IL RINASCIMENTO ITALIANO E L’EUROPA
volume quarto
Commercio e cultura mercantile
a cura di Franco Franceschi,
Richard A. Goldthwaite, Reinhold C. Mueller
angelo colla
editore
© 2007 Fondazione Cassamarca - Angelo Colla Editore, Treviso - Costabissara (Vicenza)
ISBN 978-88-89527-16-0
www.fondazionecassamarca.it
www.angelocollaeditore.it
Redazione: Anna Zangarini
Segreteria di redazione e ricerca iconografica: Luca Ramin
Segreteria organizzativa: Patrizia Fiori
Grafica: Studio Bosi, Verona
Le tecniche bancarie
francesco guidi bruscoli
Quando il giovane Matthäus Schwarz, tra il 1514 e il 1516, fu in Italia e
sentì parlare di contabilità in partita doppia, solo con fatica riuscì a trovare qualcuno che gliela insegnasse. Alla fine, dopo aver tentato prima a Milano e poi a
Genova, ne venne istruito da Antonio Mirafior a Venezia, fondamentale piazza
di affari per tutti i mercanti-banchieri tedeschi e principale centro per l’insegnamento della contabilità. Tornato in Germania, ad Augusta, venne subito assunto
dalla grande casa bancaria dei Fugger, i quali lo consideravano un grande esperto («da vermainet jederman ich were das magnificat»).1
Due elementi emergono chiaramente da questa storia, narrata dallo stesso
Schwarz: da un lato il fatto che ancora a inizio Cinquecento gli italiani venivano
considerati dei maestri nell’arte di tenere i libri di conto; dall’altro che essi avevano una scarsa tendenza a insegnare ciò che sapevano, considerato al tempo stesso
simbolo e strumento della loro superiorità sui mercanti-banchieri stranieri. Proprio questo sarà il filo conduttore del presente saggio: ovvero il valutare i vari
aspetti dell’attività bancaria alla luce di quello che potremmo chiamare il ‘mito
della banca italiana’. Infatti, data la coincidenza del ciclo di preminenza dei grandi mercanti-banchieri italiani (che, partendo dalla penisola, dominarono per una
significativa parte del basso Medioevo il panorama economico europeo) con il
possesso e l’utilizzo di tecniche sconosciute o non utilizzate in altri paesi, si è teso spesso a considerare tali strumenti proprio come la chiave del loro successo: in
1. A. Weitnauer, Venezianischer Handel der
Fugger nach der Musterbuchhaltung des Matthäus Schwarz, München-Leipzig 1931, pp.
5-8, 183-184. Qualche anno dopo, nel 1518,
Schwarz scrisse un manuale pratico di contabilità, il Dreierlay Buchhaltung, peraltro rimasto a lungo inedito forse per la paura da par-
te dei Fugger di divulgare informazioni sul
proprio operato, dato che gli esempi di
Schwarz erano presi direttamente dai registri
della compagnia (il manuale è stato pubblicato ivi, pp. 174-306). Da notare che, mentre il
testo è in tedesco, le parole tecniche sono in
italiano (o, meglio, in veneziano).
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altre parole una conditio sine qua non, una discriminante, per un’efficace azione nel
campo degli affari. Fermo restando il dato di fatto del primato degli operatori italiani, discuteremo se esso fu veramente favorito dall’uso di tali strumenti.
Prima di approfondire l’argomento, definiamo però i limiti di questo breve contributo: non si vuole certo, in questa sede, scrivere un trattato di storia della contabilità, anche se ricorderemo alcune date di comparsa dei manuali di tenuta dei conti nelle varie zone del continente, in quanto possono fornire indicazioni sulla diffusione delle tecniche contabili in quelle stesse aree; né scopo di
questo lavoro è indulgere in descrizioni eccessivamente particolareggiate di strumenti tecnici in ambito bancario. Si cercherà invece di utilizzare un approccio
problematico, lasciando forse più questioni aperte che fornendo risposte definitive a tematiche che per la loro vastità e complessità richiederebbero ben più lunghe trattazioni. Innanzitutto, è vero che gli italiani mantennero sempre il predominio, non solo in campo economico-finanziario, ma anche in quello delle tecniche? Fino a quando? Sconfineremo quindi al di fuori dei limiti geografici della penisola per cercare di mostrare se e come queste tecniche si diffusero dall’Italia alle zone più sviluppate del continente europeo.
Accenneremo alla prima comparsa di certe tecniche (da considerare come
termine ante quem, sempre passibile di uno spostamento indietro nel tempo, nell’eventualità di nuove scoperte archivistiche), ma ancor di più ci premerà sottolineare la loro reale diffusione. È questa, infatti, che assume rilievo in senso economico, come d’altronde hanno evidenziato anche de Roover e Melis nelle loro
ricerche sulle pratiche bancarie fiorentine del Tre e del Quattrocento.
Già di per sé la parola ‘tecnica’ si presta a precisazioni; nel seguito, la utilizzeremo in senso ampio, includendo nella voce non solo gli artifici contabili o
i vari strumenti creditizi utilizzati dagli operatori rinascimentali, ma anche le forme organizzative e contrattuali che distinguevano i più progrediti fra di essi dagli altri. D’altronde, «lo sviluppo dei contratti commerciali ha, nella storia del
commercio, la stessa decisiva importanza che ebbe lo sviluppo delle tecniche e
degli strumenti nella storia dell’agricoltura».2
Gli italiani e gli albori della banca
«Les banquiers italiens du XIII e siècle ont été mieux que des initiateurs: ils ont
été les fondateurs des méthodes de la banque moderne»: così si esprimeva settant’anni fa André Sayous, evidenziando una supremazia italiana nelle tecniche degli
affari.3 Un giudizio analogo, più recentemente, ha formulato Jean-François Bergier,
2. R.S. Lopez, La rivoluzione commerciale del
Medioevo, Torino 1975, p. 94.
3. A.S. Sayous, Les opérations des banquiers italiens en Italie et aux foires de Champagne pen-
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secondo il quale «la banca fu italiana per nascita e tale rimase sino alla fine del XV
secolo».4 E così molti altri studiosi, i quali hanno attestato un primato che non viene messo in discussione. D’altronde, la terminologia affaristica è stata, e in alcuni
casi è ancora oggi, di chiara derivazione italiana, sia nelle parole che nei concetti.
Nel Medioevo l’attività bancaria rimase comunque un derivato di quella
mercantile («la banca nacque non come impresa economica, ma nella impresa
economica», come ha efficacemente segnalato De Rosa, riassumendo le idee di
Melis),5 e di conseguenza, fra gli strumenti che elencheremo nel seguito, ve ne saranno alcuni non esclusivamente caratterizzanti un’attività bancaria in senso stretto, ma piuttosto un’attività mercantile-bancaria. I grandi protagonisti del periodo
rinascimentale, d’altronde, furono i mercanti-banchieri italiani, i quali, con le loro reti di filiali e corrispondenti internazionali, abbinavano attività creditizie e
mercantili, arrivando a dare un’impronta decisiva al periodo che accompagnò e
seguì la rivoluzione commerciale. A loro fianco, tuttavia, vi erano altre due tipologie di banche, almeno a Firenze: i banchi locali (o ‘al minuto’, come li definì de
Roover) e i ‘banchi grossi’. I primi operavano in città, accogliendo presso quello
che materialmente era un banco (o tavola) una variegata clientela locale: svolgevano l’attività di prestatori su pegno o cambiatori, con finalità più limitate (ad
esempio il prestito al consumo) rispetto a quelle dei mercanti-banchieri internazionali, ed erano oggetto, da parte della società, di una considerazione decisamente peggiore.6 I cosiddetti ‘banchi grossi’, invece, univano l’attività di banca internazionale a quella di banca locale: i Medici, ad esempio, ebbero sempre una ‘tavola’ locale a fianco della rete di compagnie che agivano a livello internazionale;
e anche lo stesso Francesco Datini ne aprì, pur brevemente, una; i Cambini ugualmente offrirono numerosi servizi alla loro clientela fiorentina.7 Diversa era la sidant le XIII e siècle, «Revue historique», CLXX
(1932), p. 31, ristampato in Id., Commerce et
finance en Méditerranée au Moyen Âge, a cura
di M. Steele, London 1988, cap. X.
4. J.F. Bergier, Dall’Italia del XV secolo alla Germania del XVI: una nuova concezione della banca?, in AA.VV., L’alba della banca. Le origini del
sistema bancario tra Medioevo ed età moderna,
Bari 1982, p. 123.
5. L. De Rosa, Introduzione, in F. Melis, La
banca pisana e le origini della banca moderna, Firenze 1987, p. XXII.
6. Per un esempio di banco locale fiorentino
(oltre che per considerazioni generali) cfr.
R.A. Goldthwaite, Local Banking in Renaissance
Florence, «The Journal of European Economic History», 14 (1985); per Venezia cfr. invece le considerazioni di R.C. Mueller, The
Role of Bank Money in Venice, «Studi Venezia-
ni», n.s., III (1979). Cfr. anche, in F. Melis,
Aspetti della vita economica medievale, Siena
1962, p. 213, le lettere di alcuni collaboratori del Datini che scoraggiavano il grande
mercante pratese dal dedicarsi a un’attività di
cambiatore, la quale gli avrebbe procurato la
cattiva reputazione di ‘usuraio’.
7. Per i Medici, R. de Roover, Il banco Medici
dalle origini al declino (1397-1494), Firenze
1970, pp. 19-29; per il Datini, Melis, Aspetti
della vita economica medievale, cit., pp. 212216; per i Cambini, S. Tognetti, L’attività di
banca locale di una grande compagnia fiorentina
del XV secolo, «Archivio Storico Italiano», CLV
(1997). Per ognuno di questi grandi operatori la modalità di inserimento del banco locale
all’interno del sistema aziendale era differente; tuttavia, in questa sede, non approfondiremo tale discussione.
