Dall’immondezzaio
alla s toria
* Archeologhe presso la Soprintendenza BB.CC.AA. di Agrigento.
L’indagine è stata realizzata con i
fondi del POR Sicilia 2000-2006
1, Sciacca. Castello Nuovo. Della
cinta oggi rimane la torre circolare
sul lato sud, una bertesca sul lato est
ed un’altra torretta semicircolare sul
lato ovest, mentre del mastio, imponente struttura quadrata posta sul lato nord, crollato in buona parte con
il terremoto del 1740 e fatto demolire dall’amministrazione comunale
nel 1867, resta solo il basamento.
Testo di Valentina Caminneci e Maria Serena Rizzo*
Fotografie di Vincenzo Cucchiara, Manlio Nocito, Angelo Pitrone
1
Lo scavo di un “butto” scoperto nel’area del
Castello Nuovo di Sciacca e databile tra la fine
del ’300 e gli inizi del XVI secolo ha offertto
l’occasione di ricostruire attraverso l’analisi dei
materiali rinvenuti quali scorie di lavorazine di
metalli e vetri, ceramiche, resti vegetali e
animali la vita quotidiana della comunità locale,
le attività produttive e artiginali, le relazioni
commerciali e culturali.
N
el 2008 la Soprintendenza
BB.CC.AA. di Agrigento
ha promosso uno scavo
dell’area antistante il Castello Nuovo di Sciacca. Un saggio sul lato
4
orientale ha messo in luce una fossa, scavata nella roccia calcarea, che
conteneva una notevole quantità di
carbone e ossa animali e numerosi
frammenti di ceramica, di vetro e og-
getti in metallo. Tale riempimento,
interpretabile come il butto domestico legato alla frequentazione del
Castello, si formò in un breve lasso
di tempo, anche se, verosimilmente, attraverso gettate successive sigillate da strati di cenere in funzione antisettica. Ma dal momento che
i reperti ceramici sono riferibili ad un
arco cronologico compreso tra la fine
del XIV, al tempo cioè della fondazione del Castello, e gli inizi del XVI
secolo, ci troviamo probabilmente di
fronte all’esito di un’operazione di
sgombero o di ripulitura avvenuta
nel corso del ‘500, forse al tempo
dell’acquisizione del castello al demanio, voluta da Carlo V nel 1529.
L’impressione generale che si ricava dall’analisi delle diverse tipologie di reperti recuperati dallo scarico è di una gestione pressocchè autosufficiente delle risorse attraverso
l’uso di beni di consumo di un certo livello e dalla tecnica elaborata, un
dato, questo, che non stupisce in un
contesto urbano e in una dimora aristocratica. Inoltre, scorie di lavorazione del ferro, del bronzo e del vetro testimoniano la presenza di attività artigianali gravitanti certamente nell’area del Castello.
Lo scavo di un immondezzaio antico consente l’operazione quanto
mai singolare di assegnare al rifiuto
il valore di documento: lo scarto diventa storia che racconta la vita di tutti i giorni, le suppellettili, il cibo, le abitudini. Sta all’archeologo “lucrare” il
più possibile su questa occasione straordinaria per raccogliere una messe
di dati che non sempre gli storici di
eventi e battaglie epocali si sono preoccupati di registrare, recuperando
squarci di economia domestica, il
trend dei consumi, i gusti della committenza. Da qui la scelta metodologica di un’analisi totale, integrata
dalle moderne tecniche diagnostiche
su argille, resti vegetali e ossa animali,
che ha consentito di appurare la presenza di ceramiche invetriate di produzione saccense, di ricostruire il tipo
di colture e di vegetazione del paesaggio antico, di fare luce sulle abitudini alimentari del periodo.
Il Castello di Guglielmo
La fondazione del Castello costituisce l’acmè della politica di affermazione personale condotta da
kalós - anno XXI n. 3 luglio/settembre 2009
Guglielmo Peralta che celebra con
la maestà di una fortezza il suo prestigio e la sua potenza.
Terzo conte di Caltabellotta, erede da parte della madre Luisa della
fortuna di Matteo Sclafani, a cui i Peralta devono parte cospicua delle loro
proprietà feudali, Guglielmo percorre in breve tempo un brillante cursus honorum. In ossequio al sovrano Federico IV, Guglielmo accoglie la
futura regina, l’infanta Costanza, a
Sciacca, centro del suo potere, sede
della sua corte, dove batterà moneta e controllerà il caricatore. Le nozze con Eleonora d’Aragona rinsaldano i vincoli con la casa regnante
e arricchiscono il patrimonio della famiglia, già cospicuo grazie ad altre
fortunate alleanze matrimoniali.
