta, Napoli, 2.X.1471,
ASMi, SPE, Napoli, 220, c. 74.
68
Lorenzo de’ Medici, Lettere cit., p. 338 nota 7. Nella lettera spedita da
Lorenzo de’ Medici a Sacramoro da Rimini il 3 ottobre è fatta menzione di
missive da Napoli ricevute dall’oratore fiorentino Bernardo di Giovanni
Bongirolami, dalle quali si era appreso che «la Maestà del Re non manderà
oratori per la ubidienza, se non acconce le differenze, etc. Conprendo ancora si dolga che ’l cardinale di Mantova e Nichodemo commissione Principis nostri persuadent Pontifici che tenga in collo, e questo dicono sapere,
perché Pontifex ore suo dice che se consentisse al Re le dimande sue, sa
che né ’l re di Francia né il duca di Milano non li darebbono la obedientia,
che non mi paiono modi a stare bene insieme, quando ci fusse solamente
la suspitione» (Lorenzo de’ Medici a Sacramoro da Rimini, Roma,
3.X.1471, ASMi, SPE, Firenze, 282, ivi, pp. 340-345).
69
Fubini, Italia quattrocentesca cit., p. 231; Lorenzo de’ Medici, Lettere
cit., pp. 541-546; G. Nebbia, La lega italica del 1455: sue vicende e sua rinnovazione nel 1470, «Archivio Storico Lombardo», 4 (1939); pp. 33-59; R.
Cessi, La Lega Italica e la sua funzione nella seconda metà del secolo XV, «Atti
dell’Istituto veneto di scienze, lettere e arti», 102 (1943), pp. 99-176. La
Lega particolare era stata apparentemente rinsaldata con gli accordi segreti di Marino del 29 giugno 1468, concepiti come clausole aggiuntive
alla Lega del 1467. Essi stabilivano la reciproca protezione nel caso in cui
il re di Napoli o il duca di Milano fossero offesi per essere intervenuti in
guerra in virtù delle obbligazioni con i rispettivi alleati, il re d’Aragona o
quello di Francia, contro, rispettivamente, la casa d’Angiò o il duca e i
Tra vecchie e nuove alleanze
231
I rischi addotti dal pontefice e dal Sacro Collegio scaturivano dalle pretese del «christianissimo re di Franza» che, nel sollecitare alacremente lo Sforza affinché mediasse i propri attriti
con la Santa Sede 70, aveva subordinato l’invio dell’ambasceria
all’accoglimento di alcune istanze già precedentemente respinte
da papa Barbo, cioè che fosse negata la dispensa richiesta dal
fratello minore Carlo, duca di Guyenne, onde contrarre matrimonio con Maria di Borgogna e che fosse fatto cardinale e legato d’Avignone Carlo di Borbone, arcivescovo di Lione. Tramite
il legato apostolico Falcone Sinibaldi, Luigi XI aveva poi rincarato la dose, chiedendo che gli fosse consentito anche di procedere per fellonia contro il cardinale Jean Balue e, in generale,
che non fosse conferita «veruna chiesa metropolitana né di gran
valuta o importantia senza sua licentia» 71.
Al tergiversare di Ferrante e alle lungaggini dello Sforza rispose abilmente Lorenzo de’ Medici 72, che il 3 ottobre accompagnò di persona l’ambasciata fiorentina presso il Palazzo Apostolico, dove – racconterà all’oratore sforzesco Sacramoro da
principi di Savoia. Si trattava, come ha ricordato Fubini, «del riconoscimento (con formale partecipazione di Firenze) dell’estensione degli obblighi della lega oltre l’ambito italiano, in senso anti-angioino ed antisavoiardo» (Fubini, Italia quattrocentesca cit., p. 232). Il trattato sarebbe stato cassato nel rinnovo della Lega l’8 luglio 1470, segno tangibile della diversa disposizione del re di Francia e dell’indebolimento della Lega stessa. (ibid.; De Filippo, Ferrante d’Aragona e la ricerca di un’egemonia politica cit.,
pp. 66-67).
70
Galeazzo diede istruzione al Tranchedini affinché facesse «grande
instantia perché sua santità sia contenta di compiacere ad essa mayestà,
delché receveremo singulare piacere» (Galeazzo Maria Sforza a Nicodemo Tranchedini, Galliate, 22.IX.1471, ASMi, SPE, Roma, 68, c. 27).
71
Lorenzo de’ Medici, Lettere cit., p. 343 nota 8. L’obbedienza francese ebbe luogo nel luglio 1472 dopo un lungo negoziato (Farenga, «Monumenta Memoriae». Pietro Riario fra mito e storia cit., pp. 191-192).
72
Per le trattative tra Galeazzo e Luigi XI vd. Pastor, Storia dei Papi
cit., pp. 325-327. Gli oratori residenti sforzeschi e aragonesi si incontrarono la mattina del 1° ottobre con gli ambasciatori fiorentini presso la
chiesa romana di San Niccolò, trattando le tempistiche dell’obbedienza
congiunta che, a causa dei ritardi di Milano e Napoli, non ebbe luogo
(Lorenzo de’ Medici, Lettere cit., p. 340 nota 1).
232
Gianluca Falcucci
Rimini – «honorevolmente facemo gli atti nostri» 73. Alla cerimonia presenziarono sia Tranchedini, chiamato a guidare la delegazione, che «inadvertentemente» il Rocha e l’Arcamone. La
visita di obbedienza segnò un importante traguardo per il giovane signore di Firenze, che, agendo d’anticipo rispetti agli alleati, ricevette per la sua famiglia la nomina a depositarii della
Camera Apostolica, oltre a importanti concessioni sullo sfruttamento delle miniere di Tolfa di cui i Medici erano già stati appaltatori e depositarii della Crociata 74.
73
Ibid. L’ambasceria fiorentina partì da Firenze il 23 settembre. Oltre
a Lorenzo, da poco succeduto al padre, includeva Angelo della Stufa,
Buongianni Gianfigliozzi, Domenico Martelli, Pietro Minerbetti e Donato Acciaiuoli (ivi, p. 337 nota 3). Lorenzo avrebbe fatto rientro a Firenze
il 26 ottobre assieme a Donato Acciaiuoli e Angello della Stufa (ivi, p.
354 nota 5). Dai dispacci del Tranchedini sappiamo che il 5 ottobre prestarono obbedienza gli inviati di Ercole d’Este (tra i quali figurava il vescovo di Adria, Tito Novello); l’8 i senesi (Nicolò Severino, Bartolomeo
Benassai, Guidantonio Bonensigni); l’11 i mantovani (Giovan Francesco
Gonzaga, Rodolfo Gonzaga, Beltramino di Crema, Nicolò Terzi); il 17
gli sforzeschi; il 4 novembre i monferrini; il 7 i lucchesi, il 16 i genovesi
(Baptista da Goano, Gotardo Stella, Lodisio Centurione, Jacomo de Axereto, Ambrosio Spinola, Paulo Iustiniano de Bancha, Hieronymo de
Grimaldi, Petro Gentili). Nello stesso mese sarebbero arrivati anche gli
ambasciatori austriaci, ravennati, ungheresi e portoghesi (Pastor, Storia dei
Papi cit., p. 443 nota 1).
74
R. De Roover, Il banco Medici dalle origini al declino (1397-1494), trad.
G. Corti, Scandicci 1988 (ed. or. New York 1966) p. 285; Pastor, Storia
dei Papi cit., p. 442. A curare le relazioni tra Lorenzo e Sisto IV fu in un
primo momento Filippo de’ Medici, arcivescovo di Pisa, che in una lettera del 15 novembre avrebbe riferito a Lorenzo di come papa della Rovere lo avesse «ricolmato di tanti onori che non li potrei ridire se avessi
cento lingue. Egli mi disse che mi dovessi persuadere di questo, che io
potrei disporre a mio talento di papa Sisto IV, come se si trattasse di me
stesso» (Pastor, Storia dei Papi cit., p. 442). La Depositeria generale della
Crociata era stata istituita da Paolo II per sovvenzionare la crociata contro il Turco attraverso i proventi del commercio dell’allume di Tolfa. Il
pontefice la affidò a diversi appaltatori tra cui i Medici, già appaltatori
delle miniere di allume dal 1461, quando la Camera Apostolica concesse
una littera passus a Piero di Cosimo de’ Medici (Ait, Dal governo signorile al
governo del capitale mercantile cit.). Nei propri Ricordi, Lorenzo menzionò la
visita romana: «Del mese di settembre MCDLXXI fui eletto ambasciato-
Tra vecchie e nuove alleanze
233
Come si evince dai febbrili negoziati e dai continui cambi di
programma in calendario, l’organizzazione di un’ambasceria
d’obbedienza rinascimentale rispondeva a complesse logiche
che, al di là dei convenevoli e delle reciproche diffidenze, erano
subordinate alla salvaguardia della propria legittimazione politica, oltre che alla tutela dei singoli interessi in gioco. Un esempio
è l’instructio fornita da Galeazzo ai propri delegati in viaggio verso Roma, ai quali concedeva di prestare l’obbedienza assieme
agli ambasciatori aragonesi e fiorentini – come proposto in un
primo momento da Ferrante «per riputatione et honore de nui
tutti e de la nostra liga particulare» – con la precisazione che,
qualora il pontefice avesse voluto che gli inviati aragonesi pronunciassero l’orazione a nome di tutti, essi avrebbero dovuto
sottrarsi e «recitarla da per sé in nostro nome tantum»; allo stesso modo, se gli inviati di Ferrante avessero concesso ad Ascanio
Sforza di pronunciare la propria orazione anche a nome loro,
non bisognava comunque accondiscendere, «perché poterìa essere che la mayestà del re vorìa con questo prestare obedientia
conzare li facti soi del Regno». Anche per le tempistiche bisognava stare in guardia, essendo necessario vagliare che eventuali
ritardi sulla tabella di marcia non fossero dipesi per «casone de
re a Roma per l’incoronazione di papa Sisto, dove fui molto onorato, e di
quindi portai le due teste di marmo antiche delle immagini d’Augusto et
Agrippa, le quali mi donò detto papa Sisto, e più portai la scodella nostra
di calcedonio intagliata con molti altri cammei, che si comperarono allora, fra l’altre il calcedonio» (Lorenzo de’ Medici, Opere, ed. T. Zanato, Torino 1992, p. XXXIX). Alcuni dei pezzi erano appartenuti al cardinale
Ludovico Trevisan, per poi entrare a far parte della ricca collezione di
Paolo II, incamerata alla sua morte da Sisto IV e in parte venduta, per
conto del banco Tornabuoni Medici, per ripianare i debiti lasciati da papa
Barbo. La «scodella» di cui parla Lorenzo è la cosiddetta “tazza Farnese”,
vaso in sardonica di età ellenistica oggi custodito al Museo Archeologico
Nazionale di Napoli. Per la documentata storia del manufatto vd. M. Belozerskaya, Medusa’s gaze. The extraordinary journey of the Tazza Farnese, Oxford 2012. Per una dettagliata descrizione della visita dei cardinali al tesoro di papa Barbo, stimato un milione di ducati e custodito in Castel
Sant’Angelo vd. Pietro Modignani a Galeazzo Maria Sforza, Roma,
14.VIII.1471, ASMi, SPE, Roma, 68.
234
Gianluca Falcucci
le diferentie tra ’l papa e ’l re aut per altre particularità fra loro».
Il termine fissato non doveva essere in alcun modo sforato
tranne che su indicazione del pontefice, dato che «noi dal papa
non volemo cosa alchuna, che solamente […] honorarlo et reverirlo et prestarli la debita obedientia in spiritualibus, et essere
el primo princepe et signore che li presti l’obedientia» 75.
Pochi giorni dopo la visita fiorentina, Giovanni Andrea Cagnola aggiornava lo Sforza di come l’Aragonese ancor perseverasse «de non mandare a dare l’obedientia al papa» 76, mentre
l’11, in una missiva a Cicco Simonetta, riferiva dello sdegno accresciuto a corte nel «videre el papa non inclinarse a la complacentia del re» in assenza della «debita obedientia» 77. Dello stesso
giorno è un resoconto spedito a Galeazzo, dove si apprende
dell’intenzione dei consiglieri del re di indurlo a «scriverne a
non ne facia tropo Venetiani, che non mandino soy ambassiatori a dare l’obedientia al papa» 78. Una proposta che non lo convinse, preferendo scrivere ai propri oratori a Roma affinché invogliassero i colleghi veneziani in loco a voler «confortare a stare
sopra de loro in dare questa obedientia, fin che ’l papa non cumdescende a cumpiacere al re» 79. Nel post scriptum Giovanni An75
Galeazzo Maria Sforza agli ambasciatori sforzeschi, Vigevano,
16.IX.1471, ASMi, SPE, Roma, 68. In una nota a margine, si avvisava gli
inviati che nel caso in cui il pontefice non avesse voluto «durare fatigha
de odire» le tre le orazioni nello stesso giorno, gli sforzeschi avrebbero
dovuto prestare obbedienza nel secondo giorno, presenziando comunque alle cerimonie dei colleghi.
76
Giovanni Andrea Cagnola a Galeazzo Maria Sforza, Napoli,
6.X.1471, ASMi, SPE, Napoli, 220, c. 75. Lorenzo de Medici ricordava a
Sacramoro come gli ambasciatori regi «non s’intendino habbino a venire,
se non si pigla forma a queste cose tra lui e ’l Papa, di che il Re è forte
incaricato, non so se a ragione o torto» (Lorenzo de Medici a Sacramoro
da Rimini, Roma, 10.X.1471, ASMi, SPE, Firenze, in Lorenzo de’ Medici,
Lettere cit., pp. 352-355).
77
Giovanni Andrea Cagnola a Cicco Simonetta, Napoli, 11.X.1471,
ASMi, SPE, Napoli, 220, cc. 79-80.
78
Id. a Galeazzo Maria Sforza, Napoli, 11.X.1471, ASMi, SPE, Napoli, 220, cc. 81-82.
79
Ibid.
Tra vecchie e nuove alleanze
235
drea Cagnola notificava anche la mancata possessione dell’Abbazia di Montecassino da parte di Giovanni d’Aragona, poiché
«el comessario ch’è stato lì in l’abazia al tempo de papa Paulo
domanda un di gran dinaro de sua provisione» 80.
L’ostacolo fu superato alla metà del mese, quando la questione si risolse definitivamente a favore del commendatario
grazie alle dimissioni del vecchio amministratore, Niccolò Sandonnino di Lucca 81, a seguito delle quali il Cagnola confermerà,
in un dispaccio del 26 ottobre, l’intenzione del sovrano di lasciar partire l’ambasciata con a capo il figlio che aveva oramai
«avuto l’abbatia de Montecassino mo integramente con tute le
forteze » 82. Per l’onerosa successione del quartogenito, Ferrante
– che aveva intavolato le trattative con il commissario papale
Gentile da Spoleto – pagò a titolo di donativo dei vassalli della
Badia 2.300 ducati d’oro da assegnare in parte al Sandonnino
per la sua buona gestione, in parte alla Camera Apostolica per le
bolle emanate. Il possesso della Badia fu assunto ad interim da
Bessarione d’Aragona, abate di San Severo, e dall’amministratore e vicario generale Ludovico de Borzis 83.
Nel frattempo, a pronunciarsi a favore di una riconciliazione
tra la Sede Apostolica e il Regno di Napoli sarebbe stato Federico da Montefeltro, capitano d’arme della Lega tra Milano, Napoli e Firenze, che, nel mandare a Roma un proprio oratore a
prestare l’obbedienza, non si sottrasse dal far osservare al pontefice come stesse vivendo «sugieta ad alcuni cardinali, quali se
gloriavano haverla facta papa», motivo per cui l’unica strada per
liberarsi dalla «subiectione» e «farsi temere et extimare per tuta
Italia et da omne signore cristiano» sarebbe stata quella di venire
80
Ibid.
L. Tosti, Storia della Badia di Montecassino, III, Napoli 1843, p. 176.
82
Giovanni Andrea Cagnola a Galeazzo Maria Sforza, Napoli,
26.X.1471, ASMi, SPE, Napoli, 220, cc. 97-98.
83
Tosti, Storia della Badia di Montecassino cit., p. 181. Il Tummulillo
quantifica la somma in 2.800 ducati, datando la presa di possesso aragonese al 14 ottobre (Angelo De Tummulillis, Notabilia temporum cit., pp.
180-181).
81
236
Gianluca Falcucci
a patti con l’Aragonese e instaurare un legame tale che «ogniuno
intendesse che fusseno una cosa medesima insyeme» 84. Trait
d’union dell’accordo non poteva che essere il parentado tra un
nipote del pontefice e una figlia di Ferrante, tenendo conto del
«tractamento et bona conditione facta per essa mayestà al nepote de papa Pio» 85.
Il suggerimento del conte di Urbino, un vero e proprio assist al re di Napoli, trovò l’approvazione di Sisto IV, che affidò
all’inviato urbinate il compito riservato di sondare, di lì a un
mese, la disponibilità del sovrano, «rescrivendogli poy de sua
mano de quanto l’haverìa trovato et operato». L’oratore fu invitato a non confessare la cosa «cum cardinali né persona alcuna»,
poiché «havuta la resposta sua mandarìa uno deli suoy fidati et
secreti dala prefata mayestà» 86. Essendo in corso nel 1471 le
trattative per dare in sposa la figlia del conte di Urbino, Elisabetta, a Roberto Malatesta, Federico aveva sicuramente interesse
a che la questione riminese venisse risolta con l’investitura del
genero. Primo passo in questa direzione era sicuramente la riconciliazione tra il Regno di Napoli e lo Stato della Chiesa, il cui
84
Francesco Maletta a Galeazzo Maria Sforza, Napoli, 14.III.1472,
ASMi, SPE, Napoli, 221, cc. 119-121.
85
Ibid. Antonio Piccolomini, duca di Amalfi.
86
Ibid. L’oratore in questione poteva essere Giovanni Battista Bentivoglio, che Nicodemo Tranchedini ci informa esser giunto a Napoli tra
fine ottobre e inizio novembre per «mettere scandalo» tra Ferrante e Galeazzo (Nicodemo Tranchedini a Galeazzo Maria Sforza, Roma,
6.XI.1471, ASMi, SPE, Roma, 68). Dalla Cronaca di ser Guerriero sappiamo però che nel mese di settembre «el magnifico Ottaviano de li Ubaldini et el signore Antonio andaro a Roma a visitare papa Sisto per parte del
signore conte, li quali ricevero grande honore. El papa li vedde volentieri
et feceli molte careze. El papa et cardenali li mandaro le loro fameglie
incontro». Cronaca di ser Guerriero da Gubbio dall’anno MCCCL all’anno
MCCCCLXXII, ed. G. Mazzantini, in Rerum Italicarum Scriptores (2a ed.),
XXI/IV, Città di Castello 1902, p. 89. Il ruolo del conte di Urbino, «primo motore» del parentado come affermò il suo oratore, è di grande interesse e meriterebbe senz’altro un ulteriore approfondimento. Che i suoi
rapporti fossero in quel periodo in riavvicinamento con la Chiesa lo ha
evidenziato Fubini, Italia quattrocentesca cit., p. 278.
Tra vecchie e nuove alleanze
237
scontro militare non avrebbe giovato a nessuno e lo avrebbe
obbligato a intervenire contro la Chiesa in qualità di capitano
della Lega particolare tra Milano, Napoli e Firenze 87.
