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Raffigurazioni come oggetti sociali

2016

Raffigurazioni come oggetti sociali Alberto Voltolini Per " raffigurazioni " (depictions) intendo quelle immagini dotate di valore figurativo che hanno altresì un valore rappresentazionale, sono rappresentazioni pittoriche di qualcosa. In questo lavoro cercherò di mostrare in primo luogo che le raffigurazioni sono oggetti sociali, attraverso l'analisi di quella che è la loro funzione fondamentale, quella di comunicare un contenuto che dà loro condizioni di accuratezza. In secondo luogo, cercherò di articolare quanto la prima parte del lavoro lascia sullo sfondo, e cioè come l'avere un valore rappresentazionale per le raffigurazioni dipende dal loro avere un (più generale) valore figurativo.

Raffigurazioni come oggetti sociali Alberto Voltolini Per “raffigurazioni” (depictions) intendo quelle immagini dotate di valore figurativo che hanno altresì un valore rappresentazionale, sono rappresentazioni pittoriche di qualcosa. In questo lavoro cercherò di mostrare in primo luogo che le raffigurazioni sono oggetti sociali, attraverso l’analisi di quella che è la loro funzione fondamentale, quella di comunicare un contenuto che dà loro condizioni di accuratezza. In secondo luogo, cercherò di articolare quanto la prima parte del lavoro lascia sullo sfondo, e cioè come l’avere un valore rappresentazionale per le raffigurazioni dipende dal loro avere un (più generale) valore figurativo. Le raffigurazioni come artefatti culturali Se classificassimo le raffigurazioni dal punto di vista metafisico, non c’è dubbio che le metteremmo insieme agli artefatti, alle cose che sono prodotte con una certa funzione propria derivata, la funzione individuante loro assegnata tipicamente dai loro creatori Cfr. Millikan (1984:chap.1).. Ma se un cacciavite ha per funzione propria derivata quella di avvitare oggetti e non quella di pulire le orecchie, qual è esattamente la funzione propria derivata di una raffigurazione? Per rispondere a questa domanda, è assai utile considerare il seguente passo di Robert Hopkins: Perché una superficie P raffiguri qualcosa O, è necessario che O sia visto in P. Tuttavia, questo non può essere sufficiente perché la superficie raffiguri alcunché, meno che mai O. Il problema qui è duplice. In primo luogo, una raffigurazione è un artefatto, è necessariamente il prodotto di una pianificazione umana. A meno che una superficie sia stata creata, alterata, o almeno messa in evidenza all’interno di un quadro di scopi e azioni umane, non può raffigurare. Piuttosto, può al massimo essere indistinguibile da una qualche raffigurazione, cioè da qualcosa che le assomiglia molto ma con una storia appropriata. Da questo punto di vista, le raffigurazioni sono proprio come le matite, gli enunciati e gli insulti. In secondo luogo, anche se la superficie è stata formata al fine che qualcosa sia visto in essa, non raffigurerà O a meno che O sia la cosa che si deve vedere in essa. (Hopkins 1998:71, trad. mia) Da questo passo, emerge che le funzioni proprie derivate di una raffigurazione sono due. In primo luogo, le raffigurazioni servono a rendere visibile in esse qualcosa di diverso da loro stesse. In secondo luogo, esse servono a far di qualcosa di diverso da esse quanto deve essere visto in loro stesse, o forse meglio (come risulterà per ragioni che vedremo in seguito), quanto esse comunicano (almeno primariamente) Dico “primariamente” perché oltre a comunicare ciò che costituisce quello che tra un attimo chiamerò il loro valore rappresentazionale, le raffigurazioni spesso comunicano anche ciò che costituisce il loro valore simbolico, su cui per ragioni di spazio non posso soffermarmi qui.. Come infatti Hopkins ha recentemente precisato, «quando noi incontriamo raffigurazioni, incontriamo oggetti che sono chiaramente episodi comunicativi. Sono il messaggio in bottiglia del mondo visivo» (2006:156, trad. mia). Nell’ascrivere a una raffigurazione queste due funzioni che la raffigurazione gioca in quanto artefatto, Hopkins non fa che riprendere ed espandere quanto già intuito da Richard Wollheim. Tali