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Mondi operai, culture del lavoro e identità sindacali

Mondi operai, culture del lavoro e identità sindacali nel Novecento di Pietro Causarano Sul piano storiografico è senso comune che il mondo del lavoro sia sostanzialmente, se non proprio scomparso, almeno fortemente ridimensionato nell’interesse degli studiosi italiani, tanto più se visto in chiave comparata. La situazione in realtà è molto più sfumata e complessa, con minori certezze rispetto al passato, ma anche maggiori opportunità, nuove potenzialità e direzioni d’indagine [Musso 2004]. Significativamente le trasformazioni della società e della posizione relativa del lavoro in essa durante gli anni ottanta e novanta si sono riflesse rapidamente nell’interesse degli storici, spostandone il fulcro. L’attenzione verso le forme storiche del lavoro terziario burocratico e dei servizi, ad esempio, è considerevolmente cresciuta negli ultimi anni, in stretta relazione con il peso che quest’area di attività ha assunto nelle attuali configurazioni delle società più sviluppate1. Su un altro versante, la storia d’impresa, affrancandosi in parte da un approccio meramente economico e manageriale tipico della business history, ha sviluppato approfondimenti inediti sul lavoro industriale e dei servizi, sulla loro organizzazione e sul ruolo non solo di operai ma anche di impiegati e tecnici nell’evoluzione del sistema aziendale e dei paradigmi professionali2. Non c’è dubbio, tuttavia, che l’espansione di nuovi filoni di ricerca, seguita al momento della massima implosione di questo settore di studi negli anni ottanta, non ha compensato il calo generalizzato di sensibilità riscontrabile nei confronti del lavoro manuale ed esecutivo in quanto tale, soprattutto industriale, che invece aveva costituito il cuore dell’interesse storio- focus Stato di abbandono? –– Pietro Causarano Ricercatore in Storia dell’educazione del Dipartimento di Scienze dell’educazione e dei processi culturali e formativi dell’Università degli Studi di Firenze Enaip Formazione & Lavoro 1/2009 135 grafico precedente3. Fin dall’inizio, agli albori degli anni ottanta, questa percezione storiografica di una crescente latitanza della ricerca investe il soggetto sociale storico a cui gli studiosi italiani avevano guardato in precedenza, ritagliando prevalentemente l’analisi del lavoro sulla sua dimensione di classe [Andreucci, Turi 1986]4. La consapevolezza della fine della classe operaia come “classe generale” sembra ricollegarsi alla coeva riflessione di Alain Touraine sul declino della sua rappresentazione e auto-percezione come “movimento operaio” e soggetto sociale di trasformazione [Touraine et al. 1984]. Queste discussioni avvengono all’interno di un dibattito più complessivo evolutosi nello specifico attorno alla “debolezza del lavoro”, oltre la “società salariale” e alle sue “metamorfosi” [André Gorz e Robert Castel fra la fine degli anni ’80 e i primi ‘90], o addirittura attorno alla sua “fine” [Jeremy Rifkin nel 1995], dibattito che aveva rischiato di essere semplificato e banalizzato sul piano politico e culturale dalla formula sulla “fine della storia”, lanciata da Francis Fukuyama nel 1992. Nel declino di vecchi oggetti di studio e nell’emersione di nuovi parametri nella modellistica sociale, il lavoro industriale ha dunque rischiato di rimanere schiacciato sul piano dell’analisi storica e del dibattito storiografico. Se questo calo di tensione nell’ultimo quarto di secolo è dunque un fatto incontrovertibile, per quanto articolato e complesso, il fenomeno è caratteristico non solo dell’Italia, ma rientra in un contesto internazionale che presenta molte analogie nelle sue traiettorie interne, soprattutto per l’Europa continentale. Questo declino è dipeso in primo luogo proprio dalle trasformazioni economiche e sociali che hanno investito i paesi industrializzati e conseguentemente i loro equilibri politici e istituzionali già a partire dalla fine degli anni settanta e che proprio nel campo del lavoro, soprattutto industriale, hanno visto dispiegare gli effetti più profondi e duraturi, scardinando