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Temi filosofici nell'epistolario agostiniano

Obiettivo del saggio è fornire una panoramica delle tematiche di natura filosofica presenti nelle lettere di Agostino di Ippona (354-430) e dei suoi corrispondenti. Dopo una sezione introduttiva sulla metafilosofia dell'epistolario agostiniano, i temi sono classificati secondo tre aree: filosofia naturale, filosofia morale, filosofia razionale.

Atti della XLI-XLII Settimana Agostiniana Pavese Pavia, 2009-2010 Comitato Pavia “Città di Sant’Agostino” - Pavia Centro Culturale Agostiniano - Roma Percorsi Agostiniani Rivista Semestrale degli Agostiniani d’Italia Anno V, n° 9 - 2012 Atti della XLI e XLII edizione della Settimana Agostiniana Pavese (2009-2010) a cura di p. Pasquale Cormio osa pubblicati in collaborazione con il Comitato “Pavia - Città di sant’Agostino” ISSN 1974-5249 Aut. Trib. di Roma, n. 54/08 del 20 febbraio 2008 Iscrizione al ROC, n. 45/08 del 14 febbraio 2008 Direttore: Pasquale Grossi Responsabile di redazione: Pasquale Cormio Comitato di redazione: Giuseppe Caruso, Giancarlo Ceriotti, Mario Mattei, Donatella Pagliacci, Pio Pistilli, Roberto Tollo Collaboratori: Matilde Caltabiano, Giovanni Catapano, Nello Cipriani, Angelo Di Berardino, Clementina Mazzucco Redazione e Segreteria: Centro Culturale Agostiniano - Onlus Via della Scrofa, 80 - 00186 Roma Tel./Fax: 06.68.75.995 mail: centroculturale@agostiniani.it Abbonamento: Italia  € 15,00; Estero  € 20,00; Sostenitore  € 30,00 Boniico bancario intestato a: Provincia Agostiniana d’Italia, via della Scrofa, n. 80 00186 Roma; Coordinate: IT 15 I 07601 03200 000084879303 Conto corrente postale intestato a: Centro Culturale Agostiniano - Onlus - via della Scrofa, 80 - 00186 Roma: n. 84879303 | Percorsi Agostiniani, V/9 (2012), pp. 91-171 | TEmI FILOSOFICI NELL’EPISTOLARIO AgOSTINIANO O biettivo del presente contributo1 è fornire una panoramica delle tematiche di natura ilosoica presenti nelle lettere di Agostino e dei suoi corrispondenti, non solo durante il periodo presbiterale, ma lungo tutto l’arco della produzione epistolare agostiniana. A quanto mi risulta, la pur copiosa letteratura sull’epistolario di Agostino non ha offerto sinora che studi parziali su tale argomento2. Un’indagine come questa richiede una chiariicazione preliminare intorno al signiicato dell’aggettivo ‘ilosoico’, che qualiica l’oggetto della ricerca. Agostino, com’è noto, aveva un concetto di ilosoia diverso da quello oggi prevalente3. In particolare, egli non distingueva la ilosoia dalla 91 teologia nella maniera che si sarebbe imposta a partire dalla scolastica del XIII secolo. Per lui la ilosoia era, essenzialmente, l’amore della sapienza, e la sapienza era, in senso primo e originario, lo stesso Verbo divino4. Di conseguenza, sembra possibile concludere che lo studio della Parola di Dio, ad esempio, per lui fosse a tutti gli effetti un atto genuinamente ilosoico5. Da questo punto di vista, si potrebbe persino affermare che quasi tutta l’attivi1 Ringrazio Beatrice Cillerai per aver letto una prima versione di questo articolo e avermi fornito preziosi suggerimenti. 2 Tra i 970 titoli contenuti nella banca dati bibliograica del sito www.augustinus.de sotto la voce “epistulae” in data 13 novembre 2010, solo uno, e del 1926, si presenta come uno studio d’insieme dell’epistolario sotto il proilo ilosoico: G. Beyerhaus, Philosophische Voraussetzungen in Augustins Briefen, in Rheinisches Museum für Philologie 75 (1926), pp. 6-44. Cfr. g. Catapano, Filosoia, idea di, in A.D. Fitzgerald (a cura di), Agostino. Dizionario enciclopedico, ed. it. a cura di L. Alici e A. Pieretti, Roma 2007, pp. 730-733; Id., Philosophia, in AL (in corso di stampa). 3 4 “Sapienza” è un termine che, già nelle Scritture, possiede diverse accezioni. Cfr. il quesito di Evodio in ep. 158,12 (CSEL 44, 497): Peto quoque, ut, quot modis sapientia dicatur, ostendas mihi, ut sapientia deus, ut sapientia animus sapiens, quo modo dicitur ut lux, ut sapientia Beselehel, qui fabricatus est tabernaculum uel unguentarium, ut sapientia Salomonis uel si qua est alia, et quid inuicem distent; et utrum una illa sapientia aeterna cum patre in his gradibus intellegenda sit, quo modo diuersa munera dicuntur spiritus sancti, qui diuidit unicuique propria prout uult, an excepta illa sola sapientia, quae facta non est, istae factae sunt et propriam habent substantiam, an effecta sunt et ex deinitione operis nomen acceperunt. 5 Cfr. G. Matthews, Augustine on Reading Scripture as Doing Philosophy, in AugStud 39 (2008), pp. 145-162 (Saint Augustine Lecture 2008). SANT’AgOSTINO 1. Premessa | G. Catapano | tà letteraria di Agostino sia caratterizzata dalla ilosoia, nella misura in cui tale attività esprime e testimonia un profondo amore per Cristo. Proprio per questo motivo, però, una simile accezione di ‘ilosoia’ è troppo vaga per servire allo scopo del presente lavoro, perché in base ad essa una grandissima parte delle questioni discusse nell’epistolario inirebbe con l’aver titolo per essere ritenuta “ilosoica”. Occorre un criterio più selettivo, preferibilmente non estraneo all’orizzonte di pensiero dello stesso Agostino. Il criterio di cui c’è bisogno può essere ricavato, a mio giudizio, sia dal confronto con la ilosoia antica che il vescovo di Ippona conosceva, sia dalle caratteristiche che egli espressamente attribuiva alla ilosoia quando si riferiva ad essa come a una precisa disciplina intellettuale distinta dalle altre. Considererò pertanto “ilosoici” soltanto temi come quelli di cui si occupavano i pensatori che Agostino stesso chiamava “ilosoi”, e classiicherò tali temi secondo le partizioni che egli reputava proprie della philosophiae disciplina, vale a dire la isica, l’etica e la logica6. Prima di procedere in tal senso, esaminerò le affermazioni sulla ilosoia e i ilosoi contenute nelle lettere, ossia quella che deinisco la “metailosoia” dell’epistolario7. 92 2. La metailosoia dell’epistolario 2.1. Agostino “ilosofo” nell’opinione dei suoi corrispondenti Un primo dato su cui merita soffermare l’attenzione è il fatto che alcuni corrispondenti di Agostino si rivolgono a lui esaltandone le doti e le competenze ilosoiche. Nebridio8 scrive che le lettere dell’amico gli faranno risuonare Cristo, Platone e Plotino9. massimo, un insegnante 6 Cfr. civ. VIII,10; XI,25. Per “metailosoia” intendo il «discorso che ha per oggetto la ilosoia, intesa come campo del sapere, nelle sue articolazioni disciplinari, nei suoi aspetti metodologici (come si fa ilosoia), o nella sua autocomprensione (ilosoia della ilosoia)» (L. Floridi - G.P. Terravecchia [a cura di], Le parole della ilosoia contemporanea, Roma 2009, p. 127). 7 8 Su questo inquisitor ardentissimus ueritatis (conf. IX, 3.6), forse la mente ilosoicamente più acuta nella cerchia delle amicizie giovanili di Agostino, cfr. E. Bermon, Nébridius, in R. goulet (a cura di), Dictionnaire des philosophes antiques, vol. 4, Paris 2005, pp. 595-601. Sulla sua corrispondenza con Agostino, cfr. g. Folliet, La correspondance entre Augustin et Nébridius, in Aa.Vv., L’opera letteraria di Agostino tra Cassiciacum e Milano. Agostino nelle terre di Ambrogio (1-4 ottobre 1986), Palermo 1987, pp. 191-215; Sant’Agostino, Verso la verità. Corrispondenza tra Agostino e Nebridio, introduzione e note di R. Piccolomini [PBA 13], Roma 1990; F. Navarro Coma, La correspondencia de Agustín durante su estancia en Casiciaco. Una reconstrucción, in «Augustinus» 45 (2000), pp. 206-211. Nella lettera 98 Agostino ricorda il suo giovane amico deinendolo rerum obscurarum ad doctrinam pietatis maxime pertinentium diligentissimus et acerrimus inquisitor (ep. 98,8: CCL 31A, 232). 9 Cfr. ep. 6,1 (CCL 31, 13): Epistulas tuas perplacet ita seruare ut oculos meos. Sunt enim | Temi ilosoici nell’epistolario agostiniano | di grammatica a madaura che difende il paganesimo10, prega Agostino, «uomo sapientissimo»11, di deporre le «argomentazioni crisippee» con cui era solito combattere e di lasciare da parte la dialettica, che si sforza di non lasciare all’avversario nulla di certo12. Le lettere di Nebridio e di massimo di madaura risalgono a quello che Henri-Irénée Marrou ha chiamato il “periodo ilosoico” della vita di Agostino (386-391)13, e quindi non ci sorprende vedere che in esse il nostro autore sia trattato alla stregua di un ilosofo. Più signiicativo è trovare simili apprezzamenti in lettere posteriori, appartenenti – per usare sempre un’espressione di marrou14 – al “periodo ecclesiastico” di Agostino, quando questi è ormai divenuto il vescovo di Ippona ed è tutto immerso negli impegni della cura ecclesiae. Il pagano Longiniano, che fu prefetto dell’Urbe e prefetto del pretorio15, in una data imprecisata fra il 395 e il 40816 dichiara solennemente di non aver conosciuto alcun altro uomo dopo Socrate se non Agostino che, nei confronti di Dio, «si adoperi per conoscerlo sempre, possa seguirlo in purezza di spirito gettando via la pesantezza del corpo, e lo possieda con la speranza propria di una coscienza 93 magnae non quantitate sed rebus, et magnarum rerum magnas continent probationes. Illae mihi Christum, illae Platonem, illae Plotinum sonabunt. 10 Forse Agostino fu suo allievo: cfr. P. mastandrea, Massimo di Madauros (Agostino, Epistulae 16 e 17), Padova 1985, p. 13, che riprende un’ipotesi risalente a J.F.P. Dubelman, Das Heidenthum in Nordafrika, nach den Briefen des h. Augustinus (Programm des königl. Gymnasiums zu Bonn, Schuljahr 1858-1859), Bonn 1859, p. 3. Per l’interpretazione della frase con cui massimo apostrofa Agostino in ep. 16,4 (CCL 31, 39), uir eximie qui a mea secra deuiasti, cfr. P. mastandrea, Massimo di Madauros, cit., pp. 41-42 (mastandrea traduce: «egregio amico trasfuga dai miei insegnamenti», ibid., p. 59). 11 Sapientissimus è «titolo di rispetto isolato ed eccezionale in latino, credo improntato sull’uso parallelo di sofètatoj, diffusissimo nell’epistolograia greca contemporanea» (P. mastandrea, Massimo di Madauros, cit., p. 44). 12 Cfr. ep. 16,3 (CCL 31, 39): Sed illud quaeso, uir sapientissime, uti remoto facundiae robore atque exploso qua cunctis clarus es, omissis etiam quibus pugnare solebas Chrysippeis argumentis postposita paululum dialectica, quae neruorum suorum luctamine nihil certi cuiquam relinquere nititur, ipsa re approbes, qui sit iste deus, quem uobis christiani quasi proprium uindicatis, et in locis abditis praesentem uos uidere componitis. Cfr. H.-I. marrou, S. Agostino e la ine della cultura antica, trad. it. milano 1987 (ed. or. franc. Paris 1938), p. 154. 13 14 Cfr. ibid. 15 Traggo le informazioni sui corrispondenti di Agostino prevalentemente dalla voce Epistulae, a cura di J. Divjak e della redazione dell’Augustinus-Lexikon, in AL, vol. 2 (19962002), pp. 1037-1046. 16 Per la datazione delle lettere, seguo in genere quella proposta da J. Anoz, Cronología de la producción agustiniana, in «Augustinus» 47 (2002), pp. 229-312, 244-255, che raccoglie il frutto delle ricerche precedenti. | G. Catapano | perfetta e non con una dubbia credulità»17. Un altro pagano, Nettario18, nel 409 scrive che, ricevuta la lettera 91 di Agostino, gli è sembrato di udire «la voce di un ilosofo», e di un ilosofo non come quello di cui si narra che, rannicchiato in un angolo oscuro entro il ginnasio dell’Accademia, non sapeva far altro che criticare le scoperte altrui, bensì di un pensatore quale Cicerone, vittorioso sui propri avversari non solo in politica e nel foro, ma anche in ilosoia19. Nel 411/412 il nobile Volusiano20, esponendo ad Agostino le conversazioni tra amici che avvenivano nella sua cerchia di Cartagine, riferisce che il discorso, a un certo punto, piegò da questioni di retorica «verso la ilosoia che ti è familiare, quella per così dire esoterica che tu stesso sei solito nutrire alla maniera di Aristotele»21. Circa due anni dopo, il vicario d’Africa macedonio, di fede cristiana22, letti i primi libri del De civitate Dei, non sa che cosa ammirare di più in essi, «se la perfezione del sacerdozio, Ep. 234,1 (CSEL 57, 519-520): Sed graue mihi onus et dificillimam respondendi prouinciam, domine uenerande, satis inponis praecipue tuis percontationibus et sub hoc tempore in talibus explicandis per meae opinionis sententiam, id est a pagano homine, quaestionibus si quidem abundet, quod ex parte uel iam dudum inter nos conuenerit uel nunc identidem litteris magis magisque conueniat praeceptis non dicam tantum Socraticis nec tuis, Romanorum uir uere optime, propheticis aut paucis Hierosolymiticis sed etiam Orpheicis atque Ageticis et Trimegisticis longe ante illis antiquioribus et paene rudibus adhuc saeculis diis auctoribus enatis et toti orbi terrae certis limitibus partitae trifariam diuinitus ostensis, priusquam nomen aut Europa caperet aut Asia acciperet aut Libya possideret uirum bonum, ut tu, medius idius, et eris et fuisti, si quidem adhuc post hominum memoriam, nisi Xenophontis igmentum ut compositae fabulae schema concedas, adhuc audierim, legerim, uiderim neminem aut certe post unum nullum, quod deo teste bono periculo certo que dixerim, nisi te deum et coniti semper agnoscere et posse puritate animi corporisque proiecta grauedine sectari facillime et spe perfectae conscientiae non dubia credulitate tenere. 17 94 18 Su di lui, si veda la voce redatta da E. Bermon in Dictionnaire des philosophes antiques, vol. 4, pp. 615-617. 19 Cfr. ep. 103,1 (CCL 31B, 34): Sumptis litteris eximietatis tuae, quibus idolorum cultum et templorum caeremonias destruxisti, audire mihi uisus sum philosophi uocem non illius, quem in Academiae Lycio memorant tenebrosis humo angulis residentem, ex profunda quadam cogitatione demersum, reductis ad frontem caput implicitum genibus, ut aliorum praeclara inuenta doctrinae egenus quidam calumniator oppugnet adsertaque praeclare, cum suum nihil defendat, accuset, sed plane excitatus oratione tua ante oculos stetit M. Tullius consularis, qui innumeris ciuium capitibus conseruatis forensis campi signa uictricia stupentibus Graeciae scholis laureatus inferret tubamque illam canorae uocis et linguae, quam in criminum reos et rei publicae parricidas spiritu iustae indignationis lauerat anhelus, inuerteret togamque ipsam rugarum paginis resolutis palliorum imitatus speciem retorqueret. 20 Su di lui, cfr. A. Chastagnol, Le sénateur Volusien et la conversion d’une famille de l’aristocratie romaine au Bas-Empire, in REA 58 (1956), pp. 241-253; A. Di Berardino, Volusiano, in NDPAC, vol. 3, p. 5690. Ep. 135,1 (CCL 31B, 250): Tunc ad familiarem tuam philosophiam sermo delectit, quam ipse Aristoteleo more tamquam esotericam fouere consueueras. 21 22 Cfr. A. mandouze, Prosopographie de l’Afrique chrétienne (303-533), Paris 1982, pp. 659661; A. Di Berardino, Macedonio, in NDPAC, vol. 2, p. 2962. | Temi ilosoici nell’epistolario agostiniano | le dottrine ilosoiche (philosophiae dogmata), la piena conoscenza della storia, o la piacevolezza dell’eloquenza»23. Socrate, Platone, Aristotele, Crisippo, Cicerone, Plotino… Si può dire che quasi non vi sia grande ilosofo dell’antichità al quale Agostino non sia stato accostato! Si noti che, Nebridio a parte, i corrispondenti che magniicano la statura ilosoica del nostro santo o sono pagani, o fanno riferimento a opere da lui scritte contro il paganesimo. È infatti nel campo dell’apologetica antipagana che le qualità ilosoiche di Agostino apparivano più evidenti. Avendo a che fare con interlocutori che non condividevano la sua fede religiosa, egli doveva ricorrere in misura maggiore ad argomenti di natura più schiettamente razionale, e richiamarsi ai medesimi riferimenti culturali degli avversari, avvalendosi specialmente delle critiche mosse dagli antichi ilosoi alla religione politeistica. Ciò facendo, egli vestiva, agli occhi dei suoi lettori di cultura pagana, i panni del ilosofo, e come tale era interpellato, stimato, temuto. 2.2. Vera e falsa ilosoia Un secondo dato degno di osservazione è di tipo lessicale. Con le loro 55 occorrenze di lemmi appartenenti alla famiglia di philosophia (9 di philo- 95 sophia, 2 di philosophor e 44 di philosophus), distribuite in 21 lettere, l’epistolario è al quarto posto tra le opere agostiniane nell’uso di questa terminologia, dopo il De civitate Dei (193), il Contra Academicos (67) e i sermoni (58)24. Eccettuate 5 occorrenze contenute nelle lettere 1-3, scritte da Cassiciaco, tutte le altre si trovano in lettere successive all’ordinazione sacerdotale, databili per lo più tra il 408 e il 415. Sono anni roventi nella polemica tra pagani e cristiani, segnati dai provvedimenti dell’imperatore Onorio contro il culto pagano25, dal sacco di Roma e dalla composizione della prima sezione del De civitate Dei (libri I-V). Questi eventi, come vedremo, hanno lasciato una traccia nella metailosoia dell’epistolario. Tuttavia il giudizio agostiniano sulla ilosoia e i ilosoi parte da premesse più lontane e meno contingenti, elaborate ed acquisite sin dal tempo della conversione. 23 Ep. 154,2 (CSEL 44, 428-429): Explicui libros tuos; neque enim tam languidi aut inertes erant, ut me aliud quam se curare paterentur; iniecerunt manum ereptum que aliis sollicitudinum suis uinculis inligarunt - ita enim mihi propitius deus sit -, ut ego anceps sim, quid in illis magis mirer, sacerdotii perfectionem, philosophiae dogmata, historiae plenam notitiam an facundiae iucunditatem, quae ita etiam inperitos allicere potest, ut, donec explicent, non desistant, et, cum explicauerint, adhuc requirant. 24 Cfr. la tabella a p. 309 di g. Catapano. Il concetto di ilosoia nei primi scritti di Agostino. Analisi dei passi metailosoici dal Contra Academicos al De vera religione (SEA 77), Roma 2001 (la tabella va aggiornata aggiungendo ai sermones 5 occorrenze contenute nei sermones Dolbeau). 25 Cfr. E. Testa, Legislazione contro il paganesimo e cristianizzazione dei templi (sec. IV-VI), in Liber annuus 41 (1991), p. 313. | G. Catapano | Già nella lettera 2, infatti, indirizzata a Zenobio verso la ine del 386 o l’inizio del 387, si legge un’affermazione sulla ilosoia che ben si comprende inserendola nel contesto dei dialoghi di Cassiciaco. Nessuna cosa che il senso del corpo arrivi a percepire - asserisce Agostino con un linguaggio platonico mediato da Cicerone26 - può restare nello stesso modo neppure per un istante, ma tutte scivolano via, scorrono e non riescono a mantenere presente nulla di sé. In altre parole, non “sono” in senso proprio. Pertanto la «vera e divina ilosoia» ammonisce di frenare e sopire l’amore per le cose sensibili, in modo tale che l’animo si volga con tutto sé stesso, già in questa vita, alle cose che sono sempre nello stesso modo e che piacciono a causa di un bello che non è loro estrinseco27. Qui la uera et divina philosophia è, a mio parere, la stessa verissima philosophia di cui si parla alla ine del Contra Academicos, la quale insegna che, oltre a questo mondo sensibile, esiste un altro mondo, accessibile al solo intelletto, di cui il primo è copia28. Tale mundus intellegibilis, scoperto da Platone e ritornato al centro della speculazione ilosoica con Plotino, è tutt’uno con l’Intelletto divino, il Figlio di Dio che si è fatto uomo, la Sapienza eterna che coincide con la vera bellezza29. La vera ilosoia è dunque quella che, 96 riconoscendo la differenza tra sensibile e intelligibile, esorta gli animi a convertirsi dall’amore per l’uno a quello per l’altro, dall’amore per le cose materiali all’amore per Dio30. Una nozione di ilosoia tutto sommato non molto distante da questa sembra ritrovarsi nella lettera 137, posteriore di un quarto di secolo. Rispondendo a Volusiano, Agostino chiede retoricamente quali dispute o quali scritti di qualsivoglia ilosofo siano comparabili al duplice precetto dell’amore, da cui Cristo ha detto che dipendono tutta la Legge e i Profeti 26 Cfr. J. Doignon, Un faisceau de métaphores platoniciennes dans les écrits d’Augustin de 386, in REAug 40 (1994), pp. 39-43. 27 Cfr. ep. 2 (CCL 31, 5): Bene inter nos conuenit, ut opinor, omnia quae corporeus sensus attingit, ne puncto quidem temporis eodem modo manere posse, sed labi, efluere et praesens nihil obtinere id est ut Latine loquar non esse. Horum itaque amorem perniciosissimum poenarumque plenissimum uera et diuina philosophia monet frenare atque sopire, ut se toto animus, etiam dum hoc corpus agit, in ea quae semper eiusdem modi sunt neque peregrino pulchro placent feratur atque aestuet. La nozione di bellezza “estrinseca” deriva probabilmente da Plotino. Cfr. g. Catapano, Il concetto..., cit., pp. 261-262. 28 Cfr. Acad. III, 19.42 (CCL 29, 60): … eliquata est, ut opinor, una uerissimae philosophiae disciplina. Non enim est ista huius mundi philosophia, quam sacra nostra meritissime detestantur, sed alterius intellegibilis; g. Catapano, Il concetto..., cit., pp. 156-172; 262. 29 Cfr. Acad. II, 3.7; III, 17.37; 18.41; ord. I, 11.32; II, 5.16 e l’analisi di questi passi in g. Catapano, Il concetto..., cit. 30 La conversione però non è opera di chi esorta, ma di Dio, anche se si tratta di una conversione “ilosoica” come quella che si dice sia avvenuta in Polemone ascoltando Senocrate: cfr. ep. 144, 1-2. | Temi ilosoici nell’epistolario agostiniano | (Mt 22,37-39)31. Nel comando di amare Dio con tutto sé stessi e il prossimo come sé stessi, spiega Agostino, c’è la isica, poiché tutte le cause di tutte le nature sono in Dio creatore (ossia nel suo Verbo); c’è l’etica, poiché la vita buona e onorevole viene a formarsi quando le cose che devono essere amate (Dio e il prossimo) sono amate nel modo in cui devono essere amate; c’è la logica, poiché non altri che Dio (ancora una volta il Verbo) è la verità e il lume dell’anima razionale32. Insomma, nel comando di amare Dio e il prossimo c’è tutta la ilosoia, il cui insegnamento più autentico concerne dunque il modo di amare (essa stessa è, secondo il suo etimo, una forma di amore!) e addita Dio come il supremo amabile. Se vera ilosoia è quella che prescrive di amare Dio sopra ogni cosa, ilosoia falsa e ingannevole sarà, allora, quella che sostituisce o sovrappone al culto di Dio il culto di realtà a Lui inferiori. La prima è una ilosoia secondo Cristo, la seconda una ilosoia secondo gli elementi del mondo (di questo mondo), dalla quale Paolo mette in guardia in Col 2,8. L’uso di questo versetto paolino - l’unico in tutta la Scrittura in cui compaia la parola ‘ilosoia’ - come criterio di discernimento tra le ilosoie fu suggerito ad Agostino da Simpliciano nel 38633. Nell’epistolario il versetto 97 31 Il precetto biblico precede anche cronologicamente l’insegnamento dei ilosoi, come Agostino fa notare a Longiniano in ep. 233,1 (CSEL 57, 517-518): Solere aiunt quendam ueterum dicere, quibus satis persuasum esset, ut nihil mallent se esse quam uiros bonos, his reliquam facilem esse doctrinam. Hanc sententiam - nam, si rite recolo, Socratica est - longe antiquior prophetica iam praecesserat praecipiens hominibus breuiter et simul, non tantum ut se nihil malit esse quam bonum, uerum etiam unde iat bonus: Diliges, inquit, dominum deum tuum ex toto corde tuo et ex tota anima tua et ex tota mente tua et: Diliges proximum tuum tamquam te ipsum. Hoc cui persuasum esset, non ei reliquam facilem sed eam totam esse doctrinam dum taxat utilem ac salubrem. Multae enim doctrinae sunt, si tamen doctrinae dicendae sunt, uel superluae uel noxiae. Veterum libris Christus adtestans: In his, inquit, duobus praeceptis tota lex pendet et prophetae. 32 Cfr. ep. 137, 5.17 (CCL 31B, 272): Quae disputationes, quae litterae quorumlibet philosophorum, quae leges quarumlibet ciuitatum duobus praeceptis, ex quibus Christus dicit totam legem prophetasque pendere, ullo modo sunt comparandae? Diliges dominum deum tuum ex toto corde tuo et ex tota anima tua et ex tota mente tua et diliges proximum tuum tamquam te ipsum. Hic physica, quoniam omnes omnium naturarum causae in deo creatore sunt; hic ethica, quoniam uita bona et honesta non aliunde formatur, quam cum ea, quae diligenda sunt, quemadmodum diligenda sunt, diliguntur, hoc est deus et proximus; hic logica, quoniam ueritas lumenque animae rationalis nonnisi deus est; hic etiam laudabilis rei publicae salus, neque enim conditur et custoditur optima ciuitas nisi fundamento et uinculo idei irmaeque concordiae, cum bonum commune diligitur, quod summum ac uerissimum deus est, atque in illo inuicem sincerissime se homines diligunt, cum propter illum se diligunt, cui quo animo diligant occultare non possunt. 33 Cfr. conf. VIII, 2.3 (CCL 27, 114): Vbi autem commemoraui legisse me quosdam libros Platonicorum, quos Victorinus quondam, rhetor urbis Romae, quem christianum defunctum esse audieram, in Latinam linguam transtulisset, gratulatus est mihi, quod non in aliorum philosophorum scripta incidissem plena fallaciarum et deceptionum secundum elementa huius mundi, in istis autem omnibus modis insinuari deum et eius uerbum; g. Catapano, The Development of Augustine’s Metaphilosophy: Col. 2:8 and the “Philosophers of this World”, in AugStud 38 (2007), pp. 242-243. | G. Catapano | è commentato una sola volta, precisamente nella lettera 149, composta secondo Pierre-Marie Hombert verso la ine del 41534. Rispondendo a un quesito di Paolino di Nola sui versetti 18 e 21-22 di Col 235, Agostino spiega, in ep. 149, 2.23-30, che Paolo ha associato determinati precetti rituali del giudaismo, che certuni volevano imporre ai cristiani di Colosse, alle superstizioni pagane, giustiicate da taluni ilosoi sulla base di una teologia naturalistica, la stessa che conosciamo da altri testi agostiniani quali il sermone Dolbeau 26 e i libri VI-VII del De civitate Dei36. In entrambi i casi venivano fatti oggetto di venerazione i “Principati” e le “Potenze”, da intendersi come gli esseri demoniaci su cui Cristo ha trionfato con la sua morte e risurrezione. Tutto ciò aveva solo una parvenza di sapienza, mentre i tesori dell’autentica sapienza e dell’autentica scienza sono nascosti in Cristo. 2.3. I ilosoi nel giudizio di Agostino L’ideale di ilosoia che emerge anche dai pochi luoghi in cui Agostino ne parla nelle lettere è sotteso ai giudizi, assai più numerosi, che egli 98 formula nei confronti dei vari ilosoi all’interno dell’epistolario. Già la lettera 1 ha per tema la valutazione di un genere particolare di ilosoi, gli accademici scettici criticati nel Contra Academicos37. Contrariamente a quello che il suo corrispondente, Ermogeniano, aveva pensato, l’intenzione di quel dialogo non era di sidare e sconiggere gli accademici, bensì di riaccendere, in sé e nei suoi contemporanei, la speranza di poter conoscere con certezza la verità nelle questioni ilosoiche38. Senza tale iducia, la motivazione a ilosofare si spegne. Come si potrebbe amare, infatti, una sapienza che non si possa conoscere e che sia destinata a restare sempre avvolta dalle tenebre del dubbio? Nemmeno gli accademici, secondo Agostino, erano davvero scettici in maniera radicale. Essi adottarono un simile atteggiamento per contrastare dottrine corporeistiche e preservare nella sua purezza, tenendolo nel segreto, l’autentico 34 Cfr. P.-m. Hombert, Nouvelles recherches de chronologie augustinienne [Collection des études augustiniennes. Série Antiquité 163], Paris 2000, p. 372 n. 22. 35 Cfr. ep. 121, 2.12-13. 36 Cfr. g. Catapano, The Development..., cit., p. 245. 37 Cfr. g. Catapano, Il concetto..., cit., pp. 254-260. 38 Cfr. ep. 1,1 (CCL 31, 3): Academicos ego ne inter iocandum quidem umquam lacessere auderem – quando enim me tantorum uirorum non moueret auctoritas? –, nisi eos putarem longe in alia quam uulgo creditum est, fuisse sententia. […] Hoc autem saeculo, cum iam nullos uideamus philosophos nisi forte amiculo corporis, quos quidem haud censuerim dignos tam uenerabili nomine, reducendi mihi uidentur homines, si quos Academicorum per uerborum ingenium a rerum comprehensione terruit sententia, in spem reperiendae ueritatis, ne id quod eradicandis altissimis erroribus pro tempore accommodatum fuit, iam incipiat inserendae scientiae impedimento esse. | Temi ilosoici nell’epistolario agostiniano | insegnamento platonico, ossia, come sappiamo, la teoria del mondo intelligibile39. Questa ipotesi sulla storia dell’Accademia, avanzata alla ine del Contra Academicos (III, 17.37-20.43), è ripresa e sviluppata con ampiezza nella lettera 118, forse la più rilevante dell’epistolario dal punto di vista ilosoico e certamente uno dei testi metailosoici più importanti nell’intero corpus delle opere agostiniane40. Nel 410 uno studente greco di nome Dioscoro41, che aveva compiuto un viaggio di studio a Roma e a Cartagine, prima di ripartire aveva sottoposto ad Agostino una serie di quesiti su alcuni punti oscuri degli scritti ciceroniani, sollecitando una pronta risposta per non correre il rischio di fare una brutta igura se interrogato su quegli argomenti (cfr. ep. 117). Il vescovo di Ippona lo accontenta solo in parte, premettendo alle risposte particolari (che non ci sono pervenute, come del resto gli stessi quesiti di Dioscoro) una lunga rilessione critica sulla convenienza e sul senso della singolare richiesta del giovane. Per quale motivo - leggiamo nella lettera 118 - Dioscoro si preoccupa tanto di non apparire ignorante circa i libri di Cicerone? Se ricerca la stima degli altri per vanità o per trarne un vantaggio materiale, Agostino deve rimproverarlo, non certo assecondarlo; se invece lo fa per rendersi più 99 credibile nell’annuncio della verità cristiana, allora la sua preoccupazione è fuori luogo. Chi tra i greci potrebbe biasimare Dioscoro di non essere esperto del pensiero di un autore che ormai è trascurato anche presso i Latini, al punto tale che in tutta Cartagine lo studente non ha trovato nessuno che fosse in grado di rispondergli e si è dovuto rivolgere a un vescovo, e per giunta al vescovo di una città in cui non si riescono a trovare neppure copie dei testi di Cicerone?42 Anzi, un greco giudicherebbe ottu39 Cfr. ep. 1,1 (CCL 31, 3): Videtur enim mihi satis congruisse temporibus, ut, si quid sincerum de fonte Platonico lueret inter umbrosa et spinosa dumeta, potius in possessionem paucissimorum hominum duceretur, quam per aperta manans irruentibus passim pecoribus nullo modo posset liquidum purumque seruari. Quid enim conuenientius pecori est quam putari animam corpus esse? Contra huiusmodi homines opinor ego illam utiliter excogitatam occultandi ueri artem atque rationem. 40 Riprendo qui di seguito quanto ho scritto nel mio libro Agostino [Pensatori 12], Roma 2010, pp. 265-267. Sulla lettera 118, cfr. i saggi di M. Fiedrowicz, Augustins Brief an Dioskur (ep. 118). Kriterien authentischer Theologie, in Wissenschaft und Weisheit 60 (1997), pp. 177188; I. Bochet, Le statut de l’histoire de la philosophie selon la Lettre 118 d’Augustin à Dioscore, in REAug 44 (1998), pp. 49-76. La lettera è stata tradotta in olandese e commentata da J.H. Koopmans, Augustinus’ briefwisseling met Dioscorus: inleiding, tekst, vertaling, commentaar, Amsterdam 1949. 41 Su di lui, cfr. J. Wankenne, à propos de Dioscorus correspondant de saint Augustin (epist. 117-118), in RB 84 (1974), pp. 167-176. 42 Cfr. ep. 118, 2.9 (CCL 31B, 117-118): Quod non ita est, mihi crede, primum quia esse aliquos in illis terris, ubi inperitus minimeque acutus uideri times, qui te de istis quaestionibus quicquam interrogent, omnino non uideo, quando quidem hic, quo ad ea discenda uenisti, et Romae expertus es, quam neglegenter habeantur et ob hoc neque doceantur neque discantur; et in Africa usque | G. Catapano | so Dioscoro proprio per aver preferito «imparare le dottrine dei ilosoi greci, o meglio frammenti di dottrine sminuzzati e sparsi qua e là, in dialoghi latini anziché nei libri greci degli autori stessi, in cui esse si trovano intere e organicamente connesse»43. In ogni caso, la conoscenza dei dialoghi di Cicerone e di «opinioni estranee discordanti e contrastanti»44 non è affatto necessaria per esporre la verità cristiana e nemmeno per difenderla («vedi e ascolta se qualcuno porta contro di noi obiezioni tratte da Anassimene e da Anassagora!»45); utile è, piuttosto, la conoscenza delle eresie che attualmente contrastano la fede cattolica. Davvero indispensabile, invece, è sapere come si possa essere felici, e sapere questo di per sé non è dificile. Cercare come si giunga alla felicità, infatti, signiica cercare dove sia il bene ultimo (inis boni) godendo del quale si è felici, ossia dove sia posto il bene supremo dell’uomo, quel bene in vista del quale si vogliono possedere tutti gli altri, e che è amato per sé stesso e non in vista di altro. Ora, tale bene può trovarsi o nel corpo o nell’animo o in Dio o in due di queste realtà o in tutte. L’animo però è il bene del corpo, quindi non può ricevere dal corpo il bene supremo né parte di esso, contro l’opinione degli epicurei. Il bene 100 supremo, poi, non può risiedere neppure nell’animo, come invece pensano gli stoici, perché altrimenti l’animo non sarebbe mai infelice; l’animo, anzi, comincia a peccare, e ad allontanarsi dalla sapienza inalterabile e quindi trascendente, proprio nel momento in cui fa di sé stesso il proprio bene. I platonici compresero che il nostro bene supremo è Dio, il quale ha adeo de his interrogatorem pateris neminem, ut nec te ipsum quis patiatur inuenias eaque inopia episcopis exponenda ea mittere cogaris, quasi uero isti episcopi, etiam si adulescentes eodem, quo tu raperis, animi ardore uel potius errore quasi aliquid magnum haec discere curarunt, usque ad canos episcopales et usque ad cathedras ecclesiasticas ea sibi in memoria durare paterentur aut, si ipsi uellent, non illa etiam de inuitorum cordibus curae maiores grauioresque secluderent aut, si aliqua ex eis in animis eorum nimia consuetudine remanerent, non etiam ipsa obliuione sepelire mallent recordata quam ineptia respondere quaesita, cum in ipsa etiam scholari leuitate et rhetoricis cathedris ita obmutuisse atque obtorpuisse uideantur, ut a Carthagine Hipponem, quo exponi possint, mittenda existimentur, ubi tam insolita atque omnino peregrina sunt, ut, si uellem respondendi cura inspicere aliquid uolens uidere, quomodo ad sententiam, quae mihi exponenda esset, desuper ueniatur aut ab ea deinceps quae contexeretur oratio, codicem prorsus inuenire non possem. 