In attesa della svolta auspicata, la nuova proposta d’invio a
Roma cadde anch’essa nel vuoto, come avrebbe constatato il
nuovo oratore sforzesco a Napoli, Francesco Maletta, chiamato
a sostituire Giovanni Andrea Cagnola dal 19 novembre 88. In
una missiva del 30, Francesco Maletta narrava allo Sforza di
come il duca di Calabria 89, Alfonso, gli avesse fornito giustificazione in merito al ritardo della delegazione aragonese. Il motivo
era dovuto a una lettera con cui il vescovo di Capaccio90, orato87
W. Tommasoli, La vita di Federico da Montefeltro. (1422-1482), Urbino 1995, pp. 224 sgg., al quale si rimanda per un focus sulle azioni distensive del conte nei riguardi di Milano, Napoli e Roma nel 1471-1472;
su questo tema vd. anche De Filippo, Ferrante d’Aragona e la ricerca di
un’egemonia politica cit., pp. 133 ss.
88
La sostituzione fu interpretata a Napoli come conseguenza del suo
temperamento eccessivamente docile. A darne notizia è Cavalchino Guidoboni in una lettera del 10 novembre a Cicco Simonetta, nella quale si
legge: «Questa remotione de missere Iohanne Andrea è interpretata in
mala parte e credano che el nostro illustrissimo signore remova missere
Iohanne Andrea per essere più quieto et per mandare homo più animoso
et de cativa natura» (Cavalchino Guidoboni a Cicco Simonetta, Napoli,
10.XI.1471, ASMi, SPE, Napoli, 220, cc. 115-116). Per la descrizione
dell’arrivo “in incognito” di Francesco Maletta a Napoli vd. G. Calabrò,
«Siati per le mille fiate el ben venuto…»: la prassi dell’arrivo e dell’accoglienza
di un ambasciatore (Napoli 1471-Venezia 1473), «I quaderni del m.ae.s.», 16
(2018), pp. 204-222, https://maes.unibo.it/article/view/8730/8448. Partito da Napoli, Cagnola giunse a Roma il 1° dicembre, trattenendosi per
lungo tempo in udienza con il pontefice. Cagnola era arrivato a Napoli il
24 aprile 1470, insieme al collega fiorentino Otto Niccolini, in veste di
oratore permanente. Sul trasferimento del Cagnola a Napoli e le istruzioni ricevute dallo Sforza vd. Ilardi, Ferrante d’Aragona e Galeazzo Maria Sforza cit., pp. 110, 120. Sulle opposte personalità del Cagnola e di Maletta
vd. ivi, p. 120.
89
Alfonso d’Aragona, primogenito del re e duca di Calabria dal 1458.
Su di lui vd. Regis Ferdinandi primi Instructionum Liber cit., pp. 226-228.
90
Francesco Bertini, vescovo di Capaccio ed ambasciatore di Ferrante in Borgogna. Su di lui vd. Eubel, Hierarchia Catholica cit., pp. 88, 118; I.
Walter, Bertini, Francesco, in Dizionario Biografico degli Italiani, IX, Roma
1967, ad vocem. Era stato inviato in Borgogna nell’agosto 1470 «ad fir-
238
Gianluca Falcucci
re presso il duca di Borgogna, aveva espresso al re la volontà di
Carlo il Temerario di «fare l’obedientia al papa insyeme cum legha loro la quale è la mayestà del re, el duca de Borgogna, el re
d’Aragona et lo re de Ingleterra» 91. La proposta – che andava a
suggellare il recente sistema di alleanze anti-francesi sancito il 1°
novembre a Saint-Omer 92 – fu ben accolta dal sovrano aragonese, mai realmente interessato a prestare obbedienza con i veneziani e che per questo temporeggiava «de mandare al dicto dom
Iohanne», impedendo ai suoi inviati di partecipare il 2 dicembre
alla cerimonia levantina 93.
mandam et concludendam confederationem et ligam cum eodem Ill. mo
Duci Burgundiae» (Jacoviello, Venezia e Napoli nel Quattrocento cit., p. 58
nota 38).
91
Francesco Maletta a Galeazzo Maria Sforza, Napoli, 30.XI.1471,
ASMi, SPE, Napoli, 220, cc. 141-143.
92
Ilardi, Ferrante d’Aragona e Galeazzo Maria Sforza cit., p. 117.
93
Gli inviati veneziani erano ser Jacomo Loredan (procurator), ser
Nicolò Marzello (procurator), sier Triadan Gritti, sier Andrea Lion, sier
Marco Corner (el cavalier), sier Bernardo Justinian (I diari di Marin Sanuto,
LII, Venezia 1898, edd. G. Berchet, N. Barozzi, M. Allegri, p. 420). La
loro permanenza a Roma durerà fino al 5 marzo. Ferrante aveva precedentemente suggerito a Venezia di sondare attraverso i suoi inviati in Curia le reazioni del pontefice riguardo un’eventuale accordo tra Venezia e
la Sublime Porta già precedentemente osteggiato da Paolo II. Per questo
motivo, il re consigliava alla Signoria di far rimanere a Corfù il proprio
ambasciatore presso i Turchi, Niccolò Cocco, in modo da far credere alle
potenze rivali che la pace «potesse haver luocho» (Zaccaria Barbaro alla
Signoria, Napoli, 13.XI.1471, in Dispacci di Zaccaria Barbaro cit., pp. 55-56;
Id. alla Signoria, Napoli, 19.XI.1471, ivi, pp.72-74). Giunta a Roma il 28
novembre, la delegazione visitò Aniello Arcamone, informandolo di «havere comandamento prima visitare luy che altri homeni in Roma et como
hanno spetiale commissione de la Signoria recomandare molto stretamente le cose de la mayestà del re al papa» (Francesco Maletta a Galeazzo Maria Sforza, Napoli, 7.XII.1471, ASMi, SPE, Napoli, 220, cc. 50-51).
Durante la cerimonia, Justinian «expose assai degna oratione, continente
quattro parte. Prima la congratulazione de l’assumptione del papa. Seconda la exhortatione al impresa contra el Turco (et questa fo la più parte de la oratione). Terza el prestare l’obedientia. Quarta l’offerirse et recomendarse. Durò dicta oratione circa un’hora et meza» (Giovanni Arcimboldi e Nicodemo Tranchedini a Galeazzo Maria Sforza, Roma,
2.XII.1471, ASMi, SPE, Roma, 68). Agli ambasciatori era stata data istru-
Tra vecchie e nuove alleanze
239
Emerge a chiare lettere quella che Francesco Storti ha definito “arte della dissimulazione” di Ferrante 94, il quale, differentemente da Galeazzo – la cui ambizione politica si sarebbe alla
lunga trasformata in debolezza diplomatica – appare sullo scacchiere internazionale come effettivo protagonista. L’allargamento della tela diplomatica napoletana oltre i confini peninsulari
puntava, del resto, a tutelare gli interessi aragonesi da quelli che
Carlo Alessandro Pisoni chiama «rapporti di forze collaudati sì,
ma logori», che costringevano i sottoscrittori delle varie Leghe
italiche a una «politica di equilibrio instabile, in cui il giocare una
mossa, o perfino il semplice sospettar la nascita di un’alleanza,
generava in rapida successione contraccolpi che disfacevano e
ricomponevano patti antagonisti» 95.
Il duca di Calabria non nascondeva a Francesco Maletta
come la «tardità» fosse dipesa anche dalla mancata trasparenza
con cui Sisto IV si era posto nei riguardi delle oramai ben note
richieste sulla «restitutione de le terre del Reame et la reductione
del censo» 96, rassicurando, tuttavia, che il padre avrebbe lasciato
partire l’ambasceria non appena gli inviati del duca di Borgogna
fossero giunti nei pressi di Roma; qualora non fossero ancora
zione che sollecitassero il papa a contribuire all’allestimento di una flotta
anti-turca e vietare ai cristiani la navigazione nell’Egeo. Tali strategie furono discusse da Barbaro con Ferrante e il capitano generale aragonese,
Galceran de Requesens, che aveva messo in guardia il re dell’enorme forza in mare aperto della flotta ottomana rispetto a quella cristiana (Zaccaria Barbaro alla Signoria, Napoli, 19.XI.1471, in Dispacci di Zaccaria Barbaro cit., pp. 72-74). Per la collaborazione e il buon rapporto tra il Tranchedini e l’Arcimboldi, che spesso sottoscrivono assieme le missive vd. Somaini, Un prelato lombardo del IV secolo cit., pp. 379 ss.
94
Storti, L’arte della dissimulazione cit.
95
C. A. Pisoni - S. Sironi, Una poco conosciuta testimonianza documentale
sulla Lega Italica (1470), «Studi di storia medioevale e di diplomatica Nuova Serie», 19 (2018), p. 92. Sull’opera di costruzione dello Stato aragonese e il processo ideologico di legittimazione regale vd. G. Cappelli,
Politica e pensiero politico nella Napoli aragonese (1443-1503), Roma 2016.
96
Francesco Maletta a Galeazzo Maria Sforza, Napoli, 30.XI.1471,
ASMi, SPE, Napoli, 220, cc. 141-143.
240
Gianluca Falcucci
arrivati entro Natale, avrebbe comunque autorizzato la partenza
dopo aver consultato il proprio entourage.
Lamentele sul comportamento del pontefice erano state, nel
frattempo, espresse al nuovo oratore veneziano, Zaccaria Barbaro, giunto a Napoli ai primi di novembre in sostituzione di
Vittore Soranzo 97. Alla domanda sul perché non lasciasse partire gli ambasciatori, il re rispondeva seccatamente di non voler
«contender cum questo pontefice como fici cum papa Paulo»,
lagnandosi di come sua santità, «uno pocho timida de animo più
di quello bixogna a uno pontefice», si fosse lasciata intimidire
dai cardinali, che lo avevano persuaso di come Luigi XI non
avrebbe prestato obbedienza se egli avesse accolto le istanze
napoletane 98. Ferrante si era poi rivolto a Gentile da Spoleto per
denunciare l’eccessiva «intrinsicheça» tra papa della Rovere e
Galeazzo, che aveva «fato dire a sua santità, s’el non fusse per la
riverentia ditto ducha ha a la persona del pontifice, faria ch’el re
di França non li daria la obedientia, come se lui», osservò sarcasticamente Barbaro, «havesse el re di França sotoposto» 99.
L’alleanza di Galeazzo con la Francia di Luigi XI, rinnovata
nel 1470, si sarebbe rivelata, in realtà, un’arma a doppio taglio
per il duca sul terreno diplomatico. Il sostegno militare fornito
nel 1469 dal re di Francia a Giovanni d’Angiò nella guerra contro Giovanni II d’Aragona aveva, infatti, dato impulso a una
duplice iniziativa da parte dei due rami dei Trastámara, quello
napoletano e quello spagnolo, per la progettazione di due missioni diplomatiche presso Carlo il Temerario e il re d’Inghilterra. L’obiettivo era quello di creare una grande coalizione anti97
Soranzo avrebbe lasciato Napoli il 5 novembre, «a hore XVIII»
(Zaccaria Barbaro alla Signoria, Napoli, 5.XI.1471, in Dispacci di Zaccaria
Barbaro cit., p. 36).
98
Id. alla Signoria, Napoli, 21.XI.1471, ivi, p. 78. Il re aveva già
espresso all’oratore veneziano l’idea che i «duo ultimi cardinali, nepoti de
papa Paulo [Giovanni Michiel e Giovanni Battista Zeno]» gli fossero «inimici
et hano a quella Signoria pocha reverentia», suggerendo alla Serenissima
di «fare tale demonstratione verso loro che nello advenire siano exemplo
ad altri» (Id. alla Signoria, Napoli, 11.XI.1471, ivi, pp. 51-52).
99
Ibid.
Tra vecchie e nuove alleanze
241
francese che, sottoscritta, come si è detto, a Saint-Omer il 1°
novembre 1471, avrebbe incorporato al suo interno le singole
alleanze strette rispettivamente da Napoli e da Venezia con la
Borgogna 100.
Per completare l’arginamento sullo scacchiere italiano
dell’irrequieto duca di Milano – punto di appoggio attraverso il
quale Luigi XI era pronto ad alimentare i suoi pericolosi disegni
espansionistici in Italia – mancava a Ferrante il concordato con
la Santa Sede, i cui rapporti con Napoli non si erano mai interrotti nell’autunno del 1471.
Di inizio novembre è un’informativa dell’oratore veneziano
alla Signoria, avvisato di come Sisto IV avesse mandato a dire a
Ferrante, attraverso l’ambasciatore ferrarese, Giacomo Trotti, di
inviare senza timore i propri delegati, interrogandolo sulla ragione del ritardo di quelli veneziani e se la «Signoria havesse
cum el re alcuna particulare intelligentia» 101. I sospetti papali
erano fondati e trovavano conferma nelle strette relazioni intessute nell’ultimo anno tra la Repubblica di San Marco e Ferrante,
che, informato delle scorrerie turche in Friuli e della conquista
100
De Filippo, Ferrante d’Aragona e la ricerca di un’egemonia politica cit.,
pp. 58-60. Sulla guerra in Catalogna vd. J. Calmette - G. Perinelle, Louis
XI, Jean II et la revolution catalane (1461-1473), Toulose 1903.
101
Informato, il re «subridendo» esclamò: «El papa ce teme», mostrando «haverne piacere solo per poder adaptar meglio le cosse sue» e
aggiungendo che «gran caxone» del ritardo degli ambasciatori era da addurre anche al conte di Urbino «per assetar meglio le cosse del signor
Ruberto» (Zaccaria Barbaro alla Signoria, Napoli, 5.XI.1471, in Dispacci di
Zaccaria Barbaro cit., pp. 39-40). Il giorno 20 Ferrante, nel suo primo incontro con Maletta, rassicurò quest’ultimo che Galeazzo «non s’havea a
maravigliar s’el faceva careze a venetiani, che le faceva sforzatamente et
che mai non fu loro amico, perhò havea tre milia miglia de mare da
guardare, per il che se aiutava de venetiani como de una sbarra a defenderse dal Turcho, del quale veramente monstrava vivere in gran paura,
considerate le predicte cose seguite et li preparamenti de guerra quali tuta
via fa esso Turcho» (Giovanni Andrea Cagnola e Francesco Maletta a
Galeazzo Maria Sforza, Napoli, 20.XI.1471, ASMi, SPE, Napoli, 220, cc.
124-126).
242
Gianluca Falcucci
ottomana di Candeloro (Alanja) 102, si era impegnato a scrivere ai
propri ambasciatori a Roma perché «confortassero la sublimità
vostra [Venezia] per li ambassadori suoi similiter facesse presso
el papa et tuto el consistorio d’i cardinali, a fine intendesseno el
pericolo eminente dela sedia apostolica et de tut’i christiani»,
nonostante la maggior parte dei porporati, a detta del sovrano,
fossero «di pocha voglia che a questa cossa per lo romano pontifice fusse provisto», essendo interessati a che il papa li risarcisse dei «debiti vechi fo del papa Pio» 103.
Un dispaccio del Tranchedini allo Sforza ci informa, invece,
dei «longhi rasonamenti» intercorsi nello stesso periodo tra Sisto IV e Oliviero Carafa sulla nomina a governatore di Pontecorvo di un ufficiale «grato» alla Casa d’Aragona, ma non a Galeazzo, che, attraverso il proprio oratore si mostrò critico anche
della designazione a governatore di Campagna del vescovo di
Fondi 104, persona vicina al re che, nel frattempo, iniziò a contrattare il parentado col papa, «offerendogli una de le figlie […]
per un suo nepote» al quale «se contentava dare in dote tucte le
terre de la diferentia in le confine fra loro» oltre al «vicariato de
Mondavio».
102
Le scorrerie turche ebbero luogo il 9 novembre. La città di Candeloro, appartenente al regno selgiuchide del signore Qylyg Arslan, fu assediata e conquistata nell’autunno dalle truppe turche comandate dal visir
Gedik Ahmed-Pascià (Dispacci di Zaccaria Barbaro cit., p. 33 nota 10; p. 77
nota 1). Ai primi di novembre era giunto a Napoli un emissario di Arslan,
che Ferrante inviò a Roma per «poter trar qualche saço dela disposition del
romano pontifice circa le cosse da esser fatte contra el Turcho» (Vittore
Soranzo e Zaccaria Barbaro alla Signoria, Napoli, 2.XI.1471, in Dispacci di
Zaccaria Barbaro cit., pp. 32-33).
103
Zaccaria Barbaro alla Signoria, Napoli, 21.XI.1471, ivi, pp. 77-78.
Per questo motivo il sovrano avrebbe mandato a dire al pontefice, attraverso il cardinale Carafa, di «non satisfar ad altri, nè pagar debiti vechi, nè
provisione nuove vane, per le quali aveva speso già quindicimila ducati»
(ibid.).
104
Nicola de Faciis, o Colafacio, originario di “Trajecto” (Minturno).
Fu vescovo di Fondi dal 1445 al 1476, anno della sua morte (Eubel, Hierarchia Catholica cit., p. 156).
Tra vecchie e nuove alleanze
243
La proposta, da interpretare come frutto acerbo della mediazione in corso tra le parti, vide il pontefice disposto a «defalcargli de soi censi 100.000 ducati» da assegnare al genero «per
scambio de dicto vicariato» – a condizione che il re «satisfacesse
del resto de dicti censi» 105 – salvo poi mandare a dire a Napoli
che «a verun modo darìa quelle terre de la diferentia al nepote
né a persona se prima non se intende iuridicamente de chi
debìano essere. Et che quando bene fossero adiudicate a sancta
Chiesa, gli parerìa essere presumptuoso a darle a nepoti» 106.
L’ambasceria di obbedienza di Giovanni d’Aragona e la svolta del 1472
A contribuire a sbloccare l’impasse fu una missiva spedita negli
ultimi giorni di novembre da Aniello Arcamone, che rassicurava
il re dell’impegno papale nell’allestimento di trenta galee per la
flotta cristiana; della disponibilità a voler benedire la Lega con la
Borgogna i cui capitoli gli erano stati consegnati negli ultimi
105
Nicodemo Tranchedini a Galeazzo Maria Sforza, Roma,
20.XI.1471, ASMi, SPE, Roma, 68. Tranchedini fu informato del contenuto dei colloqui privati dal cardinale Gonzaga, ibid.
106
Id. a Galeazzo Maria Sforza, Roma, 25.XI.1471, ASMi, SPE, Roma, 68. Nella missiva, Tranchedini confermava al duca di Milano come il
papa «de continuo è stimolato dal Serenissimo Re Ferdinando de dare
una figliola de soa mayestà ad un suo nepote». Barbaro, pochi giorni
prima, aveva appreso da Guido Acquaviva, cancelliere del conte di Urbino, che le questioni territoriali non erano ancora «aconçe», motivo per
cui gli ambasciatori non sarebbero partiti. Né il re voleva che i suoi ambasciatori «havesseron ad dire a sua santità cossa alguna de questo: mandarli la obedientia et parlar solo de le cosse del Turcho. Vuolsi intendere
perché non se acconzavano». Acquaviva aggiungeva: «L’ambassador fiorentino è presso el papa fa tuto el contrario, perché el papa non lo consenta. Li havemo voluto far dare luochi XXIIII perché el papa ce dia in
mano del ducha de Malfi [Antonio Piccolomini] Veruchio et Sancto Achançolo et tre altre forteçe principale ha de presente la Chiesia, perché è
molto a proposito del signor da Rimano [Roberto Malatesta] et del signor
mio [Federico da Montefeltro], et Cesena valeria pocho, perché ‹se› tute quelle terre se restituisseno non se teneriano uno zorno quando queste fusseno in le mano de cui cercha el re» (Zaccaria Barbaro alla Signoria, Napoli, 19.XI.1471, in Dispacci di Zaccaria Barbaro cit., pp. 74-75).
244
Gianluca Falcucci
giorni di novembre; della remissione della decima del clero per
la guerra contro il Turco107.