certezze collettive e sicurezze individuali ormai consolidate nelle generazioni precedenti [Pigenet et al. 2005]. In ogni caso gli effetti sono stati particolarmente vigorosi da noi, tenuto conto dell’accentuata e passionale funzione pubblica e civile assunta da questo campo di ricerca negli anni sessanta e settanta [Gallerano 1987]. Questa torsione è derivata principalmente da una duplice convergenza di fattori che il mutamento dell’ultimo scorcio di millennio, una vera nuova “grande trasformazione”, ha scaricato sugli storici del lavoro e con particolare virulenza in Italia [Gozzini 1990]: da un parte, il crollo del blocco sovietico e la crisi delle culture storiche di classe espresse dal movimento operaio hanno fatto deperire, negli anni ’90, l’attenzione verso il tema del lavoro quale questione eminentemente politica della contemporaneità e 136 focus focus comunque verso una ricostruzione unificante e inclusiva dell’idea di lavoro, che pure storicamente è stata operante per oltre un secolo (o almeno nel “secolo breve” individuato da Eric J.Hobsbawm nel 1994); dall’altra parte e forse soprattutto, le recenti trasformazioni organizzative, sociali ed economiche del lavoro stesso, in particolare industriale, già a partire dagli anni ottanta hanno sganciato dalla sua dimensione collettiva precedente le dinamiche dei conflitti di interesse attuali, mostrandone tutte le divisioni, frammentazioni e articolazioni e spostando inoltre la riflessione su altri piani discorsivi e simbolici, che a loro volta hanno influenzato non poco l’approccio storiografico [Van der Linden 1993; Accornero 1997]. Emblematico di questo riflusso, in Italia, per quanto costituisca ancora oggi un pregevole e pionieristico lavoro di ricerca storica e di antropologia sociale sulla dimensione dei “mondi operai”, è l’indagine condotta da Maurizio Gribaudi sulla Torino d’inizio Novecento, dove l’operazione di smitizzazione della tradizionale storiografia sulla classe operaia, in un salutare rigetto per riletture politiche ormai convenzionali, porta al paradosso di studiare gli operai quasi a prescindere dal lavoro che li ha definiti e costruiti come tali [Gribaudi 1987]5. Timidi segnali di ripresa Questa crisi storiografica e non solo, come molte altre crisi, ha avuto pure degli effetti benefici, svincolando lo studio del lavoro da molte delle sovrastrutture ideologiche e culturali cui era stato costretto in precedenza, come già all’epoca intuiva uno dei principali sociologi italiani [Accornero 1980]. In particolare, nell’ultimo quarto di secolo le trasformazioni epocali del lavoro, del suo rapporto con l’identità sociale ed individuale, delle sue forme e dei suoi contenuti, della sua funzione ed organizzazione nell’impresa, hanno acceso in Italia - almeno a partire dalla fine degli anni ’90 - un interesse nei suoi confronti per certi versi rinnovato, meno attento forse alle sue proiezioni generali e teleologiche e più alla sua concretezza differenziata. Questo malgrado la palude quotidiana di invisibilità sociale e di silenzio mediatico in cui il lavoro manuale per tutti questi anni è sprofondato, riaffiorando solo eccezionalmente e, purtroppo, a causa delle sue condizioni materiali spesso drammatiche. Il tema del lavoro industriale e dei soggetti sociali che attorno ad esso ruotano riprende dunque nell’ultimo decennio un certo vigore storiografico, sviluppando approcci significativamente più aperti e variegati, adattandosi all’esplosione del “lavoro” nell’eterogeneità dei “lavori”, grazie ad alcuni libri importanti apparsi alla fine del secolo passato [ad es. Musso 1999; BiEnaip Formazione & Lavoro 1/2009 137 gazzi 2000] e all’inizio del nuovo [ad es. Favilli, Tronti 2001; Musso 2002; Sangiovanni 2006; Maifreda 2007]6. In essi tende ad emergere con forza la prevalente soggettività di coloro che quel lavoro sono costretti a svolgere, gli operai, in un nesso stretto con la pluralità di dimensioni nelle relazioni della vita quotidiana, fuori e dentro i luoghi di lavoro, e con la percezione diffusa di esse. La loro lettura, in ogni caso, è molto più complessa e sofisticata del passato, sul piano dei riferimenti