43 Ep. 118, 2.10 (CCL 31B, 119): Quod si acciderit, quid responsurus es? Potius te ista in Latinorum auctorum libris quam in Graecorum nosse uoluisse? Qua responsione primo Graeciae facies iniuriam et nosti, quam illi homines hoc non ferant: deinde iam exulcerati et irati quam cito te, quod nimis non uis, et hebetem iudicabunt, qui Graecorum philosophorum dogmata uel potius dogmatum particulas quasdam discerptas atque dispersas in Latinis dialogis quam in ipsorum auctorum libris Graecis tota atque contexta discere maluisti, et indoctum, qui cum tam multa in tua lingua nescias, earum rerum frusta in aliena colligere ambisti! 44 Ep. 118, 2.12 (CCL 31B, 120): …alienarum sententiarum dissidentium et repugnantium cognitio. 45 Ibid.: erige oculos auresque, oro te, et uide atque ausculta, utrum aliquis aduersus nos de Anaximene et de Anaxagora proferat aliquid. | Temi ilosoici nell’epistolario agostiniano | fatto noi e tutte le altre cose, e per tale motivo combatterono, nella veste di accademici, gli epicurei e gli stoici. I platonici tuttavia non ebbero la capacità di convincere le masse di ciò che essi avevano capito riguardo a Dio come bene supremo (in etica), incorporea sapienza creatrice (in isica) e verità puramente intelligibile (in logica); per questo non resero pubbliche le loro dottrine, ino a quando il cristianesimo non si affermò facendo quasi scomparire con la propria divina autorevolezza epicureismo e stoicismo e costringendo di fatto i propri oppositori (gli eretici) ad assumere il nome di cristiani. Da ciò si capisce che pure i ilosoi di stirpe platonica, cambiate quelle poche cose che l’insegnamento cristiano disapprova, devono piegare le pie cervici a Cristo, unico re assolutamente invincibile, e comprendere il Verbo di Dio rivestitosi dell’uomo, per ordine del quale fu creduto quel che essi avevano paura persino di pronunciare46. Così hanno già fatto alcuni uomini «acutissimi e accortissimi» provenienti dalla scuola di Plotino a Roma, mentre altri della medesima scuola, purtroppo, «sono stati depravati dalla curiosità per le arti magiche»47. Questa visione del platonismo e dei suoi rapporti storici con le ilosoie ellenistiche e il cristianesimo è sostanzialmente la stessa che Ago- 101 stino aveva già esposto nel Contra Academicos e nel De vera religione48. La “variazione sul tema” compiuta nella lettera 118 ha tra i suoi scopi peculiari l’elogio dell’umiltà. Ai platonici, come a tutti i ilosoi dell’an46 Ep. 118, 3.21 (CCL 31B, 126-127): Ex quo intellegitur ipsos quoque Platonicae gentis philosophos paucis mutatis, quae christiana inprobat disciplina, inuictissimo uni regi Christo pias cervices oportere submittere et intellegere uerbum dei homine indutum, qui iussit et creditum est, quod illi uel proferre metuebant. La traduzione di questo, come di tutti gli altri brani agostiniani citati nel presente lavoro, è mia. 47 Ep. 118, 5.33 (CCL 31B, 135): Tunc Plotini schola Romae loruit habuitque condiscipulos multos acutissimos et sollertissimos uiros. Sed aliqui eorum magicarum artium curiositate depravati sunt, aliqui dominum Iesum Christum ipsius ueritatis atque sapientiae incommutabilis, quam conabantur attingere, cognoscentes gestare personam in eius militiam transierunt. 48 Cfr. Acad. III, 17.37-20.43; vera rel. 1.1-5.8; g. Catapano, Il concetto..., cit., pp. 154-156, 171, 282 e la letteratura ivi citata, a cui si aggiunga ora I. Bochet, «Le irmament de l’écriture». L’herméneutique augustinienne [Collection des études augustiniennes. Série Antiquité 172], Paris 2004, pp. 333-413. Per la concezione agostiniana dei rapporti tra platonismo e cristianesimo, cfr. inoltre, tra i molti contributi, almeno J.J. O’meara, A Master-Motif in St. Augustine, in Actes du premier congrès de la Fédération Internationale des Associations d’études classiques, Paris 1951, pp. 312-317 (ried. in Id., Studies in Augustine and Eriugena, ed. by Th. Halton, Washington, D.C. 1992, pp. 132-139); P. Hadot, La Présentation du Platonisme par Augustin, in A.m. Ritter (a cura di), Kerygma und Logos. Beiträge zu den geistesgeschichtlichen Beziehungen zwischen Antike und Christentum. Festschrift für C. Andresen zum 70. Geburtstag, göttingen 1979, pp. 272-279; g. madec, Platonisme et christianisme. Analyse du livre VII des Confessions, in Id., Lectures Augustiniennes [Collection des études augustiniennes. Série Antiquité 168], Paris 2001, pp. 121-184 (ried. in m. Caron, a cura di, Saint Augustin, Paris 2009, pp. 77-158). | G. Catapano | tichità, «mancò infatti l’esempio dell’umiltà divina, che nel tempo più opportuno fu messo in luce per mezzo di nostro Signore Gesù Cristo»49. All’umiltà del Dio fattosi uomo deve corrispondere l’umiltà dell’uomo in cerca di Dio-Verità. Per dimostrarlo, Agostino produce una confutazione delle teorie di Anassimene50 e soprattutto dell’atomismo di Democrito e di Epicuro51, utilizzando citazioni dal De natura deorum di Cicerone. Quanto ad Anassagora, «la verità mi dev’essere cara non perché non sfuggì ad Anassagora, ma perché è la verità, anche se nessuno di quelli l’avesse conosciuta»52. Il fatto che persone istruite abbiano consumato il loro tempo libero discutendo teorie così mostruose (portenta) come la concezione atomistica degli dèi, è considerato da Agostino una prova della grande dificoltà per le menti umane, accecate dal peccato, di scorgere verità come quelle intraviste dai platonici; il modo migliore per avvicinare il genere umano a tali verità non poteva essere altro che quello attuato dalla Verità fatta uomo, ossia persuadere gli uomini a crederle anche senza comprenderle53. Il rapporto tra fede, ragione e comprensione è al centro di un’altra lettera importante, la 12054. Anche in essa, databile al 415 o agli anni imme102 diatamente precedenti55, Agostino distingue due generi di ilosoi in relazione al messaggio cristiano, servendosi delle espressioni di Paolo in 1Cor 1: da un lato, quelli che, seguendo non la via vera (che è Cristo) ma una soltanto verosimile, e ingannando in essa sé stessi e gli altri, non hanno riconosciuto in Cristo crociisso la sapienza che cercavano; dall’altro lato, quelli che invece, credendo all’annuncio di Cristo crociisso, non ne sono rimasti scandalizzati né lo hanno respinto come stoltezza, ma hanno potuto scoprire in Cristo la potenza e la sapienza di Dio. I ilosoi di questo secondo genere hanno accettato umilmente il fatto di essere stati preceduti, non solo nella fede ma anche nella comprensione, da poveri pescatori. 49 Ep. 118, 3.17 (CCL 31B, 124): Sed non sicut illi errorum suorum ita Platonici uerae rationis personam implere potuerunt. Omnibus enim defuit diuinae humilitatis exemplum, quod opportunissimo tempore per dominum nostrum Iesum Christum illustratum est; cui uni exemplo in cuius uis animo ferociter arrogantis omnis superbia cedit et frangitur et emoritur. 50 Cfr. ep. 118, 4.23. 51 Cfr. ep. 118, 4.27-31. 52 Ep. 118, 4.26 (CCL 31B, 130): Non enim mihi propterea ueritas cara esse debet, quia non latuit Anaxagoram, sed quia ueritas est, etiam si nullus eam cognouisset illorum. Cfr. ep. 118, 5.32. Sul rapporto tra ilosoia e Incarnazione, cfr. é. gilson, Philosophie et Incarnation selon saint Augustin, montréal 1947; nuova ed. genève 1999: Préface de m.-A. Vannier, suivi de Saint Augustin, Lettre 118 (traduite et présentée par m.-A. Vannier), Sermon contre les païens (Dolbeau 26) (traduit et annoté par é. Rebillard). 53 54 Vedi infra, § 5.5. 55 Al 413 o 414 secondo P.-m. Hombert, Nouvelles recherches..., cit., pp. 46-49. | Temi ilosoici nell’epistolario agostiniano | Avendo infatti imparato che le cose stolte del mondo e le deboli sono state scelte afinché fossero confuse le sapienti e le forti, ed avendo preso coscienza di essere sapienti in modo ingannevole e potenti in modo debole, salutarmente confusi si sono fatti stolti e deboli, per rientrare, mediante ciò che è stoltezza e debolezza di Dio e che è più sapiente e più forte degli uomini, fra le cose stolte e deboli che sono state scelte, e diventare veramente sapienti ed effettivamente forti56. Convertendosi al cristianesimo, questi ilosoi hanno evitato di vaniicare la loro sapienza. Come Agostino aveva scritto in una lettera a girolamo del 405, un ilosofo è vano non solo quando sostiene teorie false, ma anche quando, pur affermando cose vere, è estraneo alla grazia di Cristo, «che è la Verità in persona»57. Opera qui il noto schema della patria e della via che la conclusione del libro VII delle Confessiones ha reso celebre: non basta vedere da lontano la patria verso cui si è incamminati, se non si intraprende la via che vi porta. A Cristo verità eterna non porta se non Cristo verità incarnata58. 2.4. Paganesimo e cristianesimo a confronto Decisivo è dunque, nella valutazione agostiniana dei ilosoi, quello che Goulven Madec ha deinito «il compimento del platonismo nel cristianesimo»59. Data la valenza non solo religiosa ma anche ilosoica dell’opzione per il cristianesimo in opposizione a quella per il paganesimo, hanno un interesse ilosoico anche le lettere in cui le due religioni sono messe a confronto. Oltre ai già citati scambi epistolari con i pagani massimo di madaura (lettere 16 e 17)60, Volusiano (lettere 132, 135 e 137, e indirettamente le lettere 136 e 138 a marcellino) e Longiniano (lettere 23356 Ep. 120, 1.6 (CCL 31B, 147-148): Cum enim didicissent ad hoc electa esse stulta mundi et inirma, ut sapientia confunderentur et fortia, seque cognouissent fallaciter sapere et imbecilliter praevalere, confusi salubriter facti sunt stulti et inirmi, ut per stultum et inirmum dei, quod sapientius et fortius est hominibus, inter electa stulta et inirma ierent ueraciter sapientes et eficaciter fortes. 57 Ep. 82, 2.13 (CCL 31A, 105): …quid ego apud te timeam nomen philosophorum, qui non propterea uani sunt quia omnia falsa dicunt, sed quia et falsis plerisque conidunt et, ubi uera inueniuntur dicere, a Christi gratia, qui est ipsa ueritas, alieni sunt? Cfr. conf. VII, 20.26; s. Dolbeau 26,59.61; trin. IV, 15.20; Io. ev. tr. 2,4; O. du Roy, L’intelligence de la foi en la Trinité selon saint Augustin. Genèse de sa théologie trinitaire jusqu’en 391 [Collection des études augustiniennes. Série Antiquité 27], Paris 1966, pp. 96-106; J. Pegueroles, La Patria y el Camino. El juicio de San Agustín sobre el platonismo, in Espíritu 27 (1978), pp. 47-75; g. madec, Le Christ de saint Augustin. La Patrie et la Voie, Paris 20012 (trad. it. La patria e la via. Cristo nella vita e nel pensiero di Sant’Agostino, Roma 1993). 58 59 Cfr. g. madec, Le christianisme comme accomplissement du platonisme selon saint Augustin, in Documenti e studi sulla tradizione ilosoica medievale 10 (1999), pp. 109-129 (anche in Id., Chez Augustin [Collection des études augustiniennes. Série Antiquité 160], Paris 1998, pp. 41-69). 60 Tradotto e commentato da P. mastandrea, Massimo di Madauros (vedi supra, nota 10). 103 | G. Catapano | 235)61, bisogna ricordare quello con Nettario (lettere 90-91 e 103-104)62, la seconda parte della lettera 184/A a Pietro e Abramo, e naturalmente le Sex quaestiones contra paganos expositae accompagnate dalla lettera 102 al presbitero Deogratias. In queste lettere sono trattati temi quali il rapporto tra politeismo e monoteismo, la credibilità dei misteri principali della fede cristiana, le vie della puriicazione, il ruolo pubblico della religione. Data la rilevanza dell’argomento, esso meriterebbe uno studio analitico, che in questa sede non è possibile compiere63. Passo perciò a proporre, nelle pagine seguenti, una sorta di inventario dei temi ilosoici nell’epistolario, secondo la tripartizione della ilosoia in isica, etica e logica, che come abbiamo già detto Agostino stesso assumeva dalle tradizioni ilosoiche a lui note. 3. Temi di ilosoia naturale 3.1. Struttura e gerarchia del reale Nelle lettere Agostino fa propri entrambi i criteri di suddivisione della realtà che egli altrove attribuisce a Platone o ai platonici, e cioè sia la 104 bipartizione delle cose in sensibili e intelligibili, sia la loro tripartizione gerarchica in corpi, anime e Dio64. Il primo criterio è strettamente legato alla teoria della conoscenza, dal momento che classiica le cose in base al modo o alla facoltà con cui sono conosciute, rispettivamente i sensi e l’intelletto; su di esso perciò ci soffer61 Cfr. P. mastandrea, Il “Dossier Longiniano” nell’epistolario di Sant’Agostino (epist. 233235), in StPat 25 (1978), pp. 523-540. 62 Tradotto in olandese e commentato da H. Huisman, Augustinus’ briefwisseling met Nectarius: inleiding, tekst, vertaling, commentaar, Amsterdam 1956. 63 Rinvio alla letteratura già esistente, tra cui si segnalano i lavori di L. Storoni mazzolani, Le lettere di S. Agostino ai pagani, in Atti dell’Accademia romanistica Constantiniana, vol. 4: In onore di M. de Dominicis, Perugia 1981, pp. 41-63; Sant’Agostino e i pagani, Palermo 1987, 19882, e gli articoli (in polacco, che non ho letto) di A. Eckmann: Argumenty ilosoiczno-religijne Maksyma z Madaury w liscle do sw. Augustyna z Hippony broniace tradycyjnej wiary Rzymian, in Roczniki teologiczno-kanoniczne 28 (1981), pp. 145-148; Stosunek poganstwa do chrzescijanstwa w korespondencji i pismach sw. Augustyna, in Roczniki humanistyczne 29/3 (1981), pp. 93-108; Dialog listowny sw. Augustyna z Woluzjanem, in Roczniki humanistyczne 31 (1983), pp. 63-89; Dyskusja sw. Augustyna z Maksymen z Madaury, in Studia Pelplinskie 15 (1984), pp. 149-160; List sw. Augustyna do pogan w Madaurze, in Vox Patrum 6-7 (1984), pp. 137-147; Problemy ilozoiczno-religijne w korespondencji Sw. Augustyna z Maksymem z Madaury, in Roczniki humanistyczne 33 (1985), pp. 103-123. Cfr. inoltre H.-J. Hörn, Discordia concors? Zu einem Briefwechsel des Augustinus mit Maximus von Madaura, in Chartulae. Festschrift für W. Speyer, münster 1998, pp. 194-198; Ch. Tornau, Zwischen Rhetorik und Philosophie. Augustins Argumentationstechnik in De civitate Dei und ihr bildungsgeschichtlicher Hintergrund, Berlin-New York 2006, pp. 35-73. 64 Cfr. Acad. III, 17.37; civ. VIII,6. | Temi ilosoici nell’epistolario agostiniano | meremo più a lungo nella sezione dedicata alla ilosoia razionale (§ 5.1). Qui è suficiente rilevare come le proprietà del sensibile e dell’intelligibile siano deinite per contrapposizione reciproca: il sensibile diviene sempre e non “è” mai, mentre le cose che sono sempre nello stesso modo appartengono all’intelligibile65; i corpi sono divisibili all’ininito66 ma non accrescibili all’ininito67, mentre per il numero intelligibile è vero esattamente il contrario, ragion per cui i ilosoi pongono la ricchezza nelle cose intelligibili e la povertà in quelle sensibili68; equivalendo al corporeo, il sensibile consta di parti estese in modo tale da occupare con una parte minore uno spazio minore e con una parte maggiore uno spazio maggiore, mentre l’intelligibile, equivalendo all’incorporeo, è tutt’intero dappertutto69. Questo «discernimento tra natura sensibile e intelligibile»70 non è tuttavia tale da escludere qualsiasi rapporto tra i due generi di realtà. Il mondo sensibile, infatti, «è detto essere immagine di non so quale mondo intelligibile»71, ossia del mondo delle idee72. Le cose sensibili, in quanto copie delle idee, possono essere dette “quasi” come loro, dove il quasi sta ad indicare una qualche somiglianza pur in una grande distanza: ad esempio, diciamo che un uomo è “quasi” un uomo in confronto a quell’uomo che Platone conosceva, o che sono “quasi” rotonde o “quasi” 105 quadrate le cose che vediamo, benché siano ben lontane da quelle che l’animo di pochi vede73. 65 Cfr. il testo dell’ep. 2 citato supra nella nota 27. 66 Agostino pertanto nega l’esistenza degli atomi: cfr. ep. 118, 4.31. 67 Perciò essi hanno sempre una misura spaziale, cioè dimensioni determinate. Ciò vale anche per corpi di cui, per ipotesi, si ammetta una durata eterna (ossia senza misura temporale): cfr. ep. 102,23. 68 Cfr. ep. 3,2; Hadot, Numerus intelligibilis ininite crescit. Augustin, Epistula 3,2, in Diuinitas 11 (1967) [fasc. 1 = Miscellanea André Combes I], pp. 181-191. I ilosoi in questione sono i platonici: cfr. g. Catapano. Il concetto..., cit., pp. 263-264. 69 Cfr. ep. 92,3; 118,4.23; 137,2.4; 147,12.29; 18.45-19.46; 148,1.1-3; 162,8-9; 187,4.11-14. Per l’equivalenza corporeo=sensibile e incorporeo=intelligibile, cfr. div. qu. 6: «Tutto ciò che è, è corporeo o incorporeo; il corporeo è tenuto insieme da una forma sensibile, l’incorporeo invece da una intelligibile» (CCL 44A, 14: Omne quod est aut corporeum est aut incorporeum; corporeum sensibili, incorporeum autem intellegibili specie continetur). 70 Ep. 4,1 (CCL 31, 10): … petis ut tanto nostro otio, quantum esse arbitraris tecum aut nobiscum cupis, indicemus tibi quid in sensibilis atque intellegibilis naturae discernentia profecerimus. 71 Ep. 3,3 (CCL 31, 7): Certe sensibilis mundus nescio cuius intellegibilis imago esse dicitur. Cfr. la celebre quaestio “De ideis” (div. qu. 46) e G. O’Daly, La ilosoia della mente in Agostino, a cura di m.g. mara, Palermo 1988, pp. 231-243. 72 73 Ep. 3,1 (CCL 31, 6): Prope persuasisti mihi non quidem beatum esse me, nam id solius sapientis praedium est, sed certe quasi beatum, ut dicimus hominem quasi hominem in comparatione hominis illius quem Plato nouerat, aut quasi rotunda et quasi quadra ea quae uidemus, cum longe ab eis absint quae paucorum animus uidet. | G. Catapano | Il platonico mondo delle idee coincide, per Agostino, con il Verbo della fede cristiana, «Verità suprema e Sapienza suprema, Forma delle cose per mezzo della quale sono state fatte tutte le cose, quello che i nostri testi sacri dichiarano essere l’unigenito Figlio di Dio»74. A Nebridio, che gli chiede se il Verbo contenga la ratio dell’uomo in generale o anche quella di ciascun individuo umano75, Agostino risponde con una interessante distinzione, che a quanto mi consta non è presente altrove nelle sue opere: per quanto concerne la creazione dell’uomo, nel Verbo esiste solo la ratio dell’uomo stesso, non di questo o quell’individuo; per quanto concerne invece il cerchio del tempo (orbem temporis) in cui si svolge la storia dell’umanità, nella trascendente purezza del Verbo vivono le diverse rationes dei singoli uomini. Dio fondatore del genere umano non può non avere la ratio delle parti in cui il genere umano si compone, ossia di tutti i vari individui, così come noi, pensando a un quadrato, non possiamo non avere in mente quattro angoli, benché il concetto di angolo sia unico76. Il secondo criterio di classiicazione delle cose in base al loro tipo di essere, ossia lo schema tripartito corpi-anime-Dio che Agostino adotta forse per inlusso di Poririo77, è enunciato con estrema chiarezza nella lettera 106 18, in un contesto antimanicheo. Agostino infatti sta chiedendo a un certo Celestino di restituirgli i «libri contro i manichei» (presumibilmente il De moribus, o anche il De Genesi adversus Manichaeos) inviati in prestito, intorno ai quali non ha ancora ricevuto un parere da parte di Celestino e degli altri che dovevano leggerli. In ogni caso, Agostino espone una dottrina da lui stesso deinita «di grande importanza e breve» (grande et 74 Ep. 14,4 (vedi infra la nota 76). 75 Il quesito di Nebridio può essere considerato la versione cristiana del problema dell’esistenza di idee di individui, discusso nella tradizione platonica. Cfr. ad es. il trattato 18 di Plotino (enn. V, 7). 76 Cfr. ep. 14,4 (CCL 31, 34-35): Item quaeris utrum summa illa ueritas et summa sapientia, forma rerum per quam facta sunt omnia, quem ilium dei unicum sacra nostra proitentur, generaliter hominis, an etiam uniuscuiusque nostrum rationem contineat. Magna quaestio! Sed mihi uidetur quod ad hominem faciendum attinet, hominis quidem tantum, non meam uel tuam ibi esse rationem, quod autem ad orbem temporis, uarias hominum rationes in illa sinceritate uiuere. Verum hoc cum obscurissimum sit, qua similitudine illustrari possit, ignoro, nisi forte ad artes illas quae insunt animo nostro confugiendum est. Nam in disciplina metiendi una est anguli ratio una quadrati. Itaque quotiens demonstrare angulum uolo, non nisi una ratio anguli mihi occurrit; sed quadratum nequaquam scriberem, nisi quattuor simul angulorum rationem intuerer. Ita quilibet homo una ratione qua homo intellegitur factus [facta per errore nell’ed. Daur] est; at ut populus iat, quamuis et ipsa una ratio, non tamen hominis ratio sed hominum. Si igitur pars huius uniuersi est Nebridius sicut est, et omne uniuersum partibus conit, non potuit uniuersi conditor deus rationem partium non habere. Quamobrem quod plurimorum hominum ibi ratio est non ad ipsum hominem pertinet, quamquam miris rursum modis ad unum omnia redigantur. 77 Cfr. J. Pépin, La hiérarchie par le degré de mutabilité (Nouveaux schèmes porphyriens chez saint Augustin, I), in Documenti e studi sulla tradizione ilosoica medievale 10 (1999), pp. 89-107. | Temi ilosoici nell’epistolario agostiniano | breve), che pare essere come un sunto della cornice metaisica in cui si inquadra l’etica cristiana. Le nature sono di tre tipi, a seconda del loro grado di mutevolezza. C’è una natura mutevole nello spazio e nel tempo, come il corpo; c’è una natura che è anch’essa mutevole, ma soltanto nel tempo, come l’anima78; e c’è una natura che non può mutare né nello spazio né nel tempo, ed è Dio. Le prime due, accomunate dalla mutevolezza, si dicono creature; la terza, realtà immutabile, è detta il Creatore, il che signiica che ciò che muta riceve il suo essere da ciò che non muta79 e che nessun mutamento è possibile in Dio80. In ultima analisi, la tripartizione delle nature è dunque riconducibile a una bipartizione, quella tra mutevole e immutabile ovvero tra creatura e Creatore81. Si noti che essa però non è sovrapponibile a quella tra sensibile e intelligibile, perché non tutto ciò che è mutevole è sensibile e non tutto ciò che è intelligibile è immutabile. L’anima infatti è mutevole e intelligi- 78 O come gli angeli, che condividono con le anime la natura spirituale: cfr. ep. 169,3.11. 79 Da Dio, che “è” in modo supremo, trae il proprio essere non solo la forma (species) delle cose, sia di quelle sensibili sia di quelle intelligibili, ma anche la loro capacità di ricevere la forma (capacitas formationis ante formationem), ossia la loro materia. La ragione della mutevolezza delle cose è il fatto che esse sono create dal nulla (ex nihilo); la ragione del loro essere e sussistere è la bontà e l’onnipotenza di Dio. Cfr. ep. 118,3.15 (CCL 31B, 122-123): Ita cessans atque detumescens a iactatione atque inlatione propria inhaerere deo atque ab illo incommutabili reici et reformari nititur [scil. animus], a quo esse iam capit non solum omnem speciem rerum omnium, siue quae sensu corporis siue quae intellegentia mentis attinguntur, sed etiam ipsam capacitatem formationis ante formationem, cum uel informe aliquid dicitur, quod formari potest. Itaque tanto minus se esse stabilem sentit, quanto minus haeret deo, qui summe est, et illum ideo summe esse, quia nulla mutabilitate proicit seu deicit; sibi autem illam commutationem expedire, qua proicit, ut perfecte illi cohaereat, eam uero commutationem, quae in defectu est, esse uitiosam; omnem autem defectum ad interitum uergere, quo utrum aliqua res perueniat, tametsi non apparet, tamen apparere omnibus eo ducere interitum, ut non sit quod erat. Vnde colligit non ob aliud res deicere uel posse deicere, nisi quod ex nihilo factae sunt, ut, quod in eis est, quod sunt et manent et pro defectibus etiam suis ad uniuersitatis complexum ordinantur, ad eius bonitatem omnipotentiamque pertineat, qui summe est et conditor, qui potens est etiam ex nihilo non tantum aliquid sed etiam magnum aliquid facere. 80 L’assenza di mutevolezza e di corruttibilità in Dio è un argomento decisivo contro il manicheismo, perché un Dio incorruttibile non ha bisogno di difendersi dall’assalto della “stirpe delle Tenebre”: cfr. g. Sfameni gasparro, Au cœur du dualisme manichéen: La polémique augustinienne contre la notion de “mutabilité” de Dieu dans le Contra Secundinum, in J. van Oort - O. Wermelinger - g. Wurst (a cura di), Augustine and Manichaeism in the Latin West. Proceedings of the Fribourg-Utrecht Symposium of the International Association of Manichaean Studies (IAMS), Leiden-Boston-Köln 2001, pp. 230-242; g. Catapano, Agostino, cit., pp. 62, 74, 81, 85. 81 Per la centralità della distinzione mutabile/immutabile nel pensiero di Agostino, cfr. A. Trapè, La nozione del mutabile e dell’immutabile secondo sant’Agostino, Tolentino 1959; m.T. Clark, Augustine on Mutability and Immutability, in American Catholic Philosophical Quarterly 74 (2000), pp. 7-27; A. Pieretti, Mutabilità, in A.D. Fitzgerald, cit., pp. 977-978. 107 | G. Catapano | bile al tempo stesso82. Le due suddivisioni non sono tuttavia incompatibili, perché la prima fa riferimento alla conoscibilità delle cose, la seconda al loro essere. Difatti Agostino prosegue, nella lettera 18, osservando che i tre tipi di nature corrispondono a tre livelli di essere, giacché il verbo “essere” si predica di una cosa in quanto essa permane e in quanto è una. L’essere, in altre parole, è direttamente proporzionale alla permanenza (che è opposta alla mutevolezza) e all’unità83. Di conseguenza, il corpo esiste in grado inimo, Dio esiste in grado supremo e l’anima esiste in grado intermedio tra l’uno e l’altro. La natura mediana dell’anima la pone di fronte ad un’alternativa etica: o inclinare verso ciò che è inimo e vivere infelicemente, o convertirsi a ciò che è supremo e vivere felicemente. Chi crede a Cristo non ama l’essere inimo, non insuperbisce in quello medio e così diventa adatto ad aderire all’essere supremo. E questo è tutto ciò che siamo invitati, esortati, incitati a fare84. Nonostante la realtà sia divisa fondamentalmente in due generi di nature (sensibile-intelligibile oppure mutevole-immutabile) o meglio in tre (sensibile [sempre mutevole] - intelligibile mutevole – intelligibile immutabile), ontologicamente distanti tra loro85, tutte le nature, a qualunque 108 82 L’anima non è percepibile con alcun senso corporeo: Anima enim nullo sensu corporis uel in aliquo animante sentitur (ep. 169, 3.10: CSEL 44, 619). 83 Sull’ontologia di Agostino, cfr. F.-J. Thonnard, Caractères platoniciens de l’ontologie augustinienne, in Augustinus Magister. Congrès International Augustinien (Paris, 21-24 septembre 1954), vol. 1: Communications [Collection des études augustiniennes. Série Antiquité 1], Paris 1954, pp. 317-327; Id., Ontologie augustinienne, in ATh 14 (1954), pp. 41-53; J.F. Anderson, St. Augustine and Being. A Metaphysical Essay, The Hague 1965; é. Zum Brunn, Le dilemme de l’être et du néant chez saint Augustin. Des premiers dialogues aux Confessions, in RechAug 6 (1969), pp. 3-102; Ch.g. Stead, Augustine’s Philosophy of Being, in G. Vesey (a cura di), The Philosophy in Christianity, Cambridge 1989, pp. 71-84 (ried. in Id., Doctrine and Philosophy in Early Christianity: Arius, Athanasius, Augustine, Aldershot 2000); W. Beierwaltes, La dottrina agostiniana dell’Essere nell’interpretazione di «Ego sum qui sum» (Esodo 3,14) e alcune precedenti concezioni, in Id., Agostino e il neoplatonismo cristiano, prefazione e introduzione di g. Reale, trad. di g. girgenti e A. Trotta, indici a cura di g. girgenti, milano 1995, pp. 91-119; Ch. Pietsch, Esse, essentia, in AL, vol. 2 (1996-2002), pp. 1120-1133; L. Ayres, Essere (Esse, essentia), in A.D. Fitzgerald, cit., pp. 664-667. 84 Ep. 18,2 (CCL 31, 44): Sane quoniam te noui, accipe hoc quiddam grande et breue! Est natura per locos et tempora mutabilis ut corpus, et est natura per locos nullo modo, sed tantum per tempora etiam ipsa mutabilis ut anima, et est natura, quae nec per locos nec per tempora mutari potest, hoc deus est. Quod hic insinuaui quoquo modo mutabile, creatura dicitur, quod inmutabile creator. Cum autem omne quod esse dicimus, in quantum manet dicamus et in quantum unum est, omnis porro pulchritudinis forma unitatis sit, uides profecto in ista distributione naturarum quid summe sit, quid inime et tamen sit, quid medie, magis inimo et minus summo, sit. Summum illud est ipsa beatitas; inimum nec beatum potest esse nec miserum; quod uero medium, uiuit inclinatione ad inimum misere, conuersione ad summum beate uiuit. Qui Christo credit non diligit inimum, non superbit in medio, atque ita summo inhaerere it idoneus. Et hoc est totum, quod agere iubemur monemur accendimur. 85 Cfr. ep. 137,2.4 (CCL 31B, 259): Hominum iste sensus est nihil nisi corpora ualentium | Temi ilosoici nell’epistolario agostiniano | genere appartengano, possiedono alcune caratteristiche comuni. Agostino ne parla nella lettera 11, rispondendo a un quesito, come sempre acuto e dificile, dell’amico Nebridio, il quale chiedeva come mai la religione cristiana celebri l’Incarnazione (hominis susceptio) attribuendola soltanto al Figlio, benché secondo la fede cattolica la Trinità sia inseparabile e tutto ciò che essa opera sia operato simultaneamente da tutte e tre le Persone divine. Agostino suggerisce una risposta sulla base di un’analogia tra la Trinità e tre aspetti propri di ogni ente86. «Non v’è alcuna natura, Nebridio, e assolutamente alcuna sostanza, che non abbia in sé questi tre aspetti (haec tria)87 e non li mostri: primo, il fatto di essere; poi, il fatto di essere questa cosa o quella; terzo, il fatto di permanere88 in quel che è per quanto può. Il primo fa vedere la causa stessa della natura in base alla quale sono tutte le cose; il secondo la forma per mezzo della quale sono fabbricate e in qualche modo formate tutte le cose; il terzo una certa permanenza, per dir così, nella quale sono tutte le cose»89. Agostino sembra voler dire ciò che affermerà esplicitamente nel De civitate Dei, e cioè che la struttura di ogni ente è trinitaria, e che essa nelle 109 cogitare siue ista crassiora, sicut sunt humor atque humus, siue subtiliora sicut aeris et lucis, sed tamen corpora, quorum nullum potest esse ubique totum, quoniam per innumerabiles partes aliud alibi habeat necesse est et, quantumcumque sit corpus seu quantulumcumque corpusculum, loci occupet spatium eundemque locum sic impleat, ut in nulla eius parte sit totum. Ac per hoc densari atque rarescere, contrahi et dilatari, in minutias deteri et grandescere in molem non nisi corporum est. Longe aliud est animae natura quam corporis; quanto magis dei, qui creator est et animae et corporis! Non sic deus implere dicitur mundum uelut aqua, uelut aer, uelut ipsa lux, ut minore sui parte minorem mundi partem impleat et maiore maiorem. Ha ragione O. du Roy nell’osservare che «C’est en effet par un lien de dépendance et de causalité qu’Augustin passe des trois dimensions ontologiques aux trois personnes de la Trinité. Il ne s’agit pas du tout d’une simple analogie, mais d’une création qui porte la marque de la Trinité créatrice et la révèle ainsi» (O. du Roy, L’intelligence de la foi..., cit., p. 394 n. 3). Il rapporto di dipendenza causale non esclude però quello analogico, ma lo fonda. Il rapporto fra la Trinità creatrice e le tre dimensioni ontologiche del creato è l’oggetto del cap. X del libro di du Roy (pp. 369-409; l’ep. 11 è analizzata alle pp. 391-401). 86 87 Du Roy traduce “dimensions”, per non suggerire l’idea che si tratti di qualità oppure di cose separabili (cfr. O. du Roy, L’intelligence de la foi..., cit., p. 394 n. 1). La traduzione italiana di L. Carrozzi, per la NBA, utilizza la parola “elementi”, che però fa pensare a componenti o parti costitutive, e quindi a “cose” almeno virtualmente separabili. 88 Secondo du Roy, «la signiication de manere n’est pas tant la durée que le repos et la stabilisation de l’être émané au terme de son émanation» (O. du Roy, L’intelligence de la foi..., cit., p. 394 n. 2). 89 Ep. 11,3 (CCL 31, 27): Nulla natura est, Nebridi, et omnino nulla substantia, quae non in se habeat haec tria et prae se gerat: primo ut sit, deinde ut hoc uel illud sit, tertio ut in eo ipso quod est maneat quantum potest. Primum illud causam ipsam naturae ostentat ex qua sunt omnia; alterum speciem per quam fabricantur et quodammodo formantur omnia; tertium manentiam quandam, ut ita dicam, in qua sunt omnia. | G. Catapano | sostanze create è traccia della Trinità creatrice90. L’essere delle cose rinvia alla causa ex qua tutte esistono, ossia al Padre91; l’essenza delle cose alla species per quam tutte sono prodotte, ossia al Figlio92; il permanere delle cose nel loro essere alla manentia in qua tutte sussistono, che a questo punto pare doversi identiicare con lo Spirito santo93. Il fatto di essere, il fatto di essere una certa specie di cosa, e il fatto di permanere nel proprio genere per quanto possibile, sono tre aspetti inseparabili, come le tre Persone divine; è impossibile infatti che si dia uno solo di essi senza gli altri due. Ciò nonostante, le cose possono essere considerate in maniera tale da porre in evidenza uno solo di quegli aspetti, pur essendo impliciti gli altri. Agostino adduce come esempio «quei tre famosi generi di domande», di cui sappiamo che si occupava la retorica antica: se una cosa sia (an sit), che cosa essa sia (quid sit), e come debba essere valutata (quale sit)94. Benché esistenza, essenza e valore siano in- 90 Cfr. civ. XI,25. Il Padre è detto più avanti, nella medesima lettera, «il principio unico in base al quale sono tutte le cose» (ipsius patris, id est unius principii ex quo sunt omnia: CCL 31, 28). 