A.M.Briguglia, per il gruppo di San Martino, sessione settembre 2014
MONDO, CONOSCENZA, V ERITÀ IN TOMMASO D'AQUINO
L'epistemologia di Tommaso è un equilibrio difficile tra due istanze:
1.
legare la definizione di verità alla mente dell'uomo, evitando tutte le tentazioni
platonizzanti, rischiando però l'internalismo;
2.
respingere ogni forma di rappresentazionalismo, affermando un saldo legame col
mondo attraverso il concetto di forma, che è contemporaneamente attualizzazione della mente e
principio di intellegibilità della res conosciuta; non conosco le mie rappresentazioni (id quod), ma
attraverso le mie rappresentazioni (id quo).
La garanzia di queste due istanze sono, da una parte, una filosofia della natura che nega la visione
riduttiva della materia di tipo democriteo (e a futura memoria quella di Cartesio), dall'altra, la Mente di Dio,
che coincide con la sua essenza, la quale "pensando" crea il mondo.
Nel Novecento la rottura di questo equilibrio è avvenuta in molti modi. Tutte le proposte di teoria
della conoscenza dal neopositivismo, a Wittgenstein, allo scientismo, a Rorty … finiscono per privilegiare un
aspetto della conoscenza: il platonico Mondo 3, il costruzionismo radicale, la teoria corrispondentista della
verità + il cosiddetto "realismo metafisico", la chiusura nel linguaggio, etc---.
D'altra parte, la teoria della conoscenza e la filosofia della natura di Tommaso costituiscono una
proposta che deve essere rivista alla luce di ciò che sulla conoscenza e sul mondo oggi ci dicono le scienze
cognitive, la fisica del modello standard, la biologia, le neuroscienze.
La sua istanza fondamentale è ancora sostenibile?
Credo di si, con opportune modifiche!
Il filo rosso che può condurci attraverso la quaestio de veritate è la relazione tra mente e mondo. La
verità è primariamente nella mente o nel mondo? Si può parlare di verità, in assenza di mente? Se la verità è
adaequatio tra mente e mondo, attuata attraverso il giudizio consapevole, si può parlare di verità prima che
una mente entri in relazione con gli enti? Come è possibile "controllare" questa adaequatio (similitudo,
conformitas, convenientia sono termini equivalenti usati da Tommaso)?
La risposta di Tommaso è legata, come dicevo, ad una presupposizione teologica e ad una particolare
filosofia della natura.
Nella quale ci spinge ad inoltrarci la convertibilità di vero e di ente.
Tutto ciò che esiste è conoscibile, ci dice Tommaso. Questo vuol dire che c'è parentela tra mente e
mondo. Che gli enti materiali non sono la res extensa di Cartesio.
Tra la materia di Cartesio e la mente umana non vi è nessuna relazione possibile; la conoscenza è un
miracolo, una corrispondenza dovuta all'intervento divino. Noi, per Cartesio, non conosciamo gli enti
conosciamo le nostre rappresentazioni degli enti. Per Tommaso la species astratta dalle sensazioni non è id
quod cognoscimus, ma id quo cognoscimus.
ERANO VERE LE LEGGI DI DI NEWTON PRIMA D I NEWTON?
Nel suo Per la verità. Relativismo e filosofia (Einaudi, Torino, 2007) D.Marconi si pone il problema
di Heidegger (Essere e tempo): "erano vere le leggi di Newton prima di Newton?" (pp 64-69). [ed.it. di
Essere e tempo pp 344-5 par. 44,c]. La sua risposta è: "naturalmente sì!" entrando direttamente in polemica
con un articolo di R.Rorty, pubblicato in italiano in "Intersezioni", VIII.2", aprile 1988 e che porta come
titolo la domanda in questione.
Infatti, la risposta di Rorty alla domanda di Heidegger è negativa. La sua argomentazione, visti i
presupposti, è coerente: se non è possibile avere relazione con una materia che è altro dalle nostre pratiche
linguistiche, la verità è solo una relazione accreditata e storicamente contestuale tra il parlante e le sue
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asserzioni. Ma Rorty ha ragione se restiamo nella prospettiva postkantiana e se Dio non esiste. La prospettiva
di Tommaso è diversa, vista una diversa concezione di come è fatto il mondo e l'ammissione di un Dio
creatore che "pensa" mentre crea.