Sisto IV, volendosi conformare alla capitolazione elettorale,
si era subito attivato nei riguardi dell’improcrastinabile questione turca, avviando già in agosto un confronto tra i cardinali sulla sede di un congresso che avrebbe dovuto segnare la nascita di
una lega di tutte le potenze anti-ottomane, tra le quali figurava
anche il regno turkmeno di Uzun Hasan, alleato della Serenissima 108. Analogamente, giovandosi degli introiti seguiti alla vendita di parte dei tesori di papa Barbo 109, aveva sondato la disponibilità delle potenze italiane a fornirgli le galee necessarie
all’allestimento della flotta pontificia, chiedendone ai genovesi,
interessati a che la guerra non li mettesse «in travaglio col Turco
respecto a gran comertii» 110; ai Milanesi, che presso i cantieri liguri stavano allestendo nuove unità con sospetto del re; ai fiorentini e ai veneziani, ai quali furono chieste cinque galee per
parte; infine allo stesso Ferrante che, timoroso di eventuali accordi sforzesco-papali, gliele avrebbe negate 111, alla pari di quanto avrebbe fatto lo stesso duca di Milano nel mese di gennaio 112.
107
Id. alla Signoria, Napoli, 3.XII.1471, ivi, pp. 90-91. Ricevuti i capitoli della lega, Sisto IV provvide a inviarne copia al duca di Milano (Nicodemo Tranchedini a Galeazzo Maria Sforza, Roma, 25.XI.1471, ASMi,
SPE, Roma, 68).
108
Pastor, Storia dei Papi cit., pp. 443-444. Il progetto non ebbe seguito.
109
In occasione della visita al tesoro di Paolo II, cinquantaquattro
coppe di argento ripiene di perle furono sigillate dai cardinali per sopperire alle spese dell’impresa contro il Turco (ibid.). La vendita fu gestita
dalla filiale Tornabuoni del banco Medici.
110
Giovanni Arcimboldi e Nicodemo Tranchedini a Galeazzo Maria
Sforza, Roma, 27.XI.1471, ASMi, SPE, Roma, 68.
111
Id. a Galeazzo Maria Sforza, Roma, 27.XII.1471, ASMi, SPE,
Roma, 68.
112
In sostituzione delle cinque galee, «ancora in essere» e per questo
indisponibili, Galeazzo si mostrò disposto a versare al pontefice 5.000
ducati per finanziarne la costruzione ex novo (Galeazzo Maria Sforza a
Nicodemo Tranchedini e Giovanni Arcimboldi, Vigevano, 10.I.1472,
ASMi, SPE, Roma, 69). La proposta incontrò la perplessità di Sisto IV, il
quale, pur segnandosi al dito la mossa milanese, accettò dopo che gli fu
Tra vecchie e nuove alleanze
245
Il 3 dicembre arrivò a Napoli notizia del sopraggiungere dei
borgognoni 113, che si decise di accogliere con «grandissimi apparati» in città, dove si sarebbero trattenuti a seguito della tappa
romana. Fu così convocato il Consiglio reale, che deliberò la
fatta presente l’esigenza sforzesca di non inimicarsi gli ottomani per non
mettere a rischio gli interessi commerciali in Levante (Nicodemo Tranchedini a Galeazzo Maria Sforza, Roma, 19.I.1472, ASMi, SPE, Roma, 69).
113
«La mayestà del re ha lettere como li ambassatori del duca de
Borgogna sonno giunti in Italia et essa mayestà gli fa aparechiare la stantia de domino Pasquale et quella dove soleva alogiare il conte Iacomo et
dove adesso stava el conte Brocardo, al quale novamente la mayestà del
re ha donato una casa constata 800 ducati, che percomtra ad quella dove
io sto. Ne la quale soleva stare la dona de Scamderbech. Se tiene che uno
de detti imbassatori remarrà qui per alcuni dì» (Francesco Maletta a Galeazzo Maria Sforza, Napoli, 3.XII.1471, ASMi, SPE, Napoli, 220, cc.
145-146). Dello stesso giorno è il dispaccio di Barbaro nel quale si apprende che i borgognoni avrebbero portato «a la Maestà regia uno fornimento d’oro da una tavola de valuta de ducati X mille per parte del signor ducha» (Zaccaria Barbaro alla Signoria, Napoli, 5.XII.1471, in Dispacci di Zaccaria Barbaro cit., p. 93). Il 7 dicembre Galeazzo fu aggiornato
di «como li imbassatori de Borgogna vengano et che hanno commissione
dal duca racommandare le cose del prefato re al papa. Qui portano C libra de oro lavorate per presentare a sua mayestà et se gli aspectano circha le feste de Natale. Qua vogliono fare grandissimi apparati et demostratione de amore non may più facte ad altri, a li predicti imbassatori»
(Francesco Maletta a Galeazzo Maria Sforza, Napoli, 7.XII.1471, ASMi,
SPE, Napoli, 220, cc. 50-51). Il giorno seguente: «La mayestà del re et lo
duca de Calabria fanno fare sopraveste [mo]lto degne, secondo el costume di qua, et essa mayestà dice volere giostrare. Se ragiona anchora honorarli de feste de done, bali et canti, et dargli piacere de caze» (Id. a Galeazzo Maria Sforza, Napoli, 8.XII.1471, ASMi, SPE, Napoli, 220, cc.
156-157). La delegazione borgognona era composta da Filippo de Croy,
«consanguineus et ciambellanus ducis», Petrus Rogaert, «archidiaconus
camaratensis decretorum doctor», monsignor Valascus de Lucona, Guillaume de Rochefort (Dispacci di Zaccaria Barbaro cit., p. 36 nota 8). Dopo
la tappa veneziana, tre proseguirono per Firenze (tranne il de Rochefort
che rimase a Venezia) dove visitarono il duca d’Urbino per poi dirigersi a
Roma e Napoli dove entrarono il 20 gennaio 1472 (Zaccaria Barbaro alla
Signoria, Napoli, 22.I.1472, ivi, pp. 140-141). Vd. anche Angelo De
Tummulillis, Notabilia temporum cit., pp. 185-186.
246
Gianluca Falcucci
partenza dell’ambasceria «omnino zobia matina» 114, con un ricco corteo composto da circa quattrocento cavalli: centocinquanta dei quali al seguito del figlio del re, novanta del duca di
Andria e duecento del cavaliere Orsini 115 e dell’arcivescovo di
Trani 116.
Il calendario prevedeva «termino septe dì andare ad Roma,
octo dì demorarse lì» 117, con Giovanni che avrebbe dovuto raggiungere entro la Vigilia di Natale l’abbazia di Montecassino. A
tutti gli inviati fu data esplicita istruzione di non «intrometersi in
fare obedientia cum l’imbassatori venetiani», mentre il commendatario fu dispensato dal ricambiare le eventuali visite degli
oratori sforzeschi 118.
114
Francesco Maletta a Galeazzo Maria Sforza, Napoli, 3.XII.1471,
ASMi, SPE, Napoli, 220, cc. 145-146. Alla partenza di Giovanni presenziò anche Barbaro: «questa matina accompagnai el reverendissimo don
Zuane, figliuol regio, cum tre altri ambassadori, ducha D’Andre, arcivesco de Salerno et cavalier Orsino; de qui sono partiti per Roma cum cavali assai, et, per quanto me dice el ducha d’Ascole, serano più tosto cavali CCCLta cha CCC. Ha comissione star lì zorni X et poi subito ritornare», (Zaccaria Barbaro alla Signoria, Napoli, 5.XII.1471, in Dispacci di
Zaccaria Barbaro cit., p. 93). Maletta aveva preannunciato al duca la partenza imminente della delegazione, notificando che i fiorentini «haveano
mandato qua copia de una lictera scripta per essi al papa in racomendatione molto streta de la mayestà del re, per la restitutione de le terre sue
del Reame et reductione del censo». Un’iniziativa ritenuta dal sovrano
«ultramodo cara, havendo facto questo fiorentini senza essere richiesti»
(Francesco Maletta a Galeazzo Maria Sforza, Napoli, 30.XI.1471, ASMi,
SPE, Napoli, 220, cc. 139-140).
115
Roberto Orsini, detto cavaliere Orsini, figlio di Carlo, capostipite
del ramo di Bracciano. Militò sempre al soldo della Chiesa e del re di
Napoli a fianco del fratello Napoleone, capitano generale della Chiesa. Su
di lui A. Falcioni, Orsini, Roberto, in Dizionario Biografico degli Italiani,
LXXIV, Roma 2013, ad vocem.
116
Giovanni Orsini, abate di Farfa ed arcivescovo di Trani. Su di lui
vd. Eubel, Hierarchia Catholica cit., p. 254.
117
Francesco Maletta a Galeazzo Maria Sforza, Napoli, 3.XII.1471,
ASMi, SPE, Napoli, 220, cc. 145-146.
118
Ibid. La visita di obbedienza fu preceduta da un confronto tra il
papa e i cardinali riguardo il comune desiderio degli ambasciatori sforzeschi e veneziani di accogliere la delegazione. Tali contrasti sottendevano
Tra vecchie e nuove alleanze
247
Un resoconto del viaggio di Giovanni è fornito dal cronista
Angelo Tummulillo nei suoi Notabilia temporum, dove sono narrati l’accoglienza regale della delegazione a Roma il 14 dicembre
– «cum ineffabili triumpho, gloria et honore» 119 – e la cerimonia
d’obbedienza del giorno 17 120, quando gli inviati furono «acompagnati solamente da loro prelati senza veruno ambaxatore» 121,
con Giovanni che durante il corteo avanzò in prima fila «solo
fra staferi», seguito dal duca d’Andria, dall’arcivescovo di Trani e
in ultimo dal cavaliere Orsini, dall’ arcivescovo di Salerno e dai
restanti membri 122. Nel corso della cerimonia, il figlio del re
pronunciò un’orazione composta dal suo precettore e accompagnatore Pietro Ranzano 123. Il 21 dicembre Sisto IV, come atto
rivalità politiche che nelle corti rinascimentali potevano anche tradursi in
contese tra i vari ambasciatori riguardo le precedenze o i posti esclusivi
da occupare durante funzioni ed eventi. In Santa Sede il cerimoniale era
vagliato scrupolosamente dalla Curia al fine di «non far scandalo». Per
l’arrivo degli inviati del re, il «fermo proposito» dei milanesi a voler presenziare era tale che, scriveva Tranchedini al duca, «non extimaremo periculo alcuno per salveza del honore vostro» (Giovanni Arcimboldi e Nicodemo Tranchedini a Galeazzo Maria Sforza, Roma, 2.XII.1471, ASMi,
SPE, Roma, 68). Apprese le riserve del pontefice, intenzionato a evitare
dissidi tra le parti, l’oratore sforzesco Giovanni Arcimboldi, vescovo di
Novara, si offrì di andare «a stare fra l’ambaxatori prelati, dove non è
contesa per non essere ambaxatore prelato veneziano», mentre Nicodemo Tranchedini propose di andarvi «scognosciuto» (in veste non ufficiale) con l’obiettivo di ascoltare l’orazione del figlio del re. La proposta,
accolta di buon grado da Sisto IV, fu poi bocciata dallo stesso, che inviò
cubicularii dagli ambasciatori per chieder di non presentarsi in alcun modo (Id. a Galeazzo Maria Sforza, Roma, 17.XII.1471, ASMi, SPE, Roma,
68).
119
Angelo De Tummulillis, Notabilia temporum cit., p. 182.
120
La data si ricava dal dispaccio di Giovanni Arcimboldi e Nicodemo Tranchedini a Galeazzo Maria Sforza, Roma, 17.XII.1471, ASMi,
SPE, Roma, 68.
121
Ibid.
122
Ibid.
123
L’orazione, stampata a Roma dal tipografo Giovanni Filippo De
Lignamine, è intitolata Oratio habita ab Illustrissimo et Reverendissimo Domino
Don Joanne de Aragonia Apostolico Protonotario ad Sixtum IV. Ponteficem Maximum, qua Ei nomine Ferdinandi Regis Patris exhibuit obedientiam XIV. Kalen-
248
Gianluca Falcucci
di riconoscenza, lo creò protonotario della Camera Apostolica e
del Sacro Palazzo, mentre la notte di Natale lo invitò a presenziare alla messa tenutasi presso la cappella del Palazzo Apostolico, alla quale prese parte l’intera delegazione 124. Il giorno 27
das Juanuarias anno ab ortu Jesu Christi MCCCCLXXI. In merito all’autore,
Pontieri propose Diomede Carafa, pur non escludendo il domenicano
Pietro Ranzano, mentre Mazzucchelli e recentemente Figliuolo la riconducono sicuramente al Ranzano. Oltre alla predetta orazione ne esiste
una seconda, priva di datazione, intitolata Oratio a Joanne de Aragonia habita ad Ferdinandum Regem, qua ab Urbe Roma Neapolim reversus ei gratias egit:
quod a Pontifice & a Parentibus fuerit benigne exceptus. Potrebbe trattarsi di
quella recitata da Giovanni al padre il 7 settembre (Pontieri, Per la storia di
Ferrante I d’Aragona cit., p. 134; G. M. Mazzucchelli, Gli scrittori d’Italia,
I/2, Brescia 1753, p. 927; B. Figliuolo, La cultura a Napoli nel Secondo Quattrocento, Udine 1997, p. 112). William Sheehan data la prima stampa «after
19 Dec» (W. J. Sheenan, Bibliothecae Apostolicae Vaticanae Incunabula: A-C,
Città del Vaticano 1997, p. 109). Luigi Tosti, richiamandosi al Chronicon
Casinese di Placido Petrucci, narra della fastosa venuta settembrina di
Giovanni a Roma per riferire grazia al pontefice della commenda ricevuta. Petrucci, ripreso poi da Tosti, Blandamura e Pontieri, parla erroneamente di una sosta romana protrattasi fino a dicembre (Tosti, Storia della
Badia di Montecassino cit., p. 182; G. Blandamura, Un figlio di Re su la cattedra di S. Cataldo, Cava dei Tirreni 1936, p. 14; Pontieri, Per la storia di Ferrante I d’Aragona cit., p. 134).
124
Angelo De Tummulillis, Notabilia temporum cit., p. 183. Tranchedini dà notizie sulla cerimonia vespertina della Vigilia alla quale parteciparono gli ambasciatori del re di Francia, di Ferrante, del duca di Borgogna, di Milano, di Ferrara, di Savona e di altre potenze ad eccezione dei
veneziani. Durante il rito, Giovanni «fo posto in suso la bancha de li diaconi cardinali, cioè de soto a loro. Li despoti, quali sogliono sempre stare
a quel loco, non ce volseno venire, per non havere a stare soto a lui. El
duca d’Andri, el cavalere Ursino forono asetati al loco de li segnori, a li
gradi de sotto a li pedi del papa. El governatore de don Zohane et messer Anello stetero al loco de li ambassatori seculari, l’arcivescovo de Trani et quel de Salerno al loco de li ambaxatori prelati» (Giovanni Arcimboldi e Nicodemo Tranchedini a Galeazzo Maria Sforza, Roma,
24.XII.1471, ASMi, SPE, Roma, 68, c. 32). Nella messa di mezzanotte, il
commendatario «fo asetato como heri al vespro, in fondo la bancha de li
diaconi cardinali. Li despoti non ce ne venero. Né ce venero più che septe cardinali, cioè li più robusti» (Iid. a Galeazzo Maria Sforza, Roma,
25.XII.1471, ASMi, SPE, Roma, 68). La delegazione aragonese fu ammessa in cappella anche la mattina del 25. La mattina del 26 gli inviati del
re non andarono in cappella, ma si intrattennero per lungo tempo con il
Tra vecchie e nuove alleanze
249
quest’ultima si congedò dal papa, visitandolo privatamente nella
«sala del Pappagallo» 125, per poi ricevere il saluto privato da alcuni cardinali e dagli oratori sforzeschi, ai quali fu nuovamente
impedito di accompagnare l’ambasceria in partenza per evitare
inconvenienti con i veneziani.
Conquistata la benevolenza pontificia, Giovanni lasciò Roma all’alba del 28 dicembre in direzione di San Germano, l’attuale Cassino, che raggiunse assieme al duca d’Andria nell’ultimo giorno dell’anno 126. Qui, dopo aver varcato la porta San
Tommaso, fu accolto «sub palio cum ympnis canticis et laudibus» dal clero e dalla popolazione locale, che lo scortò presso la
chiesa e successivamente al palatium Casinense, dove «per noctem
repausavit» 127. Il 1° gennaio 1472 Giovanni prese possesso dell’abbazia, dove fu ricevuto in festa dai monaci che gli intonarono il Te Deum 128, per poi concludere il proprio viaggio il giorno
10, quando fece rientro a Napoli, «a hore XXII» 129, in vista dell’arrivo dei borgognoni.
L’invio dell’ambasceria a Roma non comportò l’automatica
risoluzione delle vertenze con lo Stato della Chiesa, non essendo stato, Giovanni, formalmente incaricato di trattare questa
materia con il pontefice, che fu comunque invitato dal giovane a
pontefice la sera, commiatandosi «che era passata un’hora de nocte» (Iid.
a Galeazzo Maria Sforza, Roma, 26.XII.1471, ASMi, SPE, Roma, 68).
125
L’attuale Sala dei Chiaroscuri situata nel nucleo medievale del Palazzo Apostolico.
126
Durante la permanenza a Montecassino di Giovanni, il Rocha e
l’Arcamone rimasero a Roma in veste di oratori, mentre il duca d’Andria
e il cardinale Orsini avrebbero raggiunto Napoli per fare relazione al re
(Giovanni Arcimboldi e Nicodemo Tranchedini a Galeazzo Maria Sforza, Roma, 28.XII.1471, ASMi, SPE, Roma, 68).
127
Angelo De Tummulillis, Notabilia temporum cit., p. 183; Tosti, Storia della Badia di Montecassino cit., pp. 182-183.
128
Tosti, Storia della Badia di Montecassino cit., p. 183. Per la storia della
gestione commendatizia di Giovanni vd. pp. 183-196.
129
Zaccaria Barbaro alla Signoria, Napoli, 11.I.1472, in Dispacci di
Zaccaria Barbaro cit., p. 133.
250
Gianluca Falcucci
voler avere a cuore la spedizione contro il Turco130, per la cui
organizzazione Sisto IV avrebbe negli ultimi giorni di dicembre
autorizzato nei territori sforzeschi la riscossione delle decime 131,
nominando in concistoro segreto cinque «legatos de latere cardinales per universas provincias et regna mundi» con l’obiettivo
di appellarsi «ad defensionem fidei catholicae contra nefandissimum Turcum» 132.
Il 28 dicembre gli sforzeschi aggiornavano il duca di Milano
della «grande instancia» fatta nuovamente al papa perché «volesse venire a qualche conventione et affinità», essendo il re ben
disposto a dare «in dote a la figliola tucte queste terre del debato
per uno de nepoti de soa beatitudine», il quale ribadiva la necessità che si risolvessero le «diferentie» prima di puntare al parentado «al quale serìa sempre ben disposto quando possa essere
cum honore suo» 133. Sisto IV, ma più probabilmente il Sacro
Collegio, temeva che se tra la Santa Sede e la controparte non si
fosse raggiunto alcun accordo, il nipote – essendo «la figliola de
soa mayestà de dece anni o meno» – avrebbe rischiato di ritrovarsi «cum le mosche in mane, in assai pegiore conditione che
quella de papa Pio», con la reputazione «in fabula del vulgo vituperato del mondo et ira de nostro signore Dio» 134.
130
Giovanni Arcimboldi e Nicodemo Tranchedini a Galeazzo Maria
Sforza, Roma, 19.XII.1471, ASMi, SPE, Roma, 68.
