SANITÀ
Analisi delle norme di riferimento
I commenti fino a pag. 53 sono a cura di Giovanni Comandé
l quadro della responsabilità civile connesso all’erogazione di
una prestazione sanitaria è fondato sulle regole generali previste dal
Codice civile. Solo di recente, come si vedrà, vi sono stati interventi
normativi mirati a influenzare questo sottosettore del diritto in modo
esplicito.
Nel corso del tempo le basi teoriche
che hanno fondato l’azione risarcitoria sono mutate anche in rapporto al
mutare delle condizioni di erogazione delle prestazioni per poi ricondurre fondamentalmente il risarcimento alle regole generali di responsabilità contrattuale.
Sebbene a rischio di una semplificazione eccessiva, le regole di responsabilità - sia in sede civile che in
sede penale - hanno oscillato attraverso periodi diversi di indulgenza
e di severità nei confronti del personale coinvolto per giungere a uno
stadio evolutivo in cui il momento
centrale non è rappresentato più (in
sede civile) dalla responsabilità individuale dell’operatore quanto della
struttura sanitaria all’interno della
quale egli opera.
Con specifico riferimento al risarcimento del danno, le innovazioni organizzative che hanno interessato
l’erogazione di prestazioni sanitarie
dall’anno 1970 assieme ai progressi
della medicina e al crescente ruolo
del consenso informato quale momento legittimante l’attività di cura
hanno imposto profonde revisioni
nei criteri di allocazione della responsabilità e nelle voci di danno
risarcibili.
I
Dalla responsabilità del medico
a quella della struttura
In sintesi, si è assistito a una espansione dei confini della responsabiliPAGINA 30
tà civile in ambito sanitario agevolmente descritta dalle varie locuzioni linguistiche succedutesi nel tempo. All’inizio il riferimento naturale
andava alla «responsabilità del medico», implicitamente riferendosi a
una responsabilità contrattuale individuale per inesatto adempimento
degli obblighi assunti contrattualmente dal professionista e con riferimento alla disciplina del relativo
contratto di prestazione d’opera. A
partire dall’anno 1950 circa, con
l’emergere della complessità dei
meccanismi di erogazione delle prestazioni sanitarie, dottrina e giurisprudenza cominciarono a utilizzare maggiormente l’espressione «responsabilità medica» riferendosi a
quelle occasioni in cui il contributo
individuale del professionista alla
causazione del danno non era facilmente individuabile perché, ad
esempio, il danno si era realizzato
in un intervento in equipe. Oggi, la
locuzione maggiormente usata è «responsabilità sanitaria», con ciò alludendo non tanto e non solo all’eventuale responsabilità individuale dell’operatore coinvolto quanto piuttosto alla responsabilità - diretta o vicaria - della struttura sanitaria coinvolta nell’erogazione della prestazione.
Invero, come chiariscono anche documenti ufficiali del ministero della
Salute (ad esempio, “Introduzione
a: Risk Management in Sanità - Il
problema degli errori - commissione tecnica sul rischio clinico - ministero dalla Salute”), «Il sistema sanitario è un sistema complesso per
diverse variabili (specificità dei singoli pazienti, complessità degli interventi, esperienze professionali
multiple, modelli gestionali diversi), al pari di altri sistemi quali le
IL SOLE 24 ORE - GUIDA AL DIRITTO
centrali nucleari, l’aviazione, la difesa militare. Dal momento che in
ogni organizzazione complessa l’errore e la possibilità di un incidente
non sono eliminabili, devono essere
utilizzati tutti gli interventi possibili
perché siano, per lo meno, controllabili».
Da questa descrizione in termini di
attività complessa deriva immediatamente la necessità e la relativa tendenza giurisprudenziale, di spostare
l’allocazione della responsabilità
dal singolo professionista alla struttura con il conseguente alleggerimento dell’onere probatorio a carico del paziente.
Queste caratteristiche dell’erogazione delle prestazioni sanitarie hanno
indubbiamene contribuito a muovere il sistema risarcitorio nella nostra
materia oltre la mera ricerca di colpe individuali e verso meccanismi
sistemici più complessi.
Come anticipato, questa evoluzione
si è accompagnata a una evoluzione
dell’organizzazione dell’erogazione
della prestazione sanitaria (con
l’istituzione del Ssn, la sua successiva aziendalizzazione e regionalizzazione nonché con i relativi passaggi
di pubblicizzazione e poi privatizzazione del rapporto di impiego del
personale sanitario) e a una diversa
percezione delle ragioni di una mancata guarigione in una stagione
scientifica dalle accresciute potenzialità di cura tali di far percepire
all’utente l’obbligazione di cura come un obbligo di guarire. In questo,
spesso si concretizza una errata percezione dell’obbligazione medica
che rimane di mezzi e mai di risultato (Corte di cassazione, sentenze
23918/06 e 4400/04).
In parallelo, la giurisprudenza si è
prodigata nel facilitare l’onere proDICEMBRE 2013
SANITÀ
n TRE PROFILI DI RESPONSABILITÀ
batorio del paziente presunto danneggiato e nel fare del risarcimento
del danno connesso all’erogazione
di una prestazione di cura una palestra per i processi di espansione delle voci di danno alla persona risarcibile.
articolo 1228 del Cc - dall’inadempimento della prestazione professionale eseguita direttamente dal sanitario di cui si avvale, dipendente o
meno (Corte di cassazione, sezione
III civile, 13 aprile 2007 n. 8826 e
14 luglio 2004 n. 13066).