Heidegger si avvicina al pensiero di Tommaso quando dice che l'Essere è apertura. Senza questa
disponibilità dell'Essere allo scoprimento non ci sarebbe verità. L'adaequatio medioevale non è la verità,
secondo Heidegger; consegue alla verità che è apertura dell'ente. L'Esserci scopre l'Essere nell'ente. C'è una
storia di questa scopertura, di questo svelamento e del ritrarsi in un nascondimento. Dopo Newton le leggi di
Newton hanno velato più che svelare l'essere.
Diego Marconi pensa che Heidegger e Rorty, che lo riprende, abbiano confuso verità e accesso alla
verità.
A mio avviso però l'A. non coglie il problema filosofico. Se la verità è adeguazione tra una
proposizione e uno stato di cose, è chiaro che il vero si esprime nel linguaggio, richiede intenzionalità, è il
risultato di un incontro tra mente e mondo, dipende da un accesso epistemico al mondo. Senza questo
accesso da parte di qualcuno non c'è verità.
Noto qui, però, che per Tommaso l'adeguazione non si attua attraverso una asserzione, bensì
attraverso una proposizione. Cioè non attraverso una emissione di suoni, ma attraverso un contenuto mentale.
La verità, per Tommaso, è il mondo intenzionato dalla mente, nella mente. E' il risultato di una
astrazione concettuale, dipende dal modo in cui la mente "taglia" il mondo. Nell'incontro veritativo qualcosa
ci mette il mondo, qualcosa la mente intenzionante. Quest'uomo che pensa, comunque, incontra il mondo non
una sua rappresentazione.
Dire che la verità del mondo è indipendente dalla mente dell'uomo è o un non senso o
un'affermazione filosofica forte, che rimanda o a un mondo di asserzioni vere esistenti di per sé, o ad un
mondo che ha una dimensione mentale in sé o perché dipende dalla Mente divina.
Nella prospettiva rortyana non ha senso parlare di Verità, si può parlare solo di verità (con la "v"
minuscola); attribuire al mondo proprietà è un residuo nostalgico di una metafisica da rigettare. Nella
prospettiva platonica che giunge fino a Frege le idee, i concetti e le proposizioni hanno realtà autonoma. La
conoscenza allora è presa diretta su questo mondo ideale. Nella prospettiva tomista si può parlare di verità
delle cose, prima che homo sapiens inizi la sua corsa, perché esiste una relazione tra la realtà e Dio, da una
parte, una parentela tra la mente e il mondo per la costituzione ilemorfica del reale, dall'altra, che rende tutto
ciò che esiste potenzialmente disponibile ad un incontro con una mente.
Se non si vuole accettare il pragmatismo radicale di Rorty o l'idealismo di Frege occorre allora
ammettere o che Dio miracolosamente mette in relazione le nostre menti e il mondo o che la realtà ha una
dimensione mentale. Occorre allora elaborare una filosofia della natura e non solo una epistemologia.
Riporto un brano del mio Mondo perduto e ritrovato (reperibile in www.academia.edu):
"La moderna filosofia della conoscenza si è abituata alla compresenza di più mondi, scoperti e
costruiti all'interno di diversi schemi concettuali. Potrebbe rimanere la consolazione di ritenere che tutti
questi mondi sono prospettive di un unico Mondo. Di questo mondo in sé, però, sembra che non possiamo
dire nulla, perché dai nostri schemi concettuali non possiamo uscire. Ma cosa farsene di un mondo del quale
non possiamo dire nulla? "Non dovremmo farla finita di parlare di versioni corrette come se ognuna fosse, o
avesse, il suo proprio mondo, e riconoscerle tutte come versioni di uno stesso mondo neutrale «che sta
sotto»? Il mondo così riconquistato.. è un mondo senza più generi, ordine, moto, quiete, struttura un mondo
per il quale o contro il quale non val più la pena di darsi da fare" (N.Goodman, Vedere e costruire mondi,
Laterza Bari 1988 [1978] p.22) .
Allora tanto vale rinunciare al Mondo. Ci basta il mondo, quello interlinguistico delle nostre pratiche
di ogni tipo; non abbiamo neanche più bisogno del noumeno-guardiano perché ci serve solo questo mondo in
due dimensioni. L'idea di verità come corrispondenza diventa banale (Davidson e Rorty) dal momento che è
esonerata dall'agganciare quel noumeno inafferrabile che chiamiamo «Mondo». Verità è un concetto tutto
“internista” del quale tutto sommato si può fare a meno; la disputa tra realisti e antirealisti non ha più senso
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perché non abbiamo più il problema di uscire dai nostri schemi concettuali per vedere come stanno
veramente le cose. Il Mondo finalmente perduto ci restituisce il nostro mondo (o i nostri mondi). La nozione
stessa di schema concettuale, che implicitamente fa riferimento ad una realtà extralinguistica, secondo
Davidson, deve essere abbandonata".