culturali, dei modelli epistemologici e degli approcci metodologici7. Riguardo al filone più tradizionale della storia del movimento operaio e delle sue forme di rappresentanza, le celebrazioni del centenario delle camere del lavoro, di alcune grandi federazioni industriali come la FIOM e della stessa CGIL (il prototipo storico del sindacato di classe), come per altri versi il cinquantennale della CISL (a sua volta esempio di sindacato prima di tutto associativo), hanno sollecitato negli stessi anni e in più direzioni una nuova effervescenza di studi e una stagione di nuove sintesi, anch’esse metodologicamente più avvertite e tematicamente più aperte rispetto alla vecchia storiografia sul sindacato8 Ma indubbiamente la dimensione politica e sindacale della storia del lavoro è quella che maggiormente ha subito l’impatto della crisi dei suoi soggetti e oggetti di riferimento, pur con qualche lodevole eccezione di ampio respiro (ad esempio la corposa storia del sindacato in Italia, in quattro volumi, curata da Adolfo Pepe fra il 1997 e il 2008 per Ediesse). Anche qui, però, qualcosa si è mosso nell’idea che sia possibile studiare il movimento sindacale nella sua doppia fisionomia storica, appunto, di espressione inevitabile di movimenti sociali che nascono tipicamente dal conflitto industriale degli ultimi due secoli (il movimento operaio), da una parte, e di istituzione all’interno dei meccanismi di regolazione di questi stessi conflitti in termini di rappresentanza degli interessi (il sindacato come attore delle politiche sociali e sul lavoro), dall’altra parte [Bertucelli 2004; Ciampani, Pellegrini 2005]. In occasione del centenario della CGIL, un convegno a carattere interdisciplinare, cui hanno partecipato storici, filosofi, sociologi, antropologi, medici, testimoni, ha cercato di fare il punto su tre dimensioni della ricerca storica in questo campo, le culture, le identità e i luoghi attraverso cui i “mondi operai” e in genere i mondi del lavoro si sono espressi nel corso del Novecento [Causarano et al. 2008]. È bene evidente che i tre livelli si intersecano e si sovrappongono: culture politiche e culture sindacali si incrociano, si confrontano, cambiano e si adattano nel tempo, non possono comunque essere lette senza considerare le identità professionali e le identità sindacali del mondo del lavoro, in particolare industriale, e come esse 138 focus Enaip Formazione & Lavoro 1/2009 focus interagiscono in maniera articolata e differenziata a livello territoriale, con eredità ed esiti assai diversi nel definire i “mondi operai”, immagine di per sé suggestiva ma assai ambigua. Se il sindacato di classe ha avuto storicamente l’ambizione di essere uno strumento strutturalmente unificante di rappresentanza e di rappresentazione del “lavoro”, il sindacalismo associativo lo è stato piuttosto funzionalmente per i “lavori”. Tuttavia, ambedue le dimensioni della rappresentanza degli interessi, seppure in forme diverse, hanno subito gli effetti della trasformazione radicale del proprio mondo di riferimento e delle difficoltà a rappresentarlo, spesso proprio perché non hanno colto nel presente - pur partendo da punti di vista diversi - quella complessità culturale, sociale, antropologica che oggi la ricerca storica sta riscoprendo anche per il passato. Semmai, a livello comparato, la forte tradizione confederale italiana, la composizione difficile ma dinamica del suo confronto con le strutture federali di categoria, l’orizzontalità territoriale della rappresentanza sindacale (tipica della storia della CGIL, ma presente anche negli altri sindacati), aiutano a comprendere alcune delle specificità di come il sindacalismo italiano abbia reagito alla crisi da “accerchiamento” degli ultimi decenni, riproponendo però quasi in un riflesso condizionato le proprie tradizioni politiche universalistiche o più tipicamente unioniste nelle culture sindacali [Baglioni 2008]. Riflettere storicamente su questi problemi, con occhi nuovi e aperti di fronte a un arcipelago dei “lavori” così diverso dal recente passato del “lavoro”, forse può aiutare anche a comprendere le difficoltà attuali e i