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tuazione veneziana, visto che a Rialto vi era un numero ridotto di banchi (detti ‘di
scritta’) specializzati in operazioni di deposito e giroconto.8
Peraltro, volendo in questa sede valutare anche la diffusione delle tecniche
in altri paesi, è proprio ai mercanti-banchieri internazionali che bisogna riferirsi, in quanto erano loro ad avere una posizione di rilievo e legami nelle più importanti piazze finanziarie europee, dove agivano a stretto contatto con i principali uomini d’affari del luogo (oltre che con sovrani e con il pontefice). Specialmente in quegli ambiti territoriali in cui l’élite mercantile ricopriva anche ruoli
politici, la cultura del mondo degli affari, anche nei suoi aspetti gestionali e organizzativi, impregnava anche l’amministrazione pubblica. Quindi, se pure nel
seguito ci concentreremo in particolare sugli operatori privati, non si può negare che anche l’amministrazione della finanza pubblica, a partire dal Banco di San
Giorgio genovese (fondato nel 1408), abbia offerto il suo contributo per lo sviluppo di tecniche, in particolare contabili, atte alla gestione di capitali così consistenti e suddivisi tra un gran numero di operatori.
Comunque, solo una parte dei grandi mercanti svolgeva anche un’attività
di banca, dato che molti di essi si limitavano a reinvestire nella propria attività
imprenditoriale i profitti derivanti dal commercio.9 Inoltre può risultare difficile, all’interno delle varie operazioni creditizie, distinguere quali fossero orientate a un’attività di ‘banca’, quali a una transazione mercantile e quali a un’azione
puramente speculativa. Ed effettivamente anche la stessa azienda medicea è stata definita come «not a bank in the modern sense of the term», in quanto principalmente dedita al cambio internazionale (attività quindi legata al grande commercio) più che a operazioni di deposito e di prestito.10 Lo stesso termine bancherius, nelle fonti medievali, non indentificava necessariamente un uomo d’affari
diverso dal mercator, dato che entrambi erano dediti comunque ad attività sia di
cambio o prestito di denaro che commerciale.
Ma quali sono le funzioni di una banca?
Innanzitutto, come si è appena accennato, una prima funzione fondamentale è quella dell’erogazione del credito. In questo senso è bene distinguere fra
il lato passivo dell’operazione, ovvero quello del soggetto che ha bisogno di fon8. Per maggiori approfondimenti si rimanda a
F.C. Lane, I banchieri veneziani, 1496-1533, in
Id., I mercanti di Venezia, Torino 1996, pp. 219236 e a R.C. Mueller, The Venetian Money
Market: Banks, Panics, and the Public Debt, 12001500, Baltimore 1997, pp. 1-118. Se ora e nel
seguito molti esempi saranno riferiti alla realtà
fiorentina, ciò è una conseguenza del fatto che
essa è di gran lunga la più documentata, grazie
a una quantità di materiale archivistico che non
trova paragoni neppure in centri importantissimi come Genova o Venezia.
9. Secondo M. Del Treppo l’azienda Strozzi
fu una vera e propria azienda di credito, molto più di altre (Aspetti dell’attività bancaria a
Napoli nel ’400, in AA.VV., Aspetti della vita
economica medievale, Atti del convegno di studi nel X anniversario della morte di Federigo
Melis, Firenze-Pisa-Prato, 10-14 marzo 1984,
Firenze 1984, p. 578).
10. R.A. Goldthwaite, The Medici Bank and
the World of Florentine Capitalism, «Past and
Present», CXIV (1987), p. 6.
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di e che quindi è il motore dell’operazione, e il lato attivo, cioè quello del soggetto erogatore, che svolge funzione bancaria. La carenza di liquidità che è all’origine di tale meccanismo può riguardare sia i privati che il settore pubblico.
Quello del legame tra la finanza pubblica e l’attività bancaria privata è un aspetto nient’affatto secondario, in quanto generatore di un circolo vizioso da cui i
privati difficilmente riuscivano a uscire, poiché la concessione di finanziamenti
si concludeva raramente con la restituzione, ma più spesso con l’erogazione di
ulteriori prestiti. Al fine di affermarsi in mercati lontani ma proficui, i grandi
mercanti internazionali erano infatti spesso costretti a concedere a sovrani (o al
pontefice) prestiti di notevole entità; in cambio essi ricevevano vantaggi fiscali
oltre, appunto, alla concessione di privilegi commerciali. Per ottenere il rimborso delle somme prestate ricevevano in appalto la riscossione delle varie entrate
dello Stato (un’attività quindi complementare alla prima), ma rischiavano di cadere in esposizioni eccessive nei confronti dei governi: si pensi alla parabola dei
Bardi e Peruzzi nell’Inghilterra di Edoardo III, conclusa con un fallimento del
quale gli enormi prestiti concessi al sovrano furono una causa determinante, anche se non la sola (a questi si aggiunsero il dissesto della finanza pubblica fiorentina – con il conseguente crollo del corso dei titoli – e il prelievo che baroni e
alti prelati napoletani fecero dei consistenti capitali da loro depositati presso le
compagnie fiorentine).11 Tuttavia, proprio per il suo essere funzionale alla penetrazione mercantile, tale attività di prestito non è da sola sufficiente a identificare un’attività bancaria. In altre parole, perché si configuri la funzione di banca,
non basta una singola operazione di mutuo, ma è necessaria una continuità nell’apertura di credito ad altri.12
Strettamente legata a questo aspetto vi è un’altra delle funzioni primarie
della banca: la raccolta del risparmio e la sua canalizzazione verso varie forme di
investimento.
Un altro servizio offerto era quello della sicurezza: un servizio implicito
nella parola stessa di ‘deposito’, che prevedeva quindi come fine la tutela e la
salvaguardia di una somma di denaro, la quale era comunque a disposizione del
depositante nel momento in cui egli desiderava prelevarla o si attivava perché
venisse effettuato un trasferimento. Ovviamente, infatti, la banca serviva anche
11. C.M. Cipolla, Il fiorino e il quattrino. La politica monetaria a Firenze nel 1300, Bologna
1982, pp. 10-16. Due secoli più tardi un rapporto strettissimo tra potere pubblico e operatori privati si sarebbe venuto a creare con gli
asientos dei banchieri genovesi legati alla Corona spagnola: anche in questo caso i sovrani
iberici furono costretti a dichiarare ripetutamente bancarotta e a rendere quindi a lungo
termine o addirittura irredimibili prestiti che
invece erano nati con scadenze a breve (e in tal
modo misero in enorme difficoltà i genovesi,
che si trovarono con ingenti capitali immobilizzati). Per questo tipo di operazione cfr. i numerosi esempi in E. Grendi, I Balbi: una famiglia genovese fra Spagna e Impero, Torino 1997.
12. T. Fanfani, Sulle tracce della banca. Dai
«magazzini» al «banco» nel percorso dello sviluppo economico, in Alle origini della banca. Mercanti-banchieri e sviluppo economico, a cura di T.
Fanfani, Roma 2003, pp. 25-26, 34.
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da intermediaria per l’effettuazione o la facilitazione di pagamenti per conto
dei propri clienti.
Un ulteriore compito che la banca assolveva era quello di ‘creare denaro’.
Un problema fondamentale che afflisse l’Europa medievale, infatti, fu quello della carenza di metalli preziosi, che a sua volta determinava la scarsità di moneta
contante. Operazioni di accreditamento e addebitamento contabile (la cosiddetta ‘moneta d’inchiostro’), quando per la loro estensione superavano le riserve in
contante tenute dalla banca, avevano di fatto la funzione di determinare un aumento della disponibilità di denaro per il sistema. In questo caso le riserve detenute in contanti o metalli preziosi dalle banche non garantivano più i depositi registrati nei libri, e quindi la solvibilità dei banchieri era attestata solo dalla fiducia che in loro veniva riposta.
Last but not least, l’attività bancaria era caratterizzata dal trasferimento internazionale di denaro: questo scopo, come vedremo nel seguito, fu nel Medioevo efficacemente raggiunto grazie alla lettera di cambio.
Tutte queste funzioni, come si è detto, potevano favorire, dal lato passivo,
una serie di soggetti bisognosi di credito o non in grado di espletare autonomamente certi servizi: quindi privati, enti pubblici o aziende manifatturiere o commerciali. Per queste ultime il ricorso al credito era – come d’altronde lo è ancor
oggi – un elemento fondamentale al fine di garantire i mezzi necessari a nuovi
investimenti. Un primo modo mediante il quale una compagnia poteva procurarsi dei fondi era il ‘sovraccorpo’, ovvero l’apporto, da parte dei soci, di ulteriori capitali (sui quali si riceveva un interesse come forma di remunerazione) rispetto al ‘corpo’ (capitale sociale) iniziale della compagnia. Era, questa, una forma di mutuo volta all’incremento dei mezzi finanziari, quindi un credito diretto
a lungo termine. Successivamente anche persone estranee all’azienda, e all’ambito della famiglia, cominciarono a conferire depositi (detti ‘a discrezione’, come
vedremo fra poco), favorendo l’aumento delle disponibilità finanziarie e quindi
anche delle potenzialità di sviluppo delle compagnie stesse.
Con il XIV secolo le tecniche si affinarono. I mercanti, in particolare, miravano a ridurre il più possibile la giacenza inoperosa della ricchezza: si giunse
così a quella che Melis ha definito «la grande conquista trecentesca» del credito
di esercizio, che si diffuse in Toscana a partire dalla seconda metà del Trecento.
Gli operatori economici, utilizzando credito di ridotta entità e a breve termine,
rendevano produttiva anche la ricchezza di altri e allo stesso tempo aumentavano il proprio giro di affari. Il credito di esercizio, di ambito strettamente aziendale, era innanzitutto finalizzato alla fornitura di merci e si esplicitava in pratiche quali lo scoperto di conto, il giroconto, l’assegno e la girata.13
13. Per tutti questi strumenti, su cui in questa sede ci soffermeremo solo brevemente,
cfr. i numerosi studi di Melis ora ripubblicati
in Melis, La banca pisana, cit.: in particolare
le tecniche bancarie
Si diffuse notevolmente tra gli italiani, per poi essere ripresa anche da operatori fiamminghi e catalani, la pratica dell’apertura di conto corrente, grazie alla quale il cliente, avendo creato un deposito a proprio nome, poteva prelevare
fondi «a suo piacere» o ordinare che venissero effettuati pagamenti a favore di
terzi (giroconti): si esplicitavano insomma due delle suddette funzioni della banca, quella della ‘sicurezza’ e quella dell’effettuazione dei pagamenti (alcuni conti
avevano una durata limitata nel tempo, e venivano chiusi proprio dopo aver assolto la finalità per cui erano stati aperti). Ovviamente poi, disponendo di un
conto corrente, un cliente poteva anche vedersi lì accreditate somme di cui era
creditore nei confronti di terzi.