91 110 92 Cfr. ibid.: Species quae proprie ilio tribuitur. 93 Lo schema ex quo – per quem – in quo viene da Rm 11,36: cfr. vera rel. 55.113. Nell’interpretazione di O. di Roy, il manere è effetto dell’azione dello Spirito perché il ruolo proprio di quest’ultimo è «de ixer les êtres en leur lieu après qu’ils aient été retournés vers leur Principe par la Forme» (O. du Roy, L’intelligence de la foi..., cit., p. 374). 94 Cfr. conf. X, 10.17 (CCL 27, 163): …audio tria genera esse quaestionum, an sit, quid sit, quale sit; X, 40.65 (CCL 27, 191): …de omnibus consulebam, an essent, quid essent, quanti pendenda essent. Nel cap. 9 dei Principia rhetorices, ovvero del De rhetorica liber (sulla cui autenticità agostiniana oggi ci sono meno dubbi che in passato), si parla delle quaestiones rationales, e se ne distinguono quattro tipi: Haec enim in illis quaeruntur: an sit, quid sit, quale sit, an induci in iudicium debeat (ed. R. giomini in Studi latini e italiani 4, 1990, pp. 35-76, 51). Il quarto tipo viene ammesso nel cap. successivo con un richiamo all’autorità di Ermagora di Temno (II sec. a.C.), nonostante il parere contrario dei più. La riduzione delle questioni a tre – an sit, quid sit, quale sit – fu adottata da Cicerone (si vedano i passi citati da O. du Roy in L’intelligence de la foi..., cit., p. 385 n. 2, ai quali si aggiungano ord. I,31.139 e II,26.113) e ribadita da Quintiliano (inst. or. III,6,80); che fosse ancora accettata ai tempi di Agostino è testimoniato da marziano Capella, nupt. V,444. Nella diciottesima delle ottantatré questioni diverse, intitolata De Trinitate, Agostino giustiica l’impossibilità che vi siano più di tre generi di quaestiones quando si cerca la verità (ossia, quando si fa ilosoia) in base alla trinità di Dio: Omne quod est aliud est quo constat, aliud quo discernitur, aliud quo congruit. Vniuersa igitur creatura si et est quoquo modo, et ab eo quod omnino nihil est plurimum distat, et suis partibus sibimet congruit, causam quoque eius trinam esse oportet: qua sit, qua hoc sit, qua sibi amica sit. Creaturae autem causam, id est auctorem, deum dicimus. Oportet ergo esse trinitatem, qua nihil praestantius, intellegentius et beatius inuenire perfecta ratio potest. Ideoque etiam cum ueritas quaeritur, plus quam tria genera quaestionum esse non possunt: utrum omnino sit, utrum hoc an aliud sit, utrum adprobandum improbandumue sit (CCL 44A, 23). Sulla funzione dell’uso da parte di Agostino dello schema retorico dei tre generi di questioni in rapporto all’inlusso del neoplatonismo, cfr. le diverse opinioni di A. Schindler, Wort und Analogie in Augustins Trinitätslehre, Tübingen 1965, pp. 56-60 e O. du Roy, L’intelligence de la foi..., | Temi ilosoici nell’epistolario agostiniano | dissolubilmente congiunti, le tre domande prendono ciascuna il nome da uno solo dei tre, quello su cui si concentra l’attenzione di chi pone la domanda. Così, si può dire che la domanda an sit concerne propriamente solo l’esistenza, la domanda quid sit solo l’essenza e la domanda quale sit solo il valore95. Analogamente, l’Incarnazione si può ritenere una proprietas solo del Figlio, perché propria del Figlio - che, ricordiamolo, è Verbo, Verità e Sapienza - è la relazione con l’apprendimento (disciplina), e l’effetto dell’Incarnazione è stato precisamente di fornire all’uomo una disciplina vivendi. Per mezzo di tale disciplina, d’altra parte, si realizza nell’uomo la conoscenza del Padre mediante il Figlio, e si assapora quella dolcezza di permanere in tale conoscenza, tenendo in poco conto tutte le cose mortali, che è un dono da attribuire propriamente allo Spirito santo. Dunque, benché tutte queste cose siano compiute con suprema comunione e inseparabilità, tuttavia dovevano essere mostrate distintamente a causa della nostra debolezza, poiché siamo scivolati dall’unità alla diversità96. 3.2. I corpi Dei tre livelli di realtà in cui si struttura la gerarchia metaisica agostiniana - corpi, anime, Dio -, quello che riceve meno attenzione nelle lettere è sicuramente il primo. La cosa non stupisce affatto, se si pensa alla celebre dichiarazione fatta nei Soliloquia di voler sapere Dio e l’anima, e nulla di più97. Sollecitato da Nebridio a rispondere anche a quesiti di ordine isico, Agostino spiega le ragioni etiche della sua ritrosia ad occuparsi di questioni naturali: «Difatti le questioni che si pongono intorno a questo mondo non mi paiono suficientemente rilevanti allo scopo di ottenere la vita felice98 e, se arrecano un qualche piacere quando sono indagate, c’è da temere però che occupino del tempo che andrebbe speso per cose migliori»99. cit., pp. 385-386 (per quest’ultimo, «cette source est purement littéraire et […] Augustin s’en sert uniquement comme d’un cadre d’exposition pour un contenu élaboré antérieurement déjà sous l’inluence du néo-platonisme»). 95 Il nesso tra il valore e la permanenza nel proprio essere sembra costituito dal fatto che il motivo per cui ci si sforza di permanere nel proprio essere è il riconoscimento del valore di tale essere, ovvero della sua desiderabilità. 96 Ep. 11,4 (CCL 31, 28): Ergo cum agantur omnia summa communione et inseparabilitate, tamen distincte demonstranda erant propter inbecillitatem nostram, qui ab unitate in uarietatem lapsi sumus. 97 Cfr. sol. I,2.7 (CSEL 89, 11): A. Deum et animam scire cupio. - R. Nihilne plus? - A. Nihil omnino. 98 Cfr. ep. 3,2 (CCL 31, 6-7): Sed ubi est ista beata uita? Vbi? Vbinam? O si ipsa esset repellere atomos Epicuri! O si ipsa esset scire nihil deorsum esse praeter mundum! O si ipsa esset nosse extrema sphaerae tardius rotari quam medium et alia similia quae similiter nouimus! 99 Ep. 11,2 (CCL 31, 26): Illa namque quae de hoc mundo quaeruntur nec satis ad beatam uitam 111 | G. Catapano | Perciò, al di là di alcune considerazioni generali che abbiamo già incontrato sulla natura dei corpi come divisibile all’ininito in parti dotate di diverse estensioni e collocazioni nello spazio, le lettere non offrono che rarissimi accenni a teorie isiche, come quella dell’impossibilità di due identici movimenti corporei simultanei e quella dei luoghi naturali100. L’unica, parziale eccezione è costituita dalla spiegazione delle fasi lunari nella lettera 55, ossia nel secondo libro Ad inquisitiones Ianuarii101. La spiegazione è introdotta in risposta all’interrogativo di gennaro circa la data mobile della Pasqua, ed è inalizzata a mostrarne il signiicato simbolico. Agostino si basa sulle teorie di coloro che hanno studiato i moti celesti con l’esattezza dei calcoli matematici (certis numeris), al contrario delle opinioni dei manichei nate da una «delirante ignoranza». Egli dice di aver appreso quelle teorie astronomiche, che oggi deiniremmo “scientiiche”, da ragazzo durante i suoi studi (in studiis puerilibus)102. Dalle Confessiones sappiamo che anche da insegnante, a Cartagine, egli lesse «molte opere di ilosoi» che gli apparvero più probabili dei lunghi miti manichei103. Il giudizio emesso nelle Confessiones su quei ilosoi è lo stesso portato nella lettera 55 sugli astronomi in questione, formulato in entrambi i casi con le 112 parole di Sap 13,9: essi sono stati capaci di scrutare il saeculum, ma non ne hanno trovato il Signore104. Un caso diverso, e ancor più condannabile, è quello degli astrologi (mathematici), che osservano gli astri per prevedere le azioni umane, come se queste fossero fatalmente determinate105. Ciò equivale a negare il libero obtinendam mihi uidentur pertinere, et si aliquid adferunt uoluptatis cum inuestigantur, metuendum est tamen ne occupent tempus rebus impendendum melioribus. 100 Cfr. rispettivamente ep. 14,2 ed ep. 55,10.18 (quest’ultimo passo è da confrontare con quello famoso di conf. XIII,9.10). 101 Cfr. J. Rexer, La data della Pasqua ed astrologia nella Lettera 55 di Agostino, in La cultura scientiico-naturalistica nei Padri della Chiesa (I-V sec.). XXXV Incontro di studiosi dell’antichità cristiana (Roma, 4-6 maggio 2006) [SEA 101], Roma 2007, pp. 763-771; P. marone, La luna nella cultura scientiico-naturalistica di Agostino, ibid., pp. 701-710. 102 Cfr. ep. 55,4.6-7. Secondo P.-m. Hombert, Nouvelles recherches..., cit., pp. 95-99, la lettera è del 403. 103 Cfr. conf. V,3.3; L.C. Ferrari, Astronomy and Augustine’s Break with the Manichees, in REAug 19 (1973), pp. 263-276; E. Feldmann, «Unverschämt genug vermaß er sich, astronomische Anschauungen zu lehren». Augustins Polemik gegen Mani in conf. 5,3 ff., in A. Zumkeller (a cura di), Signum pietatis. Festgabe für C.P. Mayer OSA zum 60. Geburtstag, Würzburg 1989, pp. 105-120. 104 Sulla valutazione dei ilosoi nelle Confessiones, cfr. g. Catapano, La philosophia e i philosophi nelle Confessioni, in Le Confessioni di Agostino (402-2002): bilancio e prospettive. XXXI Incontro di studiosi dell’antichità cristiana (Roma, 2-4 maggio 2002) [SEA 85], Roma 2003, pp. 89-100. 105 Per la posizione di Agostino nei confronti dell’astrologia, cfr. L.C. Ferrari, Astrologia, in A.D. Fitzgerald, cit., pp. 257-258, con la relativa bibliograia, alla quale si aggiungano i | Temi ilosoici nell’epistolario agostiniano | arbitrio106. Ma se la causa del peccare non è la volontà, allora «tutte le leggi e tutte le norme disciplinari, lodi e biasimi, esortazioni e minacce, premi e castighi, e tutte le altre cose per mezzo delle quali il genere umano è amministrato e diretto, vengono abbattute e sovvertite alle radici, e in esse non rimane ombra di giustizia»107. Chi vuole scusare i propri peccati incolpandone il fato, allora non rimproveri servi, parenti e vicini, come Agostino spiega a Lampadio non senza un pizzico di gustoso umorismo108. 3.3. L’anima Lo spazio riservato nelle lettere a questioni concernenti l’anima è decisamente più ampio di quello, come abbiamo visto assai ristretto, che ospita rilessioni sui corpi. In questo paragrafo prenderemo in considerazione i problemi relativi alla natura dell’anima, alla sua origine e al suo rapporto con il corpo, mentre tratteremo di quelli riguardanti le sue capacità e modalità conoscitive nella sezione sulla ilosoia razionale (§§ 5.1 sgg.). L’anima di cui Agostino parla nelle lettere è quella umana, designata indifferentemente con i vocaboli anima o animus109. «Di che cosa constiamo? Di animo (animo) e corpo»110; «la persona111 dell’uomo è una mistura 113 di anima (animae) e corpo»112. L’anima che insieme al corpo costituisce l’essere umano (homo)113 è ontologicamente migliore rispetto al corpo, contributi di Th. O’Loughlin, The Development of Augustine the Bishop’s Critique of Astrology, in AugStud 30 (1999), pp. 83-103; C. macías Villalobos, Ciencia de los astros y creencias astrológicas en el pensamiento de San Agustín, madrid-malaga 2004; g. Sfameni gasparro, Studium sapientiae: astronomia e astrologia nell’itinerario intellettuale e religioso di Agostino, in La cultura scientiico-naturalistica, cit., pp. 723-761. 106 Cfr. ep. 55,7.13; 8.15. 107 Ep. 246,2 (CSEL 57, 584): Illud sane quanto citius ac breuiter noueris, omnes leges atque instituta omnia disciplinae, laudes, uituperationes, exhortationes, terrores, praemia, supplicia ceteraque omnia, quibus humanum genus administratur et regitur, penitus labefactari atque subuerti nihilque in eis omnino iustitiae remanere, nisi uoluntas sit causa peccandi. 108 Cfr. ep. 246,2-3. Sul lessico psicologico di Agostino, cfr. G. O’Daly, Anima, animus, in AL, vol. 1 (19861994), p. 315-316; Id., La ilosoia della mente, cit., pp. 25-27. 109 110 Ep. 3,4 (CCL 31, 8): Vnde constamus? Ex animo et corpore. 111 Sulla nozione agostiniana di persona, cfr. la voce omonima di S. Katz in A.D. Fitzgerald, cit., pp. 1113-1116, con la bibliograia ivi citata. 112 Ep. 137,3,11 (CCL 31B, 264): Ergo persona hominis mixtura est animae et corporis. E. Fortin ha sostenuto che, in questo luogo dell’ep. 137, Agostino utilizza la dottrina neoplatonica dell’“unione senza confusione”: cfr. Saint Augustin et la doctrine néoplatonicienne de l’âme (Ep. 137,11), in Augustinus Magister. Congrès International Augustinien (Paris, 21-24 septembre 1954), vol. 3: Actes [Collection des études augustiniennes. Série Antiquité 3], Paris 1955, pp. 371-380. 113 L’uomo non è né solo anima né solo corpo, ma anima e corpo insieme. Da questo | G. Catapano | perché è incorporea114. Essa detiene, nel composto umano, una posizione di superiorità, in virtù della quale si serve del corpo115 - benché dopo il peccato non sia più in grado di farlo a proprio piacimento116 - e deve essere amata più di esso. Agostino lo dimostra nella lettera 3 a Nebridio con un ragionamento per domanda e risposta strettamente collegato alle meditazioni dei Soliloquia sul vero, sul falso e sulla forma117: «Che cosa viene lodato in un corpo? Nient’altro che la bellezza. Che cos’è la bellezza di un corpo? La proporzione delle parti insieme con una certa gradevolezza del colorito. Questa forma è migliore dove è vera o dove è falsa? Chi potrebbe dubitare che è migliore dove è vera? Dove dunque è vera? Nell’animo, naturalmente. L’animo quindi va amato più del corpo»118. Pur essendo eterogenei, anima e corpo interagiscono, come si può notare dalla percezione sensibile. Questa infatti è impossibile a uno dei due separatamente: da un lato, l’atto del sentire appartiene solo al vivente, ed è l’anima che apporta la vita al corpo; dall’altro lato, l’anima non può far uso dei sensi senza lo strumento degli appositi organi corporei. Quindi né il corpo può sentire senza l’anima, né l’anima senza il corpo119. Un altro 114 esempio di interazione anima-corpo sono i sogni120. Nebridio nella lettera 8 osserva che è il nostro stesso corpo a generare in noi dei sogni. Difatti, se esso viene a trovarsi in una cattiva condizione, come la sete o la fame, punto di vista, la posizione antropologica di Agostino è sostanzialmente la stessa che egli attribuisce a Varrone in civ. XIX,3,1; G. O’Daly, La ilosoia della mente, cit., p. 81. 114 Ep. 137,3.11 (CCL 31B, 265): Nam si anima in sua natura non fallatur, incorpoream se esse comprehendit. 115 Ibid. (CCL 31B, 264): …in unitate personae anima utitur corpore, ut homo sit; ep. 137,2.5 (CCL 31B, 259): Se ipsam primitus scrutata miretur [scil. mens humana], se ipsam paululum si potest a corpore attollat et ab eis rebus, quas solet sentire per corpus, et uideat ipsa quid sit, quae utitur corpore. 116 Cfr. ep. 143,6. Cfr. sol. II,17.31-18.32 e, per l’uso di schemi di pensiero poririani, D. Doucet, La vérité, le vrai et la forme du corps. Lecture de saint Augustin: Soliloques II,18,32, in RSPhTh 77 (1993), pp. 547-566. 117 118 Ep. 3,4 (CCL 31, 8): Quid laudatur in corpore? Nihil aliud uideo quam pulchritudinem. Quid est corporis pulchritudo? Congruentia partium cum quadam coloris suauitate. Haec forma ubi uera melior an ubi falsa? Quis dubitet ubi uera est esse meliorem? Vbi ergo uera est? In animo scilicet. Animus igitur magis amandus quam corpus. 119 Cfr. ep. 137,2.5 (CCL 31B, 259): Sunt certe quinquepartiti corporis sensus, qui nec sine corpore nec sine anima esse possunt, quia neque sentire est nisi uiuentis, quod ab anima est corpori, neque sine corporeis instrumentis et quasi uasis atque organis uidemus, audimus ceterisque tribus utimur sensibus. 120 Su questo tema, cfr. M. Dulaey, Le rêve dans la vie et la pensée de saint Augustin [Collection des études augustiniennes. Série Antiquité 50], Paris 1973, spec. pp. 71-139; Ead., Sogni nei Padri, in NDPAC, vol. 3, pp. 5044-5049; G. O’Daly, La ilosoia della mente, cit., pp. 147-160; B.F. von Dörnberg, Traum und Traumdeutung in der Alten Kirche. Die westliche Tradition bis Augustin, Leipzig 2008. | Temi ilosoici nell’epistolario agostiniano | ci induce a simularla mediante la fantasia, facendoci sognare di bere o di mangiare, e questo a causa dell’affectus, ossia dello stato o disposizione, che lega il corpo all’anima. La risposta di Agostino, nella lettera 9, non nega l’inlusso del corpo sull’animo, ma lo fa risalire, in una sorta di dinamica circolare, a quello previo dell’animo sul corpo e all’intervento di angeli o demoni. «Ritengo infatti che ogni moto dell’animo produca qualcosa nel corpo […]. Quindi quelle impronte del suo moto, per così dire, che l’animo imprime nel corpo, possono anche rimanere e produrre un certo qual stato abituale; e queste impronte, nascostamente agitate e maneggiate secondo la volontà di chi le agita e maneggia [scil. delle potenze angeliche o di quelle demoniache], portano dentro di noi pensieri e sogni, e ciò accade con straordinaria facilità»121. Qualcosa di simile si veriica nel caso di una passione come l’ira. Quando ci adiriamo, si produce un eccesso di iele, e questo a sua volta ci induce ad adirarci anche senza ragione. «Così, ciò che l’animo ha prodotto nel corpo con il suo moto, sarà in grado di turbare l’animo a sua volta»122. Con la morte, l’anima si separa dal corpo di carne insieme al quale co- 115 stituisce l’uomo123. Questo signiica forse che essa rimanga priva di ogni tipo di corpo, oppure bisogna pensare che l’anima resti sempre unita a un corpo diverso da quello mortale? Si tratta del problema del cosiddetto “veicolo” dell’anima124; un interrogativo sollevato spesso nelle conversa- 121 Ep. 9,3 (CCL 31, 21-22): Arbitror enim omnem motum animi aliquid facere in corpore; id autem usque ad nostros exire sensus tam hebetes tamque tardos, cum sunt maiores animi motus, uelut cum irascimur aut tristes aut gaudentes sumus. Ex quo licet conicere, cum etiam cogitamus aliquid neque id nobis in nostro corpore apparet, apparere tamen posse aeriis aetheriisue animantibus, quorum est sensus acerrimus, et in cuius comparatione noster ne sensus quidem putandus est. Igitur ea quae, ut ita dicam, uestigia sui motus animus igit in corpore, possunt et manere et quendam quasi habitum facere; quae latenter cum agitata fuerint et contrectata secundum agitantis et contrectantis uoluntatem, ingerunt nobis cogitationes et somnia atque id it mira facilitate. Ep. 9,4 (CCL 31, 22): Hac autem assiduitate irascendi fel crescere etiam medici afirmant, incremento autem fellis rursus efici, ut facile ac prope nullis causis exsistentibus irascamur. Ita quod suo motu animus fecit in corpore, ad eum rursus commouendum ualebit. 122 123 Cfr. ep. 137,2,5 (CCL 31B, 260): Certe sentire homo non potest, nisi uiuat; uiuit autem in carne, antequam morte utrumque dirimatur. 124 Per il retroterra neoplatonico della questione, cfr. m. Di Pasquale Barbanti, Ochemapneuma e phantasia nel neoplatonismo: aspetti psicologici e prospettive religiose, Catania 1998; J. Pépin, Pourquoi l’âme automotrice aurait-elle besoin d’un véhicule? (Nouveaux schèmes porphyriens chez saint Augustin II), in J.J. Cleary (a cura di), Traditions of Platonism: Essays in Honour of J. Dillon, Aldershot etc. 1999, pp. 293-305; m. Zambon, Il signiicato ilosoico della dottrina dell’oxema dell’anima, in R. Chiaradonna (a cura di), Studi sull’anima in Plotino, Roma 2005, 305-335; S. Toulouse, Les théories du véhicule de l’âme dans le néoplatonisme: genèse et évolution d’une doctrine de la médiation entre l’âme et le corps, Thèse éPHé Ve Section, Paris 2001. | G. Catapano | zioni con Nebridio, come attesta la lettera 13125, nella quale Agostino dà l’impressione di voler archiviare la questione come irrisolvibile. Un simile veicolo, su cui cui l’anima si appoggerebbe per passare da un luogo ad un altro126, dovrebbe muoversi nello spazio, ma in tal caso - argomenta Agostino - non sarebbe intelligibile (gli intelligibili infatti non sono estesi, come abbiamo visto nel § 3.1), ovvero non potrebbe essere compreso dall’intelletto. D’altra parte, l’ipotetico veicolo di cui stiamo parlando non può essere percepito neppure dai sensi (difatti non lo “sentiamo” in alcun modo). Ebbene, su una cosa che, posto anche che esista, non può essere conosciuta né dai sensi né dell’intelletto, non si può esprimere che un’opinione troppo temeraria e futile (nugatoriam). «Perché dunque, per favore, non ci mettiamo in ferie rispetto a questo problemuccio e, invocato Iddio, non ci innalziamo interamente nella suprema serenità della natura che supremamente vive?»127. La quaestiuncula del vehiculum animae continuava però a costituire un problema di non poco conto per alcuni amici di Agostino, in particolare per Evodio, il cui interesse per le problematiche psicologiche è testimoniato 116 dal suo ruolo nel De quantitate animae128. Ormai vescovo, Evodio interpella il collega di Ippona nella lettera 158, che si suole datare al 414/415129. «Chiedo per prima cosa se esista un qualche corpo che non abbandona l’essere incorporeo, cioè la sostanza dell’anima stessa, dopo che questa ha deposto questo corpo terreno, e se esso sia per caso uno solo dei quattro, o aereo o etereo»130. 125 Cfr. ep. 13,2 (CCL 31, 31): Necesse est te meminisse quod crebro inter nos sermone iactatum est, nosque iactauit anhelantes atque aestuantes, de animae scilicet ueluti perpetuo quodam corpore uel quasi corpore, quod a nonnullis etiam dici uehiculum recordaris. 126 Cfr. ep. 13,3 (CCL 31, 32): …nescio quid illud de quo quaerimus corpus, quo inniti anima ut de loco in locum transeat putatur. 127 Ep. 13,2 (CCL 31, 31): Quam rem certe, si quidem loco mouetur, non esse intellegibilem clarum est. Quicquid autem intellegibile non est, intellegi non potest. At quod intellectum fugit, si saltem sensum non refugit, aestimare inde aliquid uerisimiliter non usquequaque denegatur. Quod uero neque intellegi neque sentiri potest, temerariam nimis et nugatoriam gignit opinionem. Et hoc de quo agimus tale est, si tamen est. Cur ergo, quaeso te, non nobis ad hanc quaestiunculam indicimus ferias, et nos totos imprecato deo in summam serenitatem naturae summae uiuentis attollimus? 128 Su Evodio, cfr. la voce di W. Hübner in AL, vol. 2 (1996-2002), pp. 1158-1161, e quella di J.J. O’Donnell in A.D. Fitzgerald, cit., pp. 702-703. Come ha osservato G. O’Daly, i §§ 5-11 della lettera 158 sono «the fullest account of the soul-vehicle in the writings of A. and his correspondents» (Anima, animus, in AL, vol. 1, 1986-1994, 337). Sulle idee platoniche presenti nella lettera di Evodio, cfr. m. Baltes, Platonisches Gedankengut im Brief des Evodius an Augustinus (Ep. 158), in VigChr 40 (1986), pp. 251-260 (ried. in Id., DIANOHMATA: kleine Schriften zum Plato und zum Platonismus, hrsg. von A. Hüffmeier, M.-L. Lakmann und M. Vorwerk, Stuttgart-Leipzig 1999, pp. 141-150). 129 130 Ep. 158,5 (CSEL 44, 491): Et primum quaero, utrum aliquod corpus sit, quod rem incor- | Temi ilosoici nell’epistolario agostiniano | Evodio sembra ritenere quasi necessaria l’esistenza di quest’altro corpo per salvaguardare l’individualità dell’anima, e con essa la distribuzione di premi e punizioni nell’aldilà. A suo giudizio, l’anima, essendo in sé incorporea, non si distinguerebbe più dalle altre né da Dio stesso una volta separata da qualsiasi corpo, né potrebbe spostarsi “trapassando” da questo mondo all’altro. Deve comunque trattarsi di un corpo che, diversamente da quello terreno, non appesantisca l’anima, ma anzi le consenta di esercitare le sue capacità - comprese probabilmente quelle di vedere e di udire - in modo più lucido e agile, il che potrebbe spiegare le apparizioni dei morti in sogno e le loro predizioni131. La risposta di Agostino alla obscurissima quaestio di Evodio, che richiederebbe tempo ed energie di cui il vescovo d’Ippona dichiara di non disporre, è tanto breve quanto chiara: «non ritengo in alcun modo che l’anima esca dal corpo con un corpo»132. Nella lettera 162 questa precisa negazione viene giustiicata con il seguente argomento: se l’anima, al momento della morte, portasse via con sé qualche corpo dal corpo, «certamente anche quando dormiamo ed essa si ritira dagli occhi, porterebbe via con sé, in tanto in quanto li abbandona, degli occhi corporei, per quanto si voglia più sottili; cosa che non fa. Essa tuttavia porta via con sé degli occhi somigliantissimi, ma non corporei, 117 con i quali nei sogni scorge delle visioni somigliantissime, ma neppure esse corporee»133. Se l’oscurità della condizione dell’anima post mortem non ha impedito ad Agostino di pronunciarsi circa il suo presunto vehiculum, sia pure in maniera non deinitiva134, sulla questione dell’origine dell’anima e della sua eventuale condizione prenatale, invece, Agostino, com’è noto, non ha mai osato abbracciare una teoria determinata135. L’unica ipotesi da lui esclusa, sulla base di Rm 9,11, è quella - attribuita a Origene in De civitate Dei XI,23 - per cui le anime sarebbero cacciate dentro i singoli corpi per poream, hoc est ipsius animae substantiam non deserat, cum dimiserit hoc terrenum corpus, ne forte de quattuor unum sit aut aerium aut aetherium. 131 Cfr. V. Zangara, Il uehiculum animae e la apparizioni dei morti nell’ep. 158 di Evodio ad Agostino, in RSLR 25 (1989), pp. 234-258; Ead., Exeuntes de corpore. Discussioni sulle apparizioni dei morti in epoca agostiniana, Firenze 1990. 132 Ep. 159,1 (CSEL 44, 498): Si autem breuiter uis audire, quid mihi uideatur, nullo modo arbitror animam e corpore exire cum corpore. 133 Ep. 162,3 (CSEL 44, 514): Nam si auferret, profecto etiam cum dormimus et abscedit ab oculis, in quantum eos relinquit, in tantum secum oculos auferret, quamlibet subtiliores, corporeos, quod non facit. Verum tamen aufert secum quosdam simillimos sed non corporeos, quibus uisa simillima cernit in somnis sed nec ipsa corporea. 134 Cfr. G. O’Daly, La ilosoia della mente, cit., pp. 101-105. 135 Ibid., pp. 35-40. | G. Catapano | scontare colpe da loro commesse in precedenza136. Al ricco dossier sul problema dell’origine dell’anima, che include il terzo libro del De libero arbitrio, il decimo del De Genesi ad litteram e il De anima et eius origine, l’epistolario contribuisce in modo consistente e signiicativo, con ben sette lettere (143, 163-166, 190, 202/A) di cui una, la 166 a girolamo, è annoverata da Agostino tra i suoi libri (retr. II, 45). Fra le lettere e le altre opere esistono nessi ben precisi, che si possono riassumere nel modo seguente. Agostino si era misurato con l’enigma dell’origine dell’anima sin dagli anni giovanili del De libero arbitrio, formulando nel libro III di quel dialogo quattro possibili ipotesi senza preferenza per alcuna: la traduciana, la creazionistica, e quelle dell’invio da parte di Dio oppure della spontanea discesa nei corpi di anime preesistenti137. Egli si era poi disinteressato del problema, giudicando sostanzialmente irrilevante la sua soluzione («Che danno mi reca se non so quando ho iniziato a esistere, dato che so di esistere e non dispero di esistere in futuro?», lib. arb. III, 21.61). Flavio marcellino, però, in una lettera perduta lo informò di alcune critiche relative a una frase di lib. arb. III, 11.34138 e alle sue im118 plicazioni circa l’origine delle anime. Le critiche forse provenivano da ambienti pelagiani139. Dalla replica a marcellino contenuta nella lettera 143, del 412, veniamo a sapere che già all’epoca gli scritti di Agostino erano oggetto di discussione e che alcuni li difendevano come se fossero pressoché privi di errori. Il vescovo di Ippona respinge senza mezzi termini questa sopravvalutazione delle sue opere ed esprime il desiderio di rivedere criticamente le stesse in un lavoro apposito, progetto che troverà parziale realizzazione una quindicina d’anni più tardi nelle Retractationes. Nel caso speciico, tuttavia, egli non ritiene di dover correggere la frase del De libero arbitrio posta sotto accusa e di non dover “ritrattare” la sua esitazione in merito all’origine delle anime. Sarebbe disposto a farlo solo se i suoi critici gli esibissero una qualche evidenza di tipo razionale oppure scritturale. Ad esempio, il versetto di Qo 12,7 (e ritorni la polvere in terra, così com’era, e lo spirito torni a Dio, che lo diede) può essere interpretato in modo compatibile con tutte e quattro le ipotesi in questione. Chi vuole 136 Cfr. ep. 164,7.20; 166,9.27; 190,1.4; 202/A,4.8; 8.17; Gn. litt. X,15.27; an. et or. I,19.34. 137 Cfr. lib. arb. III,20.56-21.59. «Sistemata ordinatamente in corpi inferiori … dopo il peccato, [l’anima peccatrice] governa il suo corpo, non del tutto a seconda del proprio arbitrio ma così come lo permettono le leggi della totalità» (CCL 29, 295: In corporibus autem inferioribus atque mortalibus post peccatum ordinata regit corpus suum, non omnimodo pro arbitrio sed sicut leges uniuersitatis sinunt). Le parole atque mortalibus non sono riportate nell’auto-citazione fatta in ep. 143,5 (CSEL 44, 255). 138 139 Cfr. ep. 143,5-6. | Temi ilosoici nell’epistolario agostiniano | sostenerne una respingendo le altre, deve addurre contenuti inequivocabili delle Scritture oppure ragioni incontrovertibili140. Probabilmente contemporanea o di poco successiva alla lettera a marcellino fu la stesura del libro X del De Genesi ad litteram, dove il problema dell’origine delle anime è affrontato sistematicamente. Le ipotesi si riducono a due, la traduciana e la creazionistica, e l’esame delle testimonianze bibliche è esteso a vari altri passi141, ma le conclusioni sono simili: «ignoro in quale modo tale problema si possa risolvere attraverso la testimonianza della parola divina» (Gn. litt. X, 10.17)142. Vi è tuttavia una novità, ed è il rilievo assunto dalla questione del battesimo dei bambini, che era divenuta centrale nella polemica contro il pelagianesimo. «Qui», osserva Agostino, «confesso di non aver ancora sentito o letto da qualche parte che cosa potrebbero rispondere in difesa della loro causa quanti si sforzano di affermare secondo le sante Scritture - o perché si trovi presso di esse o perché non contrasti con esse - che le anime sono date ai corpi nuove, senza essere tratte dai genitori»143. Agostino tentò di colmare le sue lacune nei confronti del creazionismo chiedendo lumi a girolamo144. Da una lettera che questi aveva spedito a marcellino145 (la 165 dell’epistolario agostiniano), il vescovo di Ippona aveva 119 dedotto che girolamo era un creazionista. Nella primavera del 415 gli inviò perciò, tramite Orosio, una lunga lettera (la 166) con un quesito ben preciso: «Dove l’anima ha contratto la colpa (reatum) da cui è trascinata alla condanna anche quella del bimbo morto prematuramente, se la grazia di Cristo non l’ha soccorsa mediante il sacramento con cui sono battezzati anche i piccini?»146. 140 Sulla lettera 143, cfr. R.J. O’Connell, The Origin of the Soul in Augustine’s Letter 143, in REAug 28 (1982), pp. 239-252. 141 Is 57,16; Sal 33(32),15; Zc 12,1; Sap 8,19-20, Sal 104(103),29-30 e Qo 12,7 in Gn. litt. X,6.9-9.16; Rm 5,12.18-19; ancora Sap 8,19-20; Eb 7,4-10 e Gv 3,6 in Gn. litt. X,11.18-22.38. 142 Eccezion fatta per il caso dell’anima di Cristo, al quale appare più adatta l’ipotesi creazionistica: cfr. Gn. litt. X,18.32-33; ep. 163-164. 143 Gn. litt. X,15.27 (CSEL 28/1, 314): Hic pro sua causa quid respondere possint, qui secundum scripturas sanctas, uel quod apud eas inueniatur uel quod eis non aduersetur, conantur adserere animas nouas non de parentibus tractas corporibus dari, nondum me audisse uel uspiam legisse fateor. 144 La letteratura sul carteggio di Agostino con girolamo è molto ampia. mi limito a segnalare la monograia di R. Hennings, Der Briefwechsel zwischen Augustinus und Hieronymus und ihr Streit um den Kanon des Alten Testaments und die Auslegung von Gal. 2,11-14, Leiden-New York-Köln 1994, e quella di A. Fürst, Augustins Briefwechsel mit Hieronymus, münster 1999, e, dello stesso Fürst, la voce Hieronymus in AL, vol. 3 (2004-), pp. 317-336. 145 Il quale, conoscendo l’esitazione di Agostino circa l’origine delle anime, aveva interpellato girolamo nella speranza di ottenere maggiori certezze (cfr. ep. 166,4.8; 190,6.20). 