La materia, così come è pensata dai moderni, è una materia senza proprietà, struttura, forme, il
contrario dell'apertura di Heidegger o della identità tra ente e conoscibilità di Tommaso.
D.Marconi obietta ad Heidegger e Rorty che i dinosauri esistevano prima dell'uomo e sarebbero
esistiti anche senza l'uomo; che la fusione nucleare nelle stelle avviene da miliardi di anni e sarebbe avvenuta
anche in un mondo possibile che non prevede la comparsa delle menti.
Afferma, secondo me giustamente, Rorty: prima che ci fosse un linguaggio non erano possibili
asserzioni vere o false e quindi non c'era niente cui potesse applicarsi il termine vero, "proprio come non
c'era niente cui potesse applicarsi il termine "vivo" prima della nascita di organismi" (cit. p.53).
La definizione di Tarski, cui fa riferimento Marconi, non dà una definizione di verità, ma di verità in
L, fa riferimento ad un linguaggio: "vero" è sempre "vero" in L!
Rorty lo ricorda, anche se per lui L non racchiude solo asserzioni, ma pratiche sociali di ogni tipo.
Nella prospettiva rortyana l'unica cosa che ha senso ammettere è che esisteva qualcosa anche senza
l'uomo. Ma già l'affermazione che la fusione nucleare ci sarebbe stata anche senza l'uomo richiede una
mente, un linguaggio, relazioni sociali, pratiche di laboratorio, teorie, interesse per l'argomento. Ci sarebbe
stata qualcosa cui una mente avrebbe in seguito avuto accesso tramite nomi e concetti (ancora Heidegger:
l'Essere ha una storia di svelamento/nascondimento), un qualcosa che possiamo solo indicare (ma anche qui
cosa significa indicare senza intenzionalità? chi avrebbe dovuto indicare qualcosa?). La comparsa di animali
senzienti e poi pensanti è anche una storia della verità. Tommaso ci avverte che la verità muta nel tempo.
Rorty quindi vede il problema che Marconi non vede!
Ma occorre risolverlo non rinunciare al mondo! Non è condivisibile la proposta di Rorty di
considerare il linguaggio una pratica sociale che non abbia nessuna dimensione referenziale, cioè che non
intenzioni un mondo. Per Rorty è possibile conferire senso alla indipendenza causale del mondo, ma non a
quella di rappresentazione adeguata di esso (ivi p.55). "Vero" per Rorty è solo la caratteristica di un
enunciato socialmente condiviso.
In una prospettiva tomista le cose vanno diversamente dal momento che il mondo esiste perché Dio
lo "pensa" (qualunque cosa possa significare che Dio pensa).
In una prospettiva moderna tra res e intellectus non vi può essere nessuna relazione perché si tratta di
realtà assolutamente non omogenee tra loro. "L'ontologia" cartesiana non consente una relazione. Tutto
avviene all'interno delle rappresentazioni mentali e/o delle prassi condivise. Se la realtà è muta e capace solo
di sollecitare le "terminazioni nervose", le quali poi reagirebbero a modo loro, senza alcuna relazione con la
sollecitazione ricevuta, non è possibile alcuna relazione tra il soggetto che pensa e questa muta presenza,
muta rispetto ad una "forma" possibile. Il giudizio cui spetta essere vero o falso, se non lo si vuole
considerare nella sua psichicità individuale e soggettiva, ma depurarlo e renderlo universale, che rapporto
può avere con una res privata di quella"natura" dinamica che, per Aristotele, è la sua forma accessibile ad
una mente?
Cosa può essere mai la conoscenza senza la omoiòsis di Aristotele o la adaequatio degli scolastici?
Ha ragione Heidegger: non è possibile parlare della verità senza impegnarsi in una ontologia.
I moderni hanno risolto il problema cercando in molti modi di fare a meno di "verità" o di riferire il
termine a qualche caratteristica interna dell'insieme delle rappresentazioni (ad. es. coerenza, efficacia,
accettabilità garantita, etc.).
Per Heidegger la verità è il modo di essere dell'Esserci che è uno scoprirsi. Questa iniziativa dell'ente
che si scopre era già presente in Aristotele, ma, per evidenziarla, secondo Heidegger, bisogna espellere l'idea
di adeguazione dal concetto di verità (Heideggere identifica, però, verità e corrispondenza). E' l'Ente stesso
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che si mostra scoperto:"Esser-vero (verità) significa esser-scoprente":
"Che un'asserzione sia vera significa: essa scopre l'ente in se stesso: enuncia, manifesta, «lascia
vedere» l'ente nel suo esser-scoperto. Esser-vero (verità) dell'asserzione significa esser-scoprente. La verità
non ha quindi la struttura dell'adeguazione del conoscere all'oggetto nel senso dell'assimilazione di un ente
(il soggetto) a un altro ente (l'oggetto). Questa oggettificazione, mi par di capire, coprirebbe anziché
scoprire.