131
Galeazzo si era impegnato a riscuotere dal clero una decima di
20.000 ducati che avrebbe versato come pegno di alleanza al re di Napoli. A dicembre, Sisto IV autorizzò la riscossione attraverso l’emanazione
di un «breve absolutorio». Nel marzo 1472 anche Firenze versò a Ferrante la medesima cifra (Zaccaria Barbaro alla Signoria, Napoli, 28.I.1472, in
Dispacci di Zaccaria Barbaro cit., pp. 211-214).
132
Pastor, Storia dei Papi cit., p. 444. La nomina è del 23 dicembre. Il
Bessarione avrebbe dovuto visitare la Francia, la Borgogna e l’Inghilterra
– nonostante le riserve espresse da Galeazzo per via del suo legame con
Venezia – il Borja la Spagna, Capranica l’Italia, Barbo la Germania, Ungheria e Polonia. A Oliviero Carafa spettò, invece, la nomina di capo della flotta militare che si sarebbe dovuta allestire entro la primavera.
133
Nicodemo Tranchedini a Galeazzo Maria Sforza, Roma,
28.XII.1471, ASMi, SPE, Roma, 68.
134
Ibid.
Tra vecchie e nuove alleanze
251
A questo punto preme ritornare al dispaccio del 14 marzo
1472 con cui Francesco Maletta avrebbe aggiornato Galeazzo
dei piani matrimoniali in fieri tra la Sede Apostolica e il Regno di
Napoli, dove un oratore urbinate era giunto, come si è detto,
per sondare le disponibilità dell’Aragonese. Dalla missiva, che
purtroppo non scandisce cronologicamente le tappe e non aiuta
a inquadrare con precisione l’evoluzione dell’affare, apprendiamo dell’iniziale riserva di Ferrante, risolta da un breve autografo
speditogli dal pontefice, che avrebbe successivamente inviato al
re il vescovo di Città di Castello, Giovanni Gianderoni, per
concludere la trattativa «passata tanto secretamente ch’el non
l’ha intexa persona vivente se non el papa, lo cardinale de Sancto Sisto, il vescovo de Città de Castello et domino Anello oratore regio», benché Pietro Riario «post rem perfectam habia mostrato de dolersene et che la cosa s’è facta preter voluntatem et
scientiam sua, ma che l’è stata arte e simulatione» 135. Quanto
scrive Maletta ci aiuta a delineare, in parte, i contorni di una
contrattazione segreta protrattasi fino al mese febbraio 136. Essa
135
Francesco Maletta a Galeazzo Maria Sforza, Napoli, 14.III.1472,
ASMi, SPE, Napoli, 221, cc. 119-121. Fin dall’elezione di Sisto IV, Riario
tentò di legare gli interessi romani a quelli milanesi, cercando di sottrarre
lo zio dall’influenza di Ferrante, da lui dipinto come «homo maligno, traditore, et chi non attende may cosa che promette» (Giovanni Arcimboldi
a Galeazzo Maria Sforza, Roma, 17.VII.1472, in Farenga, «Monumenta
Memoriae». Pietro Riario fra mito e storia cit., p. 187).
136
L’arrivo a Napoli del Gianderoni è attestato al mese di gennaio:
«Per lo confessor del papa, venuto qui a sua Maestà per adaptar le differentie […] comprende el desyderio del papa essere optimo, et ha sua
Sanctità fatto persuader la regia Maestà ad perseverar contra el Turcho»
(Zaccaria Barbaro alla Signoria, 24.I.1472, in Dispacci di Zaccaria Barbaro
cit., pp. 143-145). Francesco Maletta, a quanto sembra all’oscuro delle
trattative matrimoniali, il 21 gennaio fu informato che il Gianderoni era
diretto in Puglia «stravestito et de nocte dal serenissimo re, el quale trovoe ad Lucera mercordì proximo passato che fu a di XV del presente». I
movimenti sospetti del confessore papale lo indussero a chiedere al conte Brocardo, suo informatore, che investigasse «accuratamente la cagione
de tale venuta» (Francesco Maletta a Galeazzo Maria Sforza, Napoli,
21.I.1472, ASMi, SPE, Napoli, 221, cc. 224-225). Il 24 gennaio Francesco
Maletta fu in grado di informare il duca di Milano che la missione del
252
Gianluca Falcucci
fu condotta sul filo della dissimulazione sia dal pontefice, intento a mostrarsi ufficialmente renitente nei riguardi delle avances
napoletane, sia dal sovrano aragonese, attento a che il piano
non emergesse a galla.
confessore era dovuta alle richieste di aiuto economico rivolte dal pontefice al re per la questione turca, in cambio del quale Sisto IV si impegnava alla remissione del censo e la restituzione delle terre contese. Le notizie erano state riferite al Brocardo da Celso Maffei («dom Celso»), che
attraverso i dispacci di Barbaro sappiamo esser giunto a Napoli «per nome del cardinal de sancta Maria in Portego [Giovanni Battista Zen] a la regia Maestà et ha supplicato a quella per lettera sua vogli recomandarlo a
la Sublimità vostra [Venezia] et interceder presso quella» (Zaccaria Barbaro alla Signoria, 28.I.1472, in Dispacci di Zaccaria Barbaro cit., pp. 145-150).
A un tratto, le testimonianze del Barbaro e di Maletta coincidono riguardo il ruolo dominante detenuto in Curia da Pietro Riario, tale che, scriveva il veneziano, «El papa fa la sera una cossa et dum Piero, cardinale et
nepote suo, la revocha; ogni dì quasi Nicodemo, ambassador del ducha,
cum quelli de Lorenço di notte mançano cum lo ditto cardinale, quale è
papa» (ibid.). L’ostruzionismo di Riario sarebbe stato tale che il Maffei
confessò a Maletta che le remissioni non erano scontate poiché Sisto IV
– «reputata e cognominata una feminella che se lassi in questo modo governare da quelli duy [Tranchedini e Riario]» – aveva tra i cardinali «molti
contrarii, eo maxime che quello colegio non fu may tanto diviso et discorde quanto gli è adesso» (Francesco Maletta a Galeazzo Maria Sforza,
Napoli, 24.I.1472, ASMi, SPE, Napoli, 221, cc. 237-238). Che Riario operasse a favore dello Sforza è un dato di fatto, ma, a onor del vero, il rapporto tra Riario e il Tranchedini fu conflittuale al punto che nella primavera del 1472 il cardinale di San Sisto fece pressione sull’Arcimboldi e il
Gonzaga affinché fosse allontanato da Roma in quanto «mala carne». Nel
giugno 1472 il Tranchedini sarebbe stato richiamato in patria dal duca di
Milano, insoddisfatto anche della sua condotta riguardo le vertenze di
Ferrante. Vd. l’interessante difesa del Tranchedini inviata allo Sforza (Nicodemo Tranchedini a Galeazzo Maria Sforza, Roma, 14.III.1472, ASMi,
SPE, Roma, 69; ma anche Somaini, Un prelato lombardo del IV secolo cit., pp.
384-385, 392-393 nota 201). Il ruolo di Pietro Riario nelle corrispondenze da Roma appare, in verità, allineato con quello di Sisto IV riguardo la
trattativa con Napoli, quasi che il giovane cardinale avesse voluto accondiscendere al desiderio dello zio di venire a patti con quest’ultima. Come
ha osservato Francesco Somaini, i rapporti con il duca si erano d’un tratto raffreddati tanto che il cardinale fu anche imputato di passare notizie
al re e di averlo favorito nei negoziati (Somaini, Un prelato lombardo del IV
secolo cit., pp. 393-395).
Tra vecchie e nuove alleanze
253
La notizia di un negoziato in corso era, comunque, cosa nota a Galeazzo almeno dai primi di gennaio, giungendo all’attenzione degli sforzeschi a seguito di un colloquio privato tra Latino Orsini e Francesco Gonzaga 137. Ulteriori particolari sulla
missione del confessore erano emersi, inoltre, dalle rivelazioni
fatte dallo stesso Gianderoni all’arcivescovo di Milano, Stefano
Nardini 138.
Sisto IV, tuttavia, mostrava non volerne rendere partecipi gli
oratori del duca di Milano al punto che il Tranchedini, in una
missiva del 30 gennaio, lamentava a Galeazzo il silenzio prolungato del pontefice sul negoziato, che, sviluppatosi parallelamente sul duplice binario del matrimonio e della ricomposizione dei
censi, andò incontro a un’accelerazione alla fine del mese di
febbraio, quando il re di Napoli – minacciando di non ratificare
la Lega generale e di non appoggiare i piani papali contro il
Turco – riuscì scaltramente a far raccomandare alla Santa Sede
137
Nicodemo Tranchedini a Galeazzo Maria Sforza, Roma, 8.I.1472,
ASMi, SPE, Roma, 69. Latino Orsini confessò al Gonzaga che il Della
Rovere «non era homo da gran governo de Stati, quando non habia inteso che ’l sacrista, o vero confessore del papa, sia andato al re Ferdinando
per fare el parentando fra el papa et esso re». L’Orsini riteneva, inoltre,
che non convenisse al pontefice né alla Chiesa venire a patti con il sovrano. Interrogato sulla questione, Pietro Riario scaricò la responsabilità
sul Gianderoni e sul confessore del re, giunto a Roma ai primi di gennaio
«per tal tractato». A chiedere delucidazioni al cardinale di San Sisto fu anche Giovanni Arcimboldi, al quale fu risposto che era stato Ferrante a
volere il Gianderoni a Napoli «per componere li censi debiti alla Sede
Apostolica et anche per pratichare el parentato» (Giovanni Arcimboldi a
Galeazzo Maria Sforza, Roma, 4.II.1472, ASMi, SPE, Roma, 69).
138
Gianderoni confidò al Nardini che Ferrante si era mostrato disposto a «liberare el papa da omne spesa et submissione, et assecurarlo
del Stato suo», mantenendo «continuamente uno de soi figlioli in Campagna o a Tivoli o nel Patrimonio cum tre, quatro, o seymillia cavali ad
omne obedientia de soa Beatitudine» (Nicodemo Tranchedini a Galeazzo
Maria Sforza, Roma, 31.I.1472, ASMi, SPE, Roma, 69). Il ruolo di Gianderoni emerge nevralgico nella trattativa ma, nel contempo, accessorio
nelle mani del della Rovere. Sicuramente ambiva al titolo cardinalizio –
per il quale avrebbe ricevuto l’appoggio di Ferrante – avendo quindi interesse a che la riconciliazione avvenisse.
254
Gianluca Falcucci
la risoluzione delle «diferentie» da parte degli oratori sforzeschi
e degli ambasciatori borgognoni 139.
Invitato «da tutti li potentati de Italia» a voler trovare un
compromesso e appurato il trovarsi in prospettiva di una guerra
«senza gente d’arme o in ben poche et mal in ordine», Sisto IV
– simulando rassegnazione – affermò, in occasione del concistoro del 28 febbraio, che in fin dei conti «non gli pareva oltra li
respecti alegati per li cardinali facesse per lui irritarse el re per
inimico» 140, invitando il Sacro Collegio a vagliare le istanze aragonesi, essendo intenzionato a «dare conclusione a questa materia et tale che possesse vivere quieto col Stato suo, dare quiete al
resto de Italia et attendere senza rancore, o dubio, al empresa
contra el Turco» 141.
La trattativa raggiunse un punto di svolta il 29 febbraio,
quando in nuovo concistoro Sisto IV svelò ai porporati una cedola:
139
Giovanni Arcimboldi e Nicodemo Tranchedini a Galeazzo Maria
Sforza, Roma, 26.II.1472, ASMi, SPE, Roma, 69. La richiesta di intercessione agli oratori sforzeschi, avanzata nel concistoro del 26 febbraio, fece
leva su una lettera e su una direttiva spedite nel mese di novembre dallo
Sforza al pontefice in favore di Ferrante. Quella dei borgognoni, risalente
al giorno 28, seguì una «premeditata» orazione dell’Arcamone e si basò
sulla «Liga et vera amicicia fra el re et signore loro» (Id. a Galeazzo Maria
Sforza, Roma, 28.II.1472, ASMi, SPE, Roma, 69).
140
Ibid.
141
Riguardo all’accelerazione delle trattative, Giovanni Arcimboldi,
confermando i sospetti di Nicodemo Tranchedini, confidò al duca di Milano che «venendo el papa così facile ad questa cosa, como demonstra,
me fa credere che sua santità debii havere facto dire al re che dovesse fare che vostra excellentia gli ne scrivesse, accioché havendo voglia di farlo
havesse parte de sua exusatione». I sospetti furono avallati da Latino Orsini, che, messo alle strette dagli sforzeschi, espresse l’idea che «questa
materia fosse stata concordata più dì fa per alcuni segni ne havea veduti,
praesertim perché el mandato era in messer Anello solo, quale se era retrovato più fiate col papa et cum li suoi da parechii dì in qua. Quale
mandato era ad praticandum et acceptandum et dato fin a li dece dì del
resente» (Id. a Galeazzo Maria Sforza, Roma, 29.II.1472, ASMi, SPE,
Roma, 69).
Tra vecchie e nuove alleanze
255
[…] in la quale diceva volere che ’l re se obligasse cum omne suo
potere a la conservatione del Stato suo et de sancta Chiesa, et a
tenere doe galee tra monte Argentaro et Caieta, che defendessero
el mare, et la foce del Tevere da Mori et corsari. Et donasse in recognitione del Reame de sancta Chiesa omne anno un cavalo
leardo ben phalerato el die de Sampiero al papa 142.
Da parte sua, il pontefice si impegnava a consegnare: «[…]
a soa mayestà Sora et l’altre terre de la differentia. Et gli remetteva li censi passati et li futuri a vita de esso re. Restando tanto
soa mayestà obligata a tutte l’altre cose, secondo la sua investitura del Reame» 143.
Scoperte le carte in tavola, con grande smacco della fronda
conservatrice del Collegio e dello stesso Galeazzo, non restò
che l’accettazione delle clausole da parte di Aniello Arcamone e
la votazione del compromesso da parte del Sacro Collegio, che
con scrutinio maggioritario approvò la risoluzione con i soli voti contrari dei cardinali d’Estouteville, Berardo Eroli e Teodoro
Paleologo di Monferrato 144.
La svolta diplomatica del 1472 segnò la via per una definitiva riconciliazione tra il Regno di Napoli e lo Stato della Chiesa
sancita dalla promessa aragonese di un prestito di sedicimila du142
Ibid.
Ibid.
144
Al concistoro non partecipò il Bessarione, che «mandò el voto
suo in scripto, remettendose a la voluntà del papa et al voto de Theano».
Latino Orsini, nonostante si fosse dimostrato inizialmente contrario, votò a favore, «parendogli che quelle terre de la differentia rasonevolmente
fossero in le concessione ha esso segnore re per le investiture ha del
Reame». Il d’Estouteville fin dalla mattina aveva cercato di convincere il
pontefice e Pietro Riario a non voler accettare le richieste del re, ma gli
fu risposto da entrambi che «non doveano guardare in viso a persona per
acconzare el facto loro». Anche le mediazioni del Gonzaga in questo senso furono vane (ibid.). Il cardinale Capranica avrebbe poi riferito agli
sforzeschi che molti cardinali, tra i quali il Calandrini e Agnifilo, nonostante il voto favorevole nutrivano riserve sulle tempistiche troppo accelerate del concordato (Iid. a Galeazzo Maria Sforza, Roma, 9.III.1472,
ASMi, SPE, Roma, 69). Che si fosse trattato di un colpo di spugna del
pontefice era una convinzione diffusa nella corte pontificia.
143
256
Gianluca Falcucci
cati a favore della Santa Sede per l’allestimento della flotta antiturca dietro pegno di pietre preziose appartenute a Paolo II 145.
Il pontefice fu riconoscente e, incassato il sostegno economico e militare 146, con una bolla emanata il 16 marzo decretò
ufficialmente la remissione «toto tempore vite» del censo feudale e il condono degli arretrati, commutando il pagamento in una
donazione simbolica di un «palafrenum album, pulchrum et bonum et decenter ornatum» da presentare in Santa Sede «singulis
annis in festo beatorum Petri et Pauli apostolorum» 147.
145
G. Coniglio, Documenti vaticani di storia napoletana, Napoli 1944, pp.
39-40; Nicodemo Tranchedini a Galeazzo Maria Sforza, Roma,
24.IV.1472, ASMi, SPE, Roma, 69. I registri vaticani Introitus et Exitus
Camerae Apostolicae (vol. 487 f. 76 t.) attestano due pagamenti il 27 maggio. Tra le pietre preziose date in pegno figuravano un diamante, qui dicitur “el specchio”, di venti carati; un diamante, qui dicitur “el drago”, di
nove carati e mezzo; un balascio, qui dicitur “el fegato”, di centoventitre
carati (Coniglio, Documenti vaticani di storia napoletana, pp. 39-40). Inviato di
Ferrante a Roma per lo scambio fu il mercante e arrendatore di allume
Aniello Pierozzi (Perozo), «cuore de lo conte de Matalone», giunto a
Roma «per acordarse col papa per li facti de li alumi» e per «tuore o
comprare gioye de sua santità, le quale zoie esso papa gli darà secretamente. Et la prefata mayestà gli darrà poy publicamente il denaro, mostrando de subvenirgli de quello per la impresa del Turco» (Francesco
Maletta a Galeazzo Maria Sforza, Napoli, 3.IV.1472, ASMi, SPE, Napoli,
221, cc. 168-170).
146
Id. a Galeazzo Maria Sforza, Napoli, 8.III.1472, ASMi, SPE, Napoli, 221, cc. 108-109. Maletta quantificò il debito condonato a Ferrante
in 300.000 ducati, mentre Nicodemo Tranchedini in 360.000. Dello stesso giorno è un’istruzione di Galeazzo al Maletta, invitato a congratularsi
con Ferrante e a chiedergli di intercedere con Venezia per la restituzione
dei territori contesi con il ducato (Galeazzo Maria Sforza a Francesco
Maletta, Vigevano, 8.III.1472, ASMi, SPE, Napoli, 221, c. 106). Il 12
marzo Ferrante avrebbe inviato propri ringraziamenti allo Sforza per lo
«spacciamento donato per la santità de nostro signore in le facende nostre» (Ferrante d’Aragona a Galeazzo Maria Sforza, Sarno, 12.III.1472,
ASMi, SPE, Napoli, 221, c. 118).
147
Pontieri, Per la storia di Ferrante cit., p. 262; Pastor, Storia dei Papi
cit., pp. 464-465. La bolla con sigillo d’oro (sottoscritta da tutti i cardinali
eccetto il d’Estouteville) fu consegnata a Ferrante dal Gianderoni, giunto
nuovamente a Napoli il 16 marzo (Zaccaria Barbaro alla Signoria, Napoli, 16.III.1472, in Dispacci di Zaccaria Barbaro cit., pp. 201-204). Il confes-
Tra vecchie e nuove alleanze
257
Papa della Rovere si impegnò anche a far restituire a Roberto Malatesta il contado di Rimini, il vicariato di Mondavio e
Senigallia, chiedendo il tempo necessario «ad praticare queste
cose col colegio» 148. A suggellare l’alleanza fu il coronamento
del legame dinastico, che portò al matrimonio tra un nipote del
pontefice, il praefectus Urbis Leonardo della Rovere, e una giovanissima figlia naturale del re, «Dona Johanna» 149, siglato ai primi
di aprile.
sore papale riferì al Barbaro delle pressioni fatte dal duca di Milano al
pontefice perché non scendesse a patti con il re. Al papa erano stati offerti 100.000 ducati e 10.000 cavalli perché accogliesse tali istanze. (ivi, p.
205). Ferrante si sarebbe impegnato, di lì a poco, a sostenere il Gianderoni per la nomina cardinalizia, chiedendo supporto allo stesso Galeazzo.
148
Francesco Maletta a Galeazzo Maria Sforza, Napoli, 9.III.1472,
ASMi, SPE, Napoli, 221, c. 114.