limiti che emergono nella riproposizione di soluzioni identitarie antiche (se oltretutto divise sul piano delle culture sindacali). Da questo punto di vista, in conclusione, mi preme soffermarmi su una conseguenza paradossale di questa “grande trasformazione” che, seppur legata ai mutamenti culturali prima richiamati, è particolarmente messa in discussione dal campo di studi di cui stiamo parlando. La caduta di legittimità che investe oggi nel senso comune il tema del conflitto, almeno in termini generali, attorno ai modelli di organizzazione sociale e alla funzione del lavoro (ma anche dei lavori), sembra avere spianato la strada a forme di convergenza e di cooperazione che consolidano una visione neo-corporativa della regolazione sociale, che forse solo l’attuale gravissima crisi mette sotto un’altra luce. I “confini mobili” dei meccanismi regolativi su cui Marino Regini si soffermava qualche anno fa (nel 1991) di fronte allo scardinamento del lavoro come categoria generale del costruire socialmente l’economia, oggi lo sono ancor di più e fanno scricchiolare tutta la struttura. Non è delegittimando il conflitto però che lo si 139 regola meglio: se la concertazione è una forma di cooperazione, essa si basa sull’assunzione reciproca di responsabilità nel riconoscere la pluralità di interessi in conflitto, a cominciare dall’idea stessa di conflitto. Stiamo dimenticando il conflitto Se conflitto e cooperazione nel campo del lavoro [Giovannini 1987] sono da sempre i due estremi al cui interno si graduano i comportamenti relativi degli attori sociali (e le letture politiche e scientifiche), è ben vero che oggi sembriamo aver dimenticato che ancora un quarto di secolo fa il riconoscimento reciproco fra questi attori non era così pacifico, assodato [Grandi 1982]: culture del lavoro e culture d’impresa, per quanto convergenti nella pratica quotidiana e necessariamente cooperanti nella produzione, non erano necessariamente solidali, anzi. Né si capisce perché lo dovrebbero essere maggiormente oggi. La frammentazione e talvolta l’individualizzazione degli interessi e dei conflitti, rende oggi meno facile la loro regolazione e il loro controllo collettivo da parte delle rappresentanze, più fragili gli equilibri, più sfuggenti e permeabili le culture del lavoro e le identità ad esse correlate. Siamo di fronte ad un lungo ciclo di una nuova fase nella costruzione delle disuguaglianze, in cui il consenso dei lavoratori alla cultura dominante d’impresa si definisce, di nuovo, “per assimilazione”, secondo paradigmi di legittimità tecnologica diversi dal passato, che però, alla lunga, non possono nascondere anche nella micro-conflittualità odierna la difficoltà a definire questo stesso consenso in termini di “composizione” [Baldissera 1990]. Sul lungo periodo, questo elemento costituisce una fragilità della lettura che noi abbiamo dei rapporti nel lavoro, oggi. Certamente, lo sarebbe se volessimo applicarlo al passato anche recente. È significativo che una delle esperienze storiografiche editoriali più giovani, l’eclettica e “movimentista” rivista Zapruder, promossa nel 2003 da un gruppo di ricercatori raccolto nell’associazione “Storie in movimento”, in larga parte non accademico e, lavorativamente parlando, giustappunto composto da “precari”, e il cui sottotitolo non a caso recita “rivista di storia della conflittualità sociale”, si segnali per la moltiplicazione dei campi in cui si può esercitare questa ricerca9. Se la ricerca storica anche in Italia sta cercando di passare dalla vecchia labour history - o, per opposizione, dalla culturalmente invadente nuova business history - alla storia delle relazioni industriali [Zeitilin 1987], il conflitto attorno al lavoro e non solo la cooperazione ne costituiscono necessariamente una delle chiavi di lettura: altrimenti, non ci potremmo spiegare il fatto che il conflitto industriale (e sociale in generale) ha costituito non solo il collante ideologico (e ideale) an- 140 focus Enaip Formazione & Lavoro 1/2009 focus tropologicamente fondato sull’esperienza individuale e collettiva del movimento operaio, ma anche il riferimento delle risposte