Ma l'esser-vero nel senso di esser-scoprente è ontologicamente possibile solo sul fondamento
dell'essere-nel-mondo. Questo fenomeno, in cui ravvisammo la costituzione fondamentale dell'Esserci, è il
fondamento del fenomeno originario della verità. Bisogna dunque scrutare ancora più a fondo questo
fenomeno.
Esser-vero (verità) significa esser-scoprente." (Essere e tempo, p.334-5).
L'adeguazione tradizionale è una "modificazione derivata" che "guida l'esplicazione teoretica della
struttura della verità" (p.340).
Si va così dall'esserci come scoperto all' in-quanto ermeneutico, all'in-quanto apofantico
"Queste affermazioni divengono comprensibili nella prospettiva dell'interpretazione tradizionale del
problema della verità solo se si tiene presente che: 1. La verità, intesa come adeguazione, trae la sua origine
dall'apertura e precisamente da una sua modificazione particolare. 2. Lo stesso modo di essere dell'apertura
conduce lo sguardo a posarsi innanzitutto su questa sua modificazione derivata e a far sì che essa guidi
l'esplicazione teoretica della struttura della verità.
L'asserzione, la sua struttura, l'in-quanto apofantico, sono fondati nell'interpretazione e nella sua
struttura, cioè nell'«in-quanto» ermeneutico e, più originariamente ancora, nella comprensione e
nell'apertura dell'Esserci. Ma la verità è considerata una determinazione particolare dell'asserzione così
derivata. Le radici della verità dell'asserzione risalgono quindi all'apertura della comprensione. Muovendo
da questa determinazione dell'origine della verità dell'asserzione, dobbiamo ora chiarire esplicitamente
nella sua origine il fenomeno dell'adeguazione." (ivi, p.340).
Rorty sottolinea, nel suo articolo, come qui Heidegger sia d'accordo con Kuhn. Il fatto che l'esserci
in quanto scoperto sia comunque un essere nel mondo ha come conseguenza che l'Esserci di Aristotele e
quello di Newton sia diverso e che quindi le loro asserzioni sono difficilmente comparabili.
L'adeguazione è allora, per Heidegger, tra due presenze la presenza dell'ente e la presenza
dell'asserzione.
La verità allora, primieramente non è nel giudizio. Aristotele questo lo aveva compreso:
"Nello stesso tempo non si può lasciar passare inosservato che presso i Greci - che per primi
teorizzarono questa comprensione immediata dell'essere e la fecero prevalere -era non meno viva
l'originaria se pur preontologica comprensione della verità che fu fatta valere, almeno in Aristotele, anche
contro il coprimento che di essa faceva la loro ontologia. Aristotele non ha mai sostenuto la tesi che il
«luogo» originario della verità sia il giudizio. Egli dice invece che il logos, è quel modo di essere
dell'Esserci che può essere scoprente o coprente. Questa duplice possibilità è ciò che vi è di caratteristico
nell'esser-vero del logos; il lÒgos è un comportamento che può anche coprire. E proprio perché Aristotele
non sostenne mai la tesi sopra esaminata non si trovò mai ad «estendere» il concetto di verità dal lÒgos al
puro noein. La «verità» della a‡sthsis e della visione delle «idee» è lo scoprire originario. E solo perché
la nÒhsis scopre originariamente, anche il lÒgos, come dianoe‹n, può svolgere una funzione di scoperta.
La tesi che il «luogo» della verità è il giudizio si rifà ingiustamente ad Aristotele e si fonda, quanto
al suo contenuto, sul misconoscimento della struttura della verità. L'asserzione, non solo non è il «luogo»
della verità ma, al contrario, in quanto modo di appropriazione dell'esser-scoperto e come modo dell'esserenel-mondo, si fonda nell'attività scoprente, cioè nell'apertura dell'Esserci. La «verità» più rigorosa e
originaria è il «luogo» dell'asserzione e la condizione ontologica della possibilità che le asserzioni possano
essere vere o false (scoprenti o coprenti).