149
Pontieri riporta «Ilaria», ma il nome «Giovanna» è ricavabile da
una lettera di Sisto IV inviata alla giovane «duchessa di Arce e Sora» il 18
novembre 1474. Leonardo della Rovere era divenuto condottiero
dell’esercito pontificio a seguito della nomina dello zio a pontefice. Il 17
febbraio 1472, dopo la morte di Antonio Colonna, fu nominato prefetto
di Roma, prestando giuramento il 22 febbraio in San Pietro. Una lettera
di Sisto IV al re, datata 7 marzo 1475 e volta a consolarlo della morte
della figlia, colloca la morte di Giovanna poco prima di tale data. Leonardo della Rovere sarebbe deceduto l’11 novembre dello stesso anno e
fu succeduto, nella carica di prefetto, dal cugino Giovanni della Rovere,
che mantenne per sé il titolo di duca di Sora e Arce (Pontieri, Per la storia
di Ferrante cit., p. 262; G. Cherubini, Della Rovere, Leonardo, in Dizionario
Biografico degli italiani, XXXVIII, Roma 1989, ad vocem). Vd. anche Angelo
De Tummulillis, Notabilia temporum cit., pp. 187-188, che non fornisce
però il nome della sposa. Barbaro attesta l’età di 7 anni di Giovanna al
momento del matrimonio (Zaccaria Barbaro alla Signoria, Napoli,
17.III.1472, in Dispacci di Zaccaria Barbaro cit., pp. 206-207). Ferrante propose, in alternativa alla figlia naturale, una del conte di Rossano [Marino
Marzano], ma il pontefice preferì la giovanissima e di bello aspetto «Dona
Johanna». Riguardo le trattative, Francesco Maletta confessò al duca di
Milano come il re non gli avesse «facto alcuna mentione de queste cose»,
essendo venuto a conoscenza dell’accordo attraverso un suo informatore
segreto, vale a dire Brocardo Persico, che nelle corrispondenze è riportato in cifra (decifrata da mano coeva come «amico»). Quest’ultimo aveva
ricevuto l’informazione dal cancelliere urbinate, Guido Acquaviva (cfr.
supra, p. 37 nota 106). La promessa di matrimonio ebbe luogo il 5 aprile
nella sala rotonda di Castel Nuovo, dove fu organizzata una «magnifica
258
Gianluca Falcucci
Attraverso questa unione, lo sposo, che il 23 marzo aveva
consegnato al Ferrante la rosa d’oro donatagli dal pontefice «in
segno de singular benivolentia» 150, ebbe in dote il ducato di Sora
festa de molte belle donne et principale de la città», in occasione della
quale il vescovo di Aversa, Pietro Brusca, benedì i futuri sposi. Leonardo
giurò «in mane del re he sopra uno missale homagio et fidelità de le terre
a luy donate et fugli presentate el privilegio, quale dice che gli concede
anchora dominium Sore cum ducatu; ex quo se apelare anchora duca de
Sora, ma non scriversi» (Francesco Maletta a Galeazzo Maria Sforza,
Napoli, 6.IV.1472, ASMi, SPE, Napoli, 221, cc. 174-175).
150
Zaccaria Barbaro alla Signoria, Napoli, 16.III.1472, in Dispacci di
Zaccaria Barbaro cit., pp. 201-204. La rosa d’oro era un’antica distinzione
onorifica attribuita dai papi ai sovrani come segno di distinzione (Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica cit., vol. LIX, 1852, pp. 111149). Bartolomeo Marasca, maestro di casa del papa, e Luca de Nelo presero possesso delle terre che dovevano essere consegnate al commissario
reale. Della delegazione che accompagnò Leonardo della Rovere a Napoli facevano parte anche l’Arcamone e Giovanni Conti, uomo d’arme al
servizio del papa (Zaccaria Barbaro alla Signoria, Napoli, 28.III.1472, in
Dispacci di Zaccaria Barbaro cit., pp. 211-214). Durante il suo viaggio, il
prefetto fece tappa a Fondi, Capua e Aversa. Il soggiorno napoletano si
sarebbe protratto fino al 21 aprile, quando Leonardo partì alla volta di
Capua. La rosa fu consegnata in una cerimonia solenne presso la Chiesa
dell’Annunziata, dove Ferrante fece Leonardo «ducha d’Arce et donoli
l’arma sua, el stendardo, una zoia in testa, la sbarra, et uno colar d’oro»
(Id. alla Signoria, Napoli, 30.III.1472, ivi, pp. 215-220). A seguito del matrimonio, Sisto IV inviò a Napoli – attraverso il cubiculario Pietro Bagnacavallo – «zoie et panni d’oro» dal valore di 9.000 ducati in parte da
rivendere e in parte da dare alla sposa, alla quale spettarono trecento perle, due fermagli da spalla, di cui uno del valore di 500 ducati, e quattro
anelli di balasci, smeraldi e zaffiri (Id. alla Signoria, Napoli, 17.IV.1472,
ivi, pp. 241-247). Bartolomeo da Recanati riferì a Brocardo dell’insoddisfazione iniziale del prefetto nei riguardi dell’età della consorte, che gli
era stato detto avere almeno undici anni, e del mancato possesso del ducato di Sora, deciso dal re per non dispiacere al duca di Andria, il cui genero, Paolo Cantelmo, deteneva il titolo (Francesco Maletta a Galeazzo
Maria Sforza, Napoli, 31.III.1472, ASMi, SPE, Napoli, 221, c. 151). Giovanni Cantelmo avrebbe poi informato il prefetto che il figlio non avrebbe ceduto Sora al sovrano se prima il papa non gli avesse assegnato altre
terre del Patrimonium oltre a una cifra corrispettiva delle somme spese nel
feudo insieme a un «breve penale» che giustificasse agli occhi dei papi la
restituzione. Intimato dal pontefice a consegnare i territori, il Cantelmo si
rivolse a Ferrante, che accettò di intermediare con la Santa Sede per una
Tra vecchie e nuove alleanze
259
e il feudo di Arce (comprendenti numerosi territori limitrofi)
oltre all’onorifico titolo – per cessum vel per decessum – di «conestabile del Regno di Sicilia al di qua del Faro» 151.
Conclusioni
L’invio dell’ambasceria aragonese, pur non risolvendo le vertenze
con la Santa Sede, pose fine ad una querelle protrattasi per tre mesi
soluzione, impegnandosi a restituirglieli se la Santa Sede non avesse
provveduto a valide alternative (Id. a Galeazzo Maria Sforza, Napoli,
16.IV.1472, ASMi, SPE, Napoli, 221, cc. 214-215). A contendere il ducato, senza risultati, fu Costanzo Sforza, figlio di Alessandro, che inviò nel
mese di aprile un proprio emissario a Napoli per trattare di una eventuale
condotta con il re «et per voler el stato tolto per lo re a suo padre» (Zaccaria Barbaro alla Signoria, Napoli, 20.IV.1472, in Dispacci di Zaccaria Barbaro cit., pp. 250-252). Il ducato di Sora era stato effettivamente assegnato ad Alessandro Sforza, signore di Pesaro, con privilegio del 21 agosto
1462 a seguito dei successi conseguiti nella guerra contro Giovanni
d’Angiò, appoggiato da Pietro Cantelmo. Il perdono concesso dal re a
quest’ultimo e la successiva conquista di Sora per volere di Pio II impedirono al condottiero di conseguirne il possesso. Per il testo del privilegio
vd. N. Ratti, Della famiglia Sforza, II, Roma, s.d. [ma 1795], pp. 151-152.
Lo Sforza fu nominato anche Gran Conestabile con una provvisione di
2.196 scudi annui.
151
Nella corrispondenza di aprile si accenna al progetto di un viaggio
papale a Napoli, che Ferrante era incline a voler fissare ad agosto. Francesco Maletta ritenne che il sovrano avesse interesse ad “accarezzare” il
pontefice per risolvere le vertenze su Terracina e Benevento, nei riguardi
delle quali Sisto si era impegnato a trattare con il Sacro Collegio
l’assegnazione di Benevento in feudo al nipote. Al diniego dei cardinali,
Sisto IV pensò di darla in enfiteusi per ventotto anni a Ferrante, che
avrebbe investito della città il prefetto con una rendita di 6.000 ducati. Su
Terracina, il Collegio avrebbe dato stesso parere negativo, essendo essa
«membro de la chiesa non del Reame» (Francesco Maletta a Galeazzo
Maria Sforza, Napoli, 3.IV.1472, ASMi, SPE, Napoli, 221, cc. 168-170;
Id. a Galeazzo Maria Sforza, Napoli, 16.IV.1472, ASMi, SPE, Napoli,
221, cc. 214-215). Riguardo il viaggio papale, Leonardo della Rovere si
impegnò a fare pressione sugli archiatri affinché suggerissero a Sisto IV
di beneficiare delle virtù salutifere dei bagni di Pozzuoli e delle terme di
Baia (Id. a Galeazzo Maria Sforza, Napoli, 16.IV.1472, ASMi, SPE, Napoli, 221, cc. 214-215).
260
Gianluca Falcucci
durante i quali si è potuto osservare come dietro la trama organizzativa delle ambascerie di obbedienza si annidassero strategie e
interessi incrociati che, nel caso del Regno di Napoli, videro Ferrante essere fin da subito osteggiato dal duca di Milano presso il
papa, su cui Galeazzo riuscì inizialmente a far prevalere la propria
influenza.
Sisto IV, a seguito delle incoraggianti concessioni iniziali –
rientranti a pieno titolo tra quelle che Egmont Lee ha definito
«downpour of benefices» 152 – si mostrò inflessibile nel pretendere l’invio dell’ambasceria come conditio di ogni ulteriore compromesso tra il Regno e lo Stato della Chiesa, adducendo il rischio di
perdere autorevolezza su Luigi XI di Francia e sul duca di Milano, la cui alleanza con la Francia, rinnovata nel marzo 1470, era
vista con preoccupazione sia dalla Repubblica di Venezia, già alleata al ducato di Savoia e interessata a difendere il possesso delle
contese città di Crema, Brescia e Bergamo, che dal re di Napoli,
sempre in guardia dai piani di riconquista angioini e dalle orchestrazioni politiche della corona francese, che, con un colpo di
mano, aveva sostenuto i ribelli catalani nella sollevazione contro
lo zio Giovanni II d’Aragona 153.
Le richieste aragonesi al della Rovere non erano di poco conto, toccando il tasto dolente del censo, fonte irrinunciabile di introiti per la Sede Apostolica, insieme a una serie di rivendicazioni
territoriali riguardanti i confini del Regno e gli appetibili domini
malatestiani di Romagna, dove il re sperava di insidiare il dominio
pontificio e circoscrivere qualunque influenza rivale. Le riserve
espresse dal papa, termometro dei ribollenti umori del Sacro Collegio per nulla intenzionato a cedere ai ricatti del sovrano, causarono la reazione di quest’ultimo che, consapevole del doppio gioco di Galeazzo – contrario alla restituzione di quei territori che
Francesco Maletta apostroferà come «quatro bicoche» 154 – sospe152
Lee, Sixtus IV and Men of Letters cit.
Sulla ribellione vd. anche Pontieri, Per la storia di Ferrante cit., p.
252; Jacoviello, Venezia e Napoli nel Quattrocento cit., p. 57.
154
Rivolgendosi a Federico Manfredi, protonotario e vescovo di
Faenza (Zaccaria Barbaro alla Signoria, Napoli, 16.III.1472, in Dispacci di
153
Tra vecchie e nuove alleanze
261
se l’invio della delegazione fin quando le sue istanze non fossero
state accolte.
L’organizzazione dell’ambasceria aragonese, declinata a vero
e proprio strumento di negoziazione, andò comunque incontro a
numerose pianificazioni da parte dell’Aragonese che, poco tempo
dopo l’elezione, aveva appoggiato l’invito di Lorenzo de Medici
nel volere coordinare un’ambasceria comune assieme al ducato di
Milano per onorare la Lega particolare da poco rinnovata. Il progetto, però, non si concretizzò alla pari di quello vagheggiato dallo Sforza, che alla metà di agosto aveva avvisato la Signoria
dell’intenzione di voler incontrare il re di Napoli a Terracina in
occasione della visita sforzesca in Santa Sede.
Trattative per l’organizzazione di un’ambasceria congiunta
con Firenze – che il duca sperava di trascinare nella sua politica
filo-francese e anti-aragonese – furono avviate a Milano nella seconda metà di settembre, ma gli sforzeschi tardarono ad arrivare
a causa dei colloqui prolungati con Luigi XI, intento a fare pressioni su Galeazzo, suo fiduciario, affinché raccomandasse le proprie richieste a Sisto IV 155.
Zaccaria Barbaro cit., pp. 202-204). Che il Sacro Collegio avesse gran voce
in capitolo riguardo le contese territoriali è confermato da un dispaccio
di Barbaro del 23 maggio 1472, dove si apprende di una lettera del 15
maggio inviata da Sisto IV a Ferrante perché si impegnasse «ad confortar
a lo illustre conte de Urbino facesse el magnifico Ruberto da Rimano restituisse el contado de Fano a la Chiexia […] solo perché el compiacesse
ai cardinali ai quali sua santità convegniva in qualche parte satisfar» (Id.
alla Signoria, Napoli, 23.V.1472, ivi, pp. 287-289). Nel mese di ottobre
Sisto IV si rivolse a Firenze per lo stesso motivo, ma Federico da Montefeltro, interessato a difendere i possedimenti del genero, consigliò al pontefice di non inimicarsi il Malatesta (Id. alla Signoria, Napoli, 17.10.1472,
ivi, pp. 396-399). La questione dei domìni malatestiani si risolverà nel
1473, quando a seguito dell’investitura a signore di Rimini, il Malatesta,
su sollecitazione del conte di Montefeltro, si ritirò dalle terre occupate
del vicariato e del contado di Fano. Obiettivo di Sisto IV, fin
dall’elezione, era quello di liquidare l’eredità Piccolomini e assegnare il
vicariato di Mondavio al nipote Giovanni (o Giannetto) della Rovere
(Fubini, Italia quattrocentesca cit, pp. 278-279).
155
Lorenzo de’ Medici, Lettere cit., p. 321, p. 337 nota 5; p. 338 note
7-8; p. 340 nota 1; pp. 341-342 note 3, 5.
262
Gianluca Falcucci
Iniziali contatti tra Venezia e Napoli per una cerimonia comune portarono anch’essi a un nulla di fatto per l’indisponibilità
del sovrano ad accogliere le sollecitazioni della Serenissima, unita
a Napoli in una lega siglata ufficialmente per circoscrivere la minaccia turca che lambiva le coste adriatiche dopo la caduta di Negroponte, ma dietro la quale si palesava l’intenzione di entrambe
di cautelarsi da quella che Ernesto Pontieri ha definito «politica
torbida e irrequieta di Galeazzo Maria Sforza» 156. Quest’ultimo,
postosi ambiziosamente sotto l’ala tutrice di Luigi XI per consolidare il suo peso politico in Italia nella costante attesa di ricevere
l’ambita investitura dall’imperatore Federico III d’Asburgo, sperava di guadagnare, come era accaduto in Liguria con Genova e
Savona, territori in Piemonte a spese del vicino ducato di Savoia,
stando attento a che tale legame non lo coinvolgesse nelle guerre
franco-borgognone e non compromettesse eccessivamente i già
esasperati legami con Napoli, come sarebbe avvenuto nel caso in
cui Luigi XI avesse appoggiato le mire di Renato d’Angiò.
Consolidata la propria posizione sullo scacchiere peninsulare
attraverso la stipula della triplice Lega con Milano e Firenze, e
dell’alleanza con la Serenissima ed Ercole d’Este, Ferrante – la cui
politica egemonica ambiva al contenimento di Galeazzo e al riavvicinamento con lo Stato della Chiesa – decise di allargare
all’Europa il proprio raggio d’azione. Concluse, così, con il ducato
di Borgogna un accordo che andava a inserirsi nel più ampio sistema di alleanze anti-francesi sottoscritto a Saint-Omer il 1° novembre 1471 tra il ramo castigliano dei Trastámara e il ducato di
Borgogna. Una coalizione che avrebbe l’anno seguente accolto
anche Venezia, alleatasi con il Temerario a coronamento di un
poderoso blocco anti-francese che imbrigliava il ducato di Milano.
La capacità di Ferrante di saper temporeggiare e accogliere
l’invito ricevuto da Carlo il Temerario a presentare un’ambasceria
in Santa Sede si va a inserire, dunque, in questa nuova parentesi
politica: un’occasione giusta per esaltare, agli occhi della Sede
Apostolica e delle potenze rivali, la posizione di forza assunta dal
156
Pontieri, Per la storia di Ferrante I d’Aragona cit., p. 249.
Tra vecchie e nuove alleanze
263
re di Napoli e per puntellare il suo desiderio di mostrarsi come
garante della pax italica e tutore della fides christiana contro il pericolo turco 157.
Fu proprio la minaccia ottomana – angoscia, ma all’occorrenza comodo deterrente, di alcuni potentati italiani – ad essere
sfruttata da Ferrante per scalzare lo Sforza, renitente alla guerra
contro il Turco, e concludere con Sisto IV un accordo vantaggioso per il Regno di Napoli.
Sicuramente i desideri papali di concretizzare la guerra agli
“infedeli” e di ratificare la Lega universale incontrarono la vincente strategia del sovrano che 158, accordato il sostegno economico-militare alla Santa Sede e raggirato l’ostruzionismo di quella
parte del Sacro Collegio a lui ostile, vide Sisto IV cassargli il censo annuale e proporgli, con l’intermediazione di Federico da
Montefeltro, un parentado. Quest’ultimo andò a comporre gran
parte delle vertenze fino a quel momento in stallo, a definitiva
conferma di un «rapprochement» destinato a perdurare nei successivi anni159.
157
Su Ferrante difensore della cristianità vd. De Filippo, Ferrante
d’Aragona e la ricerca di un’egemonia politica cit., pp. 119-126.
158
Il 24 febbraio 1472 il pontefice aveva raccolto in concistoro gli
ambasciatori di Milano, Venezia e Napoli, esortandoli a consegnare al
notaio apostolico, Gaspare Biondo, i rispettivi mandati ricevuti dalle cancellerie per poter trattare la ratifica della Lega universale (Giovanni Arcimboldi e Nicodemo Tranchedini a Galeazzo Maria Sforza, Roma,
24.II.1472, ASMi, SPE, Roma, 69). Per un profilo delle mediazioni che
avevano visto in un primo momento Galeazzo favorevole alla ratifica,
salvo poi venire meno dopo le concessioni di Sisto IV a Ferrante vd.
Somaini, Un prelato lombardo del IV secolo cit., pp. 380-381 nota 205.
159
Dover, Royal diplomacy in Reinessance Italy (1458-1494) and his ambassadors cit., p. 68; Ilardi, Ferrante d’Aragona e Galeazzo Maria Sforza cit., p.
117. Fu lo stesso pontefice a spiegare a Giovanni Arcimboldi che, nonostante le iniziali promesse fatte al duca di Milano, era sceso a patti con il
re di Napoli per essere stato sollecitato da «molti cardinali quali gli facevano intendere le terre concesse ad esso re non importare cosa alcuna al
Stato de la Chiesia et esserli più de spesa et danno che de utile» (Giovanni Arcimboldi e Nicodemo Tranchedini a Galeazzo Maria Sforza, Roma,
19.III.1472, ASMi, SPE, Roma, 69).