funzioni articolano infatti i due ruoli che per Wollheim una raffigurazione svolge. La prima funzione serve a dare ad una raffigurazione quel valore figurativo che altre immagini sono naturalmente scorte avere, le cosiddette immagini accidentali Cfr. Janson (1961). Cutting-Massironi (1998) chiamano le stesse cose immagini fortuite.: per stare ai famosi esempi, venature di marmo in cui si vedono degli umani, muri in cui si vedono battaglie, nuvole in cui si vedono animali. Un produttore di raffigurazioni deve infatti avere l’intenzione di far vedere, nei tratti che seleziona, qualcosa che le immagini del secondo tipo lasciano naturalmente scorgere. Un’intenzione del genere può tranquillamente andare insoddisfatta, e così una supposta raffigurazione può non svolgere la sua prima funzione propria derivata, quando il produttore non riesca a far vedere nella sua produzione ad uno spettatore appropriato (addestrato e competente nel riconoscimento di immagini) quanto voleva fargli vedere (si pensi agli scarabocchi in cui un bambino vuol malamente far vedere i propri genitori). La seconda funzione consente invece ad una raffigurazione di avere il suo valore rappresentazionale, l’essere cioè la raffigurazione di qualcosa o che ha un contenuto che la rende suscettibile di essere una raffigurazione accurata o meno del mondo, che le dà dunque condizioni di accuratezza. Anche in questo caso, la supposta raffigurazione può non svolgere questa seconda funzione propria derivata, quando i suoi spettatori non riconoscano in essa un certo valore rappresentazionale. Si potrebbe pensare che la situazione prototipica di un tale fallimento funzionale avvenga quando qualcosa inteso essere la raffigurazione di un certo oggetto non è riconosciuto essere la raffigurazione di quell’oggetto perché è preso come la raffigurazione di qualcos’altro (nell’esempio già platonico, si pensi ad un quadro preso per un quadro di donna quando era stato inteso come il quadro di un uomo). Ma, per ragioni che verranno in luce più avanti, è meglio considerare come quella situazione prototipica il caso in cui qualcosa che è inteso raffigurare qualcos’altro non è preso tout court come una raffigurazione (magari lo si prende solo per un’immagine accidentale se non addirittura per una mera decorazione, come potrebbe succedere alla targa sulla Pioneer 10 mandata nello spazio per comunicare agli alieni che ci sono umani sulla Terra). Benché connesse, queste due funzioni sono in linea di principio indipendenti l’una dall’altra. Certamente, difficilmente qualcosa che è prodotto con l’intenzione di rendere qualcosa visibile in esso verrà lasciato senza un valore rappresentazionale; ma nulla vieta che ciò accada (nei moai dell’isola di Pasqua tutti scorgono facce, come presumibilmente i loro scultori volevano, ma nessuno può dire se essi raffigurassero divinità polinesiane o altro). Può invece ben succedere che qualcosa che non è stato affatto prodotto coll’intenzione di far vedere qualcosa in esso sia poi usato come la raffigurazione di qualcosa Con buona pace di quello che Hopkins sembra dire nel passo precedentemente citato nel testo (1998:71).. Questo tipicamente accade alle immagini accidentali: si pensi ai riflessi nell’acqua che diventano la raffigurazione di ciò che vi si riflette, o più fantasiosamente, alle rocce marziane di forma umanoide che i fan degli alieni prendono per raffigurazioni di facce o più in generale di esseri coscienti. Quest’ultimo caso è particolarmente interessante perché mostra chiaramente che ai fini di ciò che rende una raffigurazione una raffigurazione, la seconda funzione, quella rappresentazionale, è quella decisiva. Perché in tal caso qualcosa in cui la prima funzione manca può tuttavia essere lo stesso una raffigurazione, dato che la seconda funzione è soddisfatta. Per ripetermi, in quanto immagine accidentale, qualcosa può ben mancare di essere fatto perché qualcos’altro sia visto in esso, e tuttavia diventare una raffigurazione nella misura in cui è preso per la rappresentazione di qualcos’altro. Agli esempi succitati aggiungerei la famosa immagine chiamata dell’astronauta di Palenque. Seguendo