146 Ep. 166,3.6 (CSEL 44, 554): Nunc accipe, obsecro, quid requiram et noli me spernere; sic | G. Catapano | Posto infatti che le anime dei bimbi morti senza battesimo siano dannate (su questo Agostino, come tutti sanno, non ha alcun dubbio), si tratta di spiegare per quale reatus meritino la condanna. Se ciò avviene a causa soltanto del peccato di Adamo, allora, nell’ipotesi creazionistica, Dio creerebbe ex novo le anime già colpevoli di un peccato altrui; ma questo come si può conciliare con la giustizia di Dio? Se invece le anime vengono create prive di colpa e la contraggono per un peccato proprio, quando mai possono aver peccato le anime dei bambini? Il problema è aggravato dal fatto che non solo la dannazione eterna dei bambini, ma anche le loro pene terrene diventano dificilmente giustiicabili. L’ipotesi di una compensazione ultraterrena, avanzata nel De libero arbitrio (III, 23.68), non risulta più percorribile nel caso dei bimbi morti senza battesimo. girolamo rispose di non aver tempo a disposizione per risolvere il problema. In attesa che eventualmente lo trovasse, Agostino tenne per sé la lettera; poi, dopo la morte di girolamo, si decise a pubblicarla con il titolo De origine animae147. Nel frattempo, un vescovo di nome Ottato era intervenuto sulla questione con una lettera ai colleghi della mauritania Cesariense, che capitò tra le mani di Agostino durante la missione a Cesarea nel 120 corso della quale incontrò il donatista Emerito148. Sollecitato indipendentemente da due monaci, Renato e muressi, Agostino scrisse a Ottato una lettera (la 190) invitandolo a sostenere pubblicamente l’ipotesi creazionistica solo se in grado di mostrare la sua compatibilità con la dottrina della trasmissione del peccato originale, ormai sancita da papa Zosimo; in caso contrario, Ottato avrebbe dovuto astenersi da qualsiasi pronunciamento su una materia tanto oscura. Il rischio che Agostino paventava era quello di avallare l’eresia pelagiana, la quale sposava il creazionismo per negare la trasmissione del peccato originale. Anche il traducianesimo, del resto, non era esente da pericoli, perché si prestava ad essere inteso in senso materialistico, come testimoniava il caso di Tertulliano; esso tuttavia, se non basato sull’erronea concezione dell’anima quale entità corporea, non era di per sé incompatibile con la fede in Dio creatore di tutti gli uomini, come Agostino cercò di spiegare a Ottato in un’altra lettera, la 202/A. Il vero problema è se Dio crei le anime degli uomini ex propagine o sine propagine, cioè se attraverso il processo riproduttivo di generazione in generazione oppure no; era questa l’alternativa in cui Agostino rimaneva incerto. non te spernat, qui pro nobis dignatus est sperni. quaero, ubi contraxerit anima reatum, quo trahitur in condemnationem etiam infantis morte praeuenti, si ei per sacramentum, quo etiam paruuli baptizantur, Christi gratia non subuenerit. 147 148 Cfr. ep. 169,4.13; 190,6.21; 202/A,1.1-2.6; retr. II,45. Il Sermo ad Caesariensis ecclesiae plebem fu pronunciato il 18 settembre 418; Agostino incontrò Emerito nella chiesa maggiore della città due giorni dopo. | Temi ilosoici nell’epistolario agostiniano | Tale incertezza, pubblicamente dichiarata nella lettera 190, dispiacque a un giovane cattolico ex rogatista, Vittore, che si faceva chiamare Vincenzo forse in omaggio al successore di Rogato149. Egli compose un’opera in due libri, dedicata a un prete spagnolo di nome Pietro, in cui criticava esplicitamente Agostino sia per la sua professione d’ignoranza circa l’origine delle anime sia per la sua affermazione che l’anima non è corpo ma spirito. Renato ne fece avere una copia al vescovo di Ippona, il quale reagì scrivendo i quattro libri De anima et eius origine, databili tra il 419 e il 420. La replica alle due critiche di Vittore si legge nel libro IV: l’ignoranza sull’origine delle anime non è dannosa per la fede; dannoso è invece affermare temerariamente una teoria, come quella creazionistica, senza essere capaci di mostrarne la congruenza con quanto la fede tiene per certo. Diverso è il caso dell’incorporeità dell’anima, che si può sostenere con argomenti sicuri mettendo in luce le assurdità in cui cade la tesi contraria. Sulla questione dell’origine delle anime Agostino non mutò più la sua posizione, come si evince da retr. I, 1.3150. Le lettere di Agostino concernenti l’origine dell’anima sono interessanti non solo perché aiutano a comprendere che la sua esitazione al riguardo si ispirava ad un esemplare rigore metodologico, ma anche perché elenca- 121 no le poche ma solide certezze che a proposito dell’anima egli era invece riuscito a raggiungere: a) l’anima è immortale151, ma la sua è un’immortalità sui generis, diversa da quella di Dio, il solo che possiede l’immortalità secondo 1Tm 6,16152; b) l’anima è una creatura, non una particella della 149 Cfr. nat. et or. III, 2.2. «Se [l’animo] derivi da quell’unico che fu creato all’inizio, quando l’uomo fu fatto in animam vivam (Gn 2,7), oppure se in modo simile ogni singolo animo sia fatto per ciascun singolo uomo, non lo sapevo allora [scrivendo il Contra Academicos] e non lo so ancora». 150 151 Cfr. ep. 3,4, dove si rinvia alla prova dell’immortalità dell’anima fornita nei Soliloquia, ed ep. 120,4.18, dove si afferma che la morte spirituale dei peccatori non comporta la morte isica delle loro anime, le quali infatti continuano a far vivere i rispettivi corpi. Rispondendo a Nettario, Agostino fa notare che l’immortalità dell’anima è stata compresa dai ilosoi chiamati da Cicerone “consolari”, i quali, diversamente dagli epicurei, pensano che alla morte dell’uomo l’anima non si estingua, ma emigri in luoghi in cui riceve la felicità come premio dei propri meriti o l’infelicità come castigo delle proprie colpe. Cfr. ep. 104,1.3 (CCL 31B, 38): At illi, quos Tullius quasi consulares philosophos appellat, quod eorum magni pendat auctoritatem, quoniam, cum extremum diem fungimur, non extingui animam sed emigrare censent, et ut merita quoque eius asserunt seu bona seu mala uel ad beatitudinem uel ad miseriam permanere. Hoc congruit et litteris sacris, quarum me cupio litteratorem. L’espressione consulares philosophi, che ricorre anche in c. Iul. IV,15.76, designa probabilmente Socrate e coloro che si richiamano al suo magistero, in particolare Platone: cfr. m. Ruch, «Consulares philosophi» chez Cicéron et chez saint Augustin, in REAug 5 (1959), pp. 99-102 e le osservazioni critiche di J. glucker, ‘Consulares philosophi’ again, in REAug 11 (1965), pp. 229-234. 152 Cfr. ep. 143,7; 166,2.3; 202/A,8.17. | G. Catapano | sostanza del Creatore153; c) non è corporea ma spirituale e superiore agli elementi materiali154; d) è caduta in peccato non a causa di Dio né per necessità della propria natura, bensì per volontà sua personale155; e) può essere liberata da questo corpo di morte solo in virtù della grazia di Dio per mezzo di Cristo156; f) se esce dal corpo, a qualsiasi età del corpo, senza la grazia del mediatore e il sacramento da lui istituito, è destinata alla pena eterna157; g) diventa iglia di Dio per adozione di grazia e non per eguale dignità di natura158; h) è dotata di ragione o intelligenza159. 3.4. Dio Il contributo maggiore delle lettere alla rilessione “ilosoica” di Agostino (nel senso spiegato all’inizio) su Dio concerne soprattutto due tematiche: il modo in cui Dio può essere visto e l’onnipresenza divina. Del primo tema parleremo nel § 5.3. Il secondo tema è oggetto speciico della lettera-trattato 187, ossia del De praesentia Dei160. Lo spunto qui è fornito da una richiesta di Dardano, alto funzionario imperiale161, il quale desiderava sapere in che modo gesù Cristo sia creduto essere in cielo, avendo 122 egli detto al buon ladrone sulla croce: Oggi con me sarai nel paradiso (Lc 23,43). Queste parole, risponde il vescovo di Ippona, sono più facilmente comprensibili se riferite non all’umanità di Cristo ma alla sua divinità. In quanto uomo, infatti, il giorno della sua morte Cristo si trovò con il corpo nel sepolcro e con l’anima negli inferi, mentre, in quanto Dio, egli era ed è onnipresente; «perciò, dovunque il paradiso si trovi, ogni beato che è lì, è lì con Colui che è dappertutto»162. Nel pensare l’onnipresenza di Dio, 153 Cfr. ep. 143,7; 166,2.3; 190,1.4. 154 Cfr. ep. 166,2.4; 190,1.4; 202/A,8.17; R.J. Teske, Saint Augustine on the Incorporeality of the Soul in Letter 166, in The Modern Schoolman 60 (1983), pp. 170-188. 155 Cfr. ep. 166,2.5. 156 Cfr. ibid. 157 Cfr. ibid. 158 Cfr. ep. 190,1.4. 159 Cfr. ep. 202/A,8.17. 160 Su questa lettera-libro, cfr. g.A. Juárez, Liber de praesentia Dei. Un libro-carta de San Agustín sobre la presencia de Dios en la creación, in Estudios trinitarios 37 (2003), pp. 49-71; Sant’Agostino, La presenza di Dio: lettera a Dardano, a cura di A. Trapè [PBA 42], Roma 2006. 161 Su di lui, cfr. F. Chatillon, Locus cui nomen Theopoli est…: essai sur dardanus, préfet du prétoir des Gaules au Ve siècle, correspondant de saint Jérôme et de saint Augustin, et sur sa formation de Théopolis, gap 1943 (estratto da Bulletin de la Société d’Etudes des Hautes-Alpes, 7a s., 62, 1943, pp. 29-151), Strasbourg 19902. 162 Ep. 187,3.7 (CSEL 57, 87): Vbicumque sit ergo paradisus, quisquis beatorum ibi est, cum illo ibi est, qui ubique est. | Temi ilosoici nell’epistolario agostiniano | spiega Agostino, bisogna respingere ogni rappresentazione corporea: Dio non è ovunque in modo tale da essere di più in una parte maggiore e di meno in una parte minore, ma è intero dappertutto; ed è intero dappertutto non come le qualità dei corpi, le quali esistono solo nei corpi stessi, ma in sé stesso (in se ipso ubique totus). Proprio per questo egli può abitare solo in alcuni e non in altri - nei bambini battezzati, ad esempio, e non nei “sapienti” pagani -, ed inabitare in alcuni di più e in altri di meno. Nell’uomo Cristo gesù, Dio abita in maniera unica, perché in pienezza e con un’unione ipostatica (una … persona cum verbo). Degni di nota sono i paragrai 11-14 e 18 della lettera, nei quali Agostino cerca di chiarire la modalità non corporea e non qualitativa dell’onnipresenza divina. già le qualità di un corpo sono presenti in esso secondo una modalità che è impossibile alle grandezze quantitative, cioè interamente in ogni parte del corpo. È il caso ad esempio della salute: in una mano sana, la salute nella mano tutta intera non è maggiore che in un dito, ma uguale. L’onnipresenza divina è di tipo ancora diverso. Dio, infatti, è sì diffuso dappertutto, come dice la stessa Scrittura163; Egli però non è una qualità del mondo, ma la sostanza creatrice del mondo stesso (substantia creatrix mundi), che lo regge senza fatica e lo contiene senza peso. Dio è 123 tutt’intero in ogni parte del mondo, senza essere contenuto da alcuna, ma essendo tutt’intero ovunque in sé stesso. È tutt’intero ovunque, perché in nessun luogo è assente; ed è tutt’intero in sé stesso, perché non è contenuto dalle cose in/a cui è presente, quasi che senza di esse non potesse esistere. Difatti, se togliessimo ai corpi le estensioni spaziali, essi non esisterebbero più in nessun luogo, e quindi non esisterebbero per nulla. Se poi togliessimo alle qualità dei corpi i corpi stessi, esse non avrebbero più una sede in cui esistere, e pertanto necessariamente non esisterebbero più. Le qualità, dunque, come la bianchezza o la salute, sono sì uguali in ogni parte del corpo come nell’intero, e quindi non sono costituite di massa; però, se viene sottratta del tutto la massa del corpo, le qualità non avranno più una sede in cui esistere. Dio invece non ha bisogno, per esistere, delle cose in cui è presente. Il Dio di Agostino è anche, ovviamente, il Dio cristiano, intorno al quale sono due le questioni principali affrontate di tanto in tanto nell’epistolario: la Trinità e l’Incarnazione. Il più delle volte esse sono associate: o in quanto si tratta di comprendere come si possa attribuire l’Incarnazione soltanto al Figlio stante il principio dell’inseparabilità delle Persone divine, come nella lettera 11 che abbiamo già incontrato164; o in quanto c’è da rimarcare la peculiarità dell’assunzione della natura umana da parte 163 Cfr. Ger 23,24; Sap 8,1; 1,7; Sal 139[138],7-8. 164 Vedi supra, § 3.1. | G. Catapano | del Figlio rispetto alle manifestazioni sensibili del Padre (voci dal cielo) e dello Spirito santo (colomba, lingue di fuoco ecc.), come nella lettera 169 a Evodio165; o in quanto la ragionevolezza della fede cristiana deve essere messa in evidenza davanti ai pagani per indurli a credere, come nella lettera 232 agli abitanti di madaura166. Altre volte i misteri della Trinità e dell’Incarnazione sono considerati separatamente, e ciò accade nella lettera 137 a Volusiano, dove l’Incarnazione viene difesa con argomenti di notevole spessore ilosoico167 e deinita con importanti formule teologiche, e nella lettera 160 di Evodio ad Agostino, nella quale si leggono rilessioni non prive di un certo interesse sul rapporto di coeternità tra la Ragione (il Figlio) e Dio. 4. Temi di ilosoia morale 4.1. La felicità e il sommo bene La ilosoia morale, ovvero l’etica, secondo Agostino ha per oggetto il bene supremo (summum bonum), quello in vista del quale viene ricer168 124 cato ogni altro bene e che, una volta ottenuto, rende felici . Trattandosi del ine ultimo dell’agire umano, questo tema è così importante che un grande erudito come Varrone considerava scuole davvero “ilosoiche” solo quelle che se ne occupassero169. Il sommo bene e la felicità (beata uita) che esso procura sono al centro di tre lettere dell’epistolario: la 118 a Dioscoro, la 130 a Proba e la 155 a macedonio. Sono lettere meritatamente note, le quali, anche se non aggiungono sostanzialmente nulla al pensiero morale consegnato alle opere maggiori di Agostino, hanno tuttavia il merito di esporne il caratteristico teocentrismo in modo particolarmente limpido170. 165 Da notare, nella medesima lettera, la sintetica esposizione della triade di memoria, intellegentia e uoluntas come similitudo dissimilis della Trinità (ep. 169,2.6). 166 Cfr. ep. 232,5-6. La lettera può essere datata nel periodo intermedio tra il decreto di Onorio del 15 novembre 407 contro il paganesimo e il sacco di Roma del 410: cfr. P. mastandrea, Massimo di Madauros, cit., pp. 81-88 e la recensione favorevole di J.-P. Bouhot in REAug 32 (1986), p. 305. 167 Uno dei quali susciterà un interrogativo in Evodio e la relativa risposta di Agostino (ep. 161-162). Sulla lettera 137, cfr. W. geerlings, Die Belehrung eines Heiden. Augustins Brief über Christus an Volusianus, in Aug(L) 41 (1991), pp. 451-468. 168 Cfr. civ. VIII,8. 169 Ibid., XIX,1. 170 Sul teocentrismo dell’etica agostiniana, cfr. C. Mayer, Die theozentrische Ethik Augustins, in CDios 200 (1987), pp. 233-245 (anche in C. Mayer - A. Eisgrub - G. Förster, a cura di, Augustinus - Ethik und Politik, Würzburg 2009, pp. 17-31). | Temi ilosoici nell’epistolario agostiniano | Della lettera 118 abbiamo già parlato sopra, nel § 2.3. La lettera 130, databile al 412171, è celebre per essere la più ampia trattazione dedicata da Agostino al tema della preghiera172. Il testo ruota attorno a due affermazioni di san Paolo173. La prima concerne la disposizione interiore con cui pregare e si trova in 1Tm 5,5-6: Colei che è veramente vedova ed è rimasta sola, ha messo la speranza in Dio e si consacra all’orazione e alla preghiera giorno e notte; al contrario, quella che si abbandona ai piaceri, anche se vive, è già morta. Il fatto che Proba si preoccupi di come pregare dimostra che ella appartiene alla prima categoria di vedove. Anche se non è “rimasta sola” in senso materiale, perché è madre di una famiglia numerosa e ha ricchezze in abbondanza, Proba deve tuttavia sentirsi sempre desolata spiritualmente, perché ricchezze e affetti in questa vita sono insicuri e solo nella vita futura si può trovare vera e deinitiva consolazione174. Questo concetto, sviluppato nei primi otto paragrai della lettera, rappresenta uno dei cardini della rilessione etica matura di Agostino: la vita felice non solo non coincide con il godimento della prosperità materiale (felicitas saeculi)175, ma non può realizzarsi in alcun modo se non dopo la morte, perché durante tutta la vita terrena l’uomo è in esilio lontano dal Signore, camminando nella fede e non ancora nella visione, secondo 125 le parole di 2Cor 5,6-7176. La prima chiara attestazione di questa dottrina nell’epistolario si trova nella lettera 55 a gennaro177. 171 Cfr. P.-m. Hombert, Nouvelles recherches..., cit., p. 250 n. 13. 172 Numerose sono le edizioni della lettera a Proba nelle varie lingue. In italiano, cfr. S. Agostino d’Ippona, La preghiera: epistola 130 a Proba. Introduzione, traduzione e note a cura di A. Cacciari, Roma 1982, 20092; Sant’Agostino, La preghiera: lettera a Proba e commento al Padre Nostro. Introduzione e note a cura di A. Trapè [PBA 22], Roma 1995. Sulla preghiera in Agostino, cfr. g. Antoni, La prière chez saint Augustin: d’une philosophie du langage à la théologie du Verbe, Paris 1997. 173 Cfr. A.-m. La Bonnardière, La lettre à Proba, in A.-m. La Bonnardière (a cura di), Saint Augustin et la Bible, Paris 1986, pp. 181-188. 174 I beni terreni, inoltre, di per sé non rendono buoni gli uomini che li possiedono, ma al contrario diventano davvero “beni” solo se sono usati bene da uomini che sono stati resi buoni da un’altra causa, la stessa che può renderli felici (cfr. ep. 130,2.3). 175 Di ciò Agostino era pienamente convinto già a Cassiciaco: cfr. ad es. sol. I,10.17; ep. 3,4. 176 A Cassiciaco Agostino invece riteneva possibile giungere alla conoscenza di Dio, e quindi alla sapienza beatiicante, già in questa vita: cfr. retr. I,2; 4.3. 177 Cfr. ep. 55,14.26. L’atteggiamento da tenere nei confronti della morte, e in particolare la tranquillità necessaria per vincerne il timore, sono oggetto della lettera 10 a Nebridio, sulla quale cfr. gli articoli di g. Folliet, «Deiicari in otio». Augustin, Epistula 10,2, in RechAug 2 (1962), pp. 225-236; Id., «In penetralibus mentis adorare Deum» (Augustin, Epistula 10,3), in Sacris erudiri 33 (1992-1993), pp. 125-133; R.J. Teske, Augustine’s Epistula 10: Another look at «deiicari in otio», in Aug 32 (1992), pp. 289-299 (ried. in Id., Augustine of Hippo: Philosopher, Exegete, and Theologian. A second collection of essays, Milwaukee, Wis. 2009, pp. 97-108). Il tema del rapporto tra otium e negotium è al centro della lettera 48 a | G. Catapano | La seconda affermazione dell’Apostolo su cui Agostino si basa nella lettera 130 riguarda ciò che si deve chiedere nella preghiera e si legge in Rm 8,26: non sappiamo infatti che cosa chiedere nella preghiera in modo conveniente. Queste parole, spiega Agostino, non signiicano che i cristiani non sappiano che cosa debbano chiedere a Dio, perché ciò in realtà è stato insegnato loro da Cristo con il “Padre nostro”. Ogni richiesta lecita a Dio è riconducibile alle domande di quella preghiera, anche se viene fatta con parole diverse. San Paolo invece vuol dire che, quando siamo provati da una tribolazione, non sappiamo se sia meglio per noi esserne liberati oppure sopportarla con pazienza per ottenere un bene maggiore. C’è qualcosa, comunque, che non sbagliamo mai a chiedere a Dio: è la vita felice, cioè «contemplare in eterno, immortali e incorruttibili nel corpo e nello spirito, il diletto del Signore»178. Sull’essenza della vita felice - argomento dei §§ 10-15 della lettera - i ilosoi hanno consumato il loro tempo e le loro intelligenze, ma tanto meno sono riusciti a trovare la felicità quanto meno hanno reso onore e grazie alla divina sorgente da cui essa promana. Persino quelli che hanno ilosofato senza rendere a Dio il culto dovuto, tuttavia, hanno respinto 126 a ragione l’opinione di chi pensa che sia felice chi vive secondo il suo volere. Agostino cita al riguardo, approvandolo pur senza fare il nome dell’autore, un passo dall’Hortensius di Cicerone (fr. 59a grilli) utilizzato anche in De beata vita 2.10 e in De Trinitate XIII, 5.8179. Quel vir eloquentissimus osservava che volere ciò che non si addice è cosa infelicissima, e che voler ottenere ciò che non è opportuno è cosa più infelice di non ottenere ciò che si vuole. Perciò, conclude Agostino, è felice chi non solo ha tutto ciò che vuole, ma anche non vuole nulla che non si addica. E queste condizioni sono necessarie, ma non suficienti. Ad esempio, volere la salute propria e dei propri cari è tutt’altro che sconveniente, ma è evidente che ottenerla non basta per essere felici. Alcune cose, come l’incolumità e l’amicizia, si desiderano per sé stesse; altre, come il suficiente per vivere, si desiderano in vista delle prime. Le une e le altre, però, devono essere riferite - direttamente le prime, indirettamente le seconde - alla vita eterEudossio e alla sua comunità monastica (su questa lettera, cfr. P. Artamendi, Acción y contemplación. Un carta de San Agustín a los monjes de la isla de Cabrera, in «Augustinus» 25 [1980], pp. 23-27). Per quanto riguarda il tema della morte, cfr. m.g. mara, Rilessioni sulla morte nell’epistolario agostiniano, in S. Felici (a cura di), Morte e immortalità nella catechesi dei Padri del III-IV secolo: Convegno di studio e aggiornamento, Facolta di Lettere Cristiane e Classiche (Pontiicium Institutum Altioris Latinitatis), Roma, 16-18 marzo 1984, Roma 1985, pp. 139-149. 178 Ep. 130,14.27 (CCL 31B, 233): Ipsa est enim una uera et sola beata uita, ut contemplemur domini delectationem in aeternum immortales atque incorruptibiles corpore et spiritu. 179 Cfr. m. Cutino, Per una interpretazione di Hort. fr. 59a Grilli, in Giornale italiano di ilologia 50 (1998), pp. 75-84. | Temi ilosoici nell’epistolario agostiniano | na, quella che è vissuta «con Dio e di Dio»180. La salute infatti è veramente piena quando è non solo del corpo ma anche dell’animo, e non è certo un animo sano quello che antepone le realtà temporali alle eterne. Il prossimo, poi, lo amiamo veramente quando amiamo noi stessi, ed è in Dio che amiamo davvero noi stessi, quando Lo amiamo per Sé stesso181. Coincidente con la vita eterna, la felicità non è possibile in questa vita se non nella speranza di quella futura e non può essere il frutto dei soli sforzi umani. Il tema della felicità come dono di Dio, dono che si realizza pienamente al di là dei limiti della condizione terrena, è sviluppato nella prima metà della lettera 155, che Pierre-marie Hombert ha datato al 415416182. Qui la polemica con i ilosoi privi del culto verace del vero Dio si fa più aspra. Il motivo per cui presso di loro non si trova l’autentica pietas è che «hanno voluto in un certo senso fabbricarsi da sé la vita felice e hanno pensato di doverla eseguire come un compito anziché conseguire come un dono (potiusque patrandam quam impetrandam putarunt), mentre il suo datore è solo Dio»183. È Dio, infatti, a donare a buoni e cattivi il fatto di essere e di essere uomini e di star bene, ed è sempre Lui a donare ai buoni Sé stesso perché siano felici, poiché anche la loro bontà è un dono suo184. Pretendendo invece di essere arteici della propria felicità nella fragilità di 127 questa vita grazie esclusivamente alle proprie virtù, i ilosoi criticati da Agostino sono incorsi nell’assurdo di affermare da un lato che il sapiente185 è felice anche nel toro di Falaride, e di prescrivere dall’altro il suicidio quando questa vita, che si pretende felice, si fa intollerabile. Il vescovo di Ippona fa riferimento, questa volta esplicitamente e senza approvazione, a un luogo delle Tusculanae di Cicerone186. 180 Ep. 130,7.14 (CCL 31B, 222): Ad illam ergo unam uitam, qua cum deo et de deo uiuitur, cetera, quae utiliter et decenter optantur, sine dubio referenda sunt. 181 Cfr. ep. 155,4.13; 15. Sul concetto agostiniano di felicità in rapporto alle teorie dei ilosoi antichi, cfr. W. Beierwaltes, Regio beatitudinis. Zu Augustins Begriff des Glücklichen Lebens [Sitzungsberichte der Heidelberger Akademie der Wissenschaften. Philosophischhistorische Klasse], Heidelberg 1981 (trad. it. Regio beatitudinis. Il concetto agostiniano di felicità, in Id., Agostino e il neoplatonismo cristiano, pp. 47-90). 182 Cfr. P.-m. Hombert, Nouvelles recherches..., cit., pp. 278-279. 183 Ep. 155,1.2 (CSEL 44, 431): De qua re etiam philosophi multa dixerunt; sed apud eos uera pietas, id est uerax ueri dei cultus, unde omnia recte uiuendi duci oportet oficia, non inuenitur non ob aliud, quantum intellego, nisi quia beatam uitam ipsi sibi quodam modo fabricare uoluerunt potiusque patrandam quam impetrandam putarunt, cum eius dator non sit nisi deus. 184 In ep. 153,5.12 Agostino aveva già spiegato a macedonio che Dio è buono in virtù di Sé stesso, l’uomo è buono in virtù di Dio. 185 La felicità infatti è possesso esclusivo del sapiente; uno stolto non può essere felice (cfr. ep. 3,1). 186 Cfr. ep. 155,1.3 e Cicerone, Tusc. V,38,110-41,118. | G. Catapano | Sulla critica dell’etica stoica torneremo infra nel § 4.3. Qui occorre sottolineare, all’interno della lettera 155, ancora due cose: in primo luogo, la dimensione della speranza come unico spazio in cui si possa fare esperienza della felicità quaggiù sulla terra e, in secondo luogo, l’analogia tra la condizione dei singoli individui umani e quella dei popoli. La speranza è tutta rivolta a Dio, perché è ad opera di Lui soltanto che l’uomo può essere liberato dai mali che lo afliggono e godere stabilmente di quel bene supremo che è Dio stesso. La speranza, che aiuta a sopportare le sofferenze e a gioire anticipatamente dei beni eterni, si fonda sulle promesse divine, le quali hanno trovato realizzazione e conferma nella risurrezione di Cristo. «Pertanto abìtuati, ti scongiuro, tu che sei un galantuomo, ad essere per ora felice nella speranza, per esserlo anche nella realtà quando alla devozione che avrà perseverato ino in fondo sarà data in cambio la ricompensa della felicità eterna»187. Ciò che vale per il singolo uomo, inine, vale anche per una civitas. La fonte della felicità infatti è la stessa per entrambi. Un popolo quindi non è felice per l’accumulazione di beni terreni o per le sue esclusive virtù, ma, 128 come dice il Salmo 144(143),15, quando ha per Signore il suo Dio. 4.2. Le virtù La lettera 155 è importante, oltre che per il tema della felicità, anche per quello della virtù, che gli è strettamente connesso188. La virtù è infatti, per tutto il pensiero ilosoico antico, una condizione necessaria della felicità. E come la fonte della felicità, per Agostino, è Dio, così Dio è, per lui, anche la fonte della virtù189. Vere virtù saranno solo quelle che conducono 187 Ep. 155,1.4 (CSEL 44, 435): Quare adsuesce, obsecro te, uir bone, beatus esse interim spe, ut sis etiam re, cum pietati perseuerantissimae retribuetur merces felicitatis aeternae. 188 Sul tema delle virtù in Agostino, cfr. ad es. g. Hök, Augustin und die antike Tugendlehre, in Kerygma und Dogma 6 (1960), pp. 104-130; g.S. Davis, The Structure and Function of the Virtues in the Moral Theology of St. Augustine, in Congresso Internazionale su S. Agostino nel XVI centenario della conversione (Roma, 15-20 settembre 1986). Atti, vol. 3 [SEA 26], Roma 1987, pp. 9-18; J. Doignon, La problématique des quatre vertus dans les premiers traités de Saint Augustin, in m. Fabris (a cura di), L’umanesimo di sant’Agostino. Atti del Congresso internazionale (Bari, 28-30 ottobre 1986), Bari 1988, pp. 169-191; J. Wetzel, Augustine and the Limits of Virtue, Cambridge 1992; A. Sánchez de la Torre, Las virtudes cívicas en el pensamiento de San Agustín de Hipona, in RAg 34 (1993), pp. 831-885; Ch. Horn, Augustinus über Tugend, Moralität und das höchste Gut, in Th. Fuhrer - m. Erler - K. Schlapbach (a cura di), Zur Rezeption der hellenistischen Philosophie in der Spätantike. Akten der 1. Tagung der Karl-und-Gertrud-AbelStiftung vom 22. - 25. September 1997 in Trier, Stuttgart 1999, pp. 173-190; g.J. Lavere, Virtù, in A.D. Fitzgerald, cit., pp. 1454-1457; J.I. Sánchez gordillo, La virtud y el orden del amor en La ciudad de Dios de san Agustín, in «Augustinus» 51 (2006), pp. 123-186. 189 Cfr. ep. 155,1.2 (CSEL 44, 431-432): Illi uero, qui in hac aerumnosa uita, in his moribundis | Temi ilosoici nell’epistolario agostiniano | alla vera felicità, ossia alla vita eterna, e questo sia a livello personale sia a livello comunitario190. Le virtù di una persona insignita di un’alta carica civile, come macedonio, non saranno dunque autentiche se indirizzate unicamente a garantire la sicurezza e la prosperità dei cittadini e ad evitare loro dei fastidi materiali, senza preoccuparsi di quale sia il ine al quale essi riferiscono la quies terrena, «cioè, per non girare intorno con le parole, in che modo essi rendano culto al Dio vero, dove c’è tutto il frutto di una vita tranquilla»191. Se invece macedonio provvederà alla securitas politica con spirito religioso192, allora le sue virtù saranno vere, e la generosità di Colui che membris, sub hac sarcina corruptibilis carnis auctores suae beatae uitae et quasi conditores esse uoluerunt uelut propriis eam uirtutibus appetentes iamque retinentes, non ab illo fonte uirtutum petentes atque sperantes, deum superbiae suae resistentem sentire minime potuerunt; 155,2.6 (CSEL 44, 437): Abiciamus itaque, obsecro te, falsorum philosophorum uanitates et insanias mendaces, quia nec uirtus nobis erit, nisi adsit ipse, quo iuuemur, nec beatitudo, nisi adsit ipse, quo fruamur, et totum mutabile atque corruptibile nostrum, quod per se ipsum inbecillum et quaedam materies miseriarum est, dono inmortalitatis atque incorruptionis absorbeat. 190 Comportamenti virtuosi tenuti senza riferirli al «ine della retta e vera devozione», e motivati invece dal desiderio di lode e di gloria, come quelli degli antichi ilosoi pagani, sono sterili e vani: cfr. ep. 164,2.4. Sul tema delle “virtù” dei pagani, cfr. la letteratura citata in Sant’Agostino, La giustizia, a cura di g. Catapano [PBA 38], Roma 2004, p. 14 n. 43, alla quale si aggiungano i titoli seguenti: Ch. Tornau, Does Augustine Accept Pagan Virtue? The Place of Book 5 in the Argument of the City of God, in F. Young - M. Edwards - P. Parvis (a cura di), StPatr, vol. 43: Papers presented at the Fourteenth International Conference on Patristic Studies held in Oxford 2003, Leuven-Paris-Dudley, MA 2006, pp. 263-275; Id., Zwischen Rhetorik und Philosophie, pp. 294-340; B. Harding, Augustine and Roman Virtue, London-New York 2008; B. gaul, Augustine on the Virtues of the Pagans, in AugStud 40 (2009), pp. 233-249. 191 Ep. 155,3.10 (CSEL 44, 440-441): Si quaelibet, inquam, administratio tua illis, quas commemoraui, instructa uirtutibus hoc intentionis ine determinatur, ut homines secundum carnem nullas iniquas molestias patiantur, nec ad te existimas pertinere, quo istam quietem, quam praestare niteris, referant, id est, ut uerbis non ambiam, quo modo deum uerum, ubi est quietae uitae omnis fructus, colant, nihil tibi prodest ad uitam uere beatam tantus labor. 192 Ossia, in altre parole, se le sue virtù politiche saranno ispirate e sorrette da quelle teologali: cfr. R. Dodaro, Political and Theological Virtues in Augustine, Letter 155 to Macedonius, in Aug(L) 54 (2004), pp. 431-474. È merito di R. Dodaro aver pienamente valorizzato l’importanza delle lettere indirizzate da Agostino a pubblici uficiali per la ricostruzione del suo pensiero etico-politico. Cfr. R. Dodaro, Political Ethics in the Letters of Augustine to Public Oficials, Roma 2004; Christ and the Just Society in the Thought of Augustine, Cambridge 2004; I fondamenti teologici del pensiero politico agostiniano: le virtù teologali dello statista come ponte tra le due città, in Etica & Politica 9/2 (2007), pp. 38-45; Augustine and the Possibility of Political Conscience, in C. Mayer (a cura di), Augustinus - Ethik und Politik, pp. 223-241. Uno dei temi affrontati nelle lettere è quello della pace e dell’uso delle armi: cfr. la lettera 189 a Bonifacio e la 229 a Dario e, su di esse, I.I. Ica, «Supprimons les guerres par la parole, et non les hommes, et obtenons la paix par la paix, non par la guerre». La paix et la guerre à la lumière des dernières lettres du bienheureux Augustin, in Mitropolia Ardealului Bucuresti 30 (1985), pp. 41-58 (in rumeno); F. Ruggiero, I volti della pace nell’Epistolario di Agostino d’Ippona, in Rivista di teologia morale 32 (2000), pp. 449-455. Un capitolo a sé, che qui non affronto, è quello relativo alla coercizione religiosa nei confronti di pagani, donatisti ed eretici, un 129 | G. Catapano | gliele ha donate farà sì che esse crescano a perfezione sino a condurlo alla vita felice, quella eterna. Lassù non vi sarà che una sola virtù, perché le condizioni di esercizio delle quattro virtù tradizionali (a noi meglio note come “cardinali”) saranno venute meno, e la virtù sarà identica al suo premio, consistendo in nient’altro che nell’adesione indefettibile a Dio193. Tale sapienza piena e perenne che allora si realizzerà potrà anche essere chiamata, se si vuole, con i nomi delle quattro virtù: «prudenza, perché aderirà al Bene con la massima cura per non lasciarselo sfuggire; fortezza, perché aderirà al Bene con la massima fermezza per non esserne strappata via; temperanza, perché aderirà al Bene con la massima castità per non corrompersi; giustizia, perché aderirà al Bene con la massima rettitudine per restarvi giustamente sottomessa»194. 130 tema molto studiato e discusso per l’analisi del quale l’epistolario offre un abbondante materiale, con lettere quali la 93 e la 185 (il De correctione Donatistarum). La letteratura su questo argomento è ricca; ecco qui di seguito una selezione di titoli: R. Joly, Saint Augustin et l’intolérance religieuse, in Revue Belge de philologie et d’histoire 33 (1955), pp. 263-294 (ried. J. Dunn - I. Harris, a cura di, Augustine [great Political Thinkers 3], vol. 1, Cheltenham, UK - Lyme, US 1997, pp. 268-299); P. Brown, St. Augustine’s Attitude to Religious Coercion, in Journal of Roman Studies 54 (1964), pp. 107-116 (ried. in id., Religion and Society in the Age of St. Augustine, New York 1972 [trad. it. Torino 1975], 260-278, e in J. Dunn - I. Harris, 382391); é. Lamirande, Church, State and Toleration. An Intriguing Change of Mind in Augustine, Villanova, Pa. 1975; Id., Coercitio, in AL, vol. 1 (1986-1994), pp. 1038-1046; W.H.C. Frend, Augustine and State Authority. The Example of the Donatists, in Agostino d’Ippona: Quaestiones disputatae. Palermo, 3-4 dicembre 1987, Palermo 1989, pp. 49-73 (ried. in Id., Orthodoxy, Paganism and Dissent in the Early Christian Centuries, Aldershot etc. 2002); W. geerlings, Foris inveniatur necessitas, nascitur intus uoluntas. Augustins Rechtfertigung des Zwangs, in N. Klimek (a cura di), Universalität und Toleranz. Der Anspruch des christlichen Glaubens, Essen 1989, pp. 41-47 (ried. in G. Röwekamp, a cura di, Fußnoten zu Augustinus. Gesammelte Schriften W. Geerlings, Turnhout 2010, pp. 149-162); m. Spanneut, Saint Augustin et la violence, in Studia moralia 28 (1990), pp. 79-113; K.H. Chelius, Compelle intrare, in AL, vol. 1 (1986-1994), pp. 1084-1085; P. Cazier, Le compelle intrare d’Augustin, mise en perspective, in P. Cazier - J.