Ma poteva manifestarsi anche un’ulteriore funzione, quella dell’erogazione
del credito a favore del correntista, nel momento in cui si permetteva al saldo del
conto di diventare passivo, ovvero si arrivava allo scoperto: e questa forma di credito poteva favorire sia privati, sia istituzioni, sia aziende mercantili-bancarie o manifatturiere.14 Il conto corrente, simile a quello in uso attualmente, aveva però la
caratteristica di non essere latore di interessi, né attivi (a favore del cliente), né passivi (a favore della banca, qualora il saldo del conto fosse negativo). Gli unici conti che prevedevano una remunerazione per il depositante erano i cosiddetti ‘depositi a discrezione’, i quali garantivano a chi versava dei fondi presso l’azienda un
compenso in teoria legato alla discrezione del banchiere (quindi un donativo, non
un interesse: un trucco per ovviare alle disposizioni anti-usurarie). Si trattava di depositi a lungo termine – dei quali dunque l’intestatario non poteva disporre – che
iniziarono ad apparire nei conti a partire dalla fine del XIII secolo.15
Strumenti come i precedenti presupponevano l’esistenza di un elemento
che non può essere definito ‘tecnico’, ma che era certamente necessario affinché
essi potessero trovare applicazione e diffusione: la fiducia. Essa infatti sostituì le
garanzie reali dei pegni, permise di evitare l’utilizzo dell’atto pubblico e quindi
favorì la rapidità e la snellezza delle operazioni di mutuo; infine, gradualmente,
spinse alla prevalenza dell’ordine scritto su quello orale (che presupponeva la
contemporanea presenza, presso il banco, di debitore e creditore).16 Secondo
La grande conquista trecentesca del «credito di
esercizio» e la tipologia dei suoi strumenti fino al
XVI secolo (pp. 307-324), Motivi di storia bancaria senese: dai banchieri privati alla banca pubblica (pp. 325-342) e Sulla non-astrattezza dei titoli di credito nel Basso Medioevo (pp. 343-356).
Dello stesso autore cfr. anche Documenti per
la storia economica dei secoli XIII-XVI, Firenze
1972, in particolare pp. 75-103, 463-495.
pp. CXXIV-CXLI. A cavallo del 1400 lo scoperto di conto era praticato non solo a Firenze,
ma anche a Genova e Venezia.
14. G. Mandich, Per una ricostruzione delle
operazioni mercantili e bancarie della compagnia
dei Covoni, introduzione a A. Sapori, Libro
giallo della compagnia dei Covoni, Milano 1970,
16. Luciano Palermo segnala come proprio la
fiducia fosse un elemento che divideva i fiorentini dai romani. Fiducia che i primi non
avevano nei confronti dei secondi quando a
15. Per considerazioni sul conto corrente e
sugli interessi cfr. Tognetti, L’attività di banca
locale, cit., pp. 635-640. Per i ‘depositi a discrezione’ si rimanda a de Roover, Il banco
Medici, cit., pp. 145-155.
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Melis l’ordine scritto fu una peculiarità fiorentina, dato che in molte altre piazze – quali Barcellona, Venezia e Genova – l’ordine orale prevalse fino al XV secolo inoltrato; gli studi di Spallanzani, che ha segnalato l’utilizzo diffuso di ‘polizze’, e di Goldthwaite hanno corroborato questa impressione.17
L’assegno bancario venne dunque utilizzato in Toscana almeno dal 1368, e
deve essere segnalato anche per la diffusione che ebbe in tale area pure fra gli strati più bassi della popolazione, tra i quali evidentemente era accettabile una strisciolina di carta da portare all’incasso presso uno dei banchi della città (quello
trassato, in cui chi aveva scritto l’assegno vantava disponibilità o quantomeno
un’apertura di credito). Esemplare è il caso del pagamento dei lavori per la costruzione dell’abside della chiesa di San Martino a Gangalandi, presso Firenze, negli
anni Settanta del Quattrocento. Il responsabile della gestione dei fondi, Niccolò
Corbizzi, ricevette 100 fiorini d’oro larghi da Roma, dalla compagnia del fiorentino Guglielmo Rucellai, mediante una lettera di cambio spiccata sulla consorella
in Firenze. Via via che l’edificazione andava avanti, Corbizzi provvedeva ai pagamenti, quasi sempre mediante ‘polizze’, ovvero assegni, che i manovali (muratori, scalpellini ecc.) erano pronti ad accettare per poi incassarne il relativo importo presso la compagnia Rucellai in Firenze. Intanto si poteva seguire la disponibilità dei fondi, grazie alle registrazioni che puntualmente venivano effettuate nel
conto corrente intestato al Corbizzi.18 Tuttavia, per questo strumento, che veniva
usato solo a livello locale e non per pagamenti internazionali, bisogna notare come a un’affermazione quattrocentesca di ambito fiorentino non corrispose un’analoga e contemporanea diffusione in altre città della penisola. Per esempio, non
se ne riscontrano casi a Genova o a Venezia; e nella stessa Firenze, in assenza di
studi specifici sull’argomento, è tutta da verificare una continuità di utilizzo per
quanto riguarda il Cinquecento o i secoli successivi. Ciò genera quindi dubbi sullo sviluppo di tale strumento e anche sul suo peso reale.
fine Trecento, in coincidenza con l’affinamento e lo snellimento delle tecniche di gestione della ricchezza, i fiorentini ebbero un
crescente successo nel mercato romano e videro aumentare il gap con i cittadini dell’Urbe. Anche se va detto che essi derogavano a
tale principio quando si trattava di ingraziarsi le più alte sfere della gerarchia curiale: L.
Palermo, Un aspetto della presenza dei fiorentini in Roma nel ’400: le tecniche economiche, in
AA.VV., Forestieri e stranieri nelle città bassomedievali, Atti del seminario internazionale di
studio, Bagno a Ripoli (Firenze), 4-8 giugno
1984, Firenze 1988, pp. 90-91.
17. Melis, La grande conquista trecentesca, cit.,
pp. 314-315, 318-319; a Genova, «l’ordine
scritto aveva preso piede con effetto soluto-
rio; ma per far leva sul ‘giro-conto’ e non per
pagamenti de numeratis» (Id., Sulla nonastrattezza dei titoli di credito, cit., pp. 351352); M. Spallanzani, A Note on Florentine
Banking in the Renaissance: Orders of Payment
and Cheques, «The Journal of European Economic History», VII (1978); R.A. Goldthwaite,
La costruzione della Firenze rinascimentale. Una
storia economica e sociale, Bologna 1984, pp.
429-434.
18. M. Spallanzani, L’abside dell’Alberti a San
Martino a Gangalandi. Nota di storia economica,
«Mitteilungen des Kunsthistorisches Institutes in Florenz», XIX (1975). Per altri esempi
quattrocenteschi si vedano Id., A Note on Florentine Banking, cit., pp. 156-157 e Tognetti,
L’attività di banca locale, cit., pp. 640-641.
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L’ordine orale permaneva invece in città con una più spiccata tendenza
‘fieristica’ come poteva essere Venezia, nella quale si creavano occasioni d’incontro – e quindi la contestuale presenza delle due parti coinvolte presso la sede del
banchiere – in genere assenti per le piazze toscane, dove quindi l’ordine scritto
era una necessità per favorire clienti che magari erano stanziati in sedi lontane.
Ancora nel 1663 il regolamento del Banco del giro veneziano proibiva ai contabili di effettuare giroconti se non per istruzioni che fossero «sentite a dire».19 Anche Napoli, secondo Del Treppo, costituiva una sorta di fiera permanente, e non
a caso, nella ben documentata vicenda del banco napoletano degli Strozzi, l’ordine orale sembra aver mantenuto la preponderanza, con l’ordine scritto limitato a operazioni con clienti fuori piazza.20
Un altro strumento che prese campo nel corso del Trecento fu la girata
(ovvero la cessione del titolo a terzi) che, inizialmente ‘fuori dal titolo’, fu in esso inserita a partire dal 1410.21 Sui titoli di credito poteva attuarsi anche lo sconto, ovvero una loro liquidazione prima del termine, a un prezzo ovviamente minore rispetto al valore nominale: tale pratica, di cui si hanno esempi primo-trecenteschi, poteva essere attuata su titoli cambiari e non.
Allo stesso tempo nelle fiere di Champagne avevano preso campo, sempre
grazie agli italiani, strumenti quali la lettera di cambio, su cui torneremo in seguito; inoltre si poterono utilizzare questi raduni periodici (vi erano sei fiere l’anno) come stanze di compensazione fra crediti e debiti, proprio grazie alla raffinatezza degli strumenti poc’anzi citati.
Entro la fine del XIV secolo, dunque, le principali ‘conquiste’ tecniche in
campo bancario-mercantile erano state ottenute dagli operatori dell’Italia centro-settentrionale: dall’apertura di credito per forniture di merci allo scoperto di
conto corrente, dallo sconto (con o senza un’operazione di cambio) alla girata,
dal giroconto all’assegno. Successivamente, con il Quattrocento, non si rilevano
invece grandi progressi tecnici; i due aspetti più rilevanti, forse, furono nuove
forme organizzative e poi il perfezionamento e la più ampia diffusione di strumenti che erano già stati messi a punto nel corso del Trecento.
Avendo fin qui parlato di innovazione tecnica, abbiamo trascurato un aspet19. R. de Roover, Le rôle des Italiens dans la
formation de la banque moderne, «Revue de la
Banque», 9-10 (1952), p. 6 dell’estratto.
«per sua lettera ... ci disse» (Del Treppo, Aspetti dell’attività bancaria a Napoli, cit., pp. 563565).
20. Del Treppo, Aspetti dell’attività bancaria a
Napoli, cit., pp. 561-562, 571. Non concorda
con questa visione di ‘fiera permanente’ A.
Grohmann, Le fiere del Regno di Napoli in età
aragonese, Napoli 1969, pp. 299-300. Per quanto riguarda l’ordine orale, Del Treppo presenta un’interessante digressione a proposito della
parola ‘dire’, spesso associata a ordini scritti:
21. Anche per la girata, tuttavia, la diffusione
non fu affatto uniforme: ad esempio a Genova le lettere di cambio venivano trasferite per
via notarile, almeno nel periodo aureo delle
fiere di cambio (G. Felloni, Strumenti tecnici
ed istituzioni bancarie a Genova nei secc. XVXVIII, in Id., Scritti di Storia Economica, Genova 1998, I, pp. 639-640).