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La verità, intesa nel suo senso più rigorosamente originario, rientra nella costituzione fondamentale
dell'Esserci. Il termine verità designa un esistenziale. Con ciò è già delineata la risposta al problema del
modo di essere della verità e del senso della necessità di presupporre che «la verità c'è». (ivi, pp. 343-4)
Nota: a p.336 Heidegger assegna alla filosofia lo stesso compito che le assegna, anche se dirigendosi
dalla parte opposta, Wittgenstein: eliminare problemi apparenti nati dalla dimenticanza della forza delle
parole originali: in questo caso "". La filosofia per semplificare i propri problemi deve appropriarsi della
tradizione originaria. aléteia
Tornando a Rorty, se togliamo a "verità" la sua dimensione intenzionale verso l'oggetto conosciuto
stiamo parlando di altro.
Per Tommaso la dipendenza da Dio di tutto ciò che è porta alla conseguenza che la falsità non esiste
in re, ma solo nel giudizio della mente umana.
L'epistemologia di Tommaso è guardinga: possiamo commettere errori nell'attribuzione e negazione
di proprietà perché le cose ci si presentano attraverso i sensi, e gli accidenti caratteristici e differenzianti
possono sfuggirci. Così possiamo dire che è oro quello che non lo è, perché ingannati da proprietà che un
metallo simile all'oro presenta. Un altro errore è legato alla "cogitativa", che, potremmo dire, è costruzione
rispetto ai sensi.
Così nella catena: sensazione, valutazione, concettualizzazione (astrazione della species dal
phantasma), giudizio l'errore può insinuarsi al ogni livello. Saremmo in una prospettiva costruttivista se non
ci fosse la reditio, da un parte, legata alla intenzionalità, dall'altra la natura ilemorfica del reale che rende gli
esistenti materiali confrontabili con la mente.
Tommaso pensa che la conoscenza è complessa e fallibile; non ha però sufficientemente sottolineato
quanto rientri nella conoscenza la volontà, come nel giudizio sia impegnata la persona, quanto il contesto
sociale, gli interessi e i valori condivisi, il linguaggio, la nostra pratica del mondo influenzino la nostra
relazione mentale col mondo; come il phantasma sia storico, cambia nel tempo, mano a mano che le nostra
esperienza, la pratica col mondo, le abilità linguistiche maturano.
SULLA METAFORA.
Per Tommaso la conoscenza è un'attualità nella quale la mente e la cosa conosciuta si incontrano,
cosicché la cosa conosciuta esiste come forma attualizzante l'intelletto e l'intelletto conoscente come
intelletto formato dalla forma recepita. Portando avanti il pensiero di Tommaso, potremmo dire che la
conoscenza è una realtà nuova, un incontro nel quale l'intelletto e la cosa esistono in un modo diverso e
nuovo rispetto all'intelletto e la cosa prima dell'incontro. La conoscenza è una nuova implementazione della
forma, rispetto alla forma implementata nella res.
Con ciò, però, occorre sempre ribadirlo, sarebbe errato dire che conosciamo una rappresentazione
della cosa. La conoscenza è identità in atto di conoscente e conosciuto. L'intenzionalità nella conoscenza è
proprio questo trasferirsi sulla cosa conosciuta ma al modo del soggetto conoscente.
Tutta l'epistemologia di Tommaso dipende però da un assunto: il mondo non è frutto del caso, né
Dio ha dato il primo impulso creatore ad un cosmo dotato solo di possibilità, lasciando che tali possibilità si
esplicassero nel tempo, con la libertà vincolata del gioco del caso.
La giustificazione che Tommaso porta alla necessità della esistenza in re delle idee_(graece) forme_(latine) dipende dal fatto che la creazione non è frutto del caso e quindi, in omnibus enim quae non a
casu generantur, necesse est formam esse finem generationis (S.T. I, 14, 1°, respondeo). La forma nelle cose
create è il modo in cui il progetto divino (idea in mente Dei) attiva le nature.
Mi pare però che questo, sì, sia antropomorfismo. La forma delle cose dipende, innanzitutto, dal loro
essere nell'essere. Altrimenti dovremmo dire che sono secondo il progetto divino tutti i mali del mondo con
le loro difformità, che fanno parte del progetto. Se, invece, la forma è legata all'essere, la parentela tra mente
e mondo attraverso la forma dipende direttamente dal mantenimento nell'essere di ciò che è. Ciò darebbe
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anche spazio al caso, che non dipende da un progetto, da una causa, ma dalla convergenza di cause disparate
(caso epistemico), dal libero gioco delle formalità degli esistenti o che è un inizio assoluto (caso ontologico).