-m. Delmaire (a cura di), Violence et Religion: colloque décembre 1996, Lille 1998, pp. 15-39; D.X. Burt, Friendly Persuasion: Augustine on Religious Toleration, in American Catholic Philosophical Quarterly 74 (2000), pp. 63-76; Ch. Horn, Augustinus über politische Ethik und legitime Staatsgewalt, in Th. Fuhrer (a cura di), Die christlich-philosophischen Diskurse der Spätantike: Texte, Personen, Institutionen, Freiburg i.Br. 2008, pp. 123-142 (anche in C. Mayer - G. Förster, a cura di, Augustinus - Recht und Gewalt. Beiträge des V. Würzburger Augustinus-Studientages am 15./16. Juni 2007. Mit einer kommentierten Quellensammlung zur Richtertätigkeit Augustins, Würzburg 2010, pp. 49-72); m.A. gaumer - A. Dupont, Donatist North Africa and the Beginning of Religious Coercion by Christians: A New Analysis, in CDios 223 (2010), pp. 445-466. 193 Sul destino escatologico delle virtù, cfr. mus. VI,16.50-55; en. Ps. 83,11; Gn. litt. XII,26.54; trin. XIV,9.12; civ. XIX,27 e m. Becker, Augustinus über die Tugenden in Zeit und Ewigkeit, in W. Blümer - R. Henke - m. mülke (a cura di), Aluarium. Festschrift für Ch. Gnilka, münster Westfalen 2002, pp. 53-63. 194 Ep. 155,3.12 (CSEL 44, 443): Dicatur haec et prudentia, quia prospectissime adhaerebit bono, quod non amittatur, et fortitudo, quia irmissime adhaerebit bono, unde non auellatur, et | Temi ilosoici nell’epistolario agostiniano | D’altra parte, anche in questa vita la virtù si riassume nell’amare ciò che si deve amare: «sceglierlo è prudenza, non lasciarsi distogliere da esso da alcun fastidio è fortezza, da alcun allettamento è temperanza, da alcuna superbia è giustizia»195. grazie a queste virtù, concesse da Dio all’uomo per mezzo della grazia di Cristo mediatore, si conduce quaggiù una vita buona e si è ripagati lassù con quella felice, la quale, ripete Agostino quasi come un ritornello, non può essere che eterna. «Qui infatti le medesime virtù sono in atto, lì in effetto; qui in opera, lì in ricompensa; qui in dovere, lì in ine»196. Due altre lettere offrono una rilessione articolata sulle virtù: la 167 e la 171/A. La lettera 167 è una lettera-libro, come tale recensita nelle Retractationes (II,45) e nota come De sententia apostoli Iacobi197. Risale al 415. Agostino chiede a girolamo di fornirgli o indicargli la spiegazione di Iac. 2,10 (Poiché chiunque osservi tutta la Legge, ma la trasgredisca anche in un punto solo, diventa colpevole di tutto). La questione esegetica offre ad Agostino lo spunto per sviluppare alcune rilessioni su due teorie ilosoiche concernenti le virtù e i peccati. La prima teoria, che per comodità qui chiameremo TIV, è quella dell’inseparabilità delle virtù. Essa afferma che chi ha una sola virtù, le ha tutte, e 131 chi non ne ha una sola, non ne ha nessuna. TIV, se è vera, conferma la frase di giacomo, anche se di per sé questa non ha bisogno di essere confermata ed è anzi ben più ferma di tutte le auctoritates dei ilosoi. Comunque, TIV è piaciuta a tutti i ilosoi198. Da essa occorre distinguere una seconda teoria, quella della parità di tutti i peccati (TPP), che solo gli stoici hanno osato difendere contro il buon senso. Agostino sa che girolamo ha confutato temperantia, quia castissime adhaerebit bono, ubi non corrumpatur, et iustitia, quia rectissime adhaerebit bono, cui merito subiciatur. 195 Ep. 155,4.13 (CSEL 44, 443): Quamquam et in hac uita uirtus non est nisi diligere, quod diligendum est; id eligere prudentia est, nullis inde auerti molestiis fortitudo est, nullis inlecebris temperantia est, nulla superbia iustitia est. 196 Ep. 155,4.16 (CSEL 44, 446): Hic enim sunt eaedem uirtutes in actu, ibi in effectu, hic in opere, ibi in mercede, hic in oficio, ibi in ine. Su di essa, cfr. g. menestrina, L’Epistola 167 “de sententia Iacobi apostoli” (Giac. 2, 10) di Sant’Agostino, in Bibbia e Oriente 20 (1978), pp. 43-49. In generale, sull’interpretazione agostiniana della Lettera di Giacomo, cfr. Th.g. Ring, Der Jakobusbrief im Schrifttum des heiligen Augustinus, Würzburg 2003. 197 198 In effetti la teoria dell’implicazione reciproca (¢ntakolouq…a) delle virtù, pur essendo tipicamente stoica, era condivisa da peripatetici e platonici; questi ultimi potevano farla risalire a Platone, Protag. 329 C sgg. Cfr. H.-J. Horn, Antakoluthie der Tugenden und Einheit Gottes, in Jahrbuch für Antike und Christentum 13 (1970), pp. 5-28, e il mio commento a Plotino, enn. I 2, 7,1, in Plotino, Sulle virtù: I 2 [19], Pisa 2006, pp. 191-192. Per quanto riguarda la posizione di Agostino, cfr. J.P. Langan, Augustine on the Unity and the Interconnection of the Virtues, in Harvard Theological Review 72 (1979), pp. 81-95. | G. Catapano | TPP nel trattato contro gioviniano sulla base delle sacre Scritture199. Al vescovo di Ippona preme mostrare, con argomenti razionali, che l’eventuale verità di TIV non costringe affatto ad ammettere anche TPP. I ilosoi, dice Agostino, sembrano avere buone ragioni per sostenere TIV200. Prendiamo ad esempio la prudenza. Sembra chiaro che essa non può essere né ignava né ingiusta né intemperante, perché, se fosse una di queste cose, non sarebbe prudenza. Quindi, dove c’è prudenza, lì ci sono anche le altre virtù. Lo stesso si può ripetere della fortezza, della temperanza e della giustizia. Dunque, dove una di queste virtù è vera, vi sono parimenti le altre; dove invece le altre mancano, quella non è vera, anche se in qualche modo sembra essere simile alla vera. Per capire come vi possano essere false virtù che assomigliano alle vere occorre considerare con attenzione i vizi. Ci sono infatti non solo vizi palesemente contrari alle virtù, come l’ignavia rispetto alla fortezza, ma anche vizi che sono contrari alle virtù soltanto in quanto vizi, e tuttavia simili ad esse per una sembianza ingannevole, come, sempre nel caso della fortezza, la durezza (duritia). La capacità di sopportazione di cui era dotato Catilina era solo apparentemente fortezza, perché non era accompagnata 132 da prudenza (dato che egli sceglieva cose cattive al posto di quelle buone) né da temperanza (in quanto egli si macchiava di turpissime depravazioni) né inine da giustizia (visto che aveva congiurato contro la patria), e quindi non era fortezza ma durezza. Poiché a un’unica virtù solitamente si oppongono due vizi, quello apertamente contrario e quello apparentemente simile, non sembra si possa ammettere che anch’essi, come le virtù, siano inseparabili. Nell’esempio di Catilina, è facile capire che la sua non era fortezza ma durezza, perché non era accompagnata dalle altre virtù, ma non è facile credere che quella di Catilina fosse ignavia; lo si potrebbe forse comprendere considerando che egli aveva trascurato la fatica dei buoni studi. In ogni caso, i vizi sono più delle virtù, come si vede dal fatto che temerità e paurosità sono diverse (nel senso che vi sono temerari che non sono paurosi e paurosi a cui manca la temerità) ed entrambe sono vizi, opposti alla fortezza. Talvolta un vizio è tolto o annullato da un altro, come l’amore del denaro dall’amore della lode; talvolta uno solo se ne va per lasciare il posto a più d’uno, come nel caso di un ubriacone che impari a bere con moderazione sia per tenacitas (spilorceria) che per ambizione. I vizi, pertanto, possono far posto ad altri vizi e non a virtù, e per questo sono di più. Invece, dove 199 La conoscenza dell’etica stoica da parte di girolamo è testimoniata anche dalla lettera 75 dell’epistolario agostiniano, dove egli menziona la teoria delle azioni “indifferenti”, ossia né buone né cattive, che era tipica dello stoicismo (cfr. ep. 75,4.16 e la replica di Agostino in ep. 82,2.13). 200 Cfr. ep. 167,2.5-9. | Temi ilosoici nell’epistolario agostiniano | subentra una virtù, poiché questa porta con sé tutte le altre, sembra sia necessario che se ne vadano tutti i vizi. Nonostante queste considerazioni, Agostino ritiene che la tenuta di TIV vada esaminata con più cura201. Si tratta infatti di una teoria la cui origine non è divina ma umana, ilosoica. Prendiamo allora il caso di un marito o una moglie fedeli al coniuge per fedeltà al comandamento di non commettere adulterio. Non si può dire che lui o lei non abbiano pudicizia né che questa non sia una virtù. Tanti coniugi sono in tali condizioni, eppure nessuno di loro può dirsi davvero senza alcun peccato. Siccome però ogni peccato viene da qualche vizio, bisogna concludere che la pudicizia coniugale, pur essendo senza dubbio una virtù, non ha con sé tutte le altre virtù. Se infatti vi fossero tutte, non vi sarebbe alcun vizio, e quindi alcun peccato. ma chi, domanda retoricamente Agostino, è senza peccato? Chi dunque è senza alcun vizio? Agostino porta un altro esempio, ancor più signiicativo. Tanti servi di Cristo confessano, e veracemente, di essere nel peccato (habere peccatum). Di essi non si può dire che non abbiano alcuna virtù, perché hanno la sapienza, in quanto hanno la devozione (cfr. Gb 28,28 sec. LXX), il culto di Dio202, e quindi la carità, che è una grande e vera virtù. Come mai allora 133 non diciamo che chi ha questa virtù le ha tutte, dato che, paolinamente (Rm 13,10), pienezza della Legge è la carità? Forse la risposta è che, quanto più la carità è nell’uomo, tanto più egli è dotato di virtù; quanto meno la carità è presente in un essere umano, invece, tanto meno in esso è presente la virtù, poiché la carità stessa è la virtù, e quanto meno è presente la virtù, tanto più è presente il vizio. Solo quando la carità sarà piena e perfetta, dunque, non resterà nulla proveniente dal vizio. Non vale qui il famoso paragone stoico tra la stoltezza e l’acqua da un lato e la sapienza e l’aria dall’altro, mirante a negare che chi progredisce verso la sapienza possieda in qualche modo la sapienza, così come chi si è immerso nell’acqua non arriva a respirare ino a quando non abbia raggiunto l’aria203. Al paragone stoico Agostino oppone una similitudine tratta dalle Scritture, quella della stoltezza con le tenebre e della sapienza con la luce. Dalle tenebre alla luce, infatti, si passa progressivamente (come quando - celebre allegoria platonica! - uno esce da una caverna). Fuor di metafora, ciò vuol dire che quaggiù nessuno vive senza peccato, ma uno pecca di più e uno di meno, e il migliore è chi vive con il minimo di peccato. In ultima analisi, pertanto, TIV sembra doversi respingere. Tuttavia, 201 Cfr. ep. 167,3.10-13. 202 Cfr. ep. 155,2.5 (CSEL 44, 435): Haec [scil. sapientia] est autem in praesenti saeculo uerus ueri dei cultus, ut sit eius in futuro saeculo certus atque integer fructus; hic constantissima pietas, ibi sempiterna felicitas. 203 Cfr. SVF III, 530 = Cic. in. III, 14,48. | G. Catapano | anche ammettendola - ed è questo che Agostino vuole sottolineare - non ne seguirebbe TPP, «perché, dove non vi è alcuna virtù, certo non vi è nulla di retto, ma non per questo una cosa non è più perversa e storta di un’altra»204. Agostino conclude riassumendo la sua opinione nei termini seguenti205. In maniera simile a quanto già fatto nella lettera 155, egli deinisce la virtù come la carità con cui si ama ciò che si deve amare. Questa in alcuni è più grande, in altri più piccola, in altri ancora inesistente, in nessuno pienissima durante la vita terrena. Finché la carità può essere aumentata (ossia inché si vive quaggiù), il fatto che sia meno di quel che dovrebbe viene dal vizio. La frase di Iac. 2,10 può intendersi così: chi trasgredisce la Legge anche in punto solo, diventa colpevole di tutto perché agisce contro la carità, da cui dipende tutta la Legge. E il motivo per cui i peccati non devono dirsi pari può essere che agisce di più contro la carità chi pecca in modo più grave, di meno chi in modo più leggero. La lettera 171/A al medico massimo, per la quale non si è ancora riusciti a proporre una datazione probabile, è di notevole interesse. Vi troviamo infatti una descrizione in sette passi o gradini di quel cammino graduale verso la sapienza la cui rilevanza morale abbiano visto difesa nella lettera 134 167 contro gli stoici. A ogni «grado della vita buona»206 viene fatta corrispondere una delle beatitudini del vangelo di matteo. Si comincia così dal pio timor di Dio di chi è povero in spirito, per arrivare su su ino alla visione della Trinità da parte dei puri di cuore. Nelle ultime righe della lettera, alle quattro virtù della tradizione ilosoica (prudenza, fortezza, temperanza e giustizia) vengono sommate le tre virtù paoline (fede, speranza e carità), per un totale appunto di sette, anche se non si parla di un ordine ascendente delle virtù. 4.3. La critica dell’etica stoica Abbiamo visto che nella lettera 167 Agostino manifesta un atteggiamento possibilista, anche se alla ine critico, nei confronti della teoria dell’implicazione reciproca delle virtù, attribuita a tutti i ilosoi senza eccezioni, mentre si schiera decisamente contro la teoria della parità dei peccati, propria esclusivamente dello stoicismo. Quest’ultima costituisce uno dei tre bersagli della polemica contro l’etica della Stoa condotta da 204 Ep. 167,4.14 (CSEL 44, 601): Sed quia de peccatorum parilitate, unde in id, quod agebam, incidit quaestio, examinandam tibi sententiam meam promere statueram, iam eam tandem aliquando concludam, quia, etsi uerum est eum, qui habet unam, omnes habere uirtutes, eum, qui unam non habet, nullam habere, nec sic peccata sunt paria, quia, ubi uirtus nulla est, nihil quidem rectum est nec tamen ideo non est prauo prauius distortoque distortius. 205 Cfr. ep. 167,4.15-5.17. 206 Ep. 171/A,2 (CSEL 44, 634): …bonae uitae gradibus. | Temi ilosoici nell’epistolario agostiniano | Agostino nelle lettere, insieme alla giustiicazione del suicidio e all’esaltazione della virtù come conquista dell’animo umano suficiente a rendere felici207. Dell’avversione di Agostino verso la pretesa di costruire da sé la propria felicità, e della contraddizione che egli mette in evidenza tra questa pretesa e la teorizzazione del suicidio del sapiente, abbiamo già detto nel § 4.1 a proposito dell’ep. 155; vediamo ora più in dettaglio i suoi argomenti contro la teoria della parità dei peccati (TPP), sviluppati nel corso dello scambio epistolare con Nettario. Nettario si era rivolto al vescovo di Ippona (ep. 90) chiedendogli di intercedere per i concittadini di Calama, macchiatisi di un reato punibile piuttosto severamente dalle leggi pubbliche, afinché gli innocenti non fossero coinvolti nella punizione e fossero risparmiate le pene corporali (supplicia). Agostino aveva risposto (ep. 91) ricostruendo il fatto (un’aggressione pagana alla comunità cristiana, con danni alla chiesa e un morto, nella più totale latitanza degli altri cittadini e delle autorità) e deducendone che, tra i cittadini di Calama, bisognava distinguere non gli innocenti dai colpevoli, ma i meno colpevoli, con i quali si poteva essere indulgenti, dai più colpevoli, per i quali invece una punizione era doverosa; anche per questi ultimi, tuttavia, Agostino riteneva che si dovessero salvaguar- 135 dare l’incolumità isica e il possesso dei beni necessari per vivere, non però dei beni utilizzati per vivere male. Al che Nettario aveva replicato richiamandosi alla TPP e concludendo, in base ad essa, che l’indulgenza doveva essere concessa a tutti: «Per quanto riguarda la misura dei peccati, non conta di che sorta appaia il peccato per il quale si chiede indulgenza. […] se, come sostengono certi ilosoi, tutti i peccati sono pari, l’indulgenza dev’essere comune a tutti. Uno ha parlato in modo un po’ troppo sfacciato? Ha peccato. Ha lanciato insulti o accuse? Ha peccato ugualmente (aeque). Qualcuno ha rotto cose altrui? Ciò sia annoverato tra i delitti. Ha violato luoghi profani o sacri? Non va escluso dall’indulgenza»208. La controreplica di Agostino su questo punto è severa e ironica al tempo stesso209. Seguire l’opinione dei ilosoi per cui tutti i peccati sono pari signiica percorrere non una via diversa (diversam) da quella cristiana per giungere alla stessa meta, la patria celeste, ma una via perversa (perver- Sulla critica dello stoicismo da parte di Agostino, cfr. I. Gobry, La critique augustinienne du stoïcisme, in Diotima 20 (1992), pp. 115-121; N.J. Torchia, St. Augustine’s Critique of the adiaphora: a Key Component of his Rebuttal of Stoic Ethics, in Studia moralia 38 (2000), pp. 165-195. 207 208 Ep. 103,3 (CCL 31B, 35-36): Petulantius locutus est aliquis, peccauit; conuicia aut crimina ingessit, aeque peccauit; aliena quisquam diripuit, inter delicta numeratur; loca profana sacraue uiolauit, non est ab indulgentia secernendus. 209 Cfr. ep. 104,4.13-17. | G. Catapano | sam), che porta al più dannoso degli errori. gli esempi proposti da Nettario non provano affatto la TPP e sono privi di giustiicazione razionale. Spetta a Nettario l’onus probandi di dimostrare che lanciare insulti o accuse non sia un peccato più grave di parlare sfacciatamente. Quanto al rompere cose altrui, serve a poco affermare che dev’essere considerato un delitto. La questione infatti è se sia o no una colpa maggiore di quella precedentemente menzionata; «oppure, se la ragione per cui sono pari è che sono entrambe delitti, allora saranno pari anche i topi e gli elefanti, perché sono entrambi animali, o le mosche e le aquile, perché sono entrambi volatili»210. Se inine Nettario vuole chiedere indulgenza anche per i profanatori, allora deve appellarsi alla misericordia cristiana, non ai paradossi degli stoici. Per gli stoici, infatti, la misericordia è un vizio, e in quanto tale essa non può trovare spazio nell’animo del sapiente. Se dunque tutti i peccati sono pari e il sapiente è freddo e inlessibile, allora il risultato coerente dell’etica stoica, in questo caso, sarebbe quello di punire tutti i cittadini di Calama nel modo più severo!211 136 4.4. La patria e lo Stato Il carteggio con Nettario è interessante anche per un altro aspetto, ossia per il rilievo che in esso acquista il tema delle due patrie, quella terrena e quella celeste. Nettario infatti aveva chiesto l’intercessione di Agostino per i concittadini di Calama motivandola con il proprio amor di patria (caritas patriae), l’unico amore che superi persino quello per i genitori e che non conosca misura né limite. La dilectio et gratia civitatis cresce di giorno in giorno, e quanto più ci si avvicina alla ine della vita, tanto più essa fa desiderare di lasciare la patria in condizioni di incolumità e loridezza (ep. 90). Questa dichiarazione d’amore per la città in cui Nettario è nato e alla quale ha reso grandi servigi offre ad Agostino lo spunto per esortare il suo corrispondente, non ancora cristiano, a diventare un cittadino della patria celeste e a perfezionare così il suo stesso amore per la sua patria di quaggiù212. Questa sarà davvero iorente, come Nettario la vuole, solo quando sarà parte di quella di lassù, e di certo non potrà esserlo inché i delitti in essa compiuti resteranno impuniti. gli stessi libri De re publica di 210 Ep. 104,4.14 (CCL 31B, 46): Non autem ibi quaestio est, utrum et hoc inter delicta numeretur, sed utrum hoc illi delicto aequalitate iungatur, aut si propterea sunt paria, quia utraque delicta sunt, mures et elephanti pares erunt, quia utraque sunt animalia, muscae et aquilae, quia utraque uolatilia. 211 L’esito fallimentare dei paradossi dell’etica stoica sul piano pratico è un tema che i latini istruiti dovevano ben conoscere anche grazie alle satire di Orazio: Quis paria esse fere placuit peccata, laborant / cum uentum ad uerum est: sensus moresque repugnant / atque ipsa utilitas, iusti prope mater et aequi (I,3, 96-98, ed. F. Villeneuve). 212 Cfr. ep. 91,1-6. | Temi ilosoici nell’epistolario agostiniano | Cicerone, che hanno ispirato a Nettario l’idea che per i buoni non vi sia modus né inis nel provvedere alla patria213, possono fargli capire che è il cristianesimo, e non il politeismo, a giovare alla civitas. Cicerone infatti elogia la frugalità, la continenza, la fedeltà al vincolo coniugale, la purezza e l’onestà, tutti costumi insegnati e imparati nelle chiese cristiane, e messi invece in pericolo dalla sconcezza delle rappresentazioni pubbliche delle divinità romane. Nettario capisce che l’altra patria di cui gli sta parlando Agostino non è racchiusa da una cerchia di mura e non coincide nemmeno con il mondo, secondo il cosmopolitismo dei ilosoi, ma è quella abitata «dal grande Dio e dalle anime che hanno ben meritato di Lui, quella che tutte le leggi cercano di raggiungere per diverse vie e sentieri, quella che non possiamo esprimere a parole, ma possiamo forse trovare con il pensiero»214. Nettario non si lascia sfuggire neppure il richiamo al De re publica ciceroniano, e con un’allusione al Somnium Scipionis motiva ulteriormente l’amore per la patria terrena con la prospettiva della dimora celeste preparata per i benemeriti della città natale. Nettario sembra però non aver colto il punto essenziale dell’invito di Agostino, che infatti lo ribadisce nella sua risposta215. L’amore per la pa- 137 tria terrena non diminuisce, ma al contrario aumenta grazie all’amore per la patria celeste. Non si tratta quindi di impegnarsi di meno per la propria città, ma di impegnarsi meglio, preoccupandosi anzitutto della povertà morale dei propri concittadini più che di quella materiale, e provvedendo non soltanto ai loro beni terreni ma anche e soprattutto a quelli celesti, per ottenere i quali la correzione può giovare più dell’impunità. Quanto all’affermazione che tutte le leggi cercano di raggiungere per vie e sentieri diversi la patria celeste, essa può considerarsi vera, però non implica che ogni via conduca effettivamente alla meta. Una sola è la via che porta alla patria superna, ed è Cristo. Che la pratica della religione cristiana fosse il modo migliore di giovare alla patria216 era però un concetto tutt’altro che ovvio per la cultura del tempo, e anzi era destinato a diventare oggetto di aperte contestazioni specialmente dopo il sacco di Roma del 410, sino a provocare, come 213 Cfr. F. Solmsen, Neglected Evidence for Cicero’s De re publica, in Museum Helueticum 13 (1956), pp. 38-53. 214 Ep. 103,2 (CCL 31B, 34): Non enim illam mihi ciuitatem dicere uidebare, quam muralis aliquis gyrus cohercet, nec illam quam philosophorum tractatus mundanam memorans communem omnibus proitetur, sed quam magnus deus et uere meritae in ea animae habitant atque incolunt, quam omnes leges diuersis uiis et tramitibus appetunt, quam loquendo exprimere non possumus, cogitando forsitan inuenire possimus. 215 Cfr. ep. 104,1.4; 3.10-4.13. 216 Anche militarmente: cfr. la lettera 189 a Bonifacio. | G. Catapano | si sa, il grandioso intervento apologetico di Agostino concretizzatosi nel De civitate Dei. L’informativa di marcellino sulle obiezioni sollevate nel cosiddetto “circolo di Volusiano” a proposito della compatibilità tra etica cristiana e rei publicae mores (ep. 136,2) e le risposte di Agostino, prima in breve a Volusiano (ep. 137, 5.20) e poi più ampiamente allo stesso marcellino (ep. 138, 2.9-15)217, sono troppo note per essere ripetute qui. È questo uno dei casi in cui l’epistolario fornisce un contributo insostituibile per far luce sulla genesi di opere di straordinaria importanza ilosoica quali il De civitate Dei218. È singolare che, mentre un pagano come Nettario non riteneva religiosamente lecito (fas) per un vescovo se non «impartire salvezza agli uomini e intervenire ai processi a favore di una condizione migliore»219, un cristiano come macedonio nutriva invece forti dubbi sul fatto che intercedere per gli imputati fosse per il vescovo un dovere derivante dalla religio220. 217 Cfr. anche ep. 138,3.16-4.19, dove l’ultimo paragrafo riguarda Apuleio. 218 138 Cfr. g. Visonà, Il De civitate Dei e l’epistolario di Agostino, in Lettura del De civitate Dei libri I-X. Lectio Augustini XV-XVI-XVII. Settimana Agostiniana Pavese (1999-2001) [SEA 86], Roma 2003, pp. 7-32. Sulla nozione di civitas politica nell’epistolario e nel De civitate Dei, cfr. F.m.T. Ramos, A ideia de Estado na doutrina etico-politica de Santo Agostinho: um estudo do epistolario comparado com o De civitate Dei, Sao Paulo 1984; Id., La idea de Estado en San Agustín a la luz de su epistolario, in Organización de Agustinos de Latinoamerica, San Agustín y la liberación: relexiones desde Latinoamerica, Lima 1986, pp. 295-316; Id., A “ciuitas” politica de Agostinho. Uma leitura a partir do Epistolario e do A ciudade de Deu, in Leopoldianum 15 (1988), pp. 13-32. 219 Ep. 90 (CCL 31A, 153): Sed episcopum fas non est nisi salutem hominibus impertire, et pro statu meliore causis adesse, et apud omnipotentem deum ueniam aliorum mereri delictis. Cfr. ep. 152,2. L’effettivo inlusso dei vescovi nordafricani sull’amministrazione imperiale della giustizia doveva essere comunque piuttosto ridotto: cfr. P.I. Kaufman, Augustine, Macedonius, and the Courts, in AugStud 34 (2003), pp. 67-82. Sul modo in cui Agostino stesso concepiva la propria attività di giudice nell’ambito dell’episcopalis audientia, e più in generale sulla sua azione “politica” come vescovo, cfr. K.K. Raikas, The State juridical dimension in the ofice of a bishop and the Letter 153 of St. Augustine to Vicarius Africae Macedonius, in Vescovi e pastori in epoca teodosiana. XXV Incontro di studiosi dell’antichità cristiana, Roma, 8-11 maggio 1996 [SEA 58], vol. 2, Roma 1997, pp. 683-694 (ried. in Id., Die sozial-rechtliche Funktion des Bischofsamtes bei Augustin. Fünf Untersuchungen zur sozialen und rechtlichen Funktion Augustins in seinem Bischofsamt, Joensuu 2001); R. Dodaro, Between the Two Cities: Political Action in Augustine of Hippo, in J. Doody - K.L. Hughes - K. Paffenroth (a cura di), Augustine and Politics, Lanham, md. 2005, pp. 99-115; E.-m. Kuhn, Justice Applied by the Episcopal Arbitrator: Augustine and the Implementation of Divine Justice, in Etica & Politica 9/2 (2007), pp. 71-104 (versione tedesca Rechtsprechung durch den Bischofsrichter. Augustin und die Umsetzung der göttlichen Gerechtigkeit in der Praxis, in J. Hellebrand, a cura di, Augustinus als Richter, Würzburg 2009, pp. 106-155). Sullo scambio epistolare con macedonio, e in generale con l’élite sociale e culturale dell’epoca, cfr. anche é. Rebillard, Augustin et le rituel épistolaire de l’élite sociale et culturelle de son temps. éléments pour une analyse processuelle des relations de l’évêque et de la cité dans l’Antiquité tardive, in é. Rebillard - C. Sotinel (a cura di), L’évêque dans la cité du IVe au Ve siècle. Image et autorité. Actes de la table ronde organisée par l’Istituto Patristico Augustinianum et l’école française de Rome (Rome, Ier et 2 220 | Temi ilosoici nell’epistolario agostiniano | I peccati, chiedeva macedonio, non sono forse proibiti da Dio al punto tale che, dopo la prima volta, non viene neppure concessa la possibilità di pentirsi? La risposta del vescovo di Ippona a macedonio consiste in una delle lettere a mio giudizio più belle dell’epistolario, la 153, che è anche un prezioso documento dell’atteggiamento cristiano verso la pena di morte221. I vescovi che intercedono per i colpevoli, spiega Agostino, non approvano affatto i crimini e nemmeno desiderano che restino impuniti. I vescovi anzi detestano le colpe, ma per il motivo che queste corrompono la natura di chi le commette, una natura che, essendo stata creata da Dio, è in sé buona. Bisogna perseguire il reato afinché il reo si corregga. Ma solo in questa vita è possibile correggersi; perciò la pena di morte toglie al reo tale opportunità e lo consegna senza scampo alla condanna eterna. L’intercessione dei vescovi non ha altro scopo che concedere al reo una chance di ravvedimento. Così insegna a fare Dio stesso, che fa sorgere il suo sole sopra i giusti e sopra gli ingiusti, senza distinzione, pur non equiparando affatto gli uni agli altri. Dalla pazienza di Dio impariamo che la possibilità di emendarsi dev’essere concessa sempre di fronte a una dichiarazione di pentimento: sempre, senza eccezioni, anche se non si hanno 139 sicure garanzie di successo e anche se il soggetto è recidivo. Chiedendo questa possibilità, i vescovi non intendono svolgere il ruolo di difensori, non vogliono trovare attenuanti o giustiicazioni per i reati commessi; essi intervengono solo quando la colpa è accertata e il reo si mostra pentito, al ine di allontanare o mitigare la pena. Con ciò Agostino non vuole assolutamente disconoscere la legittimità e l’utilità del potere e dell’apparato giudiziari, e neanche la funzione deterrente della pena di morte. La severità nel punire è anzi espressione di misericordia, quando mira alla correzione di chi ha sbagliato. La morte del colpevole, tuttavia, fa venir meno il ruolo correttivo e rieducativo che la pena dovrebbe sempre possedere. Certo, può capitare che un pentito graziato torni poi a macchiarsi di altri crimini, o che qualcuno tragga dalla clemenza verso un colpevole un incentivo a delinquere con la speranza di non essere punito, ma tali aberrazioni non sono imputabili all’intercessione dei vescovi. È poi chiaro che, anche se uno non viene condannato décembre 1995), Roma 1998, 127-152; m. moreau, Le magistrat et l’évêque. Pour une lecture de la correspondance Macedonius-Augustin, in B. Colombat - P. mattei (a cura di), Curiosité historique et intérêts philologiques. Hommage à S. Lancel, grenoble 1998, pp. 105-117. 221 Riprendo qui quanto ho scritto nell’Introduzione a Sant’Agostino, La giustizia, cit., pp. 29-30. Sul tema della pena di morte, cfr. ora anche Ph.m. Thompson, Augustine and the Death Penalty: Justice as the Balance of Mercy and Judgment, in AugStud 40 (2009), pp. 181203. L’argomento è oggetto della monograia di N. Blázquez Fernández, La pena de muerte según San Agustín, madrid 1975. | G. Catapano | alla pena capitale, deve tuttavia restituire ciò di cui si sia illecitamente impossessato: «Se infatti non si restituisce la roba altrui per la quale si è peccato, quando può essere restituita, non si prova pentimento, ma lo si inge»222. 4.5. L’amicizia La rassegna dei temi ilosoico-morali nell’epistolario agostiniano non sarebbe completa senza menzionare quello dell’amicizia. Su 206 occorrenze del lemma amicitia nelle opere di Agostino, ben 39 sono contenute nelle lettere; nessun’altra opera ne contiene un così alto numero. Il dato non sorprende, se si tiene conto del fatto che spesso le lettere hanno per destinatari persone che Agostino sente o vorrebbe avere per amiche. L’apporto delle lettere alla concezione agostiniana dell’amicizia è di primaria importanza223, e in quanto tale è già stato fatto oggetto di studi appositi224. Qui mi limiterò a ricordare l’unica lettera interamente dedicata a questo tema, la 258, che è anche il solo testo di una certa ampiezza che Agostino abbia mai riservato alla rilessione de amicitia. 140 Sulla data della lettera 258 esistono pareri differenti. Secondo alcuni essa precede, secondo altri segue l’ordinazione episcopale di Agostino225. La lettera è indirizzata a un certo marciano, un amico di vecchia data (forse un collega di insegnamento o di studi) di cui Agostino ha saputo l’in- 222 Ep. 153,6.20 (CSEL 44, 419): Si enim res aliena, propter quam peccatum est, cum reddi possit, non redditur, non agitur paenitentia, sed ingitur. 223 Lo si può percepire semplicemente sfogliando le antologie dedicate a questo tema: cfr. Agostino di Ippona, L’amicizia cristiana. Antologia dalle opere e altri testi di Ambrogio di Milano, Gerolamo e Paolino di Nola, a cura di L.F. Pizzolato, con un saggio di m. Pellegrino, Torino 1973; Sant’Agostino, L’amicizia. Pagine antologiche, a cura di R. Piccolomini [PBA 20], Roma 1994. 224 Cfr. specialmente V. Nolte, Augustins Freundschaftsideal in seinen Briefen. Unter Hereinbeziehung seine Jugendfreundschaften gemäss den philosophischen Schriften und den Confessionen, Würzburg 1939; D. Pagliacci, Amicizia e vita morale. Una rilettura delle Lettere di S. Agostino, in Annali della Facoltà di Lettere e Filosoia. Università degli Studi di Perugia 27-28 (1989/1990-1990/1991), pp. 303-314. Tutti gli studi sulla concezione agostiniana dell’amicizia, comunque, prendono in considerazione anche l’epistolario. Oltre alla classica monograia di M.A. McNamara, Friendship in Saint Augustine, Fribourg Suisse 1958 (trad. it. L’amicizia in sant’Agostino, milano 1970), cfr., tra i titoli più recenti, J.T. Lienhard, Amicizia, amici, in A.D. Fitzgerald, cit., pp. 174-175; m.m. Brito martins, Amicitia nostra uera ac sempiterna erit. As fontes de amizade spiritual em Agostinho de Hipona, in Revista Portuguesa de Filosoia 64 (2008), pp. 209-240; g. Catapano, Consensio, beniuolentia, caritas: Agostino e i tre elementi dell’idea ciceroniana di amicizia, in Bollettino della Società ilosoica italiana, n.s. 195 (2008), pp. 29-41; J.-F. Petit, Saint Augustin et l’amitié, Paris 2008. 