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to cui peraltro non è possibile fornire una risposta univoca: da dove veniva lo stimolo a tale innovazione? In alcuni casi costituirono un fattore importante le disposizioni anti-usurarie, che favorirono l’affinamento di strumenti quali la lettera di
cambio, su cui ci soffermeremo in seguito e che fu forse lo strumento simbolo dell’attività bancaria medievale. In altre occasioni, al contrario, le regolamentazioni
potevano costituire un limite allo sviluppo di certe funzioni creditizie o finanziarie. Un ulteriore stimolo all’innovazione arrivò dalla scarsità di moneta pregiata,
che costrinse l’Europa del tardo Medioevo da un lato alla ricerca di nuovi giacimenti, dall’altro allo sviluppo di tecniche contabili più avanzate per permettere lo
svolgersi di una crescente attività economica nonostante la carenza di numerario.
Inoltre, la nascita di organismi sempre più complessi e il conseguente desiderio di
valutare i rischi e di limitarli costituirono un motore fondamentale per perseguire
il miglioramento delle tecniche, fossero esse contabili o gestionali. Non certo irrilevante fu anche l’allargamento della provenienza dei soci a persone esterne all’ambito della famiglia, che comportò – pur all’interno di un rapporto di fiducia – l’affinamento di strumenti contabili che dessero una maggior garanzia di controllo.22
L’organizzazione
Abbiamo già sottolineato come un’analisi della forma societaria non possa essere considerata come distaccata da quelli che erano gli strumenti utilizzati
dalla società stessa, i quali, anzi, proprio in virtù di una determinata cornice organizzativa, potevano espletarsi o meno. La compagnia fu la forma societaria che
meglio si adattò allo sviluppo dell’attività mercantile-bancaria: rispetto ai contratti precedenti, essa dava stabilità e permanenza nel tempo al legame fra soci,
il cui apporto di capitale era finalizzato non più a una singola operazione commerciale, ma a una serie di investimenti (commerciali, bancari, assicurativi ecc.)
che venivano effettuati nel corso del tempo. Inizialmente a carattere strettamente famigliare, la compagnia si aprì poi al contributo di soci esterni e costituì quindi la cornice organizzativa grazie alla quale si poté superare il limite che derivava dalla carenza di liquidità e all’interno del quale «si formano consistenti patrimoni mobiliari necessari sia per lo sviluppo delle attività della compagnia stessa
che per la sua operatività nell’esercizio del credito».23 L’allargamento degli orizzonti economici determinò la genesi di strutture sempre più complesse, come ad
esempio quelle dei già citati Bardi e Peruzzi; questo tipo di organizzazione, tuttavia, alla metà del Trecento trovò il suo limite nel legame troppo stretto tra fi22. Tuttavia non si può dire che il legame tra
le dimensioni aziendali e il progresso tecnico
nel campo della contabilità abbia suscitato un
grande interesse storiografico (come rilevato
anche da Felloni: ivi, p. 640).
23. Fanfani, Sulle tracce della banca, cit., p. 34.
le tecniche bancarie
liali, che portò il sistema a collassare con un clamoroso effetto domino, innestato da una serie di fattori, fra cui le difficoltà delle sedi londinesi, le quali si erano esposte troppo nei confronti di re Edoardo III. Mezzo secolo dopo, quindi, la
struttura del sistema delle aziende datiniane era diversa: ciascuna di esse aveva
capitali propri, ma in ognuna Francesco di Marco Datini era socio di maggioranza. Sfumature ancora diverse presentarono, in pieno Quattrocento, la holding dei
Medici (in cui la casa-madre fiorentina aveva la maggioranza delle quote di società che essa creava in altre sedi con il ‘manager’ delle filiali stesse) o le compagnie dei vari rami della famiglia Borromei, ognuna con le proprie peculiarità organizzative, ma ciascuna con filiali giuridicamente indipendenti l’una dall’altra.24
Fuori dall’Italia le forme organizzative delle prime società mercantili-bancarie italiane ebbero una profonda influenza anche nei secoli successivi. Per tutto il Quattrocento e il Cinquecento si affermarono in pratica i modelli già presenti nell’Italia due-trecentesca; modelli che peraltro, come si è appena visto, gli
italiani avevano ormai superato.25 La forte impronta famigliare del modello italiano si rispecchiò anche nell’organizzazione tedesca (nelle compagnie dei Fugger, per esempio, i soci non furono mai estranei all’orbita dei consanguinei), così come la durata dei contratti di compagnia. Quindi, mentre ormai nel Quattrocento gli italiani (memori dei fallimenti trecenteschi) costituivano reti di filiali
autonome, i tedeschi avevano invece un’organizzazione molto più accentrata e
ricorrevano a cartelli e monopoli con frequenza molto maggiore.26 E ancora nel
1710 il francese Ricard, che nella sua descrizione dell’Olanda sottolineava i grandi progressi di quel paese per molti aspetti dell’economia (commercio, assicurazioni, trasporti ecc.), non rivelava però novità profonde per quanto riguarda le
tipologie organizzative delle società.27
Ovviamente, più complessi diventavano gli affari, maggiore era la necessità di controllo, tanto che si tende anche a legare lo sviluppo della partita doppia all’ingresso nelle compagnie mercantili di soci esterni alla famiglia. Nella
stessa epoca in cui dominavano le grandi compagnie italiane, in altri paesi dell’Europa occidentale, dove la partita doppia non era conosciuta o almeno non era
utilizzata, gran parte dei mercanti costituivano aziende individuali o si riunivano
in compagnie piccole e dalla vita breve.28 Forse una consequenzialità si può stabilire, anche se resta da chiarire in quale direzione.
24. Sulle aziende datiniane cfr. Melis, Aspetti
della vita economica medievale, cit.; sui Medici
de Roover, Il banco Medici, cit.; sui Borromei,
in particolare sull’attività delle sedi di Bruges
e Londra nella prima metà del Quattrocento,
chi scrive ha in corso, assieme a Jim Bolton,
un progetto di ricerca (Borromei Bank Research
Project) con base a Queen Mary College, University of London.
25. A. Sapori, La mercatura medievale, Firenze 1972, p. 47.
26. Bergier, Dall’Italia del XV secolo alla Germania del XVI, cit., pp. 140-144.
27. G. Luzzatto, Storia economica dell’età moderna e contemporanea, 1, L’età moderna, Padova 1954, p. 250.
28. J. Bernard, Commercio e finanza nel Me-
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13
554
la pratica degli affari
Volendo scegliere dei simboli caratterizzanti la tecnica bancaria italiana,
potremmo selezionare proprio la contabilità in partita doppia e la lettera di cambio. Furono, questi, due strumenti di cui gli italiani furono padroni e che incontrarono tuttavia due destini diversi: la prima rimase almeno fino al XVI secolo
un’esclusiva prerogativa degli operatori della penisola e non trovò un utilizzo
diffuso all’estero se non dal XVIII secolo; la seconda, invece, venne presto acquisita anche da operatori stranieri, ma venne utilizzata con finalità a volte diverse.
Per questo motivo, le analizzeremo ora in maggiore dettaglio.
La partita doppia
114
«Commerce and banking went hand in hand. Merchants in the very nature of their activity with one another performed several banking functions, and the
instrument fundamental to their business through which they did this was accounting».29 In pratica la contabilità, che pure non è per sua natura uno strumento specificatamente bancario, serviva ai mercanti per mantenere un efficiente controllo su tutte le operazioni commerciali, assicurative, ma anche bancarie: dall’apertura dei conti correnti al giroconto, dallo scoperto di conto al cambio, ai trasferimenti internazionali di denaro. Era, insomma, il modo grazie al quale gli
strumenti di cui si è poc’anzi parlato potevano essere gestiti e grazie al quale si potevano vedere i risultati delle operazioni intraprese. Una contabilità efficiente era
tanto più necessaria quanto più si complicavano le operazioni: anche in caso di giroconti, ad esempio, i soggetti coinvolti potevano essere più di due, oltre al banchiere, e questo determinava la necessità, da parte di tutti, di registrare con grande attenzione gli accreditamenti e gli addebitamenti (e ciò a maggior ragione in
quelle realtà in cui i libri di conto avevano valore giuridico).
La contabilità in partita doppia, che trovò il suo più famoso teorizzatore in
Luca Pacioli, il quale ne delineò i principi dottrinari nella ben nota Summa de Arithmetica, Geometria, Proportioni et Proportionalità e in particolare nella sezione dedicata a De computis et scripturis (1494), nacque alla fine del XIII secolo.30 D’altronde, il
primo passo per essere considerato un buon ‘mercante’ – ce lo dice Cotrugli, autore
del primo testo scritto che parla di partita doppia – era proprio quello di conoscere
bene l’arte di tenere le scritture, da cui poi tutte le altre derivavano: «Lo sapere bedioevo (500-1500), in Storia economica d’Europa diretta da C.M. Cipolla, I, Il Medioevo, Torino 1979, p. 265.
29. R.A. Goldthwaite, An Economic History of
Renaissance Florence, in corso di stampa, cap. 3.
30. L’origine della partita doppia viene fatta
risalire alle fiere di Champagne e in partico-
lare a un libro di conti di Ranieri Fini, 12971303. Il primo conto in partita doppia, tuttavia, pare essere la copia notarile di una carta
dei Peruzzi, del 1292 (F. Melis, Storia della ragioneria, Bologna 1950, pp. 401-539, in particolare pp. 480-485). Alla teoria della nascita
toscana si contrappone tuttavia quella di chi
ritiene la partita doppia di origine veneziana.
le tecniche bancarie
555
ne et hordinatamente tenere le scripture insegna lo sapere contractare, mercatare et
guadagnare ... et così per ordine governandoti bene nelle scripture, ti puoi chiamare mercante. Se pure non lo farai, non se’ degno d’essere nominato mercante».31
In questo ambito gli italiani, si è detto, erano padroni. Ma, considerando
il fatto che essi avevano fitte reti di aziende e filiali all’estero, e che quindi grande era la loro consuetudine a fare affari con mercanti di altri paesi, sorge spontanea la domanda sull’eventuale scambio di tecniche. Quale era la situazione all’estero? Quali furono i tempi e le modalità di diffusione delle tecniche contabili? Come mai l’evidenza documentaria mostra un utilizzo molto limitato di tale
strumento al di fuori della penisola? 32 Lo staff che gestiva le sedi estere delle
compagnie italiane era composto da italiani che spesso avevano ricevuto la loro
istruzione in patria, prima di affrontare l’esperienza fuori dai confini della città
di origine, e che all’estero certamente utilizzavano quegli strumenti contabili che
avevano appreso (come mostrano i tanti libri di conti di filiali estere conservati
presso gli archivi italiani, in particolare fiorentini).33 Tuttavia, nonostante i frequenti contatti con i maggiori operatori locali, questi ultimi sembrano non aver
assorbito quelle che erano le più avanzate tecniche gestionali e contabili italiane.