Quando nel 1380 fonda il Castello,
Guglielmo è divenuto uno dei quattro Vicari che affiancano la regina
Maria nel governo dell’Isola.
Sfruttando la concessione del defunto Re Federico IV, il Peralta erige
a Sciacca la sua fortezza, cardine
maestoso dell’ampliamento urbano
verso il piano di San Michele, segnando volutamente il distacco con
la Terra Vecchia e soprattutto con il
suo Castello di età normanna. Il Castello sin dalla sua fondazione manterrà i caratteri di residenza privata
non legata alle istituzioni civiche.
Non così il Castello Vecchio a cui, invece, si riferiva la castellania, che
dava anche diritto di dimora nell’edificio. Il dualismo delle strutture
castrali connoterà la storia della
città, con la sanguinosa contesa tra
i Conti Luna, eredi dei Peralta, ed i
Perollo, che stabiliranno la loro residenza presso il Castello Vecchio.
Il Castello Nuovo sorge sulla
collina a nord-est della città in una
posizione strategica di controllo del
territorio e del mare, dove pulsa il
cuore commerciale della città, il caricatore del grano.
Il caricatore oltre a determinare
la vocazione marittima di Sciacca, ne
segnava il legame con il territorio ed
il suo sistema di produzione agricola, di cui diveniva lo sbocco obbligato:
il ricco hinterland compreso tra i bacini fluviali del Platani, del Verdura e
del Belice, con i territori di Chiusa,
Sambuca, Caltabellotta, Burgio, Biarchelogia
vona, Misilcassim, costituiva il cuore economico della rete feudale dei
Peralta. Qui, a protezione delle vaste proprietà coltivate, sorgono nel
corso del XIV secolo numerosi castelli,
simbolo della dominazione feudale,
ma soprattutto presidio delle masserie, dei centri e della via del grano.
Il Castello Nuovo segue uno
schema geometrico dettato da un
duplice programma costruttivo – la
rappresentanza e la difesa militare
– che prevedeva imponenti appar-
Il matrimonio, celebrato a Sciacca nel 1404 e di cui la tradizione locale ha colorito lo sfondo tra le vendette dei pretendenti delusi dall’ordine del sovrano, segnava l’ascesa
della famiglia dei Luna, che con il patrimonio dei Peralta ereditava anche
la proprietà del Castello Nuovo,
che da loro prese il nome. La maggior parte delle monete recuperate
dal butto, coniate sotto il regno di
Alfonso il Magnanimo (1416-1458)
e di Giovanni II (1458-1479), si ri-
2. La città di Sciacca in una stampa
di G. Merelli, 1677 (da L. Dufour,
Atlante Storico della Sicilia. Le città
costiere nella cartografia manoscritta
1500-1823, Palermo 1992).
feriscono proprio all’età di Antonio
Luna e del figlio Carlo, documentando, per questo ampio scorcio del
XV secolo, la vita intensa del Castello. Carlo, custode delle glorie avite e sensibile mecenate, a Francesco
Laurana, da lui invitato a Sciacca nel
1468, commissionò il portale settentrionale della Chiesa di S.Margherita, e, successivamente, il busto
di Eleonora d’Aragona, nel prezioso marmo alabastrino delle cave di
Partanna. Il ritratto, oggi a Palazzo
Abatellis, ma verosimilmente proveniente dal Castello Nuovo, celebrando la memoria dell’Infanta, rinsaldava il legame con la famiglia reale, presso cui il Conte Luna godeva
di stima non comune.
La storia del Castello come residenza familiare si concluderà con i fatti sanguinosi del 1529, l’assalto di Sigismondo Luna al Castello Vecchio ed
ai Perollo, che qui risiedevano, e l’uccisione di Giovanni Perollo. Il grave episodio di violenza, noto come “secondo
caso di Sciacca”, scatenò l’ira di Carlo V. Sigismondo fugge a Roma sperando nella protezione del fratello della moglie, Papa Clemente VII, ma l’intervento del papa fu vano: bandito e
privato di tutti i suoi beni, il conte Luna
si suicidò gettandosi nel Tevere.
È probabile che l’edificio, acquisito al regio demanio, inizi adesso a
decadere, sebbene alla metà del
??? secolo divenga parte dell’ampliamento delle mura urbiche, do-
2
tamenti per la residenza del signore nell’ampio cortile di fronte alla
cappella dedicata a S.Gregorio, racchiusi da una cinta di mura a pianta poligonale, intervallata da torri.