che sono state date ad esso, sia esterne che interne alla storia sindacale, nell’idea del superamento o della sterilizzazione del conflitto stesso. E i sistemi di relazioni industriali ne sono evidentemente debitori. Alain Touraine, nel libro prima citato, individua il cuore di questo conflitto attorno al lavoro nel controllo delle risorse culturali e delle modalità di incorporazione della conoscenza e del sapere nei modelli organizzativi delle imprese e nella divisione del lavoro. È questione ben presente anche al dibattito attuale, come lo era nella riflessione e nel dibattito degli ultimi due secoli. Non c’è lo spazio, in questa sede, per approfondire ulteriormente questo tema, ma visto che siamo in una rivista che si occupa della relazione fra formazione e lavoro, cioè di uno degli elementi costitutivi di quel conflitto richiamato da Touraine come costituente l’identità storica del movimento operaio e quindi di un’idea unificante e inclusiva di lavoro all’interno delle relazioni e delle gerarchie sociali e non solo economiche, voglio chiudere con un esempio preso dalla fase di più alta conflittualità del nostro secondo dopoguerra, quella successiva all’Autunno Caldo del 1969. È un esempio che forse parla anche all’oggi o almeno serve a problematizzarlo, ma le cui radici affondano nella lunga storia della classe operaia e della sua differenziata cultura politica e sindacale. Nella ricerca di una soluzione alla crisi del sistema di relazioni industriali dopo la rottura della fine degli anni sessanta, cioè di una via d’uscita che non fosse solo di opposizione ma anche di ricomposizione unitaria nelle strategie sindacali e propositiva nei rapporti con le imprese, la parola d’ordine della “professionalità” costituisce un punto di equilibrio fra il modello rivendicativo egualitaristico attorno a cui si erano ricollocate le identità sindacali precedenti, soprattutto cattolico-sociale e social-comunista, e l’articolazione effettiva e concreta delle differenziazioni nel lavoro, della sua valutazione e valorizzazione [Causarano 1999]. Non è il caso qui di allargare una questione che coinvolge ad esempio grandi problemi attorno a cui si sono ridefiniti nei primissimi anni settanta la struttura contrattuale, il modello di negoziazione e l’ampliamento dei diritti (in particolare, la qualità del lavoro, l’informazione, la formazione, ecc.). La contestazione diffusa dell’organizzazione del lavoro e dei parametri di valutazione e di valorizzazione delle prestazioni nella gerarchia aziendale porta alla contestazione delle divisioni fra lavoratori, considerate artificiose e non rispondenti all’effettivo ruolo svolto. Questo avviene non solo all’interno delle categorie operaie, ma investe l’architrave della divisione organizzativa del lavoro, quel- 141 lo fra lavoro manuale e lavoro intellettuale, e conseguentemente il governo della mobilità nel lavoro, orizzontale e verticale, con conseguenze rilevanti sulle strategie d’impresa e d’innovazione organizzativa degli anni seguenti [Causarano 2004]10. La professionalità, superando la vecchia distinzione fra mestiere e professione, rappresenta un ponte in grado di valorizzare, nella concreta realtà dell’organizzazione del lavoro espressa dai mansionari, non solo i saperi formalmente certificati dal sistema formativo esterno (diplomi e qualifiche), ma anche tutte quelle abilità informali e relazionali, quelle attitudini e quei tacit skills che adesso chiameremmo competenze. Oggi noi siamo abituati ad una banalizzazione dell’uso della categoria di professionalità, quasi che fosse un elemento neutrale di valutazione, per quanto dinamico, della qualità soggettiva del lavoratore e delle sue capacità reali e potenziali in termini di employability (occupabilità). Ma se guardiamo le vicende di trent’anni fa, che hanno aperto inconsapevolmente la strada ai processi di individualizzazione professionale e alla riarticolazione flessibile dei sistemi organizzativi del lavoro nello stesso momento in cui rispondevano ai bisogni di qualità soggettivamente espressi dai lavoratori, ci rendiamo conto che una categoria ormai discorsiva come quella di professionalità