l’ipotesi dello scrittore svizzero Erich von Däniken resa popolare in Italia dai libri di Peter Kolosimo, abbiamo preso un’iscrizione Maya trovata a Palenque come la raffigurazione di un astronauta alieno, venuto in tempi lontani a portare ai Maya la civiltà. Ma in realtà, a ben guardare l’iscrizione, altri sono i motivi iconici che si possono rintracciare in essa e ascrivere ai Maya come intenzionalmente rappresentati, tra cui un guardiano degli inferi, un oggetto a forma di croce, un uccello quetzal. Quindi, quello che in realtà abbiamo fatto è prendere una parte di quell’iscrizione in cui noi naturalmente scorgiamo qualcosa vestito come un astronauta e trattarla come una raffigurazione di un astronauta alieno. Il caso delle immagini accidentali trattate come raffigurazioni mostra però un altro elemento interessante. Per Wollheim, la funzione rappresentazionale di una raffigurazione dipende fondamentalmente dalle intenzioni del suo produttore: è il suo produttore a stabilire che cosa una raffigurazione comunica, via la sua intenzione rappresentazionale che sancisce che cosa in tale raffigurazione si debba vedere Cfr. Wollheim (19802:205-7).. Per ascrivere valore rappresentazionale anche alle cosiddette immagini trasparenti (fotografie, fisse o in movimento; impronte, ombre e riflessi), le raffigurazioni il cui contenuto è stabilito da una relazione causale e non intenzionale con l’immagine stessa, come avviene invece con le cosiddette immagini opache (quadri, disegni, schizzi) Per questa distinzione tra immagini trasparenti e opache (pur usata con altri scopi), cfr. Walton (1984).. Hopkins modifica il criterio di Wollheim in senso causal-intenzionale, ma non lo intacca: per lui, ciò che dà a una raffigurazione il suo valore rappresentazionale è un legame o causale o intenzionale col suo soggetto. Cfr. Hopkins (2006:151). Ma in realtà, l’ascrizione ad una raffigurazione del suo valore rappresentazionale può ben dipendere da una negoziazione tra il suo produttore e i suoi recettori, un accordo tale che questi ultimi possono ben avere la precedenza sul primo. Il caso dei moai dell’isola di Pasqua è istruttivo in questa direzione. Qualora trattassimo quei moai come delle sculture di esseri umani, ben ignoreremmo le eventuali intenzioni rappresentative dei loro autori Probabilmente, lo stesso si può dire dell’altra funzione, quella figurativa. Se gli spettatori di una determinata immagine vi vedessero tutti qualcosa che non era quanto l’autore di quell’immagine voleva che si vedesse, si attribuirebbe all’immagine quel valore figurativo.. Da questo punto di vista, la considerazione delle immagini trasparenti all’interno delle raffigurazioni non mette in discussione il carattere negoziabile del valore rappresentazionale delle raffigurazioni. Perché anche per assegnare causalmente ad una certa raffigurazione il suo valore rappresentazionale si può dover passare attraverso una negoziazione. Questo è prima di tutto mostrato dal fatto che in differenti contesti, una e una stessa immagine ha differenti valori rappresentazionali, è rappresentazionalmente ambigua, in modo tale che uno di quei valori è fissato mediante una relazione causale, l’altro è fissato mediante un accordo tra produttori e recettori. All’interno di un film, grazie ad un determinato accordo un certo fotogramma conta come la raffigurazione di un personaggio (p.es. Evita Peron, nel film Evita di Alan Parker). Fuori dal film, quello stesso fotogramma conta invece come la foto, causalmente determinata, dell’attore che impersona quel personaggio (Madonna, in quello stesso film). Ma può anche capitare che quella che dovrebbe essere la raffigurazione causalmente determinata di un certo oggetto passi ad essere la raffigurazione, evidentemente non più determinata così, di un altro oggetto. Da qualche anno qui in Italia tutti trattiamo come raffigurazione di Nietzsche quella che originariamente era una foto di Umberto I. Questo carattere di negoziabilità del valore rappresentazionale di una raffigurazione ha una conseguenza fondamentale per questo lavoro. Nell’espletare così la loro funzione raffigurativa, le raffigurazioni sono non meri oggetti mente-dipendenti, oggetti che dipendono per la loro esistenza dall’esistenza di un qualche soggetto, ma oggetti sociali, oggetti che dipendono per la loro esistenza da una pluralità di menti. Nel loro essere artefatti, infatti, non sono artefatti individuali, bensì culturali. 