Tale schema planimetrico ricorre
negli esempi coevi di Trapani, di
Manfredi, di Mussomeli e di Alcamo,
anche questi al contempo sede dell’autorità politica e presidio militare.
Il Castello dei Luna
Il ramo di Guglielmo si estingue
con la prematura morte di Nicola e,
per volere del re Martino, che dimorò
al Castello Nuovo in occasione delle esequie, l’erede Margherita sposò Artale di Luna.
5
sura, l’evoluzione delle produzioni di
queste officine tra fine del XIV ed inizi del XVI secolo e di veder nascere
la vivace produzione in maiolica
della fine del Quattrocento. Possiamo così cominciare a farci un’idea
del ruolo svolto dalle officine di Sciacca nel quadro delle produzioni siciliane del XV secolo e iniziare a dare
concretezza ai dati dei documenti
notarili, che ricordano la presenza in
diversi centri siciliani, soprattutto nelle farmacie, di contenitori saccensi,
che avevano dunque una propria
identità ben riconoscibile. Le ceramiche importate, inoltre, contribuiscono a ricostruire i vivaci rapporti
che legavano la città, uno dei porti più importanti della costa meridionale dell’isola, con le diverse
aree del Mediterraneo, ma anche a
comprendere quali contributi e quali influenze possono aver agito sullo sviluppo, da parte dei laboratori
saccensi, di un proprio linguaggio
decorativo.
3
Le produzioni locali
3. Ceramica ad invetriatura piombifera di produzione saccense.
4. Maiolica saccense.
5. Albarello a firma di Nicola Lo
Sciuto (da A.Governale, Sciacca e la
sua produzione in maiolica tra i secoli
XV e XVII, Palermo 1995).
6. Ditali in bronzo e in oro, di forma troncoconica e privi della calotta superiore, pensati per il pollice, secondo l’antica consuetudine
del cucito, e campanellini globulari
(appendici di finimenti di cavalli?).
7. Ceramica a lustro di importazione spagnola.
vuto al Vicerè de Vega. Ma dall’Atlante redatto nel 1640 dal Negro
e dal Ventimiglia, apprendiamo che
la fabbrica era già in rovina e le mura
urbiche ormai in stato disdicevole: “Il
Castello è fatto all’antica, vi sono le
mura con alcune torri scuoperte, la
maggior parte e distrutte. Non ha né
forma, né corpo che sia utile ad offendere e a difendere…”.
4
5
La ceramica del butto
e sui suoi rapporti con le altre sponde del Mediterraneo. Grazie anche
alle analisi delle argille e dei rivestimenti, infatti, siamo oggi in grado
di attribuire con certezza alle officine saccensi una notevole varietà di
tipi e forme, di chiarire alcuni aspetti di tipo tecnologico, soprattutto relativamente alla composizione dei rivestimenti, di seguire, in qualche mi-
Benché ancora parziale, in quanto limitato alle ceramiche rivestite,
lo studio delle ceramiche del butto
è in grado di darci molte informazioni sulle officine che le fabbricavano, sugli abitanti del castello che
le utilizzavano, e, in definitiva, sulla città di Sciacca nel Quattrocento
L’esistenza di produzioni saccensi
di ceramica era nota grazie ad Antonino Ragona che, nel 1971, nel
corso dei lavori di scavo realizzati in
piazza Saverio Friscia per la posa dei
tubi del nuovo acquedotto, raccolse una certa quantità di frammenti nei pressi di cinque fornaci per ceramiche, databili, secondo lo stesso
Ragona, nel corso del Trecento,
successivamente all’ampliamento
delle mura cittadine, realizzato nel
1335-36 da Federico II d’Aragona.
Indizi di un prolungamento dell’attività delle fornaci nel secolo successivo furono tuttavia segnalati
dallo stesso studioso, che notò la
presenza di ceramiche quattrocentesche nell’area.
Nuovi dati sulla ceramica saccense sono poi venuti dallo scavo
condotto nel 2005 presso il castello di Poggio Diana, anch’esso fondato da Guglielmo Peralta e non lontano dalla città di Sciacca, dove, all’interno di due cisterne, venne recuperata una gran quantità di reperti, in gran parte attribuibili alle officine di questo centro.
Le ceramiche recuperate nel
butto del castello Nuovo, estremamente simili a quelle rinvenute a
Poggio Diana, ampliano ulteriormente le nostre conoscenze dei
prodotti saccensi e pongono in
modo nuovo i problemi relativi alla
loro datazione e ad una possibile
evoluzione dell’attività delle officine.