225 Vedi lo stato della questione in g. Catapano, “Consensio, beniuolentia, caritas”..., cit., p. 30 n. 8. | Temi ilosoici nell’epistolario agostiniano | tenzione di ricevere il battesimo, e intende comunicargli un solo, semplice messaggio: soltanto ora che condividono entrambi la fede in Cristo, i due possono dirsi veramente amici226. La spiegazione di questa affermazione un po’ paradossale si basa sulla deinizione di amicizia data da Cicerone227: l’amicizia è l’accordo sulle cose umane e divine unito a benevolenza e affetto228. marciano aveva favorito le ambizioni mondane di Agostino prima della conversione, e dopo di questa aveva continuato a desiderare per lui salute e prosperità terrena, aborrendo però quelle realtà divine che Agostino aveva cominciato a gustare. La consensio tra loro, circoscritta dapprima alle res humanae, era quindi venuta a mancare anche su queste, poiché Agostino ormai ne aveva ridimensionato il valore in confronto al divino. «Accade così che, tra amici tra cui non esiste un accordo sulle cose divine, neppure quello sulle cose umane può essere pieno e vero. È infatti necessario che stimi le cose umane diversamente da com’è opportuno chi disprezza le divine, e che non sappia amare rettamente l’uomo chiunque non ami Colui che ha fatto l’uomo»229. Con questa argomentazione Agostino non si limita a dire che il disaccordo sul divino implica il disaccordo sull’umano, ma aggiunge implici- 141 tamente che, afinché si dia un’amicizia vera, anche la consensio dev’essere tale, nel senso che deve realizzarsi intorno a contenuti oggettivamente veri. L’accordo infatti è sì necessario, ma non suficiente per l’amicizia, in quanto deve accompagnarsi alla benevolenza e all’affetto. Ora, si può amare l’amico nel modo corretto e si può volere il suo vero bene, solo se si sa dare alle cose umane il giusto peso, e ciò a sua volta è possibile solo alla luce della verità divina. Prima di conoscere quest’ultima, marciano non era un vero amico di Agostino: non lo era quando desiderava per lui beni che Agostino oramai sapeva incapaci di renderlo felice (allora il loro disaccordo era totale), ma non lo era neppure quando assecondava le brame con cui in realtà Agostino danneggiava se stesso: «Neppure io, allora, ero amico di me stesso, ma piuttosto nemico. Amavo 226 Cfr. S. Poque, Rélexion d’Augustin sur la conversion de son ami Marcianus (Ep. 258), in Aug 27 (1987), pp. 297-301. 227 Cfr. Cicerone, Laelius 6,20 (ed. R. Combès, Collections des universités de France, p. 14): Est enim amicitia nihil aliud nisi omnium diuinarum humanarumque rerum cum beniuolentia et caritate consensio. 228 Riprendo qui alcuni passaggi del mio articolo “Consensio, beniuolentia, caritas”..., cit., pp. 31-32. Ep. 258,2 (CSEL 57, 607): Ita it, ut, inter quos amicos non est rerum consensio diuinarum, nec humanarum esse plena possit ac uera. Necesse est enim, ut aliter, quam oportet, humana aestimet, qui diuina contemnit, nec hominem recte diligere nouerit, quisquis eum non diligit, qui hominem fecit. 229 | G. Catapano | infatti l’iniquità; ed è vera, perché divina, quella massima per cui è stato scritto nei Libri divini: Chi ama l’iniquità, odia la sua anima230. Se dunque io odiavo la mia anima, come potevo avere per vero amico uno che mi augurava cose in cui proprio io subivo me stesso come nemico?»231. Spingendo Agostino nella direzione sbagliata, marciano faceva il suo male anziché il suo bene: potremmo dire che, pur essendogli amico sinceramente (soggettivamente), non lo era veramente (oggettivamente). Partendo da una deinizione classica e inserendola nel nuovo orizzonte della religione cristiana, Agostino riesce così a ripensare originalmente il concetto di amicizia e a metterne in luce ulteriori, profonde implicazioni. 5. Temi di ilosoia razionale 5.1. I sensi e l’intelligenza In un universo come quello agostiniano, in cui gli esseri si dividono in sensibili e intelligibili - corporei gli uni, incorporei gli altri, i primi inferiori ai secondi e dipendenti da essi (vedi supra § 3.1) -, la distinzione tra 142 la conoscenza propria dei sensi232 e quella che appartiene all’intelletto è di capitale importanza e il rapporto tra i due modi di conoscenza rilette quello che sussiste tra i rispettivi oggetti233. Le lettere più ricche di spunti al riguardo sono quelle scritte a Nebridio e la 147 a Paolina, alle quali occorre aggiungere un signiicativo passaggio della 137 a Volusiano. Un primo concetto che si incontra leggendo queste parti dell’epistolario è la superiorità dell’intelligenza sui sensi. Essa si basa sul primato ontologico dell’intelligibile sul sensibile: «La mente, e più precisamente l’intelligenza (mentem atque intellegentiam), è migliore degli occhi e di questa vista ordinaria. La cosa non starebbe 230 Ps. 11(10),6 nella versione latina utilizzata da Agostino. 231 Ep. 258,3 (CSEL 57, 607-608): Nolo autem suscenseas nec tibi uideatur absurdum, quod illo tempore, cum in uana mundi huius aestuarem, quamuis me multum amare uidereris, nondum eras amicus meus, quando nec ipse mihi amicus eram sed potius inimicus. Diligebam quippe iniquitatem et uera, quia diuina, sententia est, qua scriptum est in sanctis libris: Qui autem diligit iniquitatem, odit animam suam. Cum ergo odissem animam meam, uerum amicum quo modo habere poteram ea mihi optantem, in quibus ipse me ipsum patiebar inimicum? 232 Per la precisione quelli che Agostino chiama sensus corporis o sensus carnis, ossia i cinque sensi, per distinguerli dal sensus mentis, ossia dalla «facoltà razionale e discriminante, propria dell’uomo» (G. O’Daly, La ilosoia della mente, cit., p. 118). 233 Sul tema della visione mentale e sulle ambiguità della sua versione “uficiale” in Agostino, cfr. R.J. Teske, Augustine of Hippo on Seeing with the Eyes of the Mind, in C.J.N. de Paulo - P. messina - m. Stier (a cura di), Ambiguity in the Western Mind, New York 2005, pp. 72-87; 221-226 (ried. in R.J. Teske, Augustine of Hippo: Philosopher, Exegete, and Theologian, pp. 77-95). | Temi ilosoici nell’epistolario agostiniano | così, se le cose che comprendiamo con l’intelletto (intellegimus) non possedessero un grado d’essere maggiore (magis essent) di queste [sensibili] che scorgiamo»234. Una prova della preferibilità degli occhi interiori o del cuore rispetto a quegli esteriori o della carne, è il fatto che i primi sono giudici dei secondi, nel senso che la differenza stessa tra gli uni e gli altri non si coglie che con gli occhi mentali, ai quali gli occhi corporei sottopongono quanto vedono come fanno i servi che informano i loro padroni235. Inoltre, «le cose osservate con la mente non hanno bisogno di alcun senso del corpo per essere conosciute come vere da noi, mentre quelle che sono viste mediante il corpo non possono diventare il contenuto di alcuna conoscenza senza l’assistenza della mente che le accolga quando tali cose vengono annunciate»236. La conoscenza intellettuale è dunque autonoma dai sensi, mentre quella sensibile non produce scienza senza l’intervento della mente. Parafrasando un famoso detto di Kant, si potrebbe affermare che, per Agostino, le sensazioni senza i concetti sono davvero cieche, ma i concetti senza le sensazioni non sono affatto vuoti. Anzi, per essere nitida, la visione mentale deve scacciare le nubi che 143 provengono dai sensi, ossia le immagini dei corpi percepiti che vengono immagazzinate nella memoria e che, a causa della consuetudo carnalis vitae, si affollano davanti gli occhi interiori disturbandone l’operato237. Da questo punto di vista, i sensi si oppongono all’intelligenza e ad essi «bisogna resistere con tutte le forze dell’animo»238, compito che richiede un grande ingegno, come diceva Cicerone239. Ciò vale quando si tratta di conoscere realtà che non sono in alcun modo percepibili con la vista, l’udito, l’olfatto, il gusto o il tatto, ossia che non sono corporee e non sono collocate nello spazio; è il caso ad esempio delle facoltà o degli atti della mente stessa, quali la volontà, il pensiero, la memoria, l’intelligenza, la conoscenza e la fede240. 234 Ep. 4,2 (CCL 31, 10): Nam plerumque perturbatos et sensibilium plagarum curis refertos illa tibi notissima ratiuncula in respiratione leuat, mentem atque intellegentiam oculis et hoc uulgari aspectu esse meliorem. Quod ita non esset, nisi magis essent illa quae intellegimus, quam ista quae cernimus. 235 Cfr. ep. 147,17.41. 236 Ep. 147,16.38 (CSEL 44, 312): Et ea, quae mente conspiciuntur, non indigent ullo corporis sensu, ut ea uera esse nouerimus; quae autem per corpus uidentur, nisi mens adsit, quae talia nuntiata suscipiat, nulla possunt scientia contineri. 237 Cfr. ep. 147,17.42; vedi infra, § 5.2. 238 Ep. 3,4 (CCL 31, 8): Resistendum ergo sensibus totis animi uiribus liquet. Cfr. anche il testo citato infra nella nota 262. 239 Cfr. Tusc. disp. I,16,38, brano citato in ep. 137,2.5. 240 Cfr. ep. 147,1.3-6. | G. Catapano | Nella lettera 13, tuttavia, Agostino sembra ammettere che almeno in un caso l’atto di comprendere (intellegere) avvenga con il contributo dei sensi. Discutendo dell’eventuale esistenza del “veicolo” dell’anima241, egli osserva in un primo momento che una simile realtà, non essendo di genere intelligibile, non si può comprendere (intellegi); su di essa si potrebbe esprimere un parere verosimile, se almeno non sfuggisse ai sensi, ma siccome non riusciamo a percepirla, non ci restano che opinioni campate per aria. A questo ragionamento Agostino fa seguire una possibile obiezione da parte di Nebridio. L’amico potrebbe infatti affermare che, benché i corpi non possano essere conosciuti con certezza (percipi)242, è tuttavia possibile avere una conoscenza certa, di ordine intelligibile, circa molte cose che li riguardano, come ad esempio la loro stessa esistenza. Così, nonostante il corpo di per sé sia soltanto “verosimile”243 e di natura sensibile, il fatto che esista è verissimo ed è intelligibile. La replica di Agostino a tale considerazione parte dalla distinzione di due modalità attraverso le quali si attua l’intellegere. Ciò che chiamiamo “comprendere” si produce in noi in due modi: o in virtù della mente e della ragione stessa per sé sola, internamente, come 144 quando comprendiamo che esiste l’intelletto stesso; oppure in virtù di un avvertimento (admonitione) da parte dei sensi, come il caso già citato, quando comprendiamo che esiste il corpo. Di questi due generi, il primo avviene mediante noi stessi, ossia consultando Dio a proposito di ciò che è presso di noi, il secondo invece concerne ciò che è annunciato dal corpo e dal senso, e che ciò nondimeno comprendiamo consultando Dio244. Questa distinzione mira a concludere che potremmo comprendere l’esistenza del veicolo dell’anima, che sarebbe un corpo, soltanto nella seconda modalità di intellegere, vale a dire solo a condizione che i sensi ci annunciassero qualcosa al riguardo, condizione che in realtà non si veriica. È comunque interessante che Agostino riconosca ai sensi la capacità di fornire informazioni, o meglio stimoli245, utili a suscitare un atto di 241 Vedi supra, § 3.3. 242 Sull’accezione tecnica del verbo percipere in teoria della conoscenza, cfr. la mia Introduzione a Agostino, Contro gli Accademici [Testi a fronte 92], milano 2005, pp. 26-32; per la sua traduzione in italiano con l’espressione “conoscere con certezza”, cfr. ibid., pp. 79-80. 243 Il corpo infatti possiede una forma che “imita” quella intelligibile, di cui è copia: cfr. sol. II,18.32; Acad. III,17.37; 18.40. 244 Ep. 13,4 (CCL 31, 32): Hoc si dices, ueniat in mentem illud quod intellegere appellamus duobus modis in nobis ieri: aut ipsa per se mente atque ratione intrinsecus, ut cum intellegimus esse ipsum intellectum; aut admonitione a sensibus, ut id quod iam dictum est, cum intellegimus esse corpus. In quibus duobus generibus illud primum per nos, id est de eo quod apud nos est deum consulendo, hoc autem secundum de eo quod a corpore sensuque nuntiatur, nihilominus deum consulendo intellegimus. 245 Cfr. ep. 6,2 (Nebridio ad Agostino): … noster animus intellectualis ad intellegibilia sua | Temi ilosoici nell’epistolario agostiniano | comprensione intellettuale che altrimenti sarebbe impossibile. Certe cose relative ai corpi, insomma, diventano intelligibili solo sulla base di una previa esperienza sensibile. Va inine notato che tanto la comprensione intellettuale di realtà interne alla mente quanto quella di realtà esterne richiede la “consultazione” di Dio, ossia il rivolgersi alla Verità, che abita nell’uomo interiore, per esserne illuminati246. Il potere meraviglioso dei sensi è oggetto di una rilessione che Agostino propone a Volusiano nella lettera 137. Chi trova incredibile che il Verbo di Dio si sia incarnato senza abbandonare il governo dell’universo, riletta sul fatto che anche la nostra anima fa qualcosa di sorprendente quando compiamo atti apparentemente semplici come vedere o udire. Noi uomini infatti non possiamo avere percezioni sensibili (sentire) se non da vivi, e viviamo nella carne, prima che la morte separi l’anima dal corpo. La percezione sensibile è dunque possibile solo quando l’anima è unita al corpo, eppure con la vista o con l’udito percepiamo cose che sono al di fuori del corpo, poste anche a grandissima distanza da esso come le stelle. E poiché percepiamo le cose proprio lì dove si trovano, cioè lontano da noi, la conclusione paradossale cha sembra doversi trarre è che l’anima «o vive, e per questo anche è o sente, anche lì dove non vive [ossia fuori dal 145 corpo], oppure vive anche dove non è»247. Nessuno dei due corni di questa conclusione si può affermare sine quadam uelut absurditate. Se dunque l’anima è capace di un atto apparentemente inspiegabile come il percepire sensibilmente, essendo unita al corpo, oggetti che sono lontani dal corpo, perché negare all’onnipotenza di Dio la possibilità che il Verbo abbia assunto un corpo umano senza abbandonare nulla della propria divinità? Il carattere paradossale della percezione qui è enfatizzato in funzione di un chiaro motivo apologetico; va osservato però che già nel De quantitate animae, in un contesto scevro di tali preoccupazioni, Agostino aveva messo in evidenza il potere dell’anima di far subire agli occhi un’affezione (passio) visiva in un luogo diverso da quello in cui gli occhi si trovano248. uidenda a sensu admonetur potius quam aliquid accipit (CCL 31, 13-14). 246 Vedi infra, § 5.4. 247 Ep. 137,2.6 (CCL 31B, 260-261): Visus auditusque afferunt mirabilem quaestionem, aut quomodo anima sentiat, ubi non uiuit, aut quomodo uiuat, ubi non est. Neque enim nisi in carne sua est; sentit autem etiam praeter carnem suam. Ibi quippe sentit, ubi uidet, quia et uidere sentire est; ibi sentit, ubi audit, quia et audire sentire est. Aut ergo et ibi uiuit ac per hoc etiam ibi est aut sentit, et ubi non uiuit, aut uiuit, et ubi non est. Haec omnia mira sunt; nihil horum afirmari sine quadam uelut absurditate potest et de sensu loquimur morticino. 248 Cfr. an. quant. 30.60. | G. Catapano | 5.2. Immaginazione e memoria Un tema sul quale l’epistolario apporta un contributo ilosoico originale e molto interessante è quello dell’immaginazione e del suo rapporto con la memoria249. Anche in questo caso si deve soprattutto alla curiosità intellettuale e all’acume di Nebridio il merito di aver sollecitato Agostino a mettere per iscritto rilessioni che non è dato trovare, in maniera tanto esplicita, nel resto, pur così ampio, delle sue opere. Nella lettera 6, infatti, Nebridio sottopone all’amico una sua tesi e una sua ipotesi250. La tesi (t) è che, «per quanto non ogni fantasia (phantasia) sia accompagnata da un ricordo (memoria), nessun ricordo può essere senza una fantasia»251. L’ipotesi (i) invece è che «la fantasia possieda tutte le immagini (imagines) da sé piuttosto che dai sensi»252. Il termine phantasia, come si vede, assume un signiicato diverso in t e in i: in i designa la facoltà dell’immaginazione253, in t un certo suo atto o prodotto o contenuto, ossia una di quelle che i chiama imagines254. Vediamo più da vicino gli argomenti di Nebridio e la replica di Agostino nella lettera 7255. 146 Sul tema delle immagini psichiche e dell’immaginazione in Agostino, cfr. G. O’Daly, La ilosoia della mente, cit., pp. 137-164; J.-L. Solère, Les images psychiques selon S. Augustin, in D. Lories - L. Rizzerio (a cura di), De la phantasia à l’imagination, Louvain-Namur-ParisDudley, Mass. 2003, pp. 103-136; Ch. Pietsch, Imaginatio(nes), in AL, vol. 3 (2004-), pp. 504507: I. Bochet, Imago, ibid., pp. 507-519; T. Breyfogle, Immaginazione, in A.D. Fitzgerald, cit., pp. 819-822. Sul tema della memoria, cfr. la recente monograia di B. Cillerai, La memoria come capacitas Dei secondo Agostino. Unità e complessità, Pisa 2008 e la bibliograia ivi citata. 249 250 Chiamo la prima “tesi” perché è introdotta dalle parole: Mihi … ita uidetur quod etc., ed è difesa da una possibile obiezione, mentre chiamo la seconda “ipotesi” perché è formulata in termini interrogativi (Cur, quaeso te, non etc.) e più ipotetici, appunto (Potest etc. … Nam forte inde contingit ut etc.). 251 Ep. 6,1 (CCL 31, 13): Mihi enim ita uidetur quod, quamuis non omnis phantasia cum memoria sit, omnis tamen memoria sine phantasia esse non possit. 252 Ep. 6,2 (CCL 31, 13): Cur, quaeso te, non a se potius quam a sensu phantasiam habere omnes imagines dicumus? 253 Come nell’ep. 8 dello stesso Nebridio, dove phantasia equivale chiaramente a phantasticum, ossia alla facoltà immaginativa (corrispondente al greco tÕ fantastikÒn). 254 Così interpreta lo stesso Agostino in ep. 7,1 (CCL 31, 15): Memoria tibi uidetur nulla esse posse sine imaginibus uel imaginariis uisis, quae phantasiarum nomine appellare uoluisti. 255 Le due lettere sono state studiate recentemente da E. Bermon, che ha messo in luce da un lato la dipendenza di Nebridio da fonti ilosoiche neoplatoniche (Plotino e Poririo, i quali a loro volta si riferivano ad alcune affermazioni e tesi aristoteliche), e dall’altro lato l’originalità di Agostino rispetto al neoplatonismo, con il netto riiuto da parte del nostro autore di attribuire alle immagini un qualunque ruolo positivo nella formazione della conoscenza. Cfr. E. Bermon, Un échange entre Augustin et Nebridius sur la phantasia (Lettre 6-7), in Archives de philosophie 72 (2009), pp. 199-223. Sulla lettera 7, cfr. anche R.J. O’Connell, Pre-Existence in Augustine’s Seventh Letter, in REAug 15 (1969), pp. 67-73; g. O’Daly, Memory in Plotinus and two early texts of St. Augustine, in StPatr, vol. 14, Berlin 1976, | Temi ilosoici nell’epistolario agostiniano | Nebridio osserva che Agostino potrebbe obiettare a t con un controesempio, cioè con il fatto che noi ricordiamo di aver compreso (intellexisse) oppure pensato (cogitasse) qualcosa. L’obiezione presuppone che il comprendere e il pensare siano atti non rappresentabili per immagini e che quindi il loro ricordo non possa essere associato a fantasie partorite dall’immaginazione. Nebridio ritiene di poter superare la dificoltà osservando che il motivo per cui intellegere e cogitare sono atti ricordabili è proprio il fatto che, quando li compiamo, generiamo in noi qualcosa di corporeo e temporale, ossia qualcosa che fa parte degli oggetti della phantasia (intesa questa volta come facoltà)256. Questo corporeum ac temporale aliquid può essere di ordine linguistico, ossia essere costituito da parole (uerba) che noi associamo alla nostra intellezione e ai nostri pensieri - parole che si esplicano necessariamente nel tempo e diventano quindi oggetto del senso o dell’immaginazione -, oppure può essere di ordine isico, un’affezione subita dalla nostra intellezione o dal pensiero e tale da poter produrre una traccia mnemonica nella parte immaginativa dell’animo (in animo phantastico)257. 147 pp. 461-469 (ried. in Id., Platonism Pagan and Christian. Studies in Plotinus and Augustine, Aldershot-Burlington USA-Singapore-Sidney 2001); Id., Did St. Augustine ever believe in the soul’s pre-existence?, in AugStud 5 (1974), pp. 232-235 (ried. in Id., Platonism Pagan and Christian); W. Eborowicz, Les énigmes de la VIIme lettre de St. Augustin, in Filosoia oggi 10 (1987), pp. 39-42. Cfr. ep. 6,2 (CCL 31, 13; interpunzione modiicata): Contra haec ego respondeo et dico propterea hoc euenisse, quia, cum intelleximus uel cogitauimus, corporeum ac temporalem aliquid genuimus, quod ad phantasiam pertinet. Contrariamente alle edizioni PL, CSEL, e CCL, ritengo che aliquid sia complemento oggetto di genuimus e non di corporeum ac temporale. Anche ammesso che secondo Nebridio si possa intellegere qualcosa di corporeum (cosa che Agostino espressamente nega nell’ep. 13), la sua spiegazione, secondo la punteggiatura adottata dagli editori, sarebbe parziale, perché lascerebbe fuori il caso della comprensione o del pensiero di oggetti non corporei e non temporali. Nebridio invece vuol dire che, ogni qual volta noi compiamo un atto di intellezione o di pensiero, indipendentemente dalla natura del suo oggetto, viene a prodursi in noi una realtà che non è più puramente spirituale come l’intellectus e la cogitatio, una realtà cioè che come tale rientra nel raggio d’azione dell’immaginazione e che pertanto rende possibile la rievocazione mnemonica dell’atto stesso. 256 Cfr. ep. 6,1 (CCL 31, 13, con modiiche): nam aut uerba intellectui cogitationibusque nostris adiunximus, quae uerba sine tempore non sunt et ad sensum uel phantasiam pertinent, au tale aliquid nostra intellectus cogitatioue passa est, quod in animo phantastico memoriam facere potuisset. Ripristino il testo delle edizioni antecedenti a Daur (memoriam … potuisset), rispetto alla lezione memoria … potuisset adottata da Daur in base ai mss da lui siglati con i numeri 14 (Paris, Bibliothèque Nationale de France, nouv.acq.lat.1672, sec. IX) e 69 (Cassino, Biblioteca dell’Abbazia, cod. 16 L, sec. XI). gli altri quattro mss utilizzati da Daur per l’ep. 6 (Laon, Bibliothèque municipale 134, sec. IX; Paris, Bibliothèque Nationale de France, lat. 12210, sec. X; London, British Library, Royal 5 D VI, sec. XII; Durham, Cathedral Library, cod. B.II.21, sec. XI) riportano la lezione memoriam … potuissent. Intendo quod come soggetto di potuisset. 257 | G. Catapano | L’ipotesi i propone un’analogia tra la parte immaginativa dell’animo e quella intellettiva (animus intellectualis). Entrambe hanno oggetti propri: le immagini (imagines) la prima, gli intelligibili (intellegibilia) la seconda. Ebbene, come per la visione dei suoi intelligibili l’animo intellettivo riceve dal senso uno stimolo (admonetur) piuttosto che un qualche contenuto, lo stesso potrebbe accadere per la contemplazione delle immagini da parte dell’animo immaginativo. Questa possibilità sembra confermata dal fatto che l’animo immaginativo è in grado di guardare oggetti che il senso non vede. In altre parole, come gli intelligibili non provengono dal senso, ma sono ritrovati dall’animo intellettivo dentro di sé, così si può pensare che l’animo immaginativo «abbia in sé stesso e da sé stesso (in se et a se) tutte le immagini»258. Rispondendo nella lettera 7, Agostino non condivide la tesi t di Nebridio e respinge come falsa l’ipotesi i. La premessa del ragionamento con cui Agostino nega t è che il ricordo ha per oggetto non solo cose che passano, ma anche, e spesso, cose che perdurano. Noi infatti ricordiamo sia cose che ci lasciano in quanto periscono, sia cose che sono lasciate da noi e che continuano ad esistere. Agostino fa gli esempi rispettivamente di suo padre, che lo ha lasciato morendo e adesso non c’è più, e di Cartagine, che 148 lui stesso ha lasciato e che c’è ancora. Benché questi esempi siano entrambi di cose legate ad esperienze passate - perché anche di Cartagine Agostino si ricorda per il fatto di averla vista, e non per il fatto di vederla attualmente - e benché cose di questo genere non possano essere ricordate senza una rappresentazione immaginativa (viso … imaginario), la possibilità di parlare di “ricordo” anche di cose che non sono ancora scomparse è suficiente a difendere «quella famosissima scoperta socratica, secondo la quale le cose che impariamo non sono introdotte in noi come se fossero nuove, ma richiamate alla memoria con il ricordo»259. Alcuni infatti pensano di confutare la teoria della reminiscenza (ossia dell’imparare come ricordare) obiettando che il ricordo ha per oggetto solo cose passate, mentre le cose che apprendiamo attraverso 258 Ep. 6,2 (CCL 31, 13-14): Potest enim, quemadmodum noster animus intellectualis ad intellegibilia sua uidenda a sensu admonetur potius quam aliquid accipit, ita et phantasticus animus ad imagines suas contemplandas a sensu admoneri potius quam aliquid assumere. Nam forte inde contingit, ut ea quae sensus non uidet ille tamen aspicere possit, quod signum est in se et a se habere omnes imagines. 259 Ep. 7,2 (CCL 31, 15-16): Nonnulli calumniantur aduersus Socraticum illud nobilissimum inuentum, quo asseritur non nobis ea quae discimus ueluti noua inseri, sed in memoriam recordatione reuocari, dicentes memoriam praeteritarum rerum esse, haec autem quae intellegendo discimus Platone ipso auctore manere semper nec posse interire, ac per hoc non esse praeterita. Sul tema della “memoria del presente” nel pensiero di Agostino e il suo rapporto con la dottrina platonica dell’anamnesi, cfr. R.J. Teske, Platonic Remiscence and Memory of the Present in St. Augustine, in The New Scholasticism 58 (1984), pp. 220-235 (ried. in Id., Augustine of Hippo: Philosopher, Exegete, and Theologian, pp. 61-76); B. Cillerai, La memoria come capacitas Dei secondo Agostino..., cit., pp. 25-94. | Temi ilosoici nell’epistolario agostiniano | un atto di comprensione intellettuale (intellegendo), per ammissione stessa di Platone, perdurano sempre e non possono scomparire, e pertanto non possono essere cose passate. Costoro non fanno attenzione al fatto che il ricordo presuppone sì un’esperienza passata, ma l’oggetto di tale esperienza e del ricordo stesso non necessariamente sono passati, come si è visto anche per le cose sensibili e temporali. Ciò che vi è di passato, nel ricordo degli intelligibili, è solo la loro visione da parte nostra, nel senso che abbiamo scostato il nostro sguardo intellettuale da un certo intelligibile per vederne altri, sicché, quando torniamo a vedere l’intelligibile iniziale, questa nuova visione avviene sotto forma di ricordo. Ebbene, il ricordo degli intelligibili è un tipo di ricordo che si produce senza l’accompagnamento di immagini. Prendiamo ad esempio l’eternità stessa (ipsa aeternitas), ossia la realtà che per eccellenza perdura sempre. Essa «non va in cerca di qualche prodotto dell’immaginazione (imaginaria igmenta) con cui venire alla mente come con un veicolo, e tuttavia non potrebbe venirci se non la ricordassimo»260. La conclusione è che vi può essere la memoria di alcune cose (gli intelligibili) sine ulla imaginatione. Quanto all’ipotesi i di Nebridio che l’anima possa immaginare cose corporee anche senza far uso dei sensi del corpo, essa si dimostra fal- 149 sa perché porta a conseguenze assurde. Considerato infatti che l’anima è certamente in una disposizione migliore prima di trovarsi implicata nei sensi corporei, ne deriverebbe che «le anime dei dormienti sono meglio disposte (melius aficiuntur) di quelle degli svegli, quelle dei deliranti meglio di quelle dei sani di mente; infatti sono affette (aficiuntur) da queste immagini da cui erano affette prima dei sensi, messaggeri vuotissimi, e o sarà più vero il sole che vedono i primi di quello che vedono i sani e gli svegli, oppure le cose false saranno migliori delle vere»261. L’imaginatio pertanto non è nient’altro che un colpo (plaga) inlitto mediante i sensi262, e ciò che questi producono non è una semplice rievocazione (commemoratio) di immagini latenti, come pensa Nebridio, bensì l’inserimento (illatio) o l’impressione (impressio) delle immagini stesse nell’anima. 260 Ep. 7,2 (CCL 31, 16): Quamobrem si, ut alia omittam, ipsa aeternitas semper manet, nec aliqua imaginaria igmenta conquirit, quibus in mentem quasi uehiculis ueniat, nec tamen uenire posset nisi eius meminissemus, potest esse quarundam rerum sine ulla imaginatione memoria. 261 Ep. 7,3 (CCL 31, 16): Iam uero quod tibi uidetur anima, etiam non usa sensibus corporis corporalia posse imaginari, falsum esse conuincitur isto modo: Si anima, priusquam corpore utatur ad corpora sentienda, eadem corpora imaginari potest, et melius quod nemo sanus ambigit affecta erat, antequam his fallacibus sensibus implicaretur, melius aficiuntur animae dormientium quam uigilantium, melius phreneticorum quam tali peste carentium; his enim aficiuntur imaginibus, quibus ante istos sensus uanissimos nuntios aficiebantur, et aut uerior erit sol quem uident illi quam ille quem sani atque uigilantes, aut erunt ueris falsa meliora. 262 Cfr. ep. 7,7 (CCL 31, 19): Nullo modo enim resistitur corporis sensibus, quae nobis sacratissima disciplina est, si per eos inlictis plagis uulneribusque blandimur. | G. Catapano | Respinta l’ipotesi i di Nebridio, Agostino si sofferma tuttavia a discutere il fatto osservato dall’amico, ossia la nostra capacità di pensare (cogitemus) igure e forme (facies formasque) che non abbiamo mai visto. Tale singolare capacità richiede in effetti una spiegazione. Agostino propone innanzitutto una classiicazione di queste imagines, che Nebridio come molti altri chiama “fantasie”, in tre generi, a seconda della loro origine. Il primo genere è impresso dalle cose percepite con i sensi (sensis), il secondo dalle cose supposte (putatis), il terzo dalle cose calcolate (ratis)263. Esempi del genere 1 sono le immagini del volto stesso di Nebridio, oppure le immagini di Cartagine e di un amico ormai scomparso come Verecondo, che l’animo di Agostino si forma per il fatto di aver avuto esperienza sensibile di quelle persone o di quella città. Esempi del genere 2 sono le immagini di personaggi storici o mitologici o letterari, come Enea, medea o i terenziani Cremete e Parmenone, o le immagini di luoghi dell’immaginario poetico e religioso come il Tartaro dei pagani o le cinque grotte della stirpe delle Tenebre dei manichei, oppure ancora le immagini di realtà ipotizzate nelle discussioni scientiiche, come la igura quadrata della terra. Si tratta in ogni caso di immagini di cose di cui non si 150 ha avuto esperienza diretta, ma che ci si rafigura o sentendone parlare o inventandole o facendo delle supposizioni. Nel genere 3 rientrano soprattutto le immagini legate a rapporti numerici o a dimensioni geometriche (numeris … atque dimensionibus), come le rappresentazioni delle igure in geometria o i sassolini (calculos) che a volte si immaginano per compiere più facilmente certe operazioni aritmetiche. Le immagini del genere 2 e del genere 3 sembrerebbero dunque indipendenti dai sensi. Agostino però fa notare che esse sono false, nel senso che non corrispondono alla realtà, o perché sono immagini di cose inesistenti (genere 2) o perché rappresentano in maniera imperfetta le cose di cui sono immagini (genere 3). Da questo punto di vista, sono più vere le cose che percepiamo sensibilmente, e di cui tratteniamo le immagini del genere 1. Se l’anima si formasse le immagini dei generi 2 e 3 prima di essere «percossa» (verberatam) dagli oggetti sensibili, sarebbe contraddetto il principio, ritenuto invece evidente, che «l’anima è meno soggetta alle falsità quando ancora non ha subìto la vanità dei sensibili e dei sensi»264. La conclusione implicita del ragionamento agostiniano è 263 Ep. 7,4 (CCL 31, 16): Omnes has imagines, quas phantasias cum multis uocas, in tria genera commodissime ac uerissime distribui uideo, quorum est unum sensis rebus impressum, alterum putatis, tertium ratis. 264 Ep. 7,5 (CCL 31, 17): In hac tota imaginum silua credo tibi non uideri primum illud genus ad animam, priusquam inhaereat sensibus, pertinere; neque hinc diutius disserendum. De duobus reliquis iure adhuc quaeri posset, nisi manifestum esset animam minus esse obnoxiam falsitatibus nondum passam sensibilium sensuumque uanitatem. | Temi ilosoici nell’epistolario agostiniano | che anche le immagini dei generi 2 e 3 non possono generarsi a prescindere dall’esperienza sensibile. Noi dunque siamo sì capaci di cogitare cose che non vediamo, ma solo a partire da cose che vediamo. Ciò avviene in virtù di una certa capacità di diminuire e di aumentare (uim quandam minuendi et augendi)265 che è insita nell’anima. Essa si nota con particolare chiarezza quando si tratta dei numeri, e quindi delle immagini del genere 3, ma è all’opera anche nella formazione delle immagini del genere 2. Togliendo e aggiungendo qualcosa, ad esempio, all’immagine di un corvo, noi siamo in grado di produrre «un’immagine mai vista»266. La cosa immaginata, nella sua interezza, non è stata mai percepita dai sensi, ma lo sono state invece le parti di cui essa è composta. Questa immagine costruita sulla base di immagini derivate dai sensi è designata altrove da Agostino con il termine phantasma e distinta dalle phantasiae che ne sono come gli elementi costitutivi267. Senza le immagini del genere 1, insomma, non sono possibili le immagini del genere 2 e, a quanto sembra di poter concludere, nemmeno le immagini del genere 3. Con un famoso esempio, Agostino rammenta che loro, da ragazzi, avevano potuto immaginare il mare sulla base dell’acqua vista in un piccolo bicchiere, mentre in alcun modo era venuto loro in mente il 151 sapore delle fragole e delle corniole prima che gustassero questi frutti in Italia. È per questa ragione che i ciechi dalla nascita, interrogati sulla luce e sui colori, non sanno che rispondere. Le immagini, insomma, a qualunque genere appartengano, non precedono mai in assoluto l’esperienza sensibile; l’anima non è in alcun modo in grado di produrle «prima di far uso dei sensi del corpo»268. Nemmeno quando, indignandoci o rallegrandoci, formiamo nel nostro corpo espressioni del volto e colori, il nostro pensiero (cogitatio) concepisce tali imma- 265 In ep. 9,5, in cui Agostino rinvia Nebridio proprio all’ep. 7, tale capacità è chiamata «una certa facoltà naturale dell’animo, il quale diminuisce e aumenta una cosa qualsiasi con il pensiero» (naturali quadam facultate animi minuentis et augentis cogitatione quodlibet). Ep. 7,6 (CCL 31, 18): Hac it ut uerbi gratia corui quasi ob oculos imago constituta, quae uidelicet aspectibus nota est, demendo et addendo quaedam ad quamlibet omnino numquam uisam imaginem perducatur. Agostino forse sta pensando qui all’immagine di un uccello mitologico come la fenice 266 267 Cfr. mus. VI,11.32; trin. VIII,6.9; IX,6.10. La distinzione tra phantasia e phantasma è di origine stoica (cfr. SVF II, 54-55), ma Agostino potrebbe averla conosciuta attraverso la mediazione o della ilosoia di Poririo oppure di una fonte dossograica o scolastica. Cfr. la letteratura da me citata nella nota 36 a p. 1650 di Aurelio Agostino, Tutti i dialoghi [Il pensiero occidentale], cit., milano 2006. 