2. Figuratività come vincolo della rappresentazionalità In precedenza, nel dire che la funzione che rende conto del fatto che le raffigurazioni hanno un valore figurativo e quella che rende conto del fatto che le raffigurazioni hanno un valore rappresentazionale sono indipendenti l’una dall’altra, a proposito della seconda funzione, che come abbiamo visto è più fondamentale della prima, non ho fatto ovvi esempi in cui qualcosa può rappresentare qualcos’altro senza avere un valore figurativo, come nel caso delle rappresentazioni verbali. Piuttosto, ho addotto casi in cui qualcosa può rappresentare qualcos’altro avendo però un valore figurativo seppur non intenzionalmente, in modo da continuare ad essere per l’appunto una raffigurazione. Il punto infatti è che il valore figurativo di una raffigurazione, tanto quando è determinato intenzionalmente tanto quando non lo è, vincola il suo valore rappresentazionale, nel senso che il valore rappresentazionale di una raffigurazione consiste in una determinazione compatibile col suo più generale valore figurativo. Questo modo di mettere giù le cose permette di prendere ulteriormente le distanze da Wollheim anche sulla concezione dei rapporti tra figuratività e rappresentazionalità di una raffigurazione. Per Wollheim, come abbiamo visto, mentre la figuratività di una raffigurazione è data dal suo far scaturire in modo condivisibile una certa esperienza di vedere-in, la sua rappresentazionalità, il suo essere la rappresentazione di qualcosa o con un certo contenuto, è invece data dal fatto che quell’esperienza sia l’esperienza giusta, dove “giusta” significa “conforme alle intenzioni rappresentazionali del suo produttore”. In questi termini, sembra che per Wollheim una stessa raffigurazione possa coinvolgere differenti esperienze di vedere-in, una delle quali però è quella giusta e dà così non solo la figuratività, ma anche la rappresentazionalità della raffigurazione. Prendiamo p.es. l’affresco di Piero della Francesca raffigurante S. Ludovico di Tolosa. In quell’affresco, direbbe Wollheim, Piero ci vedeva (e voleva con ragione far vedere) l’arcivescovo di Tolosa; intendendo quell‘affresco come il ritratto dell’arcivescovo, ha fatto sì che esso fosse una raffigurazione di S. Ludovico, determinando così con quella sua intenzione che quell’esperienza di vedere-in connessa a quell’affresco fosse l’esperienza giusta. Al giorno d’oggi, molti sarebbero portati a dire che in quell‘affresco ci vedono l’ex pilota di Formula 1 Michael Schumacher. Ma poiché l‘affresco non è una raffigurazione di Schumacher perché ovviamente Piero non ha voluto questo, quell’esperienza di vedere Schumacher in quell‘affresco non è l’esperienza giusta. Se questo è il modello che Wollheim aveva in mente, però, è un modello sbagliato. Nel passaggio tra il vedere S. Ludovico nell’affresco di Piero al vederci Schumacher non sembra essere in gioco nessun mutamento fenomenologico; si continua ad avere la stessa esperienza di vedere-in. Quello che cambia ed è normativamente rilevante è piuttosto l’assegnazione all’immagine di un certo valore rappresentazionale, di ciò che l’immagine (primariamente) comunica. Così, il contenuto dell’unica esperienza di vedere-in che riguarda l’affresco è un contenuto che permane identico attraverso differenti attribuzioni all’immagine coinvolta da quell’esperienza di differenti valori rappresentazionali, uno dei quali è il valore corretto – S. Ludovico – mentre un altro è il valore scorretto – Schumacher – semplicemente perché abbiamo deciso così. Se avessimo preso la decisione opposta, l’affresco sarebbe stato una raffigurazione di Schumacher; se avessimo invece preso una decisione compromissoria, come nel suddetto caso Madonna-Evita, ci troveremmo con un’immagine rappresentazionalmente ambigua che ora è la raffigurazione di S. Ludovico, ora