Nella prospettiva dei moderni possiamo ritrovare una forma solo nelle leggi della materia
(interazioni fondamentali, struttura dello spazio-tempo) e, in una prospettiva non riduzionista, nella
emergenza di nuove proprietà legate alla complessificazione degli enti, compresa l'emergenza della mente e
in quelle strutture dotate di autoconsistenza, che possiamo chiamare sostanze.
Rimane il fatto, però, che la relazione tra la mente dell'uomo e tale struttura è sempre più indiretta e
il dato sempre meno evidente e immediato. Nella nuova epistemologia il dato è theory-laden. Le scienze
cognitive ci avvertono che anche la percezione apparentemente più immediata è sempre mediata, che il mio
rapporto col mondo avviene attraverso una costruzione nella quale l'azione ha una parte notevole. La prassi
richiama i suoi diritti nella conoscenza. Ad esempio, lo spazio che mi sembra di percepire immediatamente
sarebbe impraticabile se fossi deprivato della capacità di muovermi e manipolare gli oggetti. La mia
percezione dello spazio è il risultato della sollecitazione sensoriale e della mia prassi.
Un'altra considerazione importante è che, secondo la visione del mondo della fisica, non esistono
proprietà intrinseche ma solo relazioni. Ogni proprietà che noi attribuiamo ad un ente materiale dipende da
una interazione nella quale uno dei termini della interazione rimane implicito. L'idea newtoniana di uno
spazio vuoto riempito di particelle isolate (Democrito: solo gli atomi e il vuoto), per la nostra concezione
attuale del cosmo, è profondamente fuorviante.
Tutto questo rende la attualizzazione della mente attraverso la forma molto meno immediata di
quanto Tommaso potesse supporre. Inoltre il caso gioca con la materia in modo ontologico e non solo
epistemico. Secondo A.Geshé nel "vide che era cosa buona" di Genesi l'autore vuole sottolineare un
autentico stupore di Dio per ciò che stava venendo fuori. (Geshé Adolphe, Dio per pensare. Il cosmo, San
Paolo; vedi il par 4.3 Dio gioca a dadi? pp 139-49).
In questo quadro anche il linguaggio ordinario è stato rivalutato. La metafora gioca un ruolo
fondamentale nell'aprire nuovi campi di senso. Non è abbellimento retorico, ma apertura di varchi cognitivi.
Nella metafora però l'apertura di senso non stabilisce una corrispondenza uno a uno tra proposizione e
mondo. Piuttosto, la metafora individua relazioni, connessioni, somiglianze con altri ambiti semantici, forse
ontologici.
Ci sembra, a questo punto, di potere affermare che l'epistemologia di Tommaso è strettamente legata
ad una ontologia: la forma è il riflesso della intenzione creatrice, la materia non è pura estensione. Tra mente
e materia c'è una parentela che la filosofia, da Cartesio in poi, ignora. La conseguenza di questo ignorare è
quella della filosofia postkantiana: la conoscenza, qualunque cosa sia, non è relazione col mondo ma con le
mie immagini del mondo. E' una conseguenza necessaria del fatto che mente e mondo sono realtà così
eterogenee che tra di loro non è possibile alcuna relazione. La filosofia del Novecento si è dovuta
arrampicare sugli specchi della doppia dicotomia: res extensa - res cogitans e fenomeno - noumeno.
Quando Heidegger in Essere e Tempo definisce la verità come originaria apertura dell'esserci,
individua questa vocazione dell'ente a lasciarsi scoprire, come sua caratteristica fondamentale.
Per Tommaso la verità non sta nella semplice attualizzazione della mente da parte di una forma. Sta
nel riconoscimento di tale attualizzazione e nel consenso operato dal giudizio. Così la verità è legata ad un
acconsentire personale: "le cose stanno proprio così!".
Vista però la mediatezza del rapporto col mondo, molto più di quanto Tommaso potesse pensare, la
verità richiede il mio impegno personale. Il giudizio può essere arrestato, la volontà ha un ruolo decisivo.
Nella verità io impegno la mia responsabilità.
M.Polanyi ha scritto pagine, a mio avviso, decisive su tale argomento. Pascal già aveva notato come
la volontà di affermare e negare qualcosa fosse primaria e che la giustificazione razionale ne segue.
Quindi sono nella verità solo se mi approprio del giudizio. Non basta ripeterlo, come non basta, per
essere nel "vero", condividere idee corrette, accettate senza riflessione, solo per tradizione. La definizione di
verità di Tommaso richiede un atto di riflessione e riappropriazione responsabile.