268 Ep. 7,7 (CCL 31, 19): Ex quo intellegas uelim, cum tam multos animi motus esse sentias, expertes omnium de quibus nunc quaeris imaginum, quolibet alio motu animam sortiri corpus quam sensibilium cogitatione formarum, quas eam, priusquam corpore sensibusque utatur, nullo modo arbitror pati posse. | G. Catapano | gini in precedenza. Esse piuttosto conseguono all’attività dei “numeri” nascosti nell’anima, la quale si compie senza il contributo dell’immaginazione269. Siccome dunque ogni genere di immagine presuppone il coinvolgimento dell’anima con i sensi corporei, coinvolgimento che peggiora la condizione dell’anima perché la espone alla falsità, l’imperativo etico e religioso che ne scaturisce è quello di rompere ogni amicizia «con codeste ombre infernali»270. Il precetto di fuggire le immagini che si presentano interiormente al pensiero ritorna anche in lettere dell’Agostino più maturo come la 120 e la 147, ma con una diversa motivazione. Non si tratta più della degradazione etica dell’anima a contatto con il sensibile, bensì della trascendenza di Dio, la cui superiorità sul mondo dei corpi rende costitutivamente inadeguato ogni tentativo di avvicinarLo conoscitivamente mediante rappresentazioni immaginative, dato che queste traggono tutte la propria origine, direttamente o indirettamente, dalla percezione sensibile di realtà corporee. “Immaginare” Dio, in altre parole, signiica inevitabilmente pensarlo come se fosse un corpo; credere che Egli sia così come Lo immaginiamo vuol dire perciò cadere in un grave errore271. 152 Il tema non è nuovo, poiché anzi risale alla fondamentale esperienza di liberazione mentale che Agostino fece nel 386 riuscendo inalmente a concepire, grazie alla lettura dei Platonicorum libri, Dio come sostanza incorporea, del tutto irraggiungibile dalle fabulae manichee che, in quanto tali, facevano massiccio ricorso all’immaginazione272. Una lettera come la Cfr. lib. arb. II,16.42; mus. VI, passim. Sulla ilosoia agostiniana del numero, cfr. M. Bettetini, La misura delle cose. Struttura e modelli dell’universo secondo Agostino d’Ippona, prefazione di g. giorello, milano 1994, pp. 177-206; Ch. Horn, Augustins Philosophie der Zahlen, in REAug 40 (1994), pp. 389-415. 269 270 Ep. 7,7 (CCL 31, 19): Quamobrem pro nostra familiaritate et pro ipsius diuini iuris ide sedulo monuerim, carissime mihi ac iucundissime, nullam cum istis infernis umbris copules amicitiam, neue illam quae copulata est cunctere diuellere. 271 Nel pensiero di Agostino, tuttavia, le immagini sensibili non sempre sono di ostacolo alla contemplazione di Dio; esse possono anzi costituire il punto di partenza per ascendere alle realtà invisibili, come ha messo ben in luce I. Bochet nell’articolo Le statut de l’image dans la pensée augustinienne, in Archives de philosophie 72 (2009), pp. 249-269. 272 Cfr. conf. VII,1.1-2.3; 5.7; 7.11-10.16; 17.23 e il commento di g. madec in Aa.Vv., «Le Confessioni» di Agostino d’Ippona, libri VI-IX [Lectio Augustini. Settimana Agostiniana Pavese], Palermo 1985, pp. 45-69, e in Sant’Agostino, Confessioni, vol. 3 (Libri VII-IX), testo criticamente riveduto e apparati scritturistici a cura di m. Simonetti, trad. di g. Chiarini, milano 1994, pp. 165-227. Come ha opportunamente osservato A. Poppi, sulla riduzione dell’esistente e del conoscibile al materiale e all’empirico «pesava certamente la sua [scil. di Agostino] formazione letteraria, corposamente materiata di immagini suggestive e nevroticamente attenta all’esteriorità del veicolo espressivo linguistico; inluiva inoltre in modo determinante l’acritica assunzione della fantasiosa cosmologia manichea, ma si può aggiungere che si trattava anche di una dificoltà inerente alla struttura stessa dello spirito umano, la cui conoscenza e progressiva conquista della verità dell’essere non possono | Temi ilosoici nell’epistolario agostiniano | 120 ci mostra tuttavia che, per Agostino, il pericolo di far uso dell’immaginazione nella conoscenza di Dio era sempre in agguato, anche per un cattolico che rilettesse sul contenuto della propria fede. A Consenzio273, che lo interrogava a proposito della Trinità, Agostino raccomanda di rovesciare (evertere) senza esitazione «una certa idolatria che la debolezza del pensiero umano (humanae cogitationis inirmitas) tenta di erigere nel nostro cuore in base alla consuetudine con le cose visibili»274 e che porta a concepire la Trinità come un insieme di tre entità estese nello spazio. Tale idolatria è quella dei phantasmata, ossia della «composizione e vuota creazione del pensiero carnale (cogitationis carnalis compositionem vanumque igmentum)»275, una inzione costruita in base a ricordi, come l’immagine di una città mai vista viene fabbricata con le immagini di città già visitate276. Quando dunque si pensa a un mistero di fede come l’unità e trinità di Dio, «qualsiasi somiglianza corporea ti venga in mente, riiutala, negala, respingila, buttala, fuggila! È infatti un non piccolo inizio del pensiero di Dio se, prima di poter conoscere che cosa Egli sia, cominciamo già a conoscere che cosa non sia»277. Analogo atteggiamento va tenuto nei confronti di quei passi delle Scritture che sembrano rappresentare Dio in termini corporei, come fosse uno che, ad esempio, siede nel cielo. Simili 153 espressioni non vanno intese carnaliter, ma come indicanti realtà spirituali ineffabili. Di qui il famoso invito ad amare molto l’intellectus, il quale permette la corretta comprensione del testo biblico278. Anche nella lettera 147 (De videndo Deo)279 la consuetudo carnalis vitae è fare a meno della mediazione dei sensi» (La dificoltà del pensare Dio nel giovane Agostino, in Palestra del clero 66 (1987), pp. 643-656, ried. in Id., L’intelligenza del Principio. Metaisica e pensiero contemporaneo, Napoli 1989, p. 166). 273 Su di lui, cfr. J. Wankenne, Consentius, in AL, vol. 1 (1986-1994), pp. 1236-1239; E. Romero Pose, Consenzio, in NDPAC, vol. 1, pp. 1165-1166. Ep. 120,2.7 (CCL 31B, 148): Cui autem nisi uerissimae rationi idelis pietas erubescit, ut quandam idolatriam, quam in corde nostro ex consuetudine uisibilium constituere conatur humanae cogitationis inirmitas, non dubitemus euertere. 274 Ibid. (CCL 31B, 148-149): Istam cogitationis carnalis compositionem uanumque igmentum ubi uera ratio labefactare incipit, continuo intus illo adiuuante atque illuminante, qui cum talibus idolis in corde nostro habitare non uult, ita ista confringere atque a ide nostra quodam modo excutere festinamus, ut ne puluerem quidem ullum talium phantasmatum illic remanere patiamur. 275 276 Cfr. ep. 120,2.10; vera rel. 10.18-19. 277 Ep. 120,3.13 (CCL 31B, 153): Et quicquid tibi, cum ista cogitas, corporeae similitudinis occurrerit, abnue, nega, respue, abice, fuge; non enim parua inchoatio est cogitationis dei, si ante, quam possimus nosse, quid sit, incipiamus iam nosse, quid non sit. Agostino qui ribadisce un insegnamento di cui Consenzio era già al corrente. Cfr. ep. 119,5 (CCL 31B, 140): …deum sine aliqua phantasiae simulatione, in quantum possumus, cogitandum [scil. tu ais]. 278 Vedi infra, § 5.5. 279 Del 412-413, secondo P.-m. Hombert, Nouvelles recherches..., cit., p. 184 n. 368. | G. Catapano | additata come responsabile dell’irruzione di una turba phantasmatum in similitudine corporum davanti agli occhi interiori, ostacolando la visione della luce incorporea che rende possibile gli atti di discernimento e di giudizio280. Questi phantasmata provengono, in ultima analisi, dai sensi dell’“uomo esteriore”, i quali trattengono le immagini dei corpi percepiti afidandole alla memoria281. Tali immagini, tuttavia, sono ormai incorporee282, e quindi, diversamente da ciò di cui sono immagini, non si estendono nello spazio. Sarebbe suficiente considerare questo per rendersi già conto che, a maggior ragione, non sono estese realtà che non rechino alcuna somiglianza con i corpi, come la carità e gli altri frutti dello Spirito di cui parla Paolo in Gal 5,22283. Come si formino queste immagini incorporee di cose corporee, immagini che accompagnano così frequentemente i nostri pensieri quotidiani, è cosa tuttavia che Agostino non sa spiegare. Egli lo dichiara apertamente a Evodio nella lettera 159, giustiicando in tal modo la propria incapacità di spiegare visioni molto meno comuni come sono quelle del futuro284. 154 5.3. Apparizioni oniriche e visibilità di Dio Il tema dell’immagine, che abbiamo considerato nel paragrafo precedente, è naturalmente connesso a quello della visione. Questo secondo tema, com’è noto, è stato trattato da Agostino nella maniera più sistematica e completa nel libro XII del De Genesi ad litteram285. Egli stesso in ep. 159,2 rinvia a quella trattazione, rispetto alla quale quanto si trova scritto al riguardo nelle sue lettere appare, in effetti, perfettamente coerente. La lettura dell’epistolario tuttavia è, anche su questa materia, tutt’altro che superlua, e anzi risulta indispensabile relativamente ad almeno un aspetto della tematica della visione, quello della visibilità di Dio. Le lettere più interessanti possono essere suddivise in due gruppi: quelle che si occupano di visioni come sogni e apparizioni, in risposta a quesiti di Nebridio 280 Vedi infra, § 5.4. 281 Cfr. ep. 147,16.38; 17.42. 282 Cfr. ep. 147,16.38; 19.47; 159,2.5; 162,4. In ep. 118,4.28-31 Agostino confuta la teoria atomistica delle immagini. 283 Cfr. ep. 147,17.43. 284 Cfr. ep. 159,2; 5. Cfr. Gn. litt. XII,6.15-31.59; g. madec, Savoir c’est voir. Les trois sortes de “vues” selon Augustin, in Id., Lectures augustiniennes [Collection des études augustiniennes. Série Antiquité 168], Paris 2001, pp. 221-239 (anche in F. Dunand - F. Boeslug, a cura di, Voir les dieux, voir Dieu, Strasbourg 2002, pp. 123-139); m. Chase, Porphyre et Augustin: Des trois sortes de «visions» au corps de résurrection, in REAug 51 (2005), pp. 233-256; S. Toulouse, Inluences néoplatoniciennes sur l’analyse augustinienne des visiones, in Archives de Philosophie 72 (2009), pp. 225-247. 285 | Temi ilosoici nell’epistolario agostiniano | (ep. 8-9) e di Evodio (ep. 158-159, 161-162), e quelle che hanno per oggetto appunto la visione di Dio (la 92, la 147 - ossia il De videndo Deo - e la 148 innanzitutto, ma anche, in parte, la 120, la 169 e nuovamente le 161-162). Dei sogni come forma di interazione anima-corpo abbiamo già detto sopra, nel § 3.3. Essi però erano anche considerati veicolo di messaggi premonitori e modalità di contatto con il mondo ultraterreno286. La Scrittura stessa offriva esempi di questo secondo tipo: per citarne uno soltanto, le apparizioni dell’angelo a giuseppe in sogno secondo Mt 1,20; 2,13.19.22287. Evodio le deiniva visitationes, riferendo nell’ep. 158 vari casi - alcuni dei quali accaduti a lui stesso - di defunti apparsi in sogno ad annunciare eventi poi puntualmente veriicatisi. Agostino, come sappiamo, di fronte a tali fatti protesta la propria ignoranza e ribadisce come sua unica certezza che le immagini viste in tali apparizioni non sono corporee né sono viste da occhi corporei288. Una volta compresa l’incorporeità delle immagini oniriche, tuttavia, rimangono aperte varie questioni, e cioè «per quali cause e in qual modo esse si producano, e inine quale sia la natura per la quale sussistano (subsistant) o in quale soggetto esistano, se si producano nell’animo così come si producono su una pergamena lettere scritte con l’inchiostro, dove entrambi sono sostanza (substantia), cioè sia la pergame- 155 na sia l’inchiostro, oppure come il sigillo nella cera o una igura qualsiasi, rispetto alla quale la cera sia il soggetto (subiectum), essa invece esista nel soggetto (in subiecto), oppure se queste cose si producano nel nostro spirito (in spiritu nostro) in entrambi i modi, ora nell’uno e ora nell’altro»289. Di tutt’altro genere è, per Agostino, la visione di Dio. Abbiamo già visto, nel § 5.2, che essa non può avvenire mediante l’immaginazione, e che anzi le immagini in questo caso sono fattore di grave impedimento e disturbo, perché inducono a rappresentare Dio pensandolo come un’entità corporea. Tanto meno Dio può essere visto con gli occhi del corpo, dato che gli oggetti di questi ultimi sono a loro volta corporei, enti collocati in un certo luogo in modo da occupare con una parte maggiore uno spazio maggiore e con una parte minore uno spazio minore, mentre Dio è tutt’in286 Cfr. J. Amat, Songes et visions. L’au-delà dans la littérature latine tardive [Collection des études augustiniennes. Série Antiquité 109], Paris 1985. 287 Agostino stesso riprende da Evodio (cfr. ep. 158,9) questo esempio in ep. 162,5, dove distingue i sogni che noi facciamo volontariamente da quelli che subiamo praeter arbitrium. 288 289 Cfr. ep. 159,2.5; 162,3-5. Ep. 162,4 (CSEL 44, 515): Cum uero eas coguntur intueri, si recte aduerterint atque compererint non eas esse corporeas sed corporum simillimas, rationem tamen de his non continuo ualent reddere, quibus causis et quem ad modum iant, qua denique natura sua subsistant uel in quo subiecto sint, utrum ita in animo iant ut in membrana ex atramento litterae, ubi utraque substantia est et membrana scilicet et atramentum, an sicut sigillum in cera uel igura quaelibet, cui cera subiectum est, illa in subiecto, an utroque modo iant ista in spiritu nostro aliquando sic aliquando autem sic. Si noti la natura ilosoica del lessico e degli esempi impiegati in questo passo. | G. Catapano | tero dappertutto. È in questo senso che la Scrittura afferma l’invisibilità di Dio (1Tim 6,16; cfr. Gv 1,18; 1Gv 4,12). Di conseguenza, bisogna ritenere che, nelle teofanie narrate nell’Antico Testamento, Dio sia apparso ai patriarchi non nella sua essenza ma in una forma (species) sensibile scelta a suo piacimento290. La stessa Scrittura, tuttavia, insegna che Dio può essere visto, e lo sarà nella vita futura dai puri di cuore (Mt 5,8; 1Cor 13,12; 1Gv 3,2) e da loro soltanto. Che i beati allora potranno vedere Dio non solo con la mente ma anche con il corpo risorto, è un’ipotesi che Agostino sembra escludere nella lettera 92 a Italica291, mentre ne ammette in linea teorica la possibilità nella lettera 120 a Consenzio292, nella 147 a Paolina e nella 148 a Fortunaziano, pur optando per l’ipotesi contraria in pieno accordo con autorevoli scrittori ecclesiastici quali Ambrogio e girolamo293. Egli muterà decisamente parere, come si sa, solo al termine del De civitate Dei (XXII,29), superando inalmente la fallace ratiocinatio philosophorum secondo la quale la mente non può vedere gli intelligibili mediante il corpo né le cose corporee mediante sé stessa294. La visione di Dio che Agostino afferma senza esitazione nell’epistolario è dunque solo quella escatologica e mentale. Nella lettera 120 egli tut156 tavia ammette, sulla base dell’autorità di Paolo, la possibilità di progredire in questa vita verso la visione della Trinità, benché sempre per speculum 290 Circa la natura di tali apparizioni (corporea o spirituale) e il ruolo mediatore degli angeli, Agostino suggerisce cautela nel giudizio: cfr. ep. 169,3.11. 291 Nella lettera 148 spiegherà che la sua vera intenzione era opporsi all’antropomorismo teologico. 292 Cfr. ep. 120,3.17 (CCL 31B, 156): Cum uero, quod in resurrectione promittitur, spiritale corpus habere coeperimus, siue illam [scil. trinitatem] mente siue mirabili modo, quoniam ineffabilis est spiritalis corporis gratia, etiam corpore uideamus, non tamen per locorum interualla nec in parte minorem in parte maiorem, quoniam non est corpus et ubique tota est, pro nostra capacitate uidebimus. 293 Sulla citazione da Ambrogio (Expositio euangelii secundum Lucam I,24-27), cfr. B. Studer, Zur Theophanie-Exegese Augustins. Untersuchung zu einem Ambrosius-Zitat in der Schrift De uidendo Deo (ep. 147), Roma 1971. In ep. 92,4-5 Agostino respinge anche l’opinione di coloro che attribuivano a Cristo il privilegio di vedere Dio con gli occhi del corpo (tra costoro vi era anche Consenzio: cfr. ep. 119,3). Evodio condivide la posizione di Agostino, ma teme che l’opinione da loro respinta possa essere difesa in base alla medesima giustiicazione fornita dal vescovo di Ippona nella lettera 137 a Volusiano circa la possibilità di un evento unico come il concepimento e la nascita verginale di gesù (cfr. ep. 161,3). Agostino allora gli spiega, in ep. 162,8-9, che nel caso trattato con Volusiano si può pensare a una ratio nascosta, perché l’evento, per quanto unico, non è di per sé impossibile, mentre nel caso in questione questa possibilità non si dà, perché è assolutamente impensabile che Dio, il quale non è esteso nello spazio essendo tutt’intero dappertutto, sia visto da occhi corporei. 294 Su questa tematica, cfr. F. Cavallera, La vision corporelle de Dieu d’après saint Augustin, in Bulletin de littérature ecclésiastique 7 (1915-1916), pp. 460-471. | Temi ilosoici nell’epistolario agostiniano | et in aenigmate295. È l’Apostolo infatti ad attestare che la Trinità non è del tutto aliena alla nostra capacità di comprensione intellettuale, quando in Rm 1,20 dice che gli invisibilia di Dio, la sua eterna potenza e divinità, si possono scorgere con l’intelletto attraverso le cose create. La creatura da prendere in considerazione a questo scopo è l’anima umana, ragionevole e intellettiva, la quale è stata fatta ad immagine di Dio, e specialmente ciò che nell’anima è più importante, ossia la mens atque intellegentia296. È palesemente la stessa convinzione che sta a fondamento delle ricerche sviluppate nei libri IX-XV del De Trinitate. L’intelligibilità, sia pure parziale, della Trinità consente ad Agostino, sempre nella lettera a Consenzio, di classiicare la Trinità fra le realtà visibili di terzo genere. La tripartizione delle res quae videntur (da mettere in parallelo con la tripartizione dei generi di visione in Gn. litt. XII) è enunciata in ep. 120, 2.11 nei seguenti termini. Il primo genere è costituito dalle cose corporee, come il cielo, la terra e tutto ciò che il senso del corpo percepisce in essi. Il secondo genere di cose è simile alle corporee, e raccoglie «le cose che ci immaginiamo pensandole con lo spirito (spiritu cogitata imaginamur), o piuttosto osserviamo come se fossero corpi in quanto le ricordiamo oppure ci vengono mostrate (recordata vel oblata)»; a questo 157 genere appartengono le visioni che si hanno in sogno o durante un’estasi. Nel terzo genere, inine, rientrano le cose che non sono corpi né hanno alcuna somiglianza con i corpi, come la sapienza, «la quale si scorge comprendendola con l’intelletto e alla cui luce si giudica con verità di tutte queste cose»297. La Trinità, se è visibile (e abbiamo detto che in una certa misura lo è), non può appartenere che all’ultimo genere di realtà, pur essendo superiore alla sapienza e a ogni altra virtù umana. 295 Cfr. ep. 120,3.17 (CCL 31B, 156): Ad quam [scil. trinitatem] uidendam quantumlibet in hac uita proiciamus, per speculum erit et in aenigmate, quod uidebimus. 296 Cfr. ep. 120,2.12 (CCL 31B, 152): Anima itaque considerata, maxime humana et rationalis atque intellectualis, quae ad eius imaginem facta est, si cogitationes nostras et intellegentias non euicerit, sed eius, quod habet praecipuum, id est ipsam mentem atque intellegentiam mente atque intellegentia potuerimus apprehendere, non erit fortassis absurdum, ut eam ad suum quoque creatorem intellegendum ipso adiuuante meditemur attollere. 297 Ep. 120,2.11 (CCL 31B, 151): Cum igitur tria sint rerum genera, quae uidentur, unum corporalium, sicut sunt caelum et terra et quicquid in eis corporeus sensus cernit et tangit, alterum simile corporalibus, sicut sunt ea, quae spiritu cogitata imaginamur siue recordata uel oblata quasi corpora contuemur, unde sunt etiam uisiones, quae uel in somnis uel in aliquo mentis excessu his quasi localibus quantitatibus ingeruntur, tertium ab utroque discretum, quod neque sit corpus neque habeat ullam similitudinem corporis, sicuti est sapientia, quae mente intellecta conspicitur et in cuius luce de his omnibus ueraciter iudicatur, in quo istorum genere credendum est esse istam, quam nosse uolumus, trinitatem? | G. Catapano | 5.4. La verità e l’illuminazione Le lettere che trattano della visibilità di Dio, specialmente la 120 e la 147, presentano anche numerose affermazioni, in alcuni casi molto importanti, su altri due temi tra i più peculiari della “ilosoia razionale” di Agostino: l’illuminazione e il rapporto tra fede e ragione. Il primo tema si affaccia in due lettere del periodo laicale, la 13 e la 19. Nella prima, l’intellegere, in entrambe le forme ivi distinte, viene detto compiersi deum consulendo298. Nella seconda, Agostino fa a gaio una raccomandazione che vale idealmente per tutti i suoi lettori: «Se, dopo aver letto le cose che ho scritto, le approverai e vedrai che sono vere, non pensare che siano nostre se non perché <ci> sono state date, e rivolgiti pure alla fonte da cui è stato dato anche a te di approvarle. Nessuno infatti scorge che ciò che legge è vero nel codice stesso o in colui che l’ha scritto, ma piuttosto in sé stesso, se è stato impresso sulla sua mente (eius menti … impressum est) un certo lume della verità (quoddam … lumen ueritatis), splendente in modo non comune e lontanissimo dalla feccia del corpo»299. 158 Queste affermazioni sono da mettere in parallelo con quelle, ben più celebri, del De magistro, dalle quali si capisce che il Dio consultato nel comprendere e la verità che illumina interiormente coincidono tra loro nella persona di Cristo300. già da questi passi emerge dunque una prima, fondamentale accezione dell’espressione “luce della mente” che Agostino adopera spesso e in contesti diversi. Questa luce è Dio in quanto Verità, ossia il Verbo, Cristo, il quale, abitando in interiore homine, illumina la mente dall’interno. Tale identiicazione, o gli elementi concettuali che concorrono a determinarla, si trovano esplicitamente in vari luoghi dell’epistolario. Che la verità sia 298 Vedi il passo di ep. 13,4 citato supra nella nota 244. 299 Ep. 19 (CCL 31, 45): Quae tamen lecta si probaueris et uera peruideris, nostra esse non putes nisi quod data sunt, eoque te conuertas licet, unde tibi quoque est ut ea probares datum. Nemo enim quod legit in codice ipso cernit uerum esse, aut in eo qui scripserit, sed in se potius, si eius menti quoddam non uulgariter candidum, et a faece corporis remotissimum lumen ueritatis impressum est. Cfr. ep. 27,4; 37,2 e g. madec, «In planissimo campo ueritatis» (Augustin, Epistula 37,2), in REAug 16 (1970), pp. 289-290. 300 Cfr. mag. 11.38 (CCL 29, 195-196): De uniuersis autem, quae intellegimus, […] intus ipsi menti praesidentem consulimus ueritatem […]. Ille autem, qui consulitur, docet, qui in interiore homine habitare dictus est Christus, id est incommutabilis dei uirtus atque sempiterna sapientia, quam quidem omnis rationalis anima consulit; 12.40 (CCL 29, 197-198): Cum uero de his agitur, quae mente conspicimus, id est intellectu atque ratione, ea quidem loquimur, quae praesentia contuemur in illa interiore luce ueritatis, qua ipse, qui dicitur homo interior, illustratur et fruitur; sed tum quoque nostre auditor, si et ipse illa secreto ac simplici oculo uidet, nouit quod dico sua contemplatione, non uerbis meis. Ergo ne hunc quidem doceo uera dicens intuentem; docetur enim non uerbis meis, sed ipsis rebus deo intus pandente manifestis. | Temi ilosoici nell’epistolario agostiniano | Cristo come Verbo divino, e che l’Incarnazione del Verbo stesso rappresenti il modo più eficace per rendere la verità accessibile agli uomini, è una delle idee portanti della lettera 118301. Asserzioni simili si leggono nelle lettere 137, 149 e 155302. Nelle lettere 120 e 147 si ribadisce l’azione illuminante della verità all’interno della mente303. Nella lettera 92, Agostino accosta al versetto di 1Cor 4,5 (Egli [il Signore] metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori) quello di 1Gv 1,5 (Dio è luce e in lui non c’è tenebra alcuna), aggiungendo che quella luce che è Dio stesso è «luce delle menti puriicate (lux mentium purgatarum), non di codesti occhi del corpo»304, e che dunque la mente sarà idonea a vederla solo nell’altra vita (tunc), mentre gli occhi del corpo non avranno neppure allora tale capacità. Altri versetti biblici che Agostino utilizza per associare a Dio la nozione e la funzione di luce sono 1Tim 6,16, Ef 1,18 e Sal 13(12),4305. Non sempre, tuttavia, la “luce della mente” designa Dio-Verità. Esiste infatti una seconda accezione dell’espressione, secondo la quale la luce in questione è quella nella quale la mente si viene a trovare, sotto l’effetto dell’azione illuminatrice di Dio. In questo caso non si tratta più di Dio come fonte di luce, sorgente interiore e nello stesso tempo trascendente, ma di ciò che da Lui si irradia avvolgendo la mente, di una realtà che per- 159 ciò è diversa da Dio, pur condividendone la natura incorporea e invisibile agli occhi del corpo. A mia conoscenza, c’è solo un luogo in tutto il corpus agostiniano in cui la distinzione tra i due tipi di luce sia posta con chiarezza, ed è costituita dai capitoli 17 e 18 (§§ 42-45) del De videndo Deo, ossia della lettera 147. Questa lettera ci fornisce dunque una chiave di estrema importanza per intendere correttamente i passi, non di rado problematici, in cui Agostino parla della cosiddetta “illuminazione”306. 301 Cfr. ep. 118,5.32-33 e vedi supra, § 2.3. 302 Cfr. ep. 82,2.4 (CCL 31A, 100): … Christus, id est ueritas; 137,3.12 (CCL 31B, 266): … illa [scil. uera] … in ipsa intima ueritate cernere atque discernere, quae ueritas, et antequam hominem assumeret, ipse [scil. Christus] erat omnibus, qui eius participes esse potuerunt; 137,5.17 (CCL 31B, 272): … ueritas lumenque animae rationalis nonnisi deus est; 149,2.24 (CSEL 44, 369): … a luce ueritatis, quae est in Christo Iesu domino nostro; 155,2.6 (CSEL 44, 437): deus … lux mentium; 155,4.14 (CSEL 44, 444): Christus … id est ueritas. 303 Cfr. ep. 120,2.7 (CCL 31B, 148): …continuo illo adiuuante atque illuminante, qui com talibus idolis in corde nostro habitare non uult; 120,2.8 (CCL 31B, 149): …qua [scil. ratione disputationis] forinsecus admoniti ipsi intrinsecus ueritate lucente haec falsa esse perspicimus; 147,1.2 (CSEL 44, 276): interius demonstranti ueritati; 147,12.29 (CSEL 44, 303): …ut illic interna et ineffabili luce clarescat, quod dictum est: qui me uidit, uidit et Patrem (Io 14,9). 304 Ep. 92,2 (CCL 31A, 161): Profecto lux illa ipse deus est, quoniam deus lux est et tenebrae in eo non sunt ullae [cfr. 1Io 1,5], sed lux mentium purgatarum, non istorum corporis oculorum. 305 306 Cfr. ep. 147,15.37; 16.39; 19,46. Sull’illuminazione agostiniana, cfr. ad es., tra gli studi più recenti, B.S. Bubacz, Augustine’s Illumination Theory and Epistemic Structuring, in AugStud 11 (1980), pp. 35-48; | G. Catapano | Dopo aver distinto gli occhi interiori da quelli esteriori e aver mostrato la superiorità dei primi, il vescovo di Ippona chiede a Paolina se ritiene di trovarsi in aliqua luce quando riesce a compiere tale discernimento; da parte sua, egli dichiara la propria opinione che «lì [scil. nell’interiorità] non si possono vedere tante e tali cose, così vere, così chiare, così certe, senza luce»307. Agostino quindi invita Paolina a rivolgere il proprio sguardo alla luce nella quale (in qua) ella riconosce tutte queste cose, e a considerare se sia raggiungibile dai raggi che fuoriescono dagli occhi corporei308 e se sia estesa nello spazio. Egli è convinto che la risposta sarà negativa in entrambi i casi, purché Paolina scacci via dal suo sguardo interiore le immagini dei corpi introdotte dai sensi. Se ancora non ne è capace, faccia attenzione a quelle stesse immagini, e si accorgerà che neppure esse sono contenute nella nostra memoria come in uno spazio isico309; tanto meno lo sarà un’altra realtà che ha sede dentro di noi, nella volontà, ossia la carità310, e tanto meno ancora lo sarà Dio, di cui la carità è pegno in noi311. Dio infatti, secondo 1Tim 6,16, abita una luce inaccessibile; inaccessibile, s’intende, agli occhi corporei, ma accessibile al cuore puro, secondo la beatitudine di Mt 5,8312. 160 Id., Augustine’s Theory of Knowledge. A Contemporary Analysis, New York-Toronto 1981; G. O’Daly, La ilosoia della mente, cit., pp. 248-252; G.B. Matthews, Knowledge and Illumination, in E. Stump - N. Kretzmann (a cura di), The Cambridge Companion to Augustine, Cambridge 2001, pp. 171-185; V. Pacioni, Agostino d’Ippona. Prospettiva storica e attualità di una ilosoia, milano 2004, pp. 103-107; F. Van Fleteren - redazione dell’Augustinus-Lexikon, Illuminatio, in AL, vol. 3 (2004-), pp. 495-504; R.H. Nash, Illuminazione divina, in A.D. Fitzgerald, cit., pp. 816-819; F. Fiorentino, La dottrina dell’illuminazione in Sant’Agostino, in Nicolaus. Rivista di teologia ecumenico-patristica 35 (2008), pp. 49-83; L. Schumacher, Divine Illumination: The History and Future of Augustine’s Theory of Knowledge, Oxford 2011 (in corso di stampa). 307 Ep. 147,17.42 (CSEL 44, 316): Ego enim existimo, quod tanta ibi et talia tam uera, tam clara, tam certa uideri sine luce non possunt. Si confronti questa dichiarazione con quella di ep. 120,2.10 (CCL 31B, 150-151): Ipsumque lumen, quo cuncta ista discernimus, in quo nobis satis apparet, quid credamus incognitum, quid cognitum teneamus, quam formam corporis recordemur, quam cogitatione ingamus, quid corporis sensus attingat, quid imaginetur animus simile corpori, quid certum et omnium corporum dissimillimum intellegentia contempletur, hoc ergo lumen, ubi haec cuncta diiudicantur non utique sicut huius solis et cuiusque corporei luminis fulgor per localia spatia circumquaque diffunditur mentemque nostram quasi uisibili candore collustrat, sed inuisibiliter et ineffabiliter et tamen intellegibiliter lucet tamque nobis certum est, quam nobis effecit certa, quae secundum ipsum cuncta conspicimus. Sulla teoria dei raggi ottici, molto diffusa nell’antichità, cfr. G. O’Daly, La ilosoia della mente, cit., p. 110 n. 8. 308 309 Vedi supra, § 5.2. 310 Cfr. ep. 120,2.12. 311 Cfr. Rm 5,5; 2Cor 1,22; 5,5; Ef 1,13-14. 312 Vedi supra, § 5.3. | Temi ilosoici nell’epistolario agostiniano | Un problema come la visibilità di Dio può essere discusso solo se si è in grado anzitutto di «anteporre, alla natura che è composta di parti in modo tale che la sua metà sia minore dell’intero, come è ogni corpo, la natura che possiede, non una parte qui e una là, ma simultaneamente in unità tutto ciò che possiede, come è la stessa nostra intelligenza»313. Una volta compresa l’eterogeneità e la superiorità della natura incorporea rispetto a quella corporea, bisogna credere che, tra le realtà incorporee, Dio sia migliore della nostra intelligenza, perché, come si legge in Fil 4,7, la sua pace supera ogni intelletto314. A questo punto, Agostino identiica la “pace di Dio” con lo “splendore di Dio”, ossia con il Figlio315, la cui carità è detta superare la scienza in Ef 3,19, e conclude quindi che la luce di Dio non può essere visibile al corpo. Ecco il passo decisivo: «O forse la pace di Dio è una cosa diversa dallo splendore di Dio, essendo quest’ultimo lo stesso Figlio unigenito, di cui anche quella carità, che supera la scienza, e dalla cui conoscenza saremo riempiti ino a tutta la pienezza di Dio, non è inferiore alla luce della nostra mente, che viene assegnata grazie alla sua illuminazione (non est luce nostrae mentis inferior, quae illa inluminante tribuitur)? Poi, se questa luce della mente è inaccessibile agli occhi della carne, quanto più lo sarà quella carità di Cristo, incomparabilmente superiore a questa (huic incomparabiliter supereminens)! E per questo, essendo una parte di noi visibile, questo corpo, un’altra invece invisibile, l’uomo interiore, ed essendo la nostra parte migliore, cioè la mente e l’intelligenza, invisibile agli occhi del corpo, in che modo ciò che è migliore della nostra parte migliore sarà visibile alla nostra parte inferiore?»316. Obiettivo di Agostino è dimostrare l’invisibilità di Dio agli occhi corporei, ma il brano è rilevante perché distingue inequivocabilmente la luce della mente, intesa come la luce nella quale la mente è capace di discernere, 313 Ep. 147,18.45 (CSEL 44, 319): Quod si nondum possumus praeferre lucem iudicantem ei luci, de qua iudicatur, praeferre uitam intellegentem uitae tantum modo sentienti, praeferre naturam non alibi hoc et alibi aliud sed omnia, quae habet, in uno simul habentem, sicuti est ipsa nostra intellegentia, ei naturae, quae ita partibus constat, ut minor sit dimidia quam tota, sicuti est omne corpus, superluo de rebus tantis ac talibus disputamus. 314 Vedi supra, § 3.1. 315 Sul Figlio come splendor del Padre (immagine tratta da Eb. 1,3), cfr. ep. 170,4; mor. I,16.28; trin. VI,1.1; pecc. mer. I,27.50; Io ev. tr. 48,6; en. Ps. 71,8; c. s. Arrian. 3-4,4. 34,32; c. adu. leg. I,11.14-15; symb. cat. 3,8; c. Max. II,14.6; serm. 117,8.11; 118,2; 265/A,5; 308/A,4. 