D’altronde, anche limitando l’attenzione alla penisola italiana, si può notare come i principali mercanti-banchieri che operavano a Roma fra Tre e Quattrocento – i fiorentini – ‘esportassero’ sì tutti i loro strumenti e tecniche contabili nella città eterna, ma fossero in realtà poi gli unici a utilizzarli.34
Lo storico inglese della ragioneria Basil S. Yamey ha preso in considerazione l’opera pacioliana, evidenziando come essa fosse, per varie ragioni, strumento
inadatto alla diffusione diretta della partita doppia tra i mercanti-banchieri, essendo rivolta essenzialmente a matematici e umanisti; secondo lui, per la diffusione
fu essenziale il contatto diretto, grazie al movimento continuo di mercanti, contabili ecc. In questo egli contrasta con Besta e più recentemente con Favier, anche se ammette che, dagli anni Quaranta del Cinquecento, il Tractatus de computis
et scripturis generò una sorta di febbre di imitazione, con un effetto diretto sulla
pubblicazione di tre manuali mercantili (Domenico Manzoni, Quaderno doppio,
118, 119
31. Benedetto Cotrugli, Il libro dell’arte di
mercatura, a cura di U. Tucci, Venezia 1990,
pp. 172, 174. La parte relativa alla partita
doppia è contenuta nel libro I, cap. 13 (pp.
171-175 della citata edizione). L’opera del
mercante raguseo è del 1458, ma venne pubblicata solo nel 1573.
32. Peraltro, come ha sottolineato L. Palermo, la «presenza, o assenza [degli elementi
tecnici], non è mai ... neutrale e rinvia sempre
alla ricostruzione del ruolo economico di chi
li usa o, al contrario, li rigetta» (Palermo, Un
aspetto della presenza dei fiorentini, cit., p. 82).
33. Non ci soffermeremo qui sull’istruzione
che ricevevano in patria i giovani mercanti
italiani. Per approfondimenti sull’argomento
rimandiamo al classico A. Sapori, La cultura
del mercante medievale italiano, «Rivista di
Storia Economica», II (1937), rist. in Id., Studi di storia economica. (Secoli XIII-XIV-XV), III ed.
accresciuta, I, Firenze 19553.
34. Palermo, Un aspetto della presenza dei fiorentini, cit.
556
la pratica degli affari
1540, in Italia; Jan Ympyn, Nieuwe instructie, 1543, nelle Fiandre; Hugh Oldcastle,
A profitable treatyce, 1543, in Inghilterra), questi sì maggiormente adatti alla diffusione.35 Non è forse una coincidenza che proprio attorno alla metà del XVI secolo,
quando ormai il dominio dei mercanti-banchieri italiani si era indebolito e i centri
nordeuropei avevano preso il sopravvento come principali piazze finanziarie, in varie aree del continente si assistette contemporaneamente a un fiorire di manuali di
contabilità; inoltre, risalgono proprio a questo periodo i primi libri di conti tenuti
in partita doppia ad Anversa e in Inghilterra.36 Tuttavia, fuori dall’Italia, il reale successo della partita doppia si sarebbe registrato solo nel XVII secolo, mentre in precedenza erano più le persone che avevano acquisito «some knowledge of the system than actually used the system in practice».37
In ogni caso il ruolo e la reale importanza della partita doppia andrebbero
investigate più a fondo, per valutare se la mancata adozione di tale strumento non
fosse il risultato di una scelta, più che un sintomo di arretratezza. Molti esempi
mostrano infatti che essa non era affatto una conditio sine qua non per il successo.
Se prendiamo come spartiacque proprio quella metà del XVI secolo in cui la manualistica sulla contabilità cominciò a diffondersi in tutta Europa, noteremo come nel periodo precedente gruppi di mercanti di successo ne avessero fatto tranquillamente a meno (ad esempio gli anseatici, che usavano la partita singola, ma
con tecniche che via via si raffinavano).38 Nel periodo successivo, invece, chi avesse voluto avrebbe potuto procurasi un contabile o almeno un maestro, e quindi il
mancato uso di tale sistema di contabilità potrebbe semplicemente essere il sintomo di una mancanza di bisogno.39 Anche nel periodo d’oro delle case mercantili35. B.S. Yamey, Pacioli’s De Scripturis in the
Context of the Spread of Double Entry Bookkeeping, «Revista Española de Historia de la Contabilidad», 1 (2004); F. Besta, La ragioneria,
Milano 1929, III, p. 340; J. Favier, L’oro e le spezie. L’uomo d’affari dal Medioevo al Rinascimento, Milano 1990, p. 297. In Francia l’influenza
italiana si esercitò certo attraverso le fiere di
Lione: è del 1567 il manuale di Pierre Savonne (Instruction et manière de tenir livres).
36. Alcuni studiosi mettono tuttavia in dubbio una reale diffusione della partita doppia
ad Anversa: cfr. E. Coornaert, Les Français et
le commerce international à Anvers: fin du XV eXVI e siècle, Paris 1961, II, pp. 173-174 e J.A.
van Houtte, An Economic History of the Low
Countries, 800-1800, London 1977, p. 207.
Per un panorama completo sui manuali mercantili pubblicati in Europa a partire dal 1470
si veda Ars Mercatoria. Handbücher und Traktate für den Gebrauch des Kaufmanns. Manuels
et traités à l’usage des marchands. 1470-1820.
Eine analytische Bibliographie, a cura di J.
Hoock, P. Jeannin e W. Kaiser, Paderborn
1991-2006, in particolare vol. I (1470-1600).
37. Yamey, Pacioli’s De Scripturis, cit., p. 150.
38. H. Samsonowicz, Remarques sur la comptabilité commerciale dans les villes hanseátiques
au XV e siècle, in AA.VV., Finances et comptabilité
urbaine du XIII e au XVI e siècle, Actes du colloque
international, Blankenberge, 6-9 settembre
1962, Bruxelles 1964, pp. 207-215.
39. La discussione, che prende spunto dall’esaltazione fattane da Sombart, ha trovato molti studiosi pronti a decantare le virtù della partita doppia e altri che invece ne hanno negato
la reale importanza ai fini di una buona pratica degli affari: in questa seconda ottica cfr. ad
esempio i contributi di B.S. Yamey, Bookkeeping and Accounts, 1200-1800 e di P.H. Ramsey,
The Unimportance of Double-Entry Bookkeeping:
did Luca Pacioli really Matter?, entrambi in L’impresa. Industria Commercio Banca. Secc. XIII-XVIII,
le tecniche bancarie
bancarie della Germania meridionale la partita doppia venne da esse utilizzata con
ritardo e solo parzialmente (è il caso dei Fugger, ad esempio, con Jacob e anche il
suo contabile Matthäus Schwarz che avevano avuto esperienze veneziane).40 Per
quanto riguarda un’altra delle zone più sviluppate del continente europeo, l’area
barcellonese-valenzana, l’evidenza documentaria mostra alcuni esempi di utilizzo
di partita doppia; ma certamente non si trattava di un fenomeno diffuso.41
La lettera di cambio
L’altro strumento che, come si è detto, ha caratterizzato in maniera inequivocabile l’attività dei mercanti-banchieri italiani nel corso del Medioveo è la
lettera di cambio. Il ruolo fondamentale dell’attività cambiaria venne sottolineato, ancora, da Cotrugli, secondo il quale «cambio è gientile trovato ed è quasi
uno elemento et condimento di tucte le cose mercantili, senza lo quale, come
l’humana conpositione senza li elementi essere non può, così la mercantia sanza
il cambio».42 L’attività di cambio costituiva in effetti un elemento basilare dell’attività bancaria, ed era ad essa intrinsecamente legata.
La precisa data di origine della lettera di cambio è ignota, ma la sua documentata presenza sul finire del Duecento fa di questo momento il terminus
ante quem.43 In sintesi, nella piazza A il ‘datore’ conferiva una somma di denaro al ‘prenditore’ affinché, dopo un certo periodo di tempo, una somma equivalente fosse pagata nella piazza B dal ‘trattario’ al ‘beneficiario’. Se inizialAtti della Ventiduesima Settimana di Studi
dell’Istituto Datini, Prato, 30 aprile-4 maggio
1990, a cura di S. Cavaciocchi, Firenze 1991,
pp. 163-187, 189-196.
40. Il ritardo tedesco è sottolineato anche dal
fatto che i primi conti correnti apparvero nei
registri tedeschi solo nel XV secolo, epoca
nella quale si cominciarono anche a utilizzare più registri al posto di un unico memoriale: R. de Roover, Aux origines d’une technique
intellectuelle: la formation et l’expansion de la
comptabilité à partie double, «Annales d’Historie Economique et Sociale», IX (1937), p.
185. Cfr. anche Bergier, Dall’Italia del XV secolo alla Germania del XVI, cit., pp. 144-145.
41. E. Cruselles Gómez Los mercaderes de Valencia en la Edad Media (1380-1450), Lleida
2001, pp. 216-233. Dello stesso autore si veda
anche Los comerciantes valencianos del siglo XV y
sus libros de cuentas, Castelló de la Plana 2007,
pp. 14-61 per un panorama sulla situazione in
varie zone europee fra Tre e Quattrocento.
42. Cotrugli, Il libro dell’arte di mercatura, cit.,
p. 165.