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Insomma, la nostra consapevolezza di cosa sia un atto cognitivo si è approfondita, arricchita,
complicata. Non c'è accordo su come giungiamo a conoscere; la stessa visione immediata delle cose è un
rebus. Cosa "stia sotto" (ecco una metafora!) i fenomeni ci sfugge. Hawking pensava che saremmo giunti
all'equazione dell'universo e alla fine della fisica. Oggi si è ricreduto. La materia ci si presenta come
qualcosa di inafferrabile, come scatole cinesi, che rivelano sempre nuovi problemi. Inoltre il mondo in
evoluzione è uno spettacolo di novità che nessuna Teoria del Tutto (TOE) può contenere. Il bosone di Higgs
ha risposto ad una domanda ma ha aperto nuovi interrogativi, perché non è proprio come doveva essere,
perché la supersimmetria tace a Ginevra…
Emerge però la consapevolezza nuova di giocare la nostra relazione cognitiva con qualcosa di
estremamente ricco, complesso, formale. La simmetria diventa un principio euristico di scoperta. La materia
non è più la res extensa, con le sole proprietà primarie di Locke.
In ogni caso, anche se per noi oggi la conoscenza corretta è adeguazione di fatto, che avviene
attraverso diversi canali, Tommaso riserva il termine "verità" a quel momento particolare di consapevolezza,
nella quale, assumendoci in proprio la responsabilità di quello che affermiamo e neghiamo, ci impegniamo in
una affermazione o in una negazione. La verità è così rischio della intelligenza, ma rischio necessario. In
questo rischio l'uomo che conosce si pone di fronte alla propria conoscenza del mondo ed esce da essa
(concetti, schemi, strutture, teorie, prassi, etc ) verso il mondo.
Se così stanno le cose, "verità" non è surrogabile con "coerenza interna", "accettabilità razionale al
limite", termine di un particolare gioco linguistico. A questo termine è legato un aspetto imprescindibile del
nostro abitare l'essere. Anche H.Putnam, recentemente, ha scritto che se eliminassimo "vero" dal nostro
vocabolario, come propone Rorty, perderemmo qualcosa di essenziale nel nostro essere uomini.
Dire che la proposizione p è vera non significa solo affermare una qualità di p. Significa anche
testimoniare una precisa posizione personale rispetto ad essa.
LA METAFORA SI PUÒ CONSIDERARE COME UNA ANALOGIA DI PROPORZIONALITÀ?
Già da qualche decennio la metafora ha perso la connotazione di figura retorica per diventare
strumento di conoscenza. Anzi nella formazione del significato essa ha assunto un ruolo primario, mentre i
termini descrittivi, con referenza determinata in un ente, sono considerate metafore cristallizzate dall'uso.
La scienza fa abbondantemente uso di metafore. Senza la metafora non ci sarebbero rivoluzioni
scientifiche.
Riporto una definizione classica di "metafora" da Wikipedia:
"La metafora (dal greco μεταφορά, da metaphérō, «io trasporto») è un tropo, ovvero una figura
retorica che implica un trasferimento di significato. Si ha quando, al termine che normalmente occuperebbe il
posto nella frase, se ne sostituisce un altro la cui "essenza" o funzione va a sovrapporsi a quella del termine
originario creando, così, immagini di forte carica espressiva. Differisce dalla similitudine per l'assenza di
avverbi di paragone o locuzioni avverbiali ("come"). Particolare è la metafora del decadentismo la quale non
si sovrappone al termine, ma ha la funzione di sostituirlo con un altro, di significato differente.
La metafora non è totalmente arbitraria: in genere si basa sulla esistenza di un rapporto di
somiglianza tra il termine di partenza e il termine metaforico, ma il potere evocativo e comunicativo della
metafora è tanto maggiore quanto più i termini di cui è composta sono lontani nel campo semantico.
Aristotele, nella Poetica, definisce la metafora "trasferimento a una cosa di un nome proprio di
un'altra o dal genere alla specie o dalla specie al genere o dalla specie alla specie o per analogia". Fa poi i
seguenti esempi: esempio di metafora dal genere alla specie, "ecco che la mia nave si è fermata", giacché
"ormeggiarsi" è un certo "fermarsi"; dalla specie al genere, "e invero Odisseo ha compiuto mille e mille
gloriose imprese", giacché "mille" è "molto" e Omero se ne vale invece di dire "molte"; da specie a specie,
"con il bronzo attingendo la vita" e "con l’acuminato bronzo tagliando", giacché là il poeta chiama
"attingere" il "recidere", mentre nel secondo caso chiama "recidere" l’"attingere", perché ambedue i verbi
rientrano nel toglier via qualcosa"...... (1457b).