TESTIMONIANZE E DOCUMENTI
FULVIO DELLE DONNE
Un passo inedito e possibili redazioni d’autore
nel Commento di Enea Silvio Piccolomini
ai Dicta aut facta Alfonsi regis del Panormita
An Unpublished Passage and Possible Authorial Versions in Enea Silvio Piccolomini’s
Commentary on Panormita’s Dicta aut facta Alfonsi regis
Abstract: On 22th April 1456, Enea Silvio Piccolomini sent a letter from Naples
to the Panormita, offering an articulate Commentary on Dicta aut facta Alfonsi regis,
which Panormita had previously published shortly after on August 26th of the preceding
year. The Commentary not only attests to the rapid reception of Panormita’s work, but also
provides significant testimony regarding the expectations of the Crusade, which was promised
by Alfonso the Magnanimous but ultimately remained unfulfilled. This paper presents a
critical analysis of an unpublished passage from Piccolomini’s Commentary, presumably
censored by the author himself, which showcases the thorough revision efforts he dedicated to
his work: a work brief in length yet clearly not a mere occasional undertaking.
Keywords: Humanism, Enea Silvio Piccolomini, Antonio Beccadelli il Panormita,
Alfonso the Magnanimous
Received: 01/12/2023. Accepted after internal and blind peer review: 31/12/2023
fulvio.delledonne@unibas.it
È il 22 aprile 1456, quando Enea Silvio Piccolomini (il futuro
papa Pio II) conclude il suo Commento agli Alfonsi regis dicta aut
facta memoratu digna del Panormita, al quale da Napoli, dove era
arrivato poco prima, scrive un’epistola che accompagna e contiene quelle articolate annotazioni 1. Antonio Beccadelli, il Panor-
1
L’editio princeps è questa: Antonii Panormitae De dictis et factis Alphonsi regis
Aragonum libri quatuor: Commentarium in eosdem Aeneae Sylvii, quo capitatim cum
Alphonsinis contendit. Adiecta sunt singulis libri scholia per D. Iacobum Spiegelium,
Basileae, ex officina Hervagiana, 1538 (ed. Johann Froben). Sull’opera, in
generale, cfr. almeno F. Tateo, Pio II e l’aneddotica su Alfonso d’Aragona, in Pio
II e la cultura del suo tempo, Atti del I convegno internazionale (Pienza 1989),
Milano 1991, cur. L. Rotondi Secchi Tarugi, pp. 273-281, e A. De Vincentiis,
CESURA - Rivista, 2 (2023)
ISSN: 2974-637X
ISBN: 978-88-945152-2-0
268
Fulvio Delle Donne
mita, aveva ultimato la sua opera poco prima, nei giorni immediatamente a ridosso del 26 agosto 1455, quello in cui Alfonso il
Magnanimo, re d’Aragona e di Napoli, con una solenne orazione
pronunciata dinanzi al suo consiglio annunciò di voler intraprendere la crociata – mai effettivamente realizzata – contro i Turchi2.
Costantinopoli era caduta il 29 maggio 1453 sotto l’attacco
condotto da Maometto II, e da quel momento si susseguirono, da
più parti, molteplici invocazioni innanzitutto all’imperatore Federico III e al re Alfonso il Magnanimo, perché un esercito cristiano accorresse in aiuto dell’antica capitale dell’Impero d’Oriente e difendesse l’Occidente dalla minaccia degli infedeli 3. Già
il primo agosto di quello stesso anno, Biondo Flavio si era rivolto
al sovrano aragonese con una accalorata orazione epidittica, che
faceva il paio con un’altra dell’aprile del 1452, indirizzata sempre
ad Alfonso e a Federico III, perché impedissero l’imminente disfatta di Costantinopoli 4. Furono, però, moltissime le orazioni o
Le don impossible. Biographes du roi et biographes du pape entre Naples et Rome (14441455), in Humanistes, clercs et laïcs dans l’Italie du 13e au début du 16e siècle, cur. C.
Caby, R. M. Dessì, Turnhout 2012, pp. 319-363. Il presente articolo rientra
nelle attività del PRIN 2022-PNRR “IMPERI SITUS - Imperial and Monarchical
Power - Evolution of Regal Ideology in Southern Italy: Theories, Uses, Strategies (XII-XV Century)” (cod. progetto: P2022W4RLT).
2 Sulla datazione e sull’opera in generale si consenta il rimando a F. Delle
Donne, Primo sondaggio sulla tradizione del De dictis et factis Alfonsi regis del
Panormita, «Rivista di cultura classica e medioevale», 64 (2022), pp. 443467. Imminente è la pubblicazione dell’edizione, per le cure di chi scrive,
nell’Edizione Nazionale dei Testi della Storiografia Umanistica.
3 Tra la vasta bibliografia sull’argomento si veda almeno: La caduta di
Costantinopoli, cur. A. Pertusi, I, Le testimonianze dei contemporanei, II, L’eco del
mondo, Milano 1976; A. Pertusi, Fine di Bisanzio e fine del mondo. Significato e
ruolo storico delle profezie sulla caduta di Costantinopoli in Oriente e in Occidente, cur.
E. Morini, Roma 1988. Inoltre, J. Hankins, Renaissance Crusaders: Humanist
Crusade Literature in the Age of Mehmed II, «Dumbarton Oaks Papers», 49
(1995), pp. 111-207; N. Bisaha, Creating East and West: Renaissance Humanists
and the Ottoman Turks, Philadelphia 2004; Crusading in the Fifteenth Century.
Message and Impact, cur. N. Housley, Houndmills - New York 2004.
4 Cfr. Blondus Flavius, De expedione in Turchos, ed. G. Albanese, P. Pontari, Roma 2018 (Edizione nazionale delle opere di Biondo Flavio, 6), è
Un passo inedito e redazioni d’autore del Commento del Piccolomini
269
le opere di vario genere, in versi e in prosa, dedicate all’argomento, tante che sarebbe impossibile elencarle qui tutte: vi fu anche chi diede indicazioni strategiche precise, per conseguire militarmente la vittoria 5.
Si infittirono, in quegli anni, anche gli sforzi papali in direzione
di una spedizione militare di difesa e di liberazione contro il Turco
invasore, giunto ormai alle porte dell’Europa, tanto che il 4 luglio
1456 ebbe inizio l’assedio di Belgrado. Dapprima si susseguirono
le forti sollecitazioni di Niccolò V, che indisse la crociata il 30 settembre del 1453, cercando interlocuzioni soprattutto con l’imperatore, perché si giungesse a una generale pacificazione dell’intera
Europa per liberare le risorse necessarie a organizzare la controffensiva. Poi quelle maggiormente energiche di Callisto III, Alonso
Borja, suddito della corona d’Aragona, che fu eletto l’8 aprile 1455
e che subito fece voto solenne di dedicarsi interamente alla lotta
contro i Turchi. Il 15 maggio di quello stesso anno sottoscrisse la
bolla di indizione della crociata, inviando in tutta Europa suoi legati per sostenerla. Le speranze del nuovo papa si indirizzarono
immediatamente verso Alfonso, suo signore naturale 6.
La spedizione, in realtà, fu solo annunciata e preparata per
anni, ma non fu mai realizzata: eppure questo fu sufficiente a in-
l’orazione del 1453; Id., Oratio coram serenissimo imperatore Frederico et Alphonso
Aragonum rege inclito, ed. G. Albanese, Roma 2015 (Edizione nazionale delle
opere di Biondo Flavio, 5), è l’orazione del 1452.
5 Lampugnino Birago, Strategicon adversum Turcos, ed. I. M. Damian,
Roma 2017 (ISIME, Antiquitates, 47). In simile contesto fu tradotto da
Teodoro Gaza anche il trattato di Eliano Tattico, su cui cfr. S. Fiaschi,
Aelianus Tacticus, in Catalogus Translationum et Commentariorum. Mediaeval and
Renaissance Latin Translations and Commentaries: Annotated Lists and Guides, X,
Washington 2014, pp. 128-163.
6 Sull’impresa sostenuta da Callisto e sui rapporti con Alfonso, cfr.
C. Marinescu, Le Pape Calixte III, Alfonse V et l’offensive contre les Turcs, «Bulletin de la Section Historique de l’Académie Roumaine», 19 (1935), pp. 7797; inoltre, M. Navarro Sorní, Calixto III y la cruzada contra el Turco, in Alessandro VI dal Mediterraneo all’Atlantico, Atti del convegno (Cagliari, 17-19
maggio 2001), cur. M. Chiabò, A. M. Oliva, O. Schena, Roma 2004, pp.
147-167.
270
Fulvio Delle Donne
fiammare gli animi e a riaccendere la discussione sui valori autentici della cultura occidentale, identificata con quella classica, non
solo latina, ma anche greca, che era tornata in quegli anni prepotentemente al centro dell’attenzione.
A scrivere l’orazione pronunciata da Alfonso il 26 agosto
1455, che generò una eccitata atmosfera, intensa e carica di attese,
era stato Antonio Beccadelli, il Panormita, che la incluse nella
parte conclusiva (immediatamente prima del Triumphus), della sua
opera ideologicamente e politicamente più impegnata, i Dicta aut
facta per l’appunto: l’intento era quello di supportare la strategia
politica del sovrano, anzi di costruire l’immagine di un Alfonso
re filosofo e cristiano, erede dei valori della civiltà classica e autentico successore degli antichi imperatori romani. Probabilmente, in quei giorni non si parlava d’altro: finanche Joanot Martorell, che in quel periodo era a Napoli, se ne lasciò suggestionare
per il suo romanzo in catalano Tirant lo Blanch, la cui ambientazione è connessa con quegli eventi 7.
Espressione di quelle attese è anche il Commento del Piccolomini, strutturato in forma di epistola che inizia con una sezione
nuncupatoria; prosegue con annotazioni puntuali ai vari capitoli
dell’opera del Panormita; termina con una conclusio, che include
anche la data, già ricordata al principio di queste pagine, che costituisce un sicuro terminus ante quem per la compilazione: Napoli,
22 aprile 1456. Il Piccolomini, che allora era vescovo di Siena, era
7 Cfr. J. Pujol, Tirant Lo Blanc, in Literatura medieval, III, dir. L. Badia,
Barcelona 2015, pp. 107-161 (cap. 16). Il testo può essere letto nell’edizione
di A. Annicchiarico, L. Indini, M. Majorano, V. Minervini, S. Panunzio,
S. Zilli, Roma 1984; in quella di A. Hauf, Valencia 2004; nella traduz. italiana
di P. Cherchi, Torino 2013. Note biografiche su Martorell in J. Torró Torrent, Només hi ha un Joan Martorell documentat amb el nom de Joanot. (Resposta i
correcció a Agustín Rubio Vela amb unes notes sobre Manuel de Rajadell), in «Tirant»,
15 (2012), pp. 19-32 (disponibile al sito: https://ojs.uv.es/index. php/Tirant/article/view/2073/1618).
Un passo inedito e redazioni d’autore del Commento del Piccolomini
271
giunto in città solo pochi giorni prima 8, inviato dal papa per spingere re Alfonso a mantenere fede alla sua promessa di compiere
la spedizione contro i Turchi: proprio in questa direzione sono
volte gran parte delle considerazioni dell’autore, anche se, parallelamente, mirano anche a chiedere aiuto e protezione per Siena,
la città da cui veniva e di cui era vescovo, che in quel periodo era
turbata dagli assalti bellici di Giacomo Piccinino 9.
Che l’opera sia volta a fare pressioni su Alfonso, perché tenesse fede ai suoi voti di crociata, è mostrato con piena evidenza
dalla conclusione, che chiosa il Trionfo di Alfonso (posto in coda
i Dicta aut facta del Panormita) in questo modo 10:
Cum redierit Alfonsus, subactis Turchis, liberata Grecia, et spolia
illa cruenta nefandique Mahumeti caput retulerit, o qualem ei currum apparabit Italia, quales gratias aget Ecclesia, quae festa omnis
Christiana societas agitabit!
Quando Alfonso sarà tornato, dopo aver sottomesso i Turchi e liberato i territori greci, e avrà riportato le spoglie cruente e la testa del nefando Maometto,
quale carro trionfale gli predisporrà l’Italia, quali ringraziamenti gli offrirà la
Chiesa, quali festeggiamenti gli organizzerà tutta la società cristiana!
Il Piccolomini, prefigurando già la vittoria completa di Alfonso, gli preannuncia festeggiamenti solenni e un trionfo ancora
più grande di quello celebrato nel 1443. E su questa linea prosegue in maniera ancora più immaginifica:
Convenient Romam Septentrionis et Occidentis reges, redeuntemque magnum imperatorem Christianae reipublicae servatorem salutabunt. Cardinales cunctique praesules ecclesiarum et magistratus
urbis, longo extra moenia intervallo sacra ferentes, obviam ibunt.
8
Cfr. R. Saviano, Il ruolo di Enea Silvio Piccolomini nei rapporti diplomatici
tra Siena e Callisto III. Lettere inedite dall’Archivio di Stato di Siena, in «Reti Medievali Rivista», 22 (2021), pp. 429-463: pp. 439-440; la missione fu, comunque, autorizzata dal papa il 20 febbraio.
9 Sul personaggio cfr. S. Ferente, Piccinino, Jacopo, in Dizionario Biografico
degli Italiani, 83, Roma 2015, ad vocem.
10 Il testo dell’opera del Piccolomini è quello offerto in Appendice alla
citata edizione dei Dicta aut facta del Panormita, in corso di pubblicazione.
272
Fulvio Delle Donne
Nivei stabunt ad frena Quirites, sternetur purpura et ostro quaecunque ab eo terra calcanda fuerit. Matronae nobiles virginesque,
rosas et lilia, eiectis in eum manibus, spargent, et variorum serta
florum sacro capiti annectent. Ipse curru sublimis aureos in plebem
nummos iaciet, quocunque in foro, quocunque in trivio substiterit,
novas ludorum facies offendet, acclamabitque omnis populus victori vitam et gloriam.
Verranno a Roma i re del Settentrione e dell’Occidente per salutare il grande
condottiero vincitore della repubblica cristiana che torna vincitore. I cardinali e
tutti i vescovi delle Chiese e i magistrati dell’Urbe, uscendo fuori le mura per
un lungo tratto, gli andranno incontro portando le sacre insegne. I Quiriti gli
manterranno le redini e saranno gettati a terra la porpora e l’ostro perché li
calpesti. Le nobili matrone e le vergini gli lanceranno dai tetti rose e gigli, accomodando sul suo sacro capo corone di variopinti fiori. Egli stesso dall’alto
suo carro lancerà monete d’oro alla folla, in ogni piazza e in ogni trivio in cui
si fermerà tutto il popolo predisporrà nuovi spettacoli festosi e lo acclamerà
augurando al vincitore vita e gloria.
Tutto il mondo sarebbe accorso a omaggiarlo e a sottometterglisi, in un festeggiamento che sarebbe stato pari a quello che
si usava in occasione delle incoronazioni imperiali. Del resto, il
Piccolomini chiama Alfonso proprio magnus imperator, con quell’oscillazione nel senso della parola – ‘condottiero vincitore’ e
‘imperatore’ – che lo stesso sovrano aragonese, anche grazie ai
dotti letterati che lo circondavano, avrebbe sfruttato per presentarsi al mondo come il verus imperator “all’antica”, superiore a
quello “medievale”, quel Federico III che era stato incoronato nel
1452 e subito reso vassallo di Alfonso, ma che non si mostrava
all’altezza del titolo che portava 11. Il gioco non è solo allusivo, ma
pienamente esplicito:
Atque ita triumphans non in Capitolium falsique Iovi aedem, sed
in apostolorum principis beati Petri basilicam deducetur; ibique
11
Alfonso non si recò a Roma in occasione dell’incoronazione; piuttosto lo attese a Napoli, dove lo insignì di una stola cavalleresca, con atto che
Giannozzo Manetti subito stigmatizzò con sottigliezza. Per un approfondimento della questione si consenta il rimando a F. Delle Donne, From Kingdom
to Empire. Political Legitimacy Building Strategies at the Court of Alfonso the Magnanimous, «Imago Temporis: Medium Aevum», 16 (2022), pp. 287-303.
Un passo inedito e redazioni d’autore del Commento del Piccolomini
273
maximum sacerdotem Calistum tertium, verum Christi vicarium et
regni aeterni claves tenentem, inveniens, largam ab eo benedictionem accipiet et, amplexus atque deosculatus grandaevum patrem,
secum in penitiorem palatii partem secedet, ubi et de recenti victoria et de rebus Hispanicis longos inter se sermones habebunt.
E così trionfando sarà condotto non nel tempio capitolino del falso Giove, ma
nella basilica di San Pietro, principe degli apostoli. Lì trovando il pontefice,
Callisto III, vero vicario di Cristo e detentore delle chiavi del regno eterno, e
ricevendo da lui l’alta benedizione, lo abbraccerà e lo bacerà come un anziano
padre, ed entrerà con lui nei recessi più interni del palazzo, dove discorreranno
a lungo della recente vittoria e delle cose della Spagna.
Ad accogliere Alfonso, dunque, ci sarebbe stato un trionfo
ancora maggiore, non solo rispetto a quello di Napoli del 26 febbraio del 1443, ma anche rispetto a quelli antichi, perché sarebbe
stato celebrato non in Campidoglio, ma addirittura nella basilica
di San Pietro, nel cuore della Cristianità. La fantasia è tramutata
in realtà pienamente verosimile, così che già vengono pregustati
i racconti e le descrizioni della grandiosa vittoria non ancora, anzi
mai avvenuta. La conclusione è questa:
Tunc tua, Antoni, musa, quasi ab inferis resurget, et tu quidem poemata compones, Bartholomaeus Factius historias scribet, mortalemque regem immortalitate donabitis.
Allora, Antonio, la tua musa quasi risuonerà dagli alti penetrali: tu comporrai
poemi e Bartolomeo Facio scriverà storie, e donerete immortalità al re mortale.
Il riferimento al Panormita è scontato, scrivendo il Piccolomini un commentario alla sua opera. Quello a Bartolomeo Facio
ci restituisce, invece, la suggestione che pure i suoi Rerum gestarum
libri, che nell’aprile del 1455 erano già giunti al decimo e ultimo
libro 12, terminando in maniera inattesa, siano stati repentinamente conclusi proprio in attesa della crociata di Alfonso 13.
12
Su Facio si veda il profilo di P. Viti, Facio Bartolomeo, in Dizionario
Biografico degli Italiani, 44 (1994), ad vocem; nonché G. Albanese, Studi su Bartolomeo Facio, Pisa 2000.
13 Cfr. l’epistola di Facio a Poggio del 14 aprile 1455, in Poggio Bracciolini, Lettere, ed. H. Harth, Firenze 1987, III, pp. 334-335 (VII 7): «Scito
274
Fulvio Delle Donne
Lo scopo di queste pagine, tuttavia, non è di caratterizzare il
significato ideologico-politico del commento del Piccolomini, che
meriterebbe discussione più distesa e articolata. Piuttosto, proponendo un piccolo frammento inedito, intende mostrare anche che
la redazione non fu meramente occasionale e legata a un momento
preciso, ma subì diversi interventi di correzione e riscrittura.
Il passo, finora mai pubblicato, è connesso col commento al
cap. II 11 dei Dicta aut facta del Panormita, dedicato all’invio di
Ludovico Pontano e Niccolò Tedeschi 14 presso il Concilio di Basilea, che fu convocato da papa Martino V nel 1431 e aperto dal
suo successore Eugenio IV il 23 luglio dello stesso anno. Nelle
antiche edizioni a stampa, esso si limita a questo:
Ludovici Pontani et Nicolai Siculi bella legatio et digna tanto principe, nisi discordes animae et invidia laborantes, neque regi neque
concilio utiles extitissent. Fuimus et nos Basileae notumque nobis
est, non minus occupatum fuisse synodum ad reconciliandos inter
se regis legatos quam ut Bohemos ad Ecclesiae catholicae consensum reduceret.
decimum librum rerum a rege gestarum mihi nunc in manu esse, qui liber
omnia continebit que usque·in hanc diem ab eo facta, vel per duces suos
administrata sunt; qui decimus liber huic operi modum imponit.·Si suscipietur bellum hoc contra Teucros, in aliud volumen seorsum conferetur,
ne modum magnitudo voluminis excedat» («Sappi che sono alle prese con
il decimo libro delle imprese del re, che conterrà tutte le cose fatte da lui o
condotte dai suoi comandanti fino a oggi: conferisce una giusta misura
all’opera. Se sarà intrapresa la guerra contro il Turco, sarà trattata in un
altro volume a parte, perché la sua dimensione non ecceda la corretta misura»).