43. B. Dini segnala una lettera del 24 marzo
1291 inviata dai Cerchi in Firenze ai loro
agenti in Inghilterra (Lo sviluppo delle tecniche
amministrative e bancarie, in Storia della società
italiana, 7, La crisi del sistema comunale, Milano 1982, p. 104). Contratti di cambio sono
tuttavia presenti nei registri notarili genovesi
a partire dal tardo XII secolo (R. de Roover,
L’évolution de la lettre de change, XIV e-XVIII e siècles, Paris 1953, pp. 25-29). Un altro strumento cambiario, il cambium nauticum, veniva usato nel corso del XIII secolo in sostituzione del prestito marittimo, sul quale gravavano i sospetti di usura. A fine Duecento prese
campo anche un contratto assicurativo che
prevedeva l’emissione di una lettera di cambio: per maggiori dettagli cfr. F. Edler de
Roover, Early Examples of Marine Insurance,
«The Journal of Economic History», V
(1945), pp. 175-180.
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121
558
la pratica degli affari
mente l’istruzione del pagamento, inviata dal prenditore al trattario, era inserita all’interno di una normale lettera commerciale, con il Trecento si arrivò a
una formula molto precisa, scritta su una strisciolina di carta, che veniva accettata senza ricorrere a obblighi notarili. Su questo strumento e sulle sue molteplici funzioni (trasferimento di denaro su piazza estera, pagamento internazionale, concessione di credito ecc.) molto è stato scritto: di conseguenza ci limitiamo qui a rimandare ad alcuni studi, di Raymond de Roover e di Giulio Mandich, che ne hanno sviscerato con grande puntualità e acutezza tutte le sottigliezze tecniche.44
Una delle ragioni fondamentali del successo della lettera di cambio, su cui
si è soffermato con grande enfasi de Roover, sta nella possibilità che essa dette di
aggirare le disposizioni anti-usurarie, le quali miravano a impedire che il denaro
generasse denaro (ovvero che un prestito fosse gravato da interesse). Come sottolineava anche Bernardo Davanzati sul finire del XVI secolo, «l’ingordigia di
questo guadagno [l’interesse] ha convertito il cambio in arte; e dànnosi danari a
cambio, non per bisogno d’averli altrove, ma per riaverli con utile; e pigliansi
non per trarre i danari suoi d’alcun luogo, ma per servirsi di quei d’altri alcun
tempo con interesse».45 In pratica, si ricorreva al meccanismo del cambio e del
ricambio, mediante la scrittura di due lettere: la prima dalla piazza A alla piazza
B, la seconda, compilata dopo la scadenza (usanza) della prima, dalla piazza B alla piazza A. Colui che aveva prestato il denaro nella piazza A si vedeva restituita,
al ritorno della seconda lettera, una somma che di norma era superiore a quella
inizialmente versata, grazie a un abile gioco sui tassi di cambio. Tale somma aggiuntiva si configurava come remunerazione sul prestito, anche se a un tasso variabile, perché determinato dal mutevole andamento dei rapporti di cambio tra
le valute.46 La lettera di cambio divenne insomma un lubrificante essenziale per
il mercato del denaro e venne ampiamente utilizzata anche per effettuare prestiti a livello locale. I vantaggi che essa presentava erano infatti notevoli: era completa in sé, era rinnovabile e la sua remunerazione, per quanto oscillante, era abbastanza prevedibile.47 Anche nella sua forma ‘pura’, la lettera di cambio aveva
44. Cfr., per tutti, R. de Roover, Business,
Banking, and Economic Thought in Late Medieval and Early Modern Europe, a cura di J. Kirshner, Chicago-London 1974 e la bibliografia
ivi citata, e Mandich, Per una ricostruzione delle operazioni mercantili e bancarie, cit., pp.
CLXXVIII-CXCIII.
45. Bernardo Davanzati, Notizia de’ Cambj, in
Id., Lezione delle Monete e Notizia de’ Cambj,
con prefazione di S. Ricossa, Torino 1988,
p. 70.
poteva essere fittizia o comunque non inviata,
mentre il rapporto tra gli operatori coinvolti
veniva limitato a registrazioni contabili. Si
noti, peraltro, una differenza nello svolgimento dell’attività cambiaria a Firenze e a Venezia
nel corso del Medioevo: mentre nella prima
città vi era un rapporto diretto tra le parti
coinvolte nell’operazione, nella città lagunare
erano i banchieri di Rialto ad agire come intermediari tra gli operatori coinvolti (Mueller,
The Venetian Money Market, cit., p. 322).
46. Nei casi più estremi, la lettera di cambio
47. Ivi, pp. 353-354.
le tecniche bancarie
comunque già insita un’azione creditizia, che si esplicitava nel periodo di tempo
intercorrente tra il versamento dal datore al prenditore nella piazza A e la corrispondente liquidazione dal trattario al beneficiario nella piazza B.
In opposizione a quanto detto da de Roover, altri studiosi mettono in discussione una consequenzialità diretta tra il divieto di usura e il successo della
lettera di cambio, sostenendo che per celare l’interesse si potevano utilizzare forme contrattuali più semplici: ad esempio dichiarare nel contratto una somma più
alta di quella realmente prestata (in modo da includervi l’interesse), o concordare in anticipo una penale per il ‘ritardato’ pagamento. A Genova, ma anche altrove, era comune trovare contratti che prevedevano per la restituzione dei prestiti una data di scadenza precisa, dopo la quale sarebbe scattata una multa di ammontare prefissato: in realtà questa multa diventava la remunerazione del prestito, al limite della liceità, sulla quale ci si accordava.48 Oppure si potrebbe sostenere che in realtà, molto più delle proibizioni anti-usurarie, sia stato il divieto di
esportazione di metalli preziosi a determinare il successo della lettera di cambio,
quando veniva utilizzata nella sua primaria funzione di mezzo per il trasferimento internazionale di denaro. Casomai, se il divieto di usura, nella pratica mercantile-bancaria, fu inefficace nel prevenire la stipula di mutui onerosi, esso impedì
comunque che lo sconto si trasformasse in una pratica aperta, facendo sì che le
cambiali non diventassero, fino ad epoca molto più recente, dei titoli di credito
negoziabili. E se da un lato i profitti derivanti dalla lettera di cambio erano realmente incerti, e questo scoraggiava gli investitori meno propensi al rischio, dall’altro lato la limitazione della responsabilità alla sola somma indicata nella lettera stessa faceva sì che tale investimento fosse a volte preferibile a un impegno
in compagnie in cui la responsabilità era magari illimitata.49
Ad ogni modo, quale che sia la ragione principale del suo successo, la lettera di cambio fu – lo si è sottolineato – uno strumento essenziale nel mondo finanziario europeo medievale. Il suo utilizzo trovò poi il suo punto più alto nelle
fiere di cambio, organizzate dai banchieri genovesi (ormai sostituitisi ai fiorentini in un ruolo guida della finanza internazionale) a Besançon, Novi Ligure e Piacenza, e che raggiunsero il loro apice tra XVI e XVII secolo. Oltre ai genovesi, anche altri operatori italiani erano attivi in tali fiere, che caratterizzarono l’ultimo
periodo di dinamismo dei banchieri dell’Italia centro-settentrionale. Durante
quegli eventi, che possono essere considerati «o quali perfezionate stanze di
compensazione, o quali artificiosi asili per l’usura, o quali effettivi mercati del
48. J. Munro, Il bullionismo e la cambiale in Inghilterra, 1272-1663: politica monetaria e pregiudizio popolare, in L’alba della banca, cit., p.
195; D. Abulafia, The Impact of Italian
Banking in the Late Middle Ages and the Renaissance, 1300-1500, in Banking, Trade and Industry. Europe, America and Asia from the Thir-
teenth to the Twentieth century, a cura di A. Teichiva, G. Kurgan-Van Hentenryk e D. Ziegler, Cambridge 1997, pp. 18-19.
49. Munro, Il bullionismo e la cambiale in Inghilterra, cit., pp. 195-198.
559
560
la pratica degli affari
credito», emersero nuovi metodi di contabilità finanziaria. Tra gli strumenti da
segnalare vi è certamente il patto di ricorsa, ovvero la continua ripetizione dei
cambi fra due piazze diverse (una delle quali era sempre la sede della fiera), senza alcun intervento del denaro contante, che durava fino all’estinzione totale del
debito. Di notevole portata, inoltre, fu anche l’utilizzo di una moneta puramente bancaria, e di grande stabilità, come lo scudo di marco.50
Peraltro anche le fiere ‘di merci’ avevano dato una spinta importante all’innovazione dei sistemi di pagamento poiché, in virtù dell’elevato valore globale delle transazioni, diventava là possibile dare attuazione a meccanismi di compensazione per cui i conti di una fiera venivano riportati alla successiva mediante impegni di pagamento: le lettere di fiera.51
In Francia, ancora per tutto il Cinquecento, la stragrande maggioranza delle lettere di cambio (anche quelle che coinvolgevano le fiere lionesi) vedeva tra gli
attori i mercanti-banchieri italiani (e in particolare lucchesi, fiorentini e genovesi), mentre ai francesi era riservato un ruolo del tutto marginale, sebbene crescente a partire dall’inizio del Seicento.52 Tuttavia, se dalle fiere di Champagne a quelle di Lione, passando per quelle di Ginevra, i banchieri italiani erano stati gli animatori principali dei movimenti finanziari, ideando e poi perfezionando strumenti molto avanzati, dalla seconda metà del Cinquecento, quando il fulcro delle attività commerciali che collegavano il Mediterraneo con i mari del Nord e il continente europeo con i paesi extraeuropei si trasferì nei Paesi Bassi, anche la funzione di promozione e sviluppo delle attività finanziarie e creditizie si spostò.
L’Italia perde il primato
In realtà la perdita di posizione degli operatori italiani fu lenta e più in termini relativi che assoluti. Infatti essi, pur vedendosi sfuggire di mano le redini
della finanza internazionale, riuscirono comunque a resistere per qualche decen50. G. Mandich, Delle fiere genovesi dei cambi,
particolarmente studiate come mercati periodici
del credito, «Rivista di Storia Economica», IV
(1939), rist. in Alle origini della banca, citazione a p. 229. Tuttavia, come sottolinea de
Roover, questi perfezionamenti tecnici non
erano che la naturale prosecuzione di tutto
ciò (moneta di conto, cambio con ricorsa
ecc.) che già nei secoli precedenti aveva caratterizzato l’attività dei mercanti-banchieri italiani (Le rôle des Italiens, cit., p. 23 dell’estratto). Cfr. anche F. Braudel, Le pacte de ricorsa
au service du roi d’Espagne et de ses prêteurs à la
fin du XVI e siècle, in AA.VV., Studi in onore di
Armando Sapori, Milano 1957, II; A. De Mad-
dalena, Affaires et gens d’affaires lombards sur le
foires de Bisanzone. L’exemple des Lucini (15791619), «Annales ESC», XXII (1967); F. Ruiz
Martín, Lettres marchandes échangées entre Florence et Medina del Campo, Paris 1965.