la raffigurazione di Schumacher. Ora, quello che vale nel caso dell’affresco di Piero vale in tanti altri casi, in cui l’apparenza di una differenza in esperienze di vedere-in è in realtà la differenza nell’assegnazione all’immagine rilevante di un diverso valore rappresentazionale. Un altro esempio del genere è il quadro di Francisco Goya raffigurante la contessa di Chincon, che oggi molti in Italia sulla base della stessa esperienza di vedere-in avuta e intesa da Goya prenderebbero per un quadro di Luciana Littizzetto. Messe le cose in questi termini, il contenuto di un’esperienza di vedere-in è generico, non oggetto-dipendente come sembra essere per Wollheim. Nell‘esempio dell’affresco di Piero, l’esperienza di vedere-in legata a quell’affresco che ne fissa il valore figurativo è l’esperienza di vederci un uomo di un certo tipo. D’altronde, il suo contenuto rappresentazionale è un contenuto più specifico, ma non necessariamente singolare, oggetto-dipendente. L’affresco di Piero è il ritratto di un determinato individuo, l’arcivescovo di Tolosa. Ma qualcosa in cui si vede una silhouette di una donna può ben essere la raffigurazione di una donna d’affari senza essere la raffigurazione di una donna in particolare. Una riprova che le cose stanno in questi termini è che per avere un mutamento di esperienza di vedere-in nei confronti di un’immagine bisogna avere non solo un’immagine che è (almeno potenzialmente) rappresentazionalmente ambigua, ma anche un’immagine che è percettivamente ambigua. Un’immagine percettivamente ambigua è un’immagine che non solo è rappresentazionalmente ambigua, ma è tale che il suo differente valore rappresentazionale consegue dal suo avere un differente valore figurativo dipendente dal suo essere affetta da differenti esperienze pittoriche, che seguendo Wollheim possiamo ben prendere come differenti esperienze di vedere-in. Si prenda ad es. la nota immagine anatra-coniglio. A differenza dell’affresco di Piero, del quadro di Goya o anche del fotogramma di Evita, l’immagine in questione è percettivamente ambigua perché consente due differenti esperienze pittoriche, quella in cui ci vediamo qualcosa di anatroide e quella in cui ci vediamo qualcosa di coniglioide. Date queste due letture percettive, l’immagine poi conterà ora come raffigurazione di un’anatra, ora come una raffigurazione di coniglio. Ad ulteriore riprova di questo modo di mettere le cose, si noti come una volta fissata una determinata esperienza percettiva per un’immagine ambigua che ne fissa un valore figurativo, già a quest’esperienza si possono connettere differenti valori rappresentazionali (che possono eventualmente giungere a fare dell’immagine già in questo valore figurativo un’immagine rappresentazionalmente ambigua). Se consideriamo proprio l’immagine anatra-coniglio, si vedrà che essa potrebbe essere anche presa ora come raffigurazione di una papera (invece che di anatra), ora come una raffigurazione di una lepre (invece che di coniglio). Ma a queste due ulteriori interpretazioni rappresentazionali non corrisponderebbero ulteriori differenti esperienze pittoriche. Rispettivamente, l’immagine continuerebbe ad essere vista ora in un modo anatroide, che legittima tanto l’interpretazione rappresentazionale relativa alle anatre quanto quella relativa alle papere, ora in un modo coniglioide, che legittima tanto l’interpretazione rappresentazionale relativa ai conigli quanto quella relativa alle lepri. Il punto, si può allora dire, è che le due esperienze di vedere-in che quest’immagine consente hanno un contenuto rispettivamente più generico di quello che le finora rispettivamente attribuito loro; nel primo caso si vede nell’immagine un anatide (il genere sotto cui tanto le anatre quanto le papere ricadono), nel secondo un leporide (il genere sotto cui tanto i conigli quanto le lepri ricadono). Bibliografia Cutting, J.E. & Massironi, M. (1998), “Pictures and their Special Status in Perceptual and Cognitive Inquiry”, in J. Hochberg (ed.), Perception and Cognition at Century’s End, Academic Press, San Diego, 137-168. Hopkins, R. 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