14 Sul giurista Ludovico Pontano, figlio di medico (dunque non nobile
di origine), morto di peste il 10 luglio 1439 a Basilea, cfr. T. Woelki, Pontano, Lodovico, in Dizionario Biografico degli Italiani, 84, Roma 2015, ad vocem.
Su Niccolò Tedeschi (Siculus), che pure fu esimio giurista, ma vantava lontane ascendenze nobiliari (1386-1445), divenendo anche arcivescovo di
Palermo nel febbraio del 1434, cfr. almeno O. Condorelli, Tedeschi, Niccolò,
in Dizionario Biografico degli Italiani, 95, Roma 2019, ad vocem. Da entrambe
queste voci biografiche si possono ricavare ulteriori informazioni e bibliografia.
Un passo inedito e redazioni d’autore del Commento del Piccolomini
275
L’ambasceria di Ludovico Pontano e Niccolò Siculo sarebbe stata ottima e
degna di un principe così grande, se gli animi non fossero stati discordi e dominati dall’invidia, in maniera inutile sia al re sia al concilio. Anche io ero a
Basilea e so che il sinodo non era meno occupato a riconciliare gli ambasciatori
del re che a riportare i Boemi al consenso della Chiesa Cattolica.
Tuttavia, in un manipolo di tre manoscritti, almeno tra quelli
che contengono anche l’opera del Panormita, il testo prosegue in
tale modo, con un aneddoto che al Piccolomini era stato raccontato dal cancelliere imperiale Kaspar Schlick:
At quoniam de legatis sermo est, non indignum relatu videtur,
quod de Lubicensibus referentem Gasparem Schlichium, qui praesens fuerat, audivimus: Lubicenses ea nunc incolunt loca, in quibus
olim Cimbri consederunt. Hi legatos ad Sigismundum caesarem,
quamvis illitteratos, attamen circumspectos et ad subitanea provisos cautosque, misere, e quibus senior, dum genua de more flectit,
ventum crepitumque turpem reddit. Cumque in risum omnes soluti essent, ille retro caput inflectens et in obscenam corporis partem verba dirigens: «Tace – inquit –, amice. Me civitas Lubicensis,
qui caesarem alloquerer, non te, legatum misit!».
Ma poiché stiamo parlando di ambasciatori, non sembra inopportuno ricordare
ciò che abbiamo sentito a proposito di quelli di Lubecca da Kaspar Schlick, il
quale fu presente: Lubecca si trova nel luogo in cui un tempo si stabilirono i
Cimbri. Questi che furono inviati come ambasciatori presso l’imperatore Sigismondo, sebbene analfabeti, erano tuttavia circospetti, cauti e pronti ad affrontare le situazioni impreviste. Il più anziano, piegando le ginocchia per inginocchiarsi come si conviene, emise aria con turpe crepitio. Tutti scoppiarono a ridere, ma lui, voltando la testa all’indietro, rivolse queste parole alla parte oscena
del suo corpo: «Sta’ zitto, tu, amico mio. La città di Lubecca ha mandato me,
non te, come ambasciatore per parlare con l’imperatore»!
Questa aggiunta, certamente spassosa, ma piuttosto indecorosa e inadatta alla dignità di un’opera dedicata alla celebrazione di
un sovrano illustre 15, sembra una novelletta dal sapore bertoldiano.
15
Essenzialmente sul decoro come carattere irrinunciabile della narrazione di tipo storiografico si innesta una infiammata polemica tra Bartolomeo Facio e Lorenzo Valla, su cui si consenta il rimando a F. Delle
Donne - G. Cappelli, Nel Regno delle lettere. Umanesimo e politica nel Mezzogiorno, Roma 2021, pp. 63-67.
276
Fulvio Delle Donne
E forse proprio per questo fu successivamente censurata dallo
stesso autore. Ad avanzare questa ipotesi ci spinge soprattutto la
tradizione testuale, che abbiamo ricostruito per l’edizione dell’opera del Panormita, la quale in un particolare ramo – da noi siglato β
– è contraddistinta dalla presenza, al termine dei Dicta aut facta, o
inframezzate ad essa, dalle note di commento del Piccolomini.
Tra la quindicina di manoscritti del ramo β spiccano i tre seguenti, che costituiscono la famiglia β1 e che soli recano l’aggiunta
sopra riportata.
F2 – Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Plutei, 90
sup. 45, Cart., foll. 184, mm 190 × 140, risalente ai decenni immediatamente successivi alla metà del sec. XV, che contiene
l’opera del Panormita ai foll. 1r-60v e il commento del Piccolomini ai foll. 61r-109r 16.
P2 – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Pal.
lat. 959, risalente ai decenni immediatamente successivi alla metà
del sec. XV, decorato e vergato in grafia semigotica, che contiene
i Dicta aut facta Alfonsi Regis ai foll. 1r-41r e il commento del Piccolomini ai foll. 41v-73r17.
PR1 - Praha, Narodni Muzeum Knihovny, c 31 (k 44), collettaneo e parzialmente membr. (lo è per la parte che ci interessa),
mm 270 × 142, foll. 201, databile al 1458, che contiene i Dicta aut
facta ai foll. 6r-72v e il commento ai foll. 73r-121v 18.
16
Riproduzione online: http://mss.bmlonline.it/catalogo.aspx?Collection=Plutei&Shelfmark=Plut.90+sup.45. Cfr. A. M. Bandini, Catalogus codicum
Latinorum Bibliothecae Mediceae Laurentianae, III, Florentiae 1776, p. 606.
17 Riproduzione digitale sui siti: https://digi.vatlib.it/view/MSS_Pal.lat.959
e https://digi.ub.uni-heidelberg.de/diglit/bav_pal_lat_959. Cfr. P. O. Kristeller, Iter Italicum, II, Leiden 1967, p. 392; D. Waltz, Die historischen und philosophischen Handschriften der Codices Palatini Latini in der Vatikanischen Bibliothek
(Cod. Pal. Lat. 921 - 1078), Wiesbaden 1999, pp. 62-63; A. Iacono, Primi risultati delle ricerche sulla tradizione manoscritta dell’Alfonsi Regis Triumphus di
Antonio Panormita, «Bollettino di studi latini», 36 (2006), pp. 576-577.
18 Ms. esaminato in riproduzione. Cfr. J. V. Šimák, Rukopisy majorátní
knihovny hrabat z Nostitz a Rhienecka v Praze, Praze 1910, pp. 68-69.
Un passo inedito e redazioni d’autore del Commento del Piccolomini
277
Si tratta dei tre manoscritti più antichi che contengono anche
il Commento del Piccolomini. In particolare, la datazione del ms.
PR1 può essere abbastanza precisa, perché al fol. 201v si legge:
«Comperatus est libellus iste in studio Wiennensi per venerabilem M. Leonem Egr. de Perchnis, tunc decanum facultatis arcium
secunda vice, anno Domini 1458 ante festum sancti Barptolomei
apostoli». Questa informazione, che indica la data del 23 agosto
1458 come quella dell’acquisto del ms. a Vienna, appare particolarmente significativa, se consideriamo che l’opera del Piccolomini è datata 22 aprile 1456. Poco utile, invece, è l’indicazione «ex
Neapoli XX iunii» che si trova nel ms. P2 al termine del Triumphus,
fol. 60v.
Proprio l’altezza cronologica dei manoscritti fa ritenere che la
successiva “censura” sia da attribuire allo stesso autore, tanto più
che spesso i mss. del gruppo β1 recano lezioni assai diverse rispetto agli altri. A titolo di esempio si recano solo tre (simbolici)
casi significativi, tra i primi rilevanti che occorrono.
Cominciamo dal cap. I 46, che inizia con un aneddoto ripreso
da Boccaccio 19, nel quale si rappresenta Dante talmente assorto
nella lettura da non rendersi conto dei tumulti circostanti. Poi
cambia argomento, con un testo che presenta alcune lezioni significativamente divergenti. Partiamo dalla versione di β1, nella
quale si segnalano in corsivo le varianti più notevoli:
2. Verum, de musca quoniam mentio incidit, referendum est Gallici
principis exemplum, cuius nomen honestatis causa reticemus: convivium illi cum suis optimatibus fuit apparatum in horto aestate media, sub umbrosa ulmo, circumvolitare muscarum agmina inque dapes
ac vina provolvi. 3. Convivae, quibus animantis foeditas stomachum
moveret, mox ubi musca in pocula cecidit, vinum simul atque animal
effudere. Aegre id cernere princeps, iacturamque vini tacitus indignari. Nam queri palam inter magnos qui aderant proceres, non est
ausus, sed quos arguere verbo timuit, exemplo ammonuit. 4. Puerum,
qui se coram flabello abigebat muscas ventulumque faciebat, cessare
paululum iubet. Interea et in ciphum suum grandior musca incidit. Tum laetus princeps duobus digitis, pollice simul et indice, dextram
19
Cfr. Giovanni Boccaccio, Trattatello in laude di Dante, 121-122, p. 467
dell’ed. di P. G. Ricci, Milano 1974.
278
Fulvio Delle Donne
alitis alam apprehendit, et aliquandiu craterem supra excutiens, ne
quid vini secum deferret, in terram proiecit. Exemplum convivae
omnes secuti.
2. Riguardo alla mosca, dato che vi è stato fatto cenno, è il caso di ricordare
l’esempio di un principe francese, di cui vogliamo tacere il nome per decenza:
era stato preparato per lui e per gli uomini della sua corte un banchetto nel
giardino, nel pieno dell’estate, sotto un olmo ombroso, e sciami di mosche, che
volavano lì attorno, si precipitavano su cibi e vino. 3. I convitati, ai quali la
sozzura di quegli animali provocava nausea, non appena una mosca cadeva in
una coppa, gettavano il vino e l’animale, mentre il principe non sopportava di
vedere quello scempio e si indignava in silenzio per lo spreco del vino. Ma non
osò lamentarsi apertamente dinanzi ai grandi nobili che erano presenti, ma
quelli che aveva timore a rimproverare in maniera esplicita a parole, li smosse
col suo esempio. 4. Al fanciullo, che davanti a lui scacciava le mosche e gli
faceva vento con un ventaglio, ordinò di smettere per un po’. Nel frattempo
anche nel suo bicchiere cadde una mosca piuttosto grande. Allora il principe,
con volto allegro, afferrò con due dita, col pollice e l’indice, l’ala destra dell’insetto, e dopo averla scossa per qualche momento sul bicchiere affinché non portasse giù con sé qualche goccia di vino, la gettò a terra. Tutti i convitati seguirono il suo esempio.
Il commento si conclude con una citazione di Svetonio, in cui si
descrivono le cacce alla mosca dell’imperatore Domiziano (Dom. 3),
ma qui ci interessano le varianti testuali. Nel par. 2, invece di «umbrosa», nei testimoni che divergono da β1 si legge «opaca»; nel
par. 3, «timuit» è sostituito da «veritus est»; nel par. 4, invece di
«ciphum», vi è «craterem», mentre il sintagma «pollice simul et
indice» è del tutto omesso. Con tutta evidenza, non si può trattare
di banali errori di lettura, che rimarrebbero paleograficamente inspiegabili; piuttosto, risulta chiara una correzione intenzionale,
dettata da scelte stilistiche.
Stesso discorso si può fare per il commento al cap. I 49, che fa
riferimento, inizialmente, a una dotta disquisizione di Alfonso su
un’espressione proverbiale derivata da una massima di Ecatone di
Rodi, riportata da Seneca nelle sue epistole a Lucilio (IX 6):
Hecatonis praeceptum, quod Seneca magnopere laudat: «si vis
amari, ama», recte rex attestatus est erga Deum fallere, quem non
omnes amant, qui amantur ab Eo.
Un passo inedito e redazioni d’autore del Commento del Piccolomini
279
Il precetto di Ecatone, che Seneca loda molto, «se vuoi essere amato, ama»,
giustamente, secondo l’affermazione di Alfonso, non può essere riferita a Dio,
che non amano tutti coloro che Egli ama.
In questo caso, invece di «fallere» i testimoni diversi da β1 scrivono «non procedere», in maniera forse più congruente.
Concludiamo, infine, col commento al cap. I 55, in cui Alfonso rammenta che la giustizia è una delle virtù irrinunciabili del
perfetto principe:
Iusti principis est non solum afficere neminem iniuria, sed eos, qui
damna quibusvis hominibus sine iusta causa inferunt, dum valeant,
prohibere. Nam, teste Tullio, qui autem non obstitit – si potest –
iniuriae, tam est in culpa, quam si patriam aut parentes prodiderit.
È dovere del giusto principe non solo non arrecare ingiuria a nessuno, ma anche
proibire – se può – che lo facciano coloro che senza una giusta causa arrecano
danni ai propri sudditi. Infatti, secondo quanto afferma Cicerone, colui che non
si oppone all’offesa – se può farlo – è colpevole tanto quanto chi offende la
patria o i genitori.
I testimoni diversi da da β1, scrivono «si possint» invece di
«dum valeant»; «vitio» invece di «culpa» e «deferat» invece di «prodiderit». Neppure in questi casi le varianti possono essere causate
da errori di lettura.
Gli esempi si potrebbero moltiplicare facilmente, ma quelli appena proposti ci appaiono sufficienti 20. Di certo, le correzioni sono
stilisticamente assai ben connotate e meditate, tanto da poter essere attribuite, con buon margine di probabilità, allo stesso autore.
Se l’ipotesi fosse corretta, l’attento impegno di revisione riscontrabile starebbe certamente a dimostrare che il Piccolomini non considerò meramente occasionale o di scarsa rilevanza la sua opera,
nonostante si appoggiasse a quella del Panormita, senza la cui lettura i commenti rimarrebbero mutili o addirittura incomprensibili.
20
In genere, chi vorrà, potrà confrontare facilmente il testo fornito in
appendice alla prossima edizione dei Dicta aut facta Alfonsi regis (stabilito sui
mss. del ramo β1) con quello delle stampe antiche. Si avverte, a ogni modo,
che a un’edizione più completa del Commento del Piccolomini, basata su
tutti i testimoni, stanno lavorando per i «Monumenta Germaniae Historica» Giuseppe Marcellino e Claudia Märtl.
280
Fulvio Delle Donne
Prendendo lo spunto da un testo ideologicamente strutturato,
quale fu quello del Panormita, volle forse non solo fare azione di
pressione politica, ma contribuire anche a dare sviluppo alla tradizione della narratio brevis di tipo faceto, che stava divenendo in
quegli anni una forma letteraria di successo 21, grazie all’esempio
illustre delle Facezie (o meglio delle Confabulationes) di Poggio
Bracciolini, ma anche dalla traduzione degli Apophtegmata di Plutarco approntata da Francesco Filelfo 22, ricordata dal Piccolomini
nella prima parte nuncupatoria della sua opera 23 e certamente
nota anche al Panormita, che la lesse e annotò 24.
21
Per un quadro complessivo cfr. G. Ferroni, La teoria classicistica della
facezia da Pontano a Castiglione, «Sigma», 13/2-3 (1980), pp. 69-96; C. Amendola, La facezia nel tardo ’400, forma popolareggiante o raffinato genere umanistico?
Sondaggi su un capitolo minore della produzione ‘letteraria’ di Leonardo da Vinci,
«Incontri», 35 (2020), pp. 32-45. Un’utile sintesi sul genere è quella di Giovanni Fabris, nella Prefazione alla sua edizione, per altri versi problematica,
di Lodovico Domenichi, Facezie, Roma 1923, pp. VII-XXXII. Su poggio,
oltre alle edizioni curate da S. Pittaluga (Milano 1995 e Paris 2005), con
indicazioni di suoi ulteriori studi, si veda anche A. Bisanti, Tradizioni retoriche e letterarie nelle facezie di Poggio Bracciolini, Cosenza 2011.
22 Sulla traduzione di Filelfo e sulla datazione cfr. C. De Rosmini, Vita
di Francesco Filelfo da Tolentino, II, Milano 1808, p. 92; ma si veda anche, ora,
A. Biscione, Gli Apophthegmata Laconica di Plutarco nella traduzione latina
di Antonio Cassarino. Note sul testo e sulla sua ricezione, «CESURA - Rivista», 2/1
(2023), pp. 27-44.
23 «Quid plura? Apophtegmata Plutarchi Philelphus in Latinum vertit:
dicta illic facta memoratuque digna breviter comprehensa sunt illustrium virorum, quos non Oriens modo, sed Graecia simul et Roma protulit» («Filelfo
ha tradotto in latino gli Apophtegmata di Plutarco, dove sono brevemente raccolte le cose degne d’esser ricordate dette e fatte da uomini illustri che non
solo vengono dall’Oriente, ma anche dalla Grecia e da Roma»).
24 Che Panormita conoscesse quella traduzione è attestato dal fatto
che possedeva il ms. Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 3349, che
contiene ai foll. 101r-142v gli Apophtegmata ad Traianum e ai foll. 147r-184v
gli Apophtegmata Laconica nella traduzione di Antonio Cassarino, con postille che riprendono, per l’appunto, la traduzione del Filelfo: cfr. Biscione,
Gli Apophthegmata cit.
LETTURE
Zanobi Acciaioli, Oratio in laudem Civitatis Neapolitanae, edizione
critica, traduzione e commento a cura di Antonietta Iacono,
Napoli, Paolo Loffredo, 2023 (Latinae Humanitatis Itinera Nova,
8), pp. 132, ISBN 979-12-81068-21-6.
L’Oratio in laudem Civitatis Neapolitanae, che Zanobi Acciaioli pronunciò a Napoli, nella sede del Convento di San Domenico Maggiore, il 3 giugno 1515, ossia durante il Capitolo Generale dell’Ordine Domenicano, è fuor di dubbio un’opera di straordinario interesse non solo sotto il profilo ideologico-celebrativo, ma anche
come testimonianza documentaria delle bellezze monumentali
della città di Napoli nel primo Cinquecento. L’umanista, infatti,
muovendo da un’appassionata descrizione del territorio partenopeo e della sua storia, dagli eventi legati alla colonizzazione greca
fino ai fasti del Regno dei Trastàmara, non si limita a rendere un
sentito omaggio alla città, cui certamente si sente legato anche per
la sua personale storia familiare, ma intende conferire un ampio
risalto alla dimensione sacra di un territorio che spicca per lo splendore dei suoi palazzi e la ricchezza delle sue chiese, nonché per la
profonda devozione dei suoi cives. In ragione di ciò, l’Oratio è
senz’altro da intendersi come un vero e proprio Itinerarium tra
chiese, reliquie, monumenti, ossia come una “mappa letteraria” –
per usare la felice definizione di Antonietta Iacono – in cui geografia e letteratura si incrociano tra mito e tradizione letteraria,
realtà materiale e memoria immateriale (Premessa, p. 8).