51. Fanfani, Sulle tracce della banca, cit., p. 23.
52. R. Gascon, Pour une psychologie des affaires:
les marchands français et la lettre de change au
XVI e siècle, in Credito, banche e investimenti. Secoli XIII-XX, Atti della Quarta Settimana di
Studio dell’Istituto Datini, Prato, 14-21 aprile 1972, a cura di A. Vannini Marx, Firenze
1985, pp. 53-57.
le tecniche bancarie
nio; e non mancano le felici eccezioni (ad esempio quelle già ricordate dei genovesi in Spagna, o dei fiorentini a Lione). Un ruolo centrale venne assunto dalle
banche tedesche, i cui rappresentanti principali furono i ben noti Fugger e Welser, affiancati da altri mercanti-banchieri della Germania meridionale. Ma, per
ricollegarci alla citazione iniziale e per tornare nel centro del tema di questo contributo, viene spontaneo chiedersi quale fosse la loro preparazione tecnica; e poi
se questa ascesa, oltre che a fattori politici ed economici, sia riconducibile anche
a ragioni tecniche.
Dal punto di vista organizzativo, si è visto, le compagnie tedesche erano
caratterizzate da una forte impronta famigliare ispirata ai modelli due-trecenteschi dell’Italia centro-settentrionale, con una gestione delle filiali molto accentrata. Le lettere di cambio furono scarsamente utilizzate, e semmai nella loro
funzione primaria di strumento per trasferire denaro alle e dalle filiali estere, o
al limite per differire il pagamento, piuttosto che con intenti puramente speculativi, alla maniera degli italiani.53 Non sembra, insomma, che nel loro periodo di
dominio, sull’asse Germania meridionale-Anversa, i tedeschi abbiano sviluppato
tecniche nuove, limitandosi semmai ad affinare, o a utilizzare secondo le proprie
necessità, quelle già esistenti, e che certo avevano appreso anche grazie al contatto con gli italiani.54 Tuttavia, se a metà XVI secolo i banchieri tedeschi lasciarono ai genovesi le redini finanziarie dell’Impero per dedicarsi quasi esclusivamente ad attività commerciali, manifatturiere e di estrazione mineraria, forse
non fu un caso, ma fu nuovamente il segno di una maggiore capacità degli italiani nel gestire gli strumenti finanziari più avanzati: in altre parole vi erano interessi divergenti, che presupponevano azioni diverse. Vari studi hanno ad esempio mostrato come non solo i tedeschi, ma anche molti altri grandi mercanti europei fossero in realtà capaci di utilizzare le tecniche finanziarie italiane, anche
se poi nella pratica non necessariamente se ne servivano.55
È insomma indubbio che l’influenza italiana abbia avuto un peso fondamentale nello sviluppo dei centri finanziari del Nord Europa. Ma la trasmissione
delle tecniche non fu certo rapida né omogenea: ad esempio, ancora all’inizio del
53. P. Jeannin, Change, crédit et circulation
monétaire à Augsbourg au milieu du XVI e siècle,
Paris 2001, pp. 27-62.
54. Bergier, Dall’Italia del XV secolo alla Germania del XVI, cit., pp. 144-146. Lo stesso R.
Ehrenberg, nel suo ‘classico’ Le siècle des Fugger, Paris 1955, non aveva mancato di sottolineare che nel loro periodo d’oro i finanzieri della Germania meridionale avevano assorbito le tecniche finanziarie italiane. Resta
però tutto da investigare il modo in cui tali
tecniche venivano trasmesse, anche se in
qualche modo la consuetudine di fare affari
insieme dovette far sì che mercanti locali acquisissero alcuni elementi di sofisticazione
delle pratiche affaristiche. Inoltre abbiamo
esempi di mercanti del Nord (come ad esempio il già citato Schwarz) che scendevano in
Italia per perfezionarsi, ma forse non si può
dire che in termini assoluti questa fosse l’unica modalità di trasmissione (cfr. R. Romano,
Una tipologia economica, in Storia d’Italia. I caratteri originali, a cura di R. Romano e C. Vivanti, Torino 1972, I, p. 286).
55. Jeannin, Change, crédit et circulation monétaire, cit., pp. 140-144.
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secolo, nei porti francesi dell’Atlantico erano quasi sconosciute assicurazione,
partita doppia e cambiale.56 Fanno semmai eccezione le Fiandre, dove, già alla fine del XIV secolo, cambiatori locali utilizzavano nei libri di conto il metodo ‘alla
veneziana’.57 Soprattutto a partire dal Cinquecento, poi, questi centri si svilupparono in maniera autonoma, contribuendo notevolmente al passaggio verso la banca moderna. Van der Wee si è a più riprese concentrato su Anversa e sulle innovazioni finanziarie che la caratterizzarono nel corso del suo periodo d’oro. Per ciò
che concerne il Cinque e il Seicento, egli sottolinea come permanessero due ‘strade’ nel rinnovamento delle tecniche bancarie: una, ispirata alla tradizione italiana,
che dalle fiere di Ginevra-Lione-Genova passò ad Amsterdam; l’altra, più propensa a tendenze innovatrici, che si sviluppò sull’asse Anversa-Londra.
La prima seguì essenzialmente il percorso delineato dalle fiere medievali,
nelle quali i mercanti-banchieri esercitavano un controllo sui tassi di cambio, i
cui andamenti erano legati al commercio internazionale; agli italiani si aggiunsero anche operatori di altri paesi, che però seguirono la tendenza dei primi a utilizzare la lettera di cambio come maggiore strumento creditizio. Certamente di
origine italiana era anche l’idea di tenere tutti i conti in una moneta fittizia, di
conto, così come la consuetudine al giroconto.58
L’altra ‘strada’ fu invece quella che trasse origine dalle fiere brabantine,
dove svolgevano un grande ruolo mercanti inglesi, olandesi e tedeschi; essi, tuttavia, ancora nel XV secolo usavano tecniche creditizie abbastanza primitive, anche se nel corso del XVI secolo furono sempre più numerosi i manuali di aritmetica disponibili ad Anversa. Così partita doppia e lettere di cambio iniziarono a
essere utilizzate con più frequenza (anche se il loro uso comune fu comunque
successivo); tuttavia le seconde – come si è già osservato – non assunsero il ruolo di strumento di credito ma mantennero in grande prevalenza quello di mezzo
di trasferimento di denaro. La crescente importanza di Anversa anche come emporio di redistribuzione di prodotti extraeuropei rese però sempre più urgente lo
sviluppo di strumenti finanziari adatti alle aumentate esigenze; in particolare si
studiarono da un lato semplificazioni nei meccanismi di cessione dei titoli di credito a terzi, dall’altro – e contemporaneamente – forme di tutela per i creditori
e un più facile accesso ad azioni legali contro debitori insolventi.59
Probabilmente «le renouveau du commerce du Levant par l’Italie, la pénéXVI
88, 91
56. Bernard, Commercio e finanza nel Medioevo, cit., p. 265.
57. De Roover, Aux origines d’une technique
intellectuelle, cit., p. 193.
58. H. van der Wee, Anvers et les innovations
de la technique financière aux XVI e et XVII e siècles,
«Annales ESC», XXII (1967). Secondo lo studioso belga questo processo culminò con la
fondazione della banca di Amsterdam nel
1609: con il bank-gulden essa utilizzava la moneta di conto unitaria, inoltre seguiva l’esempio della compensazione multilaterale delle
fiere di Castiglia e infine ‘accentrava’ nella
banca una percentuale elevatissima dei pagamenti internazionali.
59. Ivi, pp. 1073-1082.
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tration de marchands du nord en Méditerranée, et peut-être plus encore l’essor
financier de Gênes et des foires de Plaisance avaient ressuscité le rayonnement de
la technique financière italienne, particulièrement de la lettre de change. Mais il
est indubitable aussi que l’influence stimulante d’Anvers dans cette généralisation
irrésistible des techniques italiennes dès la fin du XVI e siècle a été décisive». E in
effetti proprio Anversa, punto di incontro principale di tutti i mercanti del Nord,
era il luogo dove essi avevano potuto osservare più da vicino le tecniche italiane,
per cui è innegabile che in tale ambito gli sviluppi che là avvenivano ebbero un legame con i più raffinati strumenti che venivano utilizzati in Italia; ma è altrettanto vero che tali sviluppi seguirono poi percorsi propri.60
Un caso esemplare è rappresentato dalla trasferibilità della lettera di cambio, elemento fondamentale per arrivare a considerare quest’ultima un vero sostituto del denaro: esistono, per fine Quattro-inizio Cinquecento, alcuni rari esemplari di lettere con girata relativi a Italia e Spagna. Tuttavia, mentre nel corso del
secolo successivo l’opposizione legislativa ebbe in quelle zone un peso crescente
e ne limitò grandemente la diffusione, ad Anversa la trasferibilità poté svilupparsi proprio grazie a un quadro giuridico favorevole. E un impiego diffuso della girata in Italia non pare essersi verificato se non in seguito a una sua affermazione
ad Anversa, dove tale strumento trovò più ampia utilizzazione dopo il 1600 e da
dove si diffuse anche negli altri principali centri del Nord Europa. La ragione può
forse rinvenirsi nel fatto che in Italia la girata riguardava soprattutto assegnazioni ‘in banco’ (ovvero dove il beneficiario aveva un conto corrente), coerentemente con una forte tradizione di attività bancaria di deposito e di giro, mentre nel
Nord Europa le lettere di cambio circolavano di mano in mano molto più comunemente che in Italia e venivano liquidate in contanti solo dopo molti passaggi.
Sempre alla consuetudine di Anversa può essere fatto risalire il ricorso sempre
maggiore allo sconto (ovvero la cessione del titolo a terzi prima della scadenza,
ma per una cifra minore di quella nominale), che garantiva la pronta convertibilità dei titoli cambiari in moneta contante. Se i primi esempi noti sono del 1536,
la pratica iniziò ad essere consueta a partire dagli anni Sessanta del XVI secolo, per
trovare poi una vera diffusione solo a partire dal 1600.61
In ogni caso, anche se non entreremo qui in ulteriori dettagli, dato che
questo breve contributo mira a dare conto delle reciproche influenze fra tecniche bancarie italiane ed europee, e non a ripercorrere una storia dell’attività bancaria nel Sud o nel Nord Europa, è da sottolineare come le innovazioni di Anversa «can be regarded as providing the essential bridge between the financial re60. Ivi, pp. 1084-1089, cit. a p. 1084.