Esse appaiono specializzate nella produzione di ceramiche con invetriatura piombifera, contenente
però in alcuni casi una piccola quantità di stagno, come è stato rilevato anche dall’esame al SEM del rivestimento di alcuni campioni. Le
forme prodotte sono ciotole, scodelle, boccali e piatti, con rivestimento monocromo, verde o giallobruno, o con decorazione in solo
bruno, in bruno e verde o in verde,
bruno e giallo, secondo una tradizione che sembra risalire alle protomaioliche policrome, cui sembrerebbero ispirarsi pure alcuni motivi
decorativi. Questi, tuttavia, sono in
gran parte di derivazione araldica,
come d’altra parte avviene su molte ceramiche tre e quattrocentesche.
Tra i motivi araldici ve ne sono alcuni
ricorrenti, che non sembrano direttamente ricollegabili a determinate
famiglie baronali, ma che piuttosto,
assunto ormai un valore puramente ornamentale, dovevano forse
rappresentare una sorta di “motivofirma” degli artigiani saccensi. Tra
questi motivi segnaliamo lo scudo
circolare campito a barre e fiancheggiato da quattro “ganci” e
quello, di varie forme, con linee ondulate che fiancheggiano barre verticali. Assai frequente anche il motivo del “cespuglio”, sia isolato nel
cavo delle ciotole, sia all’interno degli scudi.
Le invetriate stannifere rappresentano, nel contesto del butto, una
presenza quantitativamente minoritaria, ma di grande interesse, poiché sembrano prodotti in qualche
modo “sperimentali”, nei quali la
tecnica della maiolica si incontra con
un repertorio decorativo tradizionalmente utilizzato dalle officine
saccensi per la decorazione di invetriate piombifere; essi potrebbero essere di poco precedenti o grosso
modo contemporanei dei prodotti
meglio noti della maiolica saccense,
pure documentati, anche se da un
ridotto numero di esemplari, nel nostro butto.
Tra questi, di grande interesse ci
sembra un fondo di piatto o di ciotola, sul quale è tracciato un profilo, probabilmente femminile, in blu,
isolato sul fondo bianco. Il tratto sottile e delicato, alcuni particolari dei
lineamenti del volto, come la forma
del naso, la resa della bocca e la forma del mento, l’uso raffinato del
chiaroscuro, ci sembra avvicinino il
nostro profilo alla figura femminile
rappresentata su un albarello firmato
da Nicola Lo Sciuto.
Ad esemplari firmati dallo stesso maestro si può avvicinare un frammento decorato con foglia gotica accartocciata e recante resti di una iscrizione non leggibile. Agli albarelli del
Lo Sciuto il nostro frammento ci
sembra paragonabile non solo per
il motivo decorativo, ma anche per
la cromia e le caratteristiche della
pennellata.
Le importazioni
Le ceramiche importate provengono essenzialmente da due
aree del Mediterraneo, la penisola
iberica e l’Italia centrosettentrionale. Ad officine valenzane sono attribuibili un buon numero di maioliche decorate in solo blu o in blu e
lustro dorato, databili tra la seconda metà del Trecento e almeno tutto il XV secolo; tra la fine di questo
secolo e i primi decenni del XVI diventa più significativa la presenza di
ceramiche prodotte nell’Italia centrosettentrionale, ed in particolare le
graffite policrome, provenienti probabilmente dall’area veneta, e le maioliche di Montelupo.
La cronologia del butto
6
Sono proprio le ceramiche importate, insieme alle monete, a
consentirci di datare la formazione
del butto ad un ampio periodo
compreso tra la seconda metà del
XIV secolo ed i primi decenni del XVI:
la documentazione numismatica,
in particolare, che si distribuisce in
questo ampio arco cronologico, è
quantitativamente assai più significativa per il XV secolo (monete di Alfonso e Giovanni). Come le monete e le ceramiche importate, dunque,
anche le ceramiche locali vanno
con ogni probabilità riferite ad un
ampio periodo, senza che sia possibile però, per il momento, tentare una loro seriazione interna. Sembra comunque che, come avviene
per le monete, anche le ceramiche
vadano datate in gran parte al pieno XV secolo, mentre si possono verosimilmente attribuire alla seconda
metà del secolo quei prodotti che
abbiamo definito “sperimentali”, e
che sono caratterizzati dall’uso di
motivi decorativi tradizionalmente
utilizzati dalle stesse officine nelle invetriate piombifere per decorare in
blu ciotole ricoperte da vetrina stannifera: ciò probabilmente per la
suggestione esercitata sugli artigiani locali da una parte dai prodotti importati, dall’altra da altre produzioni di Sciacca, come quella delle
mattonelle dipinte.
•
7
6
kalós - anno XXI n. 3 luglio/settembre 2009
archelogia
7