in realtà ha un’origine ambigua, fortemente divisa nell’interpretazione che ne davano gli attori del conflitto da cui essa stessa era emersa: e non a caso, la certificazione delle competenze, una delle gambe della professionalità, costituisce il suo punto più fragile [Stroobants 1993], spesso risolto polarizzando di fatto tutto sui saperi certificati e quindi sulla riproduzione culturale ormai consolidata delle disuguaglianze. Quello che è uscito apparentemente dalla porta, rientra dalla finestra perché resta oggetto di contesa nelle relazioni attorno al lavoro che sono sempre intrinsecamente pure conflittuali. 142 focus bibliografia Enaip Formazione & Lavoro 1/2009 focus ABB, Fondazione Di Vittorio (2006), a cura di, I due bienni rossi del Novecento, 1919-20 e 1968-69. Studi e interpretazioni a confronto, Roma, Ediesse. Accornero A. (1980), Il lavoro come ideologia, Bologna, il Mulino. Accornero A. (1997), Era il Secolo del Lavoro, Bologna, il Mulino. Alaimo A. (2002), Un’altra industria? Distretti e sistemi locali nell’Italia contemporanea, Milano, Angeli. Andreucci F., Turi G. (1986), La classe operaia: una storia nel ghetto, in «Passato e presente», n. 10, pp. 3-7. Baglioni G. (2008), L’accerchiamento. Perché si riduce la tutela sindacale tradizionale, Bologna, il Mulino. Baldissera A. 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(1987), From Labour History to the History of Industrial Relations, in «Economic History Review», n. 2, pp. 159-184. 143 note 1 La produzione editoriale del Centro di storia del lavoro di Imola, attivo dal 1995 (cfr. http://www.fondcrimola.it/centro_studi/pubblicazioni.htm ), una delle maggiori istituzioni che negli ultimi anni insieme ad altre (Fondazione Di Vittorio, Fondazione ISEC, ABB, ecc.) maggiormente si è dedicata alle tematiche della storia del lavoro, è stata particolarmente sensibile alla dimensione terziaria di esso. 2 Grazie anche alla Associazione di studi sulla storia dell’impresa (ASSI) e a studiosi come Giuseppe Berta, Duccio Bigazzi, Giulio Sapelli, ecc. 3 Diverso e ancor più complesso sarebbe il discorso sulle campagne (Betri 2006), che pure hanno subito un analogo declino negli studi ma che sono state riscoperte in relazione all’industrializzazione diffusa del secondo dopoguerra e alle aree dei distretti industriali, come emerge bene dai tre volumi della Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, curati da Piero Bevilacqua per Marsilio nei primi anni ‘90. 4 Tanto è vero che, all’attenzione data ad esempio nel campo del lavoro manuale ad operai e contadini, non corrisponde un’analoga attenzione al lavoro artigiano, che poi vuol dire alla relazione con forme di attività, culture e identità che restano autonome anche dopo l’industrializzazione, per quanto profondamente interrelate con essa. Di nuovo, si pensi alle aree di piccola e media impresa (Alaimo 2002). 5 La dimensione politica e sociale collettiva oggi viene recuperata all’interno dell’analisi storica delle forme di comunicazione sociale e culturale, fulcro del più recente linguistic turn della storia sociale (Montroni 2002), dove però il lavoro come istituzione sociale, con la sua materialità e con le sue relazioni asimmetriche quotidiane codificate in istituzioni sociali, tende a restare indefinito. 6 Ad es. l’approccio di genere assume una fisionomia ben più delineata, anche metodologicamente, rispetto al passato (cfr. Curli 1998), tanto che in una delle ultime pubblicazioni di sintesi sugli operai diventa quasi prevalente (Musso 2006). 7 Un riferimento per tutti, la storia orale, con l’AISO ( http://www.aisoitalia.org/ ). 8 I riferimenti sarebbero fin troppi, ovviamente. Come esempio di novità in termini di approcci e di impostazione, mi permetto di rinviare alla peculiare comparazione interdisciplinare tentata sui due “bienni rossi” del ‘900 italiano (ABB, Fondazione Di Vittorio 2006). 9 Il terzo numero della rivista, nel 2004, in ogni caso è dedicato proprio al lavoro (I mestieri del vivere). 10 Si pensi al tema dell’inquadramento unico operai-impiegati e alle 150 ore, istituti ottenuti dai contratti industriali del 1973-74. 144 focus