61. De Roover, L’évolution de la lettre de change,
cit., pp. 99-106; H. van der Wee, European
Banking in the Middle Ages and Early Modern
Times (476-1789), in A History of European
Banking, a cura di H. van der Wee e G. Kurgan-Van Hentenryk, Antwerp 2000, pp. 186195.
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volutions of Italy and England» e molti aspetti che avevano caratterizzato il successo italiano nei secoli precedenti si trasmisero in Europa proprio attraverso tale città.62 Molti strumenti, in un modo o nell’altro, erano di origine italiana. Certamente si può escludere il biglietto di banca, introdotto in Inghilterra e poi diffuso in tutto il continente.63
Nella penisola italiana, nel frattempo, si stava assistendo a un cambiamento: a fianco dei banchi privati avevano fatto la loro comparsa banchi pubblici e
monti di pietà, nati per limitare le speculazioni dei privati, grazie a norme statutarie assai precise, volte alla tutela della collettività, messa in pericolo a causa dei
ripetuti fallimenti.64 I Monti di pietà, nati per il prestito al consumo, avevano assunto via via funzioni più ampie, anche di erogatori di prestiti per scopi produttivi, acquisendo in tal modo quella che prima era stata una funzione peculiare
delle grandi compagnie mercantili-bancarie. I banchi pubblici erano invece soprattutto volti alla regolamentazione, ad agevolazioni dei pagamenti e alla costituzione di riserve per lo Stato, e in generale non potevano fare aperture di credito a privati. Essi, però, rimasero pur sempre diretti eredi dei banchi privati di
giro e di deposito, e non esercitavano una funzione fondamentale della banca
moderna: quella di emettere moneta. Diversa fu la situazione nel Nord Europa,
dove invece banche con questo ruolo specifico furono istituite a partire dalla seconda metà del Seicento.
Verso una conclusione
Nella trattazione che ha preceduto ci siamo soffermati sulle tecniche (pur
in senso ampio, come si è detto). Abbiamo tuttavia solo accennato a un problema che non è invece di poco conto: ovvero se la ‘modernità’ delle tecniche bancarie corrispondesse a una ‘modernità’ della struttura economica che ruotava attorno agli operatori che utilizzavano quelle tecniche. Prendiamo l’esempio di Firenze: i mercanti-banchieri di tale città ricoprirono un ruolo di avanguardia che
non viene certo messo in discussione, e che viene ben evidenziato dallo studio
della ricchissima documentazione che si è conservata fino ai giorni nostri. Nel XV
62. Ivi, p. 196; H. Van der Wee, The Growth
of the Antwerp Market and the European Economy (fourteenth-sixteenth Centuries), The Hague 1963, II, pp. 433-434.
63. De Roover, Le rôle des Italiens, cit., p. 24
dell’estratto.
64. A metà Trecento era stata prevista a Barcellona la pena capitale per chi avesse fatto
fallimento, e comunque erano generalizzate
in ambito europeo politiche ostili nei confronti dei mercanti-banchieri privati, ad
esempio da parte del duca di Borgogna (ivi, p.
19 dell’estratto). Mueller presenta un’approfondita analisi dei fattori che generarono i
fallimenti di banche di deposito veneziane fra
Tre e Quattrocento, e delle implicazioni che
ne derivarono (The Venetian Money Market,
cit., pp. 121-251).
le tecniche bancarie
secolo era diffuso anche fra gli strati sociali meno elevati l’utilizzo di strumenti
‘avanzati’ quali conti correnti, depositi ecc., che in molte aree del continente sarebbero apparsi solo secoli dopo. Tuttavia, ciò non significa automaticamente
che era presente un sistema bancario moderno: se il fatto che mercanti-banchieri finanziavano altri mercanti-banchieri può essere considerato un elemento di
modernità, dall’altro lato bisogna rilevare che i grandi operatori internazionali
non avevano tra i loro scopi principali l’accettazione di depositi e la concessione
di prestiti, quanto invece il cambio di denaro, come attività complementare al
commercio; non era presente, inoltre, l’idea stessa di ‘sistema’, data la presenza
di molti operatori privati la cui attività non era regolata, se non molto blandamente, dalle istituzioni (lo Stato o le arti); poi – lo si è visto – mancava il vero e
proprio ‘denaro di carta’, che avrebbe preso campo solo laddove negoziabilità,
trasferibilità e sconto diventarono prassi comune. Lo stesso assegno, citato in
precedenza, fu certo uno strumento molto avanzato, ma ebbe una diffusione limitata nel tempo. Peraltro, anche in un ambiente fecondo come quello toscano,
e in particolare nella Prato datiniana, mercanti locali contemporanei di Francesco di Marco non utilizzavano la partita doppia.65 In altre aree della penisola la
situazione era ben diversa. Né per quanto riguarda il concetto di modernità, né
per quanto concerne la stessa valutazione della reale diffusione delle tecniche si
possono, insomma, fare considerazioni generali sulla situazione dell’Italia, e neppure di quella dell’Italia centro-settentrionale, dato che nella maggior parte dei
casi la grande maggioranza della popolazione viveva senza alcun legame con il
mondo dei grandi mercanti-banchieri.66
Inoltre, non necessariamente tutto ciò che poteva essere considerato avanzato dal punto di vista tecnico era una conditio sine qua non per il successo nel
campo degli affari: basti pensare all’irresistibile ascesa dei Fugger nei decenni a
cavallo del Cinquecento, avvenuto con un utilizzo soltanto parziale della partita
doppia. Se, insomma, è vero che «in un sistema ‘aperto’ il vantaggio dell’innovatore è di breve periodo in quanto, configurandosi nella pratica come una rendita, viene ben presto imitato», è doveroso anche valutare quali siano nella realtà
le innovazioni vantaggiose.67
65. Cfr. Goldthwaite, Local Banking, cit., pp.
26-27 e i molti esempi citati nell’articolo;
R.K. Marshall, The Local Merchants of Prato,
Baltimore-London 1999, pp. 63-69.
66. Romano, Una tipologia economica, cit., I,
pp. 288-289. Il dibattito è ben riassunto in M.
Luzzati, Firenze e le origini della banca moderna, «Studi Storici», 28 (1987), in particolare
pp. 430-434.
67. M. Cattini, Credito e finanza in Italia: innovazioni e durate, in AA.VV., Innovazione e
sviluppo. Tecnologia e organizzazione fra teoria
economica e ricerca storica (secoli XVI-XX), Atti
del secondo convegno nazionale della Sise,
4-6 marzo 1993, Bologna 1996, p. 370. L’autore sottolinea anche come «nel settore creditizio e finanziario ... raramente il mutamento venne ricercato per se stesso e, allorché si profilò, assunse piuttosto la forma di
risposta adattativa a condizionamenti esterni,
a vere e proprie sfide provenienti dalle istituzioni o dal mutare degli assetti economici
complessivi».
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Torniamo per un attimo all’uso della lettera di cambio come strumento
creditizio. Si è detto che gli italiani ne erano padroni e che, anche nel corso del
Cinquecento, molti operatori stranieri non ne utilizzavano le caratteristiche più
‘raffinate’ di strumento speculativo/creditizio. Alcuni studi recenti hanno però
mostrato quanto diffuso fosse il prestito a interesse ad Augusta attorno alla metà
del XVI secolo.68 D’altronde, nei paesi protestanti già Calvino affermò la liceità
dell’usura, purché non derogasse ai principi di equità e di carità. E se nell’area
germanica la fine del divieto avvenne lentamente, ma comunque entro metà Seicento, in Inghilterra già nel 1517 il Parlamento abrogò le disposizioni anti-usurarie. Nei paesi cattolici, invece, un moderato interesse venne permesso solo nel
1745 dalla Vix pervenit di Benedetto XIV, mentre fino ad allora un piccolo interesse era stato concesso solo ai Monti di pietà dalla bolla di Leone X del 1515.69
Il parziale utilizzo che facevano nel Nord della lettera di cambio come strumento di mutuo volto a celare l’interesse, allora, era dovuto a limiti tecnici o piuttosto a una mancanza di necessità?
Come preannunciato nelle prime pagine, terminiamo questo contributo
ponendo dei quesiti, più che fornendo risposte certe. Bisogna necessariamente
legare le tecniche all’importanza del ruolo di chi le utilizzava? O piuttosto ognuno le usava, modificava e adattava alle proprie esigenze? D’altronde, possiamo
dire che essenzialmente due sono le ragioni che stimolano lo sviluppo di nuove
tecniche nell’ambito dell’attività economica: da un lato una più efficace tutela
della propria ricchezza, dall’altro la ricerca di nuovi e più remunerativi impieghi.
Quando questi due obiettivi potevano essere perseguiti comunque, non vi era stimolo all’innovazione.
Per concludere, sembra appropriato rifarsi all’aneddoto narrato all’inizio.
Rientrato ad Augusta dopo l’esperienza italiana, Schwarz divenne dunque il capo-contabile di quei Fugger che, strettamente legati alla famiglia degli Asburgo,
giocarono un ruolo fondamentale nelle vicende finanziarie dell’Impero. L’attività
di tale casa bancaria spaziava in molti settori, da quello commerciale a quello
bancario, a quello estrattivo; eppure, come ammise lo stesso Schwarz pensando
a quegli strumenti che aveva appreso nell’avanzata Venezia, «quando venni alla
prova dei fatti realizzai che sapevo poco o nulla».70
68. Zwei Augsburger Unterkaufbücher aus den
Jahren 1551 bis 1558, a cura di F. Blendiger,
Stuttgart 1994.
69. B. Nelson, Usura e cristianesimo. Per una
storia della genesi dell’etica moderna, Firenze
1967, pp. 21-22, 118-131; G. Felloni, Mone-
ta, credito e banche in Europa: un millennio di
storia, Genova 1997, p. 83.
70. «Da es aber zu der prob kam und in das
thon, da empfand ich, das ich ein wenig mer
kundt, weder gar nichts» (Weitnauer, Venezianischer Handel der Fugger, cit., p. 184).