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La metafora è diversa dalla metonimia, perché questa associa due cose simili, mentre la prima mette
in relazione, spesso facendole stridere, due cose diverse. La metafora si distingue anche dall'allegoria, perché
quest'ultima rimanda soprattutto a un piano concettuale, o un'idea, mentre la metafora si riferisce per lo più a
una relazione fra due cose o fra due nomi. L'allegoria è stata anche definita come "metafora continuata",
attribuendo con tale definizione alla metafora un riferimento immediato e all'allegoria uno sviluppo
narrativo.
La metafora trovò grande fortuna nel Seicento, nella cultura e più specificamente nella letteratura
barocca (l'arte parte dalla natura, ma la trasfigura).
Tra i più grandi teorici della metafora poetica in età moderna si ricordano Harald Weinrich e Paul
Ricoeur." (Wikipedia)
"Achille è un leone" si può tradurre con: "Achille sta al suo comportamento come il leone sta al
suo"? No! Rispondono in molti. Per Ricoeur la metafora contiene uno shock che costringe a ristrutturare il
campo semantico. La metafora è rivelativa. Soprattutto traccia il limite del non maniponabile, del non
disponibile nella univocità di un linguaggio che vorrebbe essere descrittivo in modo analitico. La metafora
apre sulla inesauribilità del reale.
La metafora ha un valore conoscitivo perché apre nuove prospettive di senso.
Il linguaggio è costitutivamente metaforico. Nessun termine ha un significato così definito da
indicare un genere ben definito. Il trasferimento di termini da una proposizione ad un'altra è fondamentale
per non chiudere il discorso sulla realtà e per non farlo diventare un discorso sul discorso. L'idea di Frege che
esistano concetti ben definiti, eterni, indipendenti dalla mente non vale neanche in matematica. Ogni
concetto, nella misura in cui diventa sempre più preciso, diventa anche vuoto.
Ci sono però termini che non hanno bisogno di metafore per essere compresi. Uno di questi è il
termine "relazione". Oltretutto quella che Aristotele considerava la più debole delle categorie per Tomaso è
dicibile di Dio senza compromettere la sua semplicità. Dio è contemporaneamente "per sé" e "per altro"
senza contraddizione (Ventimiglia, Tommaso d'Aquino, La Scuola, p104).
Nella scienza moderna la relazione è il concetto primario.
DESCRIZIONE DEFINITA E METAFORA
Secondo M. B. Hesse la valutazione del valore non conoscitivo della metafora dipende dalla
concezione classica che considera il mondo diviso in generi caratterizzati da essenze e differenze essenziali o
accidentali. Il linguaggio cerca di corrispondere al mondo attraverso termini che abbiano un riferimento
preciso e stiano per descrizioni capaci di definire una categoria.
Secondo la Hesse, occorre uscire da una concezione del linguaggio che vede i termini descrittivi
come termini base e la metafora come figura retorica senza valore conoscitivo,
cioè passare da:
mondo generi e specie categorie |corrispondenza | concetti termini descrittivi
referenza
ad una concezione che vede la metafora come strategia conoscitiva fondamentale e i termini
descrittivi come caso limite, come metafore morte
mondo individui | metafora | differenze e somiglianze di famiglia (Wittgenstein).
UNA NOTA FINALE
Spesso ci si chiede in cosa consista la differenza umana rispetto ad altri animali. Dal momento che il
mondo animale è più vicino a noi di quanto potessimo pensare prima, che apparteniamo alla stessa
genealogia delle grandi scimmie, che alcuni primati si riconoscono allo specchio, che alcune grandi scimmie
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A.M.Briguglia, per il gruppo di San Martino, sessione settembre 2014
e i delfini sono capaci di apprendere un linguaggio astratto (molto elementare), che anche tra gli animali ci
sono forme di solidarietà e di altruismo … in cosa consiste la differenza umana?
Una risposta possibile è che l'uomo è capace di riconoscimento trascende. Non solo è capace di
solidarietà, ma è anche capace di trasformarla in scelta etica. Non solo sono capace attraverso il linguaggio di
pronunciare p, ma affermo che p è vera. Non solo compio l'azione k ma riconosco che k è giusta. Non solo ho
attrazione sessuale ma riconosco nel partner l'altro che desideravo ("questa volta è ossa delle mie ossa, carne
della mia carne!").
Così, sostenere che affermare "p è vera" non aggiunge nulla al fatto di pronunciare p finisce per
avere non solo conseguenze epistemologiche, ma anche antropologiche.
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