316 Ep. 147,18.45 (CSEL 44, 320): An aliud pax dei aliud splendor dei, cum idem ipse sit unigenitus ilius, cuius et illa caritas, quae supereminet scientiae, cuius cognitione implebimur in omnem plenitudinem dei, non est luce nostrae mentis inferior, quae illa inluminante tribuitur? Porro si ista inaccessibilis est oculis carnis, quanto magis illa huic incomparabiliter supereminens. Ac per hoc, cum sit aliquid nostrum uisibile sicut hoc corpus aliquid uero inuisibile sicut homo interior et cum optimum nostrum, hoc est mens atque intellegentia, inuisibile sit oculis corporis, quo modo id, quod est melius optimo nostro, uisibile erit inferiori nostro? 161 | G. Catapano | dal Verbo divino come sorgente illuminante, ossia, potremmo dire, come lume dal quale la mente riceve la propria luce. Questo lume divino non solo non è inferiore alla luce in qua la mente opera il suo discernimento, ma le è incomparabilmente superiore317, pur essendo entrambi incorporei, il che vuol dire che tra loro c’è tutta la distanza che separa la creatura dal Creatore. Questa conclusione è di notevole portata ermeneutica, perché, se si accetta l’ipotesi che Agostino abbia tenuto una posizione coerente in tema di illuminazione, si può affermare che, quando parla di una luce incorporea nella quale la mente vede gli intelligibili (in De Trin. XII,15.24, ad esempio, o nella lettera 120318), egli faccia riferimento a una luce creata e non alla luce di Dio, e quindi si può escludere l’interpretazione ontologista secondo la quale la mente scorgerebbe gli intelligibili in Dio. gli intelligibilia si conoscono non nella luce della sapienza di Dio, cioè nel Verbo, ma nella luce della sapienza umana, che di Dio è un dono e un rilesso319. 5.5. Fede, ragione e visione Il secondo tema su cui soprattutto l’ep. 120 e la lettera-libro De videndo Deo apportano un contributo prezioso allo studio della teoria agostiniana 162 della conoscenza è, come abbiamo detto all’inizio del paragrafo precedente, il rapporto tra ides e ratio. Un’esposizione accurata della dottrina di Agostino in materia non può prescindere dall’esame di queste due lettere. Alcuni elementi interessanti si ricavano però anche dalle lettere 118 e 169. Conviene cominciare proprio da queste ultime, e in particolare dalla 118, ancora una volta passaggio obbligato per le ricerche sulla ilosoia dell’epistolario320. Il binomio autorità-ragione è al centro della parte inale della lunga lettera a Dioscoro321. La storia della ilosoia antica, che Agostino ha tracciato nella lettera, dimostra l’impotenza della ragione ilosoica a condurre gli 317 Cfr. ep. 120,4.20 (CCL 31B, 158): …ne iustitiae nostrae similem putemus deum, quoniam lumen, quod illuminat, incomparabiliter excellentius est illo, quod illuminatur. 318 Si veda il passo citato supra nella nota 307. 319 Cfr. ep. 120,2.11 (CCL 31B, 151): …sapientia, quae mente intellecta conspicitur et in cuius luce de his omnibus ueraciter iudicatur, … si donum eius [scil. trinitatis] in nobis est et minus est quam illa summa et incommutabilis, quae dei sapientia dicitur – puto, quod non debemus dono suo inferius cogitare donantem –, si autem aliquis splendor eius in nobis est, quae nostra sapientia dicitur, etc. Che gli intelligibili siano conosciuti in una luce diversa da quella del Verbo, non signiica però che essi non si trovino «nel libro di quella luce che si dice Verità», come Agostino afferma in trin. XIV,15.21 (CCL 50A, 451: Vbi ergo scriptae sunt [scil. immutabiles regulae iustitiae], nisi in libro lucis illius quae ueritas dicitur unde omnis lex iusta describitur et in cor hominis qui operatur iustitiam non migrando sed tamquam imprimendo transfertur, sicut imago ex anulo et in ceram transit et anulum non relinquit?); ma la questione è troppo complessa per essere affrontata qui. 320 Vedi supra, § 2.3. 321 Cfr. ep. 118,5.32-33. | Temi ilosoici nell’epistolario agostiniano | uomini alla verità. La maggior parte delle scuole ilosoiche ha insegnato teorie erronee, di cui l’atomismo è un esempio emblematico. Anche la scuola che più si è avvicinata alla verità, quella dei platonici, non è stata in grado di fronteggiare apertamente le scuole avversarie, ed è tornata allo scoperto solo dopo che il cristianesimo ha modiicato la mentalità popolare, rendendola più propensa ad accogliere con favore dottrine contrarie al materialismo. Unicamente Cristo come Verità incarnata si è mostrato capace di far suscitare in interi popoli la fede in verità superiori alle forze della loro ragione. L’autorità del nome cristiano è diventata così grande che gli eretici non osano rivaleggiare con la Chiesa su questo piano e tentano di farlo sul piano della ragione, ma inutilmente, perché anche su questo terreno uomini di Chiesa sanno affrontarli e confutarli. Tra gli stessi platonici che sono usciti dall’esoterismo in cui per secoli erano stati costretti, quelli che non sono stati corrotti «dalla curiosità delle arti magiche» hanno rinosciuto in Cristo la Verità e Sapienza inalterabile che si sforzavano di raggiungere322. Pertanto l’intero culmine dell’autorità e lume della ragione è stato posto in quell’unico nome salutare e nell’unica sua Chiesa per la rigenera163 zione e restaurazione del genere umano323. Dal punto di vista della storia della salvezza, dunque, fede e autorità sembrano avere un primato sulla ragione. Contrariamente agli eretici, che fanno appello esclusivamente alla ragione, il Signore Gesù «è venuto soprattutto con questa medicina, di comandare ai popoli la fede»324. L’uso delle armi della ragione, nella Chiesa, sembra riservato ai pochi uomini istruiti e “spirituali” che hanno il compito di combattere gli eretici, mentre il grosso dei fedeli se ne sta al sicuro nella roccaforte della fede325. La lettera 169, che viene datata al 415, conferma questa impressione con una silloge di affermazioni paoline che esaltano la “stoltezza” dei tanti credenti che si salvano rispetto all’elitaria “sapienza” mondana che non procura salvezza326. 322 Sul punto di vista soteriologico dal quale Agostino nella lettera 118 legge la storia della ilosoia antica, cfr. I. Bochet, Le statut de l’image dans la pensée augustinienne..., cit. 323 Ep. 118,5.33 (CCL 31B, 135): Itaque totum culmen auctoritatis lumenque rationis in illo uno salutari nomine atque in una eius ecclesia recreando et reformando humano generi constitutum est. 324 Ep. 118,5.32 (CCL 31B, 135): Porro illi, qui, cum in unitate atque communione catholica non sint christiano tamen nomine gloriantur, coguntur aduersari credentibus et audent imperitos quasi ratione traducere, quando maxime cum ista medicina dominus uenerit, ut idem populis imperaret. 325 Cfr. ibid.: Sed ille idei clementissimus imperator et per conuentus celeberrimos populorum atque gentium sedesque ipsas apostolorum arce auctoritatis [autoritatis Daur] muniuit ecclesiam et per pauciores pie doctos et uere spiritales uiros copiosissimis apparatibus etiam inuictissimae rationis armauit. Verum illa rectissima disciplina est in arcem idei quam maxime recipi inirmos, ut pro eis iam tutissime positis fortissima ratione pugnetur. 326 Cfr. 1Cor 1,21.25; 2,2; Rm 11,33 in ep. 169,1.3-4. | G. Catapano | «Difatti, se Cristo è morto solo per coloro che possono distinguere queste cose [scil. le corporee dalle incorporee] con sicura intelligenza, allora la nostra fatica nella Chiesa è pressoché vana»327. Quando dunque Consenzio si rivolge ad Agostino nella lettera 119 con le parole seguenti, citando anche lui 1Cor 1,21, potremmo aspettarci che il vescovo di Ippona sottoscriva pienamente: «Io direi proprio che occorre cogliere la verità della realtà divina in base più alla fede che alla ragione. Se infatti la fede della santa Chiesa si afferrasse in base a discussioni razionali (ex disputationis ratione) e non in base a una pia disponibilità a credere (ex credulitatis pietate), nessuno entrerebbe in possesso della beatitudine eccetto i ilosoi e gli oratori. Ma poiché è piaciuto a Dio, che ha scelto le cose deboli di questo mondo per confondere le forti (1Cor 1,27), salvare i credenti per mezzo della stoltezza della predicazione (1Cor 1,21), riguardo a Dio non bisogna tanto andare in cerca della ragione, quanto seguire l’autorità dei santi»328. Invece la risposta di Agostino nella lettera 120 è, a prima vista, sorprendente. Egli anzitutto nota che la deinitio di Consenzio, sopra ripor164 tata, contrasta con la sua concomitante richiesta di ricevere da Agostino delucidazioni circa il modo di intendere, nella Trinità, l’unità della divinità e la distinzione delle Persone. Così facendo, infatti, Consenzio cerca da Agostino quella ratio alla quale egli ha invece detto di preferire l’auctoritas dei santi. Per essere coerente, Consenzio deve allora correggere la sua deinitio, «non perché tu respinga la fede, ma perché scorga con la luce della ragione quelle verità che già tieni ferme con la saldezza della fede»329. Fatta questa indispensabile premessa, il vescovo di Ippona procede a evidenziare il ruolo della ragione in relazione alla fede, in un’ampia sezione della lettera che rappresenta uno dei suoi testi più chiari e famosi su questo argomento330. In primo luogo, egli mette in guardia dal duplice 327 Ep. 169,1.4 (CSEL 44, 614): Nam si propter eos solos Christus mortuus est, qui certa intellegentia possunt ista discernere, paene frustra in ecclesia laboramus. 328 Ep. 119,1 (CCL 31B, 137): Ego igitur cum apud memet ipsum prorsus deinierim ueritatem rei diuinae ex ide magis quam ex ratione percipi oportere – si enim ides sanctae ecclesiae ex disputationis ratione, non ex credulitatis pietate apprehenderetur, nemo praeter philosophos atque oratores beatitudinem possideret. Sed quia placuit deo, qui inirma huius mundi elegit, ut confundat fortia, per stultitiam praedicationis saluare credentes, non tam ratio requirenda de deo quam auctoritas est sequenda sanctorum. 329 Ep. 120,1.2 (CCL 31B, 144): Quam si a me uel a quolibet doctore non inrationabiliter lagitas, ut, quod credis, intellegas, corrige deinitionem tuam, non ut idem respuas, sed ut ea, quae idei irmitate iam tenes, etiam rationis luce conspicias. 330 Cfr. ep. 120,1.3-2.10; F. moriones, San Agustín y Consencio. Carta de san Agustín a Consencio sobre la razón y la revelación, in «Augustinus» 25 (1980), pp. 29-50; G. Madec, Pour l’amour de l’intelligence (Augustin, Lettre 120, à Consentius). Foi - Raison - Intelligence, in P.-Y. | Temi ilosoici nell’epistolario agostiniano | errore di pensare che l’uso della ragione sia sgradito a Dio, o che si debba credere senza ricevere o richiedere una ratio. Dio stesso infatti ci ha resi superiori agli altri animali dotandoci di ragione, e «non potremmo nemmeno credere se non avessimo delle anime razionali»331. In secondo luogo, il precetto di far precedere la fede alla ragione, afinché il cuore sia puriicato e reso idoneo a cogliere con la ragione medesima quelle verità di cui non è ancora capace, è un precetto a sua volta ragionevole, perché altrimenti sarebbe irragionevole il celebre detto di Isaia: Nisi credideritis, non intellegetis. Oltre a Is 7,9, Agostino cita e commenta altri due versetti che a suo giudizio concernono il rapporto tra ragione e fede. Il primo è 1Pt 3,15 (… pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi). La ragione da rendere a un non credente o a un diversamente credente (inidelis) concerne la necessità di credere certe cose prima di comprenderle; la ragione da rendere a un credente (idelis) è invece quella che lo conduce progressivamente, secondo le sue capacità, alla comprensione di ciò che crede. A questo progresso nell’intelligenza della fede fa riferimento l’Apostolo nell’altro versetto in questione, Fil 3,15-16 (E se in qualche cosa pensate diversamente, Dio vi rivelerà anche questa; ma camminiamo 165 sulla strada dove siamo arrivati). L’utilità della ragione in rapporto alla fede si vede anche in quei casi in cui inizialmente non prestiamo fede a fatti che ci vengono raccontati, ma poi li riconosciamo come veri una volta che ci sia stata spiegata la ragione per cui sono accaduti. A impedire di credere, qui, non è la ragione, ma al contrario l’apparente assenza di una ragione. Così, gli infedeles non credono al racconto dei miracoli operati da Dio perché non vedono la ratio di tali miracoli. In effetti ci sono cose di cui non si riesce a rendere ragione, ma ciò non signiica che una ragione non ci sia, perché non c’è nulla, in natura, che Dio abbia fatto irrationabiliter. È anzi conveniente che la ragione di certe opere divine resti nascosta, perché gli uomini tendono a considerare noiose e di poco conto le cose di cui conoscono facilmente la spiegazione332. Fux - J.-m. Roessli - O. Wermelinger (a cura di), Saint Augustin: africanité et universalité. Actes du colloque international Alger-Annaba, 1-7 avril 2001: Augustinus Afer, Fribourg Suisse 2003, pp. 237-241. 331 Ep. 120,1.3 (CCL 31B, 144): Absit, inquam, ut ideo credamus, ne rationem accipiamus siue quaeramus, cum etiam credere non possemus, nisi rationales animas haberemus. 332 Si ratio quaeritur non erit mirabile, scrive Agostino a Volusiano (ep. 137,2.8, CCL 31B, 263). Sul signiicato di questa affermazione, che attirò l’attenzione di Evodio (ep. 161), cfr. ep. 162,6-9. | G. Catapano | Lo scopo di questa prima serie di considerazioni (= ep. 120, 1.3-5) è «esortare la tua fede all’amore dell’intelligenza333, alla quale conduce la vera ragione e a cui la fede prepara l’animo»334. Segue una seconda serie di rilessioni (= ep. 120, 1.6-8), che prende lo spunto dagli esempi storici che Consenzio nella sua lettera aveva addotto come prova della necessità di seguire l’autorità anziché la ragione. Se gli ariani e i macedoniani «avessero prestato fede alle sante Scritture piuttosto che ai loro ragionamenti», aveva scritto Consenzio335, essi non sarebbero caduti nell’eresia di considerare inferiori rispettivamente il Figlio o lo Spirito santo. Agostino replica che la ratio di simili dottrine eretiche «deve dirsi da evitare e da esecrare non perché è una ragione, ma perché è una falsa ragione. Se invece fosse una vera ragione, di sicuro non avrebbe errato. E perciò, come non devi guardarti da ogni discorso per il motivo che esiste anche un discorso falso, così non devi guardarti da ogni ragione per il motivo che esiste anche una ragione falsa»336. In materia di teologia trinitaria, in particolare, la falsa ratio è quella che pensa Dio attraverso l’immaginazione, come abbiano visto supra nel § 5.2. D’altra parte, la vera ratio distruggerebbe inutilmente gli idoli fabbri166 cati dalla falsa se non fosse preceduta, nel nostro cuore, dalla fede che ci rende devoti. Anche la fede in cose non ancora comprese, dunque, e non solo la vera ragione con cui comprendiamo ciò che crediamo, va preferita alla falsa ragione, giacché è meglio credere una cosa vera senza vederla che pensare di vedere una cosa vera mentre invece è falsa. E difatti la fede ha i suoi occhi, con i quali vede in qualche modo che è vero ciò che ancora non vede, e con i quali vede con la massima certezza di non vedere ancora quel che crede337. A causa di un errore tipograico, l’edizione Daur alla linea 106 scrive intellegentia anziché intellegentiae. 333 334 Ep. 120,1.6 (CCL 31B, 146): Haec dixerim, ut idem tuam ad amorem intellegentiae cohortarer, ad quam ratio uera perducit et cui ides animum praeparat. Cfr. ep. 120,3.13 (CCL 31B, 153): Intellectum uero ualde ama, e C. Mayer, Intellectum ualde ama, in AL, vol. 3 (2004-), pp. 646-647. 335 Ep. 119,1 (CCL 31B, 138). 336 Ep. 120,1.6 (CCL 31B, 146-147): Nam illa, quae persuasit in ea trinitate, quae est deus, ilium patri non esse coaeternum uel alterius esse substantiae atque aliqua parte dissimilem et eo modo inferiorem spiritum sanctum, itemque illa, quae persuasit patrem et ilium unius eiusdemque, spiritum uero sanctum alterius esse substantiae, non ideo, quia ratio est, sed quia falsa ratio est, cauenda et detestanda dicenda est. Si autem ratio uera esset, non utique errasset. Quapropter sicut non ideo debes omnem uitare sermonem, quia est et sermo falsus, ita non debes omnem uitare rationem, quia est et falsa ratio. 337 Ep. 120,2.8 (CCL 31B, 149): Habet namque ides oculos suos, quibus quodammodo uidet uerum esse, quod nondum uidet, et quibus certissime uidet nondum se uidere, quod credit. | Temi ilosoici nell’epistolario agostiniano | Tuttavia, chi è giunto ormai a comprendere, grazie alla vera ragione, quello che prima solamente credeva, va anteposto a chi ancora desidera comprendere quel che crede, per non parlare di chi non sente neppure tale desiderio; quest’ultima categoria di credenti «ignora a che giovi la fede; difatti una fede devota non vuole essere senza la speranza e senza la carità. L’uomo credente, quindi, deve credere ciò che ancora non vede in maniera tale da sperare e amare la visione»338. Dato che la fede autentica, accompagnata dalla speranza e dalla carità, tende per sua natura verso la visione, Agostino propone una classiicazione sia delle cose credibili (§§ 9-10) che di quelle visibili (§ 11), per mostrare come venga a conigurarsi di volta in volta il rapporto tra credere e vedere. Abbiamo già esaminato la tripartizione delle cose visibili nel § 5.3; soffermiamoci ora su quella delle cose credibili, effettuata in funzione della relazione con il tempo. Le cose oggetto di fede possono essere passate, future o eternamente presenti. Le passate, anche se di per sé visibili (come la morte e risurrezione di Cristo), possono essere solamente credute, senza alcuna speranza di vederle. Le future, come la risurrezione dei nostri corpi, si credono in modo tale da sperare anche di vederle un giorno, ma attualmente non sono in alcun modo ostensibili339. Quelle che 167 esistono o rimangono in eterno, sono o invisibili (agli occhi del corpo), come la giustizia e la sapienza, o visibili, come il corpo ormai immortale di Cristo. Le eterne invisibili, in realtà, sono visibili all’intelletto (secondo l’insegnamento di Rm 1,20), incorporee, e molto più certe di quelle che i sensi colgono. Le permamenti visibili, dal canto loro, così come le future, vengono credute con la speranza di vederle un giorno; la loro differenza rispetto alle future è che, in linea di principio, sono ostensibili e quindi potrebbero essere viste anche ora, da questi occhi mortali, se venissero mostrate. Diversamente dalle eterne invisibili, poi, le permanenti visibili non sono credute in modo tale che ci si sforzi anche di comprenderle con la ragione e l’intelletto; noi non possiamo far altro che pensarle e, con il pensiero (cogitatione), immaginare come siano; di esse conosciamo che non le conosciamo. 338 Ep. 120,2.8 (CCL 31B, 149): Porro autem qui uera ratione iam, quod tantummodo credebat, intellegit, profecto praeponendus est ei, qui cupit adhuc intellegere, quod credit; si autem nec cupit et ea, quae intellegenda sunt, credenda tantummodo existimat, cui rei ides prosit, ignorat; nam pia ides sine spe et sine caritate esse non uult. Sic igitur homo idelis debet credere, quod nondum uidet, ut uisionem et speret et amet. 339 Spunti interessanti circa la fede in eventi futuri si possono ricavare dalle lettere a Esichio (197 e 199) a proposito della parusia: cfr. A. Colli, Tempo cairologico e senso della storia nelle Epistulae 197 e 199 di Agostino d’Ippona, in Medioevo. Rivista di storia della ilosoia medievale 33 (2008), pp. 179-190. | G. Catapano | Possiamo riassumere la classiicazione agostiniana delle cose credibili nei seguenti termini: (a) cose visibili passate: soltanto credibili; si credono senza speranza di vederle; (b) cose future: visibili soltanto agli occhi, ma attualmente non ostensibili; si credono con la speranza di vederle; (c1) cose eterne invisibili: visibili soltanto all’intelletto; si credono con lo sforzo di comprenderle; (c2) cose eterne visibili: visibili soltanto agli occhi; attualmente ostensibili, ma di fatto soltanto immaginabili; si credono con la speranza di vederle. In deinitiva, solo per le cose passate la fede non tende alla visione, essendo questa ormai impossibile; in tutti gli altri casi, il credere è sorretto dalla speranza di vedere (con gli occhi) o dallo sforzo di comprendere (con l’intelletto). Il tema del rapporto tra credere e vedere è ripreso e approfondito 168 nell’ampia praelocutio del De videndo Deo (ep. 147, 1.3-4.11), che può essere considerata a buon diritto uno dei luoghi più epistemologicamente signiicativi di tutta la produzione scritta di Agostino340. Obiettivo del vescovo di Ippona è fornire a Paolina un’istruzione preliminare, che le consenta di soppesare meglio il contenuto e il valore della risposta che egli sta per darle al quesito circa la visibilità di Dio per mezzo degli occhi corporei. «Questo mio preambolo non discute ancora la questione proposta, ma prepara te, e altri che leggeranno codeste pagine, a giudicare correttamente i miei scritti o quelli di qualsiasi altro, afinché non supponiate di sapere quel che non sapete o crediate avventatamente ciò che non avete né percepito con i sensi del corpo o lo sguardo dell’animo nell’evidenza della cosa stessa che dev’essere conosciuta, né imparato a dover credere in base all’autorità delle Scritture canoniche, anche se non si è presentato ai sensi del vostro animo o del vostro corpo»341. La praelocutio dell’ep. 147 non sembra aver ricevuto ino ad ora da parte degli studiosi tutta l’attenzione che merita. Cfr. K. mizuochi, Sentire, intellegere, credere. Augustinus, Epist. 147, De uidendo Deo 1-iv, 11, in Studies in Medieval Thought 22 (1980), pp. 223-224 (riassunto in inglese di un articolo in giapponese). Sulla lettera in generale, cfr. E. Naab, Augustinus. Über Schau und Gegenwart des unsichtbaren Gottes. Texte mit Einführung und Übersetzung, Stuttgart-Bad Cannstatt 1998. 340 341 Ep. 147,1.5 (CSEL 44, 279): Haec praelocutio mea nondum propositam discutit quaestionem, sed te atque alios, qui ista lecturi sunt, praestruit, quales seu meorum seu quorumlibet scriptorum iudices esse debeatis, ne uel scire uos opinemini, quod nescitis, uel temere credatis, quod neque corporis sensibus aut animi contuitu in eiusdem rei, quae cognoscenda est, euidentia percepistis neque canonicarum scripturarum auctoritate, etiam si non adfuit sensibus uel animi | Temi ilosoici nell’epistolario agostiniano | Innanzitutto, il fondamento della fede nella visibilità di Dio non è la visione corporea o mentale, ma l’autorità della Scrittura342. Noi infatti non vediamo Dio mediante gli occhi del corpo, come vediamo il sole, o con lo sguardo della mente, come vediamo ciascuno la nostra volontà o ricerca o conoscenza o ignoranza; noi però crediamo che Egli sia visibile perché prestiamo fede alla Scrittura, in cui leggiamo: Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Vi è dunque qualcosa che vediamo direttamente, con il senso del corpo o con la mente, e qualcosa che crediamo senza vederlo. Nella trattazione che Agostino farà, Paolina dovrà distinguere ciò che lei stessa può vedere sensibilmente o intelligibilmente, e ciò che invece può solo credere, con l’avvertenza che i testimoni a cui prestare o no fede non hanno tutti la stessa autorevolezza: solo alla Scrittura bisogna credere senza alcuna esitazione343. Alcune cose, del resto, non si possono sapere se non credendole; a questo genere appartengono non solo eventi della storia della salvezza attestati dalla Scrittura, come la nascita, passione e risurrezione di Cristo, ma anche fatti della storia profana, come la fondazione di Roma da parte di Romolo o quella di Costantinopoli da parte di Costantino. Posto che si vede non solo con gli occhi corporei ma anche con la mente, risulta erronea l’opinione di coloro che deiniscono il credere come un 169 osservare con la mente. Credere e vedere sono due atti diversi. La loro differenza si potrebbe esprimere dicendo che si vedono le cose presenti mentre si credono le assenti, a patto però di intendere per “presenti” (praesentia) le cose che sono a disposizione o al cospetto (praesto sunt) dei sensi dell’animo o del corpo, come secondo Agostino suggerisce l’etimologia stessa della parola. In questo senso, si possono chiamare “presenti” anche cose passate, che ricordiamo per averle viste, così come si possono dire “assenti” anche cose temporalmente presenti ma a noi non accessibili, come la volontà dei nostri interlocutori344. Si noti come questa osservazione integri la classiicazione delle cose credibili proposta nella lettera 120: le cose soltanto credibili non si limitano alle passate, ma includono le presenti (e le future) invisibili sia agli occhi del corpo che a quelli dell’animo. Benché credere sia diverso da vedere, la conoscenza (scientia) consta sia di cose viste sia di cose credute. Nel primo caso, noi stessi siamo testimoni della cosa conosciuta, mentre nel secondo caso testimoni sono altri, che ci inducono a credere dandoci segni della cosa, visti i quali noi uel corporis uestri, tamen credendum esse didicistis. 342 Sulle fonti bibliche della lettera, cfr. m. Albaric, Les sources bibliques du De uidendo Deo de saint Augustin, Paris 1970. 343 gli scrittori ecclesiastici, per quanto autorevoli come Anbrogio, si collocano a un livello di credibilità decisamente inferiore rispetto alla Scrittura: cfr. ep. 147,16.39. 344 gli atti interiori dell’altro si possono soltanto credere; li può vedere (mentalmente) solo chi li compie: cfr. ep. 92,2; 147,4.11; 16.38; 267. | G. Catapano | crediamo nella cosa stessa. Non è improprio, dunque, dire che noi sappiamo (scire) non solo ciò che vediamo o abbiamo visto, ma anche ciò che crediamo sulla base di testimonianze o testimoni afidabili. E poiché la conoscenza è attribuita alla mente, per questo si dice che “vediamo” con la mente anche ciò che crediamo con certezza, nonostante non sia presente ai sensi del corpo o dell’animo. Tuttavia, se analizziamo con rigore ciò che accade quando crediamo ad esempio nella risurrezione di Cristo (un fatto che la lettera 120, non a caso, classiicava tra i credibili non visibili), ci accorgiamo che essa non è davvero vista, ma solo creduta. La fede è visibile solo nel senso che ciascuno può mentalmente vedere il proprio atto di credere. «Ma con questo mio preambolo hai ormai riconosciuto abbastanza, penso, che cosa sia il vedere con la mente o con il corpo e quale sia la differenza tra questi atti e il credere»345. Nella lettera 147, dunque, Agostino insiste sulla differenza tra credere e vedere, mentre nella 120 aveva enfatizzato la naturale tendenza del credere al vedere. Le due lettere affrontano il tema del rapporto tra credere e 170 vedere da prospettive indubbiamente diverse, ma tutt’altro che incompatibili: è proprio perché il credere non è (ancora) vedere, come sottolinea la lettera 147, che esso tende al vedere come a un atto distinto da sé. 6. Osservazioni conclusive Come attesta la lunghezza stessa di questo articolo, la presenza di temi ilosoici nell’epistolario agostiniano, anche nell’accezione ristretta di “ilosoia” esposta nella Premessa, è vasta e ricca. Fatta eccezione per le questioni di ilosoia naturale relative agli enti corporei - le quali, del resto, trovano spazio solo in alcuni luoghi speciici della produzione agostiniana, e cioè, fondamentalmente, nei commenti al racconto genesiaco della creazione -, tutti i settori in cui si articolava l’antica rilessione ilosoica sono ampiamente rappresentati nell’epistolario, in misura crescente man mano che dalla isica si passa all’etica e soprattutto alla teoria della conoscenza. Le lettere non si limitano soltanto a ripetere o precisare dottrine per le quali è possibile individuare precisi paralleli testuali in altre opere di Agostino, ma in taluni casi forniscono un contributo originale e imprescindibile per lo studio del pensiero ilosoico e metailosoico agostiniano. Almeno quattro delle otto lettere classiicate dallo stesso vescovo di Ippona tra i suoi libri hanno uno spiccato rilievo teoretico (la 147 De videndo Deo, 345 Ep. 147,4.11 (CSEL 44, 284): Sed iam satis, ut puto, ista mea praelocutione recognouisti, quid sit uidere uel mente uel corpore et quid ab eis distet credere. | Temi ilosoici nell’epistolario agostiniano | la 166 De origine animae, la 167 De sententia Iacobi, la 187 De praesentia Dei). A queste bisogna aggiungere una cinquantina di lettere scritte da Agostino o da suoi corrispondenti, tra le quali risaltano gli scambi epistolari con Nebridio, Evodio, Dioscoro, Consenzio e macedonio, e con pagani quali Nettario e Volusiano. Alla luce di tutto questo, non si può dar torto a uno come Nettario per aver avuto l’impressione di sentire, nelle lettere di Agostino, «la voce di un ilosofo»346. Giovanni Catapano Università degli Studi di Padova, Dipartimento di Filosoia 171 346 Vedi il testo citato supra nella nota 19. APPENDICE ABBREVIAZIONI DELLE OPERE DI SANT’AgOSTINO Acad. c. adv. leg. adult. coniug. an. et or. an. quant. bapt. beata v. b. vid. civ. 283 conf. Cresc. div. qu. divin. daem. doct. chr. en. Ps. ep. ep. Io. tr. c. ep. Parm. ep. Rm. inch. Gn. litt. Gn. adv. Man. De gr. Christi Io. ev. tr. c. Iul. lib. arb. c. litt. Pet. mag. c. Max. mor. De Academicis libri tres Contra adversarium legis et prophetarum libri duo De adulterinis coniugiis libri duo De anima et eius origine libri quattuor De animae quantitate liber unus De baptismo libri septem De beata vita liber unus De bono viduitatis De civitate Dei libri viginti duo Confessionum libri tredecim Ad Cresconium grammaticum partis Donati libri quattuor De diversis quaestionibus octoginta tribus liber unus De divinatione daemonum liber unus De doctrina christiana libri quattuor Enarrationes in Psalmos Epistulae In Epistulam Iohannis ad Parthos tractatus decem Contra epistulam Parmeniani libri tres Epistulae ad Romanos inchoata expositio liber unus De Genesi ad litteram libri duodecim De Genesi adversus Manichaeos libri duo De gratia Christi et de peccato originali libri duo In Iohannis evangelium tractatus CXXIV Contra Iulianum libri sex De libero arbitrio libri tres Contra litteras Petilliani libri tres De magistro liber unus Contra Maximinum Arrianum De moribus Ecclesiae Catholicae et de moribus Manichaeorum libri duo mus. nat. b. ord pecc. mer. retr. serm. c. s. Arrian. s. Dom. m. sol. symb. cat. trin. vera rel. De musica libri sex De natura boni liber unus De ordine libri duo De peccatorum meritis et remissione et de baptismo parvulorum ad Marcellinum libri tres Retractationum libri duo Sermones Contra sermonem Arrianorum liber unus De sermone Domini in monte libri duo Soliloquiorum libri duo De symbolo ad catechumenos De Trinitate libri quindecim De vera religione liber unus ABBREVIAZIONI DI PERIODICI E DIZIONARI AE AL Ath Aug Aug(L) AugStud Augustinus BA CDios CSEL EstAg mEFRA NBA NDPAC Année épigraphique Augustinus-Lexikon Année théologique Augustinianum. Periodicum quadrimestre Augustiniana. Tijdschrift voor de studie van Sint Augustinus en de Augustijnenorde Augustinian Studies Augustinus. Revista trimestral publicada por los Padres Agustinos Recoletos Bibliothèque augustinienne. Œuvres de saint Augustin, Paris Ciudad de Dios. Revista agustiniana de cultura e investigación Corpus scriptorum ecclesiasticorum latinorum, Wien Estudio agustiniano mélanges de l’Ecole Française de Rome. Antiquité Nuova biblioteca agostiniana. Opere di Sant’Agostino, Roma Nuovo Dizionario patristico e di antichità cristiane 284 PBA PCBE PL PLRE RAC RAEspir RAg RB REA ReAug REByz RechSR 285 RSLR RSPhTh SAEmO SEA SDHI StPat StPatr SVF VigChr Piccola biblioteca agostiniana, Roma Prosopographie chrétienne du Bas-Empire. A. mandouze, Prosopographie de l’Afrique chrétienne (303-533), Paris, 1982 Patrologiae cursus completus. Series latina. Accurante J.-P. migne, Paris The Prosopography of the Later Roma Empire Reallexikon für Antike und Christentum Revista agustiniana de espiritualidad Revista agustiniana Revue bénédictine de critique, d’histoire et de littérature religieuses Revue des études anciennes Revue des études augustiniennes Revue des études byzantines Recherches de science religieuse Rivista di storia e letteratura religiosa Revue des sciences philosophiques et théologiques Sancti Ambrosii mediolanensis Opera Studia Ephemeridis Augustinianum Studia et documenta historiae et iuris Studia Patavina. Rivista di scienze religiose Studia patristica H. von Armin, Stoicorum veterum fragmenta 1-4, Stutgardiae 1978-1979 (Lipsiae 1903-1924) Vigiliae christianae INDICE premessa Settimana agostiniana pavese 2009-2010. Pubblicazione degli Atti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 3 artiColi g. Ceriotti: Un’introduzione all’epistolario di Agostino . . . . . . . p. 7 m. Caltabiano: Le missioni dei latori delle lettere di Agostino . p. 15 g. Caruso: L’epistolario di Agostino laico. Le lettere 1-20 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 29 N. Cipriani: La rilessione trinitaria di sant’Agostino ino alle lettere a Nebridio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 59 g. Catapano: Temi ilosoici nell’epistolario agostiniano . . . . . . p. 91 C. mazzucco: La corrispondenza di Agostino con donne . . . . . . p. 172 A. Di Berardino: Ippona e l’Africa Romana. Aspetti socio-religiosi del tempo del presbiterato di Agostino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 222 P. Cormio: L’oficium presbyteri nella lettera 21 di Agostino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 252 appendiCe Abbreviazioni delle opere di Agostino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 283 Abbreviazioni di periodici e dizionari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 284 286