Il volume qui discusso si apre con una breve Premessa di Antonietta Iacono, nella quale la studiosa, oltre a inquadrare l’Oratio nel
suo contesto storico-culturale, ne sintetizza anche i risvolti ideologici, nonché l’importanza documentaria di cui si è or ora fatto
cenno (pp. 7-8). L’editrice, inoltre, non manca qui di rimarcare
come la raffinata ed eruditissima operazione compiuta dall’Acciaioli si innesti nel solco di una tradizione culturale prestigiosa,
che ha in Giovanni Pontano e nella Schola Neapolitana il suo centro
di irradiazione. Ad esempio, la nuova rappresentazione del Crater
delle Sirene e, in particolare, la sua trasfigurazione nel golfo mistico
abitato da Proteo, oltre che da eroi antichi sia mitici che non, trova
284
Letture
origine proprio in quell’operazione di trasfigurazione della città di
Partenope in una nuova Atene, così come del Regno di Napoli in
una nuova Grecia, operata dal Pontano e dai membri del suo entourage. Del resto, le numerose citazioni e le parole piene di ammirazione nei confronti del grande maestro (ad esempio in Oratio IX 5)
sono anch’esse un segno evidente del profondo valore identitario
che Zanobi dovette attribuire alla sua operazione letteraria.
Le Abbreviazioni bibliografiche, ripartite tra Testi e Studi, annoverano ben oltre cento titoli (pp. 9-17). A esse segue una vasta e dotta
Introduzione che, nella sua agile articolazione in due paragrafi, offre
un’ampia messe di informazioni relative non solo alla vita e alla
formazione dell’Acciaioli, ma anche ai contenuti della sua opera e
alla complessa trama di citazioni e riferimenti culti in essa presenti
(pp. 19-61). Il primo paragrafo, Zanobi Acciaioli e l’Oratio in laudem
Civitatis Neapolitanae, contiene le principali notizie sulla vita
dell’umanista e la sua formazione letteraria (pp. 21-23). L’Acciaioli,
che fu senz’altro allievo di Marsilio Ficino e di Angelo Poliziano, e
probabilmente anche di Demetrio Calcondila, entrò nell’Ordine
Domenicano nel 1495, ricevendo la vestizione per mano di Girolamo Savonarola. Nel 1513 si recò a Roma al seguito di Giovanni
de’ Medici, eletto papa col nome di Leone X, dove tenne la cattedra di lettere umanistiche e, in seguito, diventò direttore della Biblioteca Vaticana. Da raffinato conoscitore del greco, oltre che da
eruditissimo filologo, si cimentò in traduzioni da Eusebio, Olimpiodoro, Teodoreto di Ciro e, inoltre, coltivò l’oratoria realizzando
una serie di discorsi, tra i quali vale la pena segnalare almeno l’Oratio in laudem Urbis Romae del 1511, dedicata a Giulio de’ Medici, e
l’Oratio in laudem Civitatis Neapolitanae del 1515, dedicata al cardinale
Luigi d’Aragona. Il secondo paragrafo, L’Oratio in laudem Civitatis Neapolitanae. Caratteri, contenuti, modelli, costituisce, per la ricchezza e la vastità delle notizie ivi riportate, una sorta di vero e
proprio saggio dedicato ai temi e alle caratteristiche stilistico-retoriche dell’Oratio (pp. 25-61). Tale sezione, che per una più agile
consultazione risulta ripartita in nove sotto-paragrafi, spicca non
solo per la profonda erudizione, ma anche per la chiarezza con cui
sono illustrate le caratteristiche, i temi e i modelli di un’opera che
Letture
285
è sì breve, ma è anche molto complessa sotto il profilo retorico e
ideologico.
Nel primo sotto-paragrafo, L’esordio, Antonietta Iacono, concentrandosi proprio sulle prime battute dell’orazione, svela l’abilità
con cui l’umanista coniuga la sua vocazione per l’intertestualità e
la citazione culta con le più recenti descrizioni della città di Napoli
e del territorio campano (pp. 25-27). Così, ad esempio, nel dichiarare fin da subito come la sua operazione nasca come una sorta di
atto di devozione nei confronti della patria che lo ha allevato (Oratio I), Zanobi cela un occulto rimando all’incipit del Panatenaico di
Elio Aristide, un autore che egli amava particolarmente, come dimostrano i marginalia autografi del ms. Laurent. Plut. 56, 22 della
Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze (L’esordio, p. 26). Nel secondo sotto-paragrafo, Napoli: amenità del sito e ktisis, la studiosa
illustra le modalità e gli intenti con cui l’Acciaioli rielabora il mito
della fondazione di Napoli, in Oratio II (pp. 27-30). L’umanista, in
particolare, attinge a fonti sia storiche che mitiche, non senza però
rinnovare profondamente il genere della laus urbis in senso marcatamente ideologico. Ad esempio, il passaggio sulle origini della
città, che risente dell’influenza di Strabone (V 4, 7), sviluppa un
topos molto frequente nella letteratura umanistica sviluppatasi proprio alla corte dei Trastàmara (p. 28), e lo rinnova in chiave retorico-celebrativa. Nel terzo sotto-paragrafo, I popoli, è approfondita
l’interessante patina di erudizione che Zanobi introduce in Oratio III 1: qui, infatti, l’umanista, muovendo dalle celebri parole che
nell’Iliade Priamo pronuncia alla vista di Elena (Hom. Il. III 156157), introduce un’appassionata lode di Napoli che, in quanto sede
di re e di uomini nobili e dotti, è certamente città di strettissima
vocazione sapienziale (pp. 30-33). Infatti, spiega Antonietta Iacono, l’autore collega «la bellezza e la dolcezza del clima di Napoli
ad una speciale predilezione del Creatore per gli uomini destinati
al comando e allo studio, il quale volle contemperare la debolezza
fisica di coloro destinati ad imperandum, consulendum speculandumque
fornendo luoghi come Napoli […]» (p. 31). Nel quarto sotto-paragrafo, La feracità dei campi, si approfondiscono, poi, le modalità
con cui l’Acciaioli esalta e celebra le bellezze naturali del sito (pp.
286
Letture
33-35). Molto interessante, in particolare, è il riferimento alla ricchezza e alla qualità dei vini campani, dell’olio e, soprattutto, degli
agrumi (Oratio V 3), un topos frequentissimo che ricorre, ad esempio, anche nell’epistola prefatoria con cui Angelo Catone dedicò a
Ferrante d’Aragona l’edizione delle Pandectae di Matteo Silvatico
(pp. 34-35). Nel quinto sotto-paragrafo, Le bellezze del Golfo, Antonietta Iacono analizza le strategie con cui Zanobi elenca e descrive
le bellezze del golfo di Napoli, da lui denominato Crater secondo
una definizione classica che si rinviene anche in Strabone V 4, 3
(pp. 35-39). La menzione di luoghi come Cuma, Baia e le terme di
Pozzuoli, giusto per citarne alcuni, si arricchisce di rimandi culti sia
ai grandi classici della letteratura antica che ai nuovi classici della
letteratura umanistica, tra i quali mi preme qui menzionare almeno
gli Hendecasyllaborum libri del Pontano e l’Arcadia del Sannazaro. Nel
sesto sotto-paragrafo, Napoli, i Romani, la storia del regno, i sovrani
Trastàmara, la studiosa esamina un’importante sezione dell’opera,
corrispondente ai paragrafi VI-XI dell’Oratio, in cui l’umanista celebra il valore di cui la città godette in epoca sia romana che a lui
contemporanea (pp. 39-47). Tra le numerose fonti utilizzate, spiccano il Panatenaico di Aristide e l’opera storica di Svetonio, ma anche l’Historia Augusta e, in epoca più recente, l’Italia illustrata Biondo
Flavio e il De bello Neapolitano del Pontano, oltre che gli Annales del
Ranzano e la Defensio del Caracciolo. Come osserva Antonietta Iacono, l’esaltazione della città avviene in una chiave marcatamente
ideologica, per cui anche il riferimento ai seggi cittadini, che l’oratore considera il fulcro della storia illustre della nobiltà cittadina,
assume una connotazione molto significativa in tal senso, soprattutto considerando che l’autore doveva conoscere assai bene le dinamiche sociali della città (Oratio IX 3). Un modello di assoluto rilievo è costituito, poi, anche dalla già citata prefatoria di Angelo
Catone all’edizione delle Pandectae di Matteo Silvatico: Angelo Catone, infatti, aveva posto un’enfasi particolare sul valore militare
delle popolazioni del Regno, un tema che si riscontra anche
nell’Oratio XI 1. Nel settimo sotto-paragrafo, La magnificentia,
sono analizzati i contenuti e i modelli con cui l’Acciaioli celebra la
magnificentia urbanistica di Napoli in Oratio XI 1 (pp. 48-51). L’uma-
Letture
287
nista, in particolare, richiama esplicitamente la categoria dei mirabilia, allorché elenca le bellezze architettoniche della città (mura, templi, rocche, monasteri, porto) secondo i precetti retorici che si rinvengono nella trattatistica classica (Menandro in primis), ma non
senza un occhio anche alla tradizione locale. Così, la celebrazione
del porto rappresenta un pretesto per poter celebrare il re Alfonso,
che di fatto aveva promosso la fortificazione del molo grande e
una serie di interventi sul molo piccolo dalla parte di San Pietro
Martire (p. 49). Ed è proprio per esaltare la figura del Magnanimo
che l’Acciaioli rifunzionalizza un intero epigramma dell’Anthologia
Palatina, il IX 670 (ed. Pontani), riscrivendone a tale scopo le battute
finali (p. 49). Nell’ottavo sotto-paragrafo, Regni ornamenta, Antonietta Iacono mostra le strategie con cui Zanobi sviluppa l’altro
grande tema della sua orazione, quello della gloria che proviene alle
città dai suoi uomini più illustri e dai santi (pp. 51-60). Nella sezione a. I viri illustres, la studiosa, muovendo da un passo dell’Oratio XIV 1, dimostra come lo sfoggio erudito dell’umanista, che offre
un ampio elenco di uomini illustri legati alla storia di Napoli e del
Regno – egli cita, ad esempio, Papinio Stazio e Lucilio tra gli antichi
cittadini di Napoli, nonché numerose altre personalità di spicco
che, a vario titolo, possono rientrare tra le glorie del Regno, come
Virgilio, Diomede, Archita, Milone di Crotone, Filottete – si colga
anche nel fitto apparato di note con cui, nella stampa, l’autore indica le sue fonti (pp. 51-56). Tra le grandi personalità del Regno,
Zanobi menziona pure i pontefici provenienti dalla Campania e ne
celebra le imprese: Urbano VI, Bonifacio IX e Giovanni XXIII (Oratio XV). L’elenco, infine, si conclude con l’appassionata e sentita
esaltazione della figura di Oliviero Carafa, canonico e arcivescovo
di Napoli dal 1458 al 1484, cardinale presbitero del titolo dei Santi
Marcellino e Pietro, nonché di fatto il più autorevole protettore
dell’Ordine dei Domenicani. Nella sezione b. I santi, la studiosa
analizza la porzione finale del discorso (Oratio XVI), in cui l’umanista sviluppa in chiave cristiana la topica delle bellezze e degli ornamenta della città, costituiti da santi, protettori e reliquie miracolose
(pp. 56-60). I santi patroni e gli antichi vescovi di Napoli (Agrippino, Aspreno, Eufemio, Agnello, Attanasio, Gennaro, Severo)
identificano e chiariscono i luoghi qui menzionati, mentre la cura
288
Letture
per le reliquie crea una sorta di vero e proprio itinerario sacro all’interno della città (p. 56). Ancora una volta l’umanista mostra tutta
la sua attenzione anche per la tradizione locale: ad esempio, la descrizione del celebre miracolo di San Gennaro, il cui sangue è ancora oggi custodito nel Duomo di Napoli, è molto attestata nelle
fonti quattrocentesche. Tra esse una menzione particolare meritano sia i Ricordi di Loise de Rosa, che non a caso celebra Napoli
come una città incastonata in un territorio ricco di reliquie miracolose, sia anche la dedica con cui Angelo Catone donò a Ferrante
l’edizione delle Pandectae di Matteo Silvatico, in cui compare un
elenco di santi molto simile a quello di Zanobi, che culmina nella
citazione del miracolo di San Gennaro (pp. 57-58). Nel nono
sotto-paragrafo, Il congedo, Antonietta Iacono esamina infine le modalità con cui l’autore si congeda dai suoi lettori (pp. 60-61). Tale
sezione, infatti, costituisce un ulteriore omaggio agli illustrissimi viri
di Napoli, vista come «la patria regina delle terre d’Italia, sede di
nobiltà, illustre e ricca di doni […]» (p. 60). L’opera, inoltre, si conclude con una preghiera, che è anche un augurio di fertilità ai campi
e di salvezza, sia del corpo che dell’anima, a tutti gli uomini.
Il testo latino dell’orazione (pp. 69-86, con l’epistola prefatoria
a p. 67), è anticipato da un occhiello che recita: Oratio Fratris Zenobii
Ordinis Praedicatorum In Laudem Civitatis Neapolitanae (p. 63). Esso,
inoltre, si apre con una Nota critica, in cui l’editrice chiarisce le modalità con cui sono stati allestiti il testo critico, la traduzione italiana
e l’ampio apparato di note di commento (pp. 65-66). Il testo latino,
in particolare, si fonda sull’edizione a stampa siglata S.Q. IX.K.5
della Biblioteca Nazionale di Napoli, che dovette vedere la luce in
una data molto prossima a quella in cui fu tenuto il discorso, il 3
giugno 1515. Infatti, la lettera, con cui l’autore dedicò l’Oratio a
Luigi d’Aragona, reca la data del 9 giugno 1515, a dimostrazione
del fatto che l’autore dovette aver composto l’opera già in vista
della sua pubblicazione a stampa. L’opuscolo, che il Manzi attribuisce all’officina di Sigismondo Mayr, presenta un ampio corredo
di note, che chiariscono non solo le fonti greche e latine adoperate,
ma anche le allusioni, gli eventi e i luoghi citati nel discorso. Per il
loro valore storico-documentario, esse sono state riportate un ap-
Letture
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posito apparato posto a corredo del testo latino. La traduzione italiana (pp. 89-114), dal canto suo, si apre con un occhiello che recita:
Discorso di Fra’ Zanobi Acciaioli dell’Ordine dei Predicatori in Lode della
Città di Napoli (p. 87). Essa, inoltre, si arricchisce di un fitto apparato di erudite note di commento, che consentono senz’altro una
migliore fruizione dei contenuti dell’orazione. Per quanto suggestiva, infatti, l’opera dell’Acciaioli non è affatto di semplice lettura,
ma è il frutto di un’impresa assai erudita, che, come si è detto, incrocia e fa dialogare fonti geografiche ed antiquarie, letteratura antica e coeva, memoria mitico-storica e conoscenza autoptica dei
luoghi. Il volume si chiude, infine, con gli Indici analitici: delle fonti
e dei luoghi paralleli; dei nomi; dei toponimi e degli etnonimi; dei
manoscritti (115-129), a cura di chi scrive, nonché con l’Indice generale dei contenuti (pp. 131-132).
Un esempio a mio avviso assai eloquente dell’importanza storico-documentaria dell’opera dell’Acciaioli è costituito dal paragrafo XVII dell’Oratio, in cui l’autore focalizza l’attenzione sulla
pietà e sulla devozione dei cittadini napoletani. Come opportunamente osserva Antonietta Iacono, infatti, la sezione, che è introdotta dalla citazione di ben due Salmi (Psalm. 39, 5 e Psalm. 1, 1-2),
contiene l’esaltazione del sentimento di carità cristiana dei partenopei, che si esplica nell’edificazione di chiese e in numerose altre
opere di bene. Ebbene, di tale sentimento un esempio particolarmente fulgido è costituito dall’edificazione della chiesa dell’Annunziata, eretta nel XIV secolo dal nobile Nicola Scanditi come atto
di devozione per essere stato ‘miracolosamente’ liberato dalla prigionia dei Pisani, in cui era caduto dopo lo scontro armato di
quest’ultimi con l’esercito di Roberto d’Angiò nel 1315 (p. 59).
Dapprima rifugio dei Trovatelli e sede della confraternita dei Battenti, in seguito la chiesa si fuse con la casa della Maddalena, ossia
con l’ospizio voluto da Sancia, moglie di Roberto d’Angiò, per
ospitare e supportare le donne in difficoltà. Ora, per quanto in
Oratio XVII 3, Zanobi sembri riferirsi a questo luogo in particolare,
quando scrive:
[…] expositis infantibus aegrotisque curandis et collocandis virginibus opes vestras liberaliter erogatis, quae, si ut oportet, veros Dei
290
Letture
adoratores non ad humanae laudis aucupium, sed in spiritu et veritate ad interiorem Dei cultum charitatemque hominum dona persolvitis […];
[…] per gli orfani, per curare gli ammalati e sposare le vergini dispensate generosamente le vostre ricchezze, che voi offrite in dono, qualora occorre, da cultori
del vero Dio non per il conseguimento dell’umana gloria, ma nello spirito della
verità per il culto interiore di Dio e per amore nei confronti del prossimo[…],
è evidente come l’identificazione tali opere di bene nell’edificazione della chiesa dell’Annunziata non sarebbe stata possibile,
senza l’erudita e puntuale analisi condotta dalla studiosa su questo
passo, così come su tutte le sezioni dell’opera.
Da tutto quanto sopra esposto, risulta ormai evidente come
l’edizione critica dell’Oratio in laudem Civitatis Neapolitanae qui recensita rappresenti, senza ombra di dubbio, un’operazione editoriale
di grande rilevanza scientifica. I meriti principali di questo lavoro
consistono, oltre che nella cura meticolosa con cui è stato allestito
il testo critico e la sua traduzione italiana, anche nel ricchissimo
apparato di note di commento, che guidano il lettore nella non
sempre agevole fruizione dei contenuti dell’orazione, e soprattutto
nell’eruditissima introduzione, che ha il pregio di inquadrare
l’opera nel milieu culturale che l’ha vista nascere e di fornire numerose informazioni di difficile reperimento. Ma, soprattutto, ritengo
che il pregio più importante di tale edizione sia stato quello di restituire alla comunità scientifica il testo di un’opera di importanza
cruciale per la storia del Regno aragonese, della sua ideologia e degli sviluppi della sua identità culturale, ma che era stato a lungo
ignorato, forse anche in ragione della sua obscuritas. L’auspicio, dunque, è che tale lavoro possa aprire ulteriori linee di indagine sulla
laus urbis di età umanistica, che, collocandosi all’incrocio tra geografia e storia, committenza ed encomio, erudizione e riuso del
passato, può essere senz’altro annoverata tra i generi più affascinanti e complessi di quest’epoca.
Nicoletta Rozza
nicoletta.rozza@unina.it
SOMMARIO
CONFRONTI Nuove prospettive per la storia diplomatica
Francesco Storti, Opportune innovazioni e giuste resistenze. Un contributo di
cesura agli studi di storia della diplomazia nel Rinascimento ...................... 105
Isabella Lazzarini, Constructing and de-constructing diplomacy and
diplomatic history in the pre- and post-modern worlds. The New Diplomatic
History in dialogue with the International Relation Studies ....................111
Malika Dekkiche, New Diplomatic History and Mamluk Studies:
Challenges and Possibilities ........................................................................ 133
Imma Petito, Le geografie della diplomazia aragonese: il Regno, le Fiandre
e l’Inghilterra (1463-1483) ...................................................................167
Gianluca Falcucci, Tra vecchie e nuove alleanze: Ferrante d’Aragona, la
politica di rapprochement con lo Stato della Chiesa e la costruzione europea
del blocco anti-francese (1471-1472) .......................................................... 207
TESTIMONIANZE E DOCUMENTI
Fulvio Delle Donne, Un passo inedito e possibili redazioni d’autore nel
Commento di Enea Silvio Piccolomini ai Dicta aut facta Alfonsi regis del
Panormita .................................................................................................. 267
LETTURE
Lettura di Zanobi Acciaioli, Oratio in laudem Civitatis Neapolitanae,
ed. A. Iacono (per Nicoletta Rozza) ......................................................... 283