Il principio della vicinanza
della prova
Il quadro normativo
e costituzionale
Il percorso di facilitazione dell’onere probatorio, passando attraverso
momenti diversi basati ora sulla distinzione tra interventi di facile e di
non facile esecuzione, ora su meccanismi presuntivi, si è oggi consolidato nel principio generale della vicinanza della prova secondo cui l’onere grava su chi è meglio in grado di
assolverlo, e nell’ancoraggio della
responsabilità contrattuale della
struttura e del professionista non
più al contratto di prestazione d’opera professionale ma sulle regole generali della responsabilità contrattuale (articoli 1218, 1176 e 1228
del Codice civile; per una conferma
e una puntuale ricostruzione si veda
anche Corte di cassazione, sezione
III penale, 26 giugno 2012 n.
10616, in «Danno e Responsabilità», 2013, pagg. 889 e seguenti). Di
conseguenza la responsabilità dell’ente verso il paziente può discendere direttamente - articolo 1218
del Cc - dall’inadempimento delle
obbligazioni a suo carico o - ex
DICEMBRE 2013
Fatte queste premesse, si deve necessariamente iscrivere il quadro
normativo di riferimento nell’alveo
della Costituzione: il fulcro dell’assistenza sanitaria ruota attorno ai
precetti costituzionali degli articoli
32 e 38.
Il primo, in particolare, ha assunto
un rilievo centrale nella materia in
esame sia nel definire le regole di
responsabilità (ad esempio, centralità del risarcimento del danno alla
salute) sia nel presidiare l’evoluzione delle voci di danno risarcibile. Il
comma 1 dell’articolo 32 sancisce
che: «La Repubblica tutela la salute
come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e
garantisce cure gratuite agli indigenti». Al comma 2 si precisa che:
«Nessuno può essere obbligato a un
determinato trattamento sanitario se
non per disposizione di legge. La
legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della
persona umana». Quest’ultimo principio è stato dapprima declinato dal
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Legislatore con la legge istitutiva
del Ssn (e già prima con la disciplina dei trattamenti sanitari obbligatori) sancendo (articolo 33) che: «Gli
accertamenti e i trattamenti sanitari
sono di norma volontari. Nei casi di
cui alla presente legge e in quelli
espressamente previsti da leggi dello Stato possono essere disposti dall’autorità sanitaria accertamenti e
trattamenti sanitari obbligatori, secondo l’articolo 32 della Costituzione, nel rispetto della dignità della
persona e dei diritti civili e politici,
compreso per quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e
del luogo di cura».
Questi principi sono stati declinati
dalla giurisprudenza allargando
l’area del danno risarcibile e giungendo a risarcire il danno (non patrimoniale) conseguente alla mera violazione del principio.
Le regole di responsabilità
contrattuale e la vicinanza
dell’onere della prova
Per lungo tempo la responsabilità
medica è stata costruita attorno al
contratto di prestazione professionale, anche se in tempi più recenti il
Supremo collegio ha riclassificato
questa responsabilità nell’alveo delle regole generali (Corte di cassazione 22 gennaio 1999 n. 589) di responsabilità contrattuale, eventualmente basandola su un mero contatPAGINA 31
SANITÀ
n COSA DEVONO DIMOSTRARE MEDICO E PAZIENTE
to sociale ove manchi un precedente rapporto contrattuale (Corte di
cassazione 29 settembre 2004 n.
19564, 21 giugno 2004 n. 11488,
21 luglio 2003 n. 11316, 11 marzo
2002 n. 3492, 19133/04, 10297/04
e 9085/06). A ogni modo, anche
ove la responsabilità derivi dalla
violazione di obblighi legislativamente previsti (come nel caso del
necessario consenso informato) o
da un atto illecito la giurisprudenza
applica le regole di responsabilità
contrattuale almeno con riferimento
ai criteri di allocazione dell’onere
probatorio.
A partire dal 2004 (Cassazione 21
giugno 2004 n. 11488), il Supremo
collegio ha tarato la regola secondo
cui nell’ambito della responsabilità
professionale medica e delle strutture sanitarie - secondo le regole dell’articolo 1218 del Cc - il paziente
ha l’onere di provare l’inadempimento che ha causato il danno e
non è chiamato a dimostrare la colpa del convenuto o il suo grado. Sul
paziente rimane l’onere di fornire
in concreto la dimostrazione dell’esistenza del pregiudizio lamentato e il diretto nesso causale dall’inadempimento (Corte di cassazione
20 novembre 2007 n. 24140, 15
maggio 2007 n. 11189, 10 gennaio
2007 n. 238 e 4 luglio 2006 n.
15274). La prova dell’assenza di
colpa e la valutazione del suo livello ai sensi dell’articolo 2236 del Cc,
rimangono in capo ai convenuti
chiamati a dimostrare che non vi è
stato inadempimento colpevole (di
fatto, la prova positiva dell’impossibilità di adempiere correttamente
per cause non attribuibili a loro). In
PAGINA 32
pratica dunque il paziente è chiamato a dimostrare il titolo della sua
pretesa e ad allegarne l’inadempimento nei termini di un aggravamento dello stato di salute, della
comparsa di una nuova patologia o
del mancato ottenimento del miglioramento della medesima che nelle
concrete circostanze poteva/doveva
legittimamente attendersi, come ad
esempio l’incremento delle capacità
respiratorie a seguito di una setto-rino-plastica (tra le tante, Cassazione
9085/06 e più di recente 4030/13).
Di conseguenza il professionista e
la struttura devono provare non solo di avere correttamente erogato la
propria prestazione ma anche l’imprevedibilità e la natura eccezionale
del danno arrecato a seguito del proprio intervento (si veda per tutte,
Cassazione 577/08).
Ciò è coerente con l’ancoraggio della responsabilità del professionista
e della struttura all’inadempimento
dell’obbligazione di erogare la prestazione in linea con la qualità prescritta dalla legge (si veda la legge
502/1992 - articoli 8, 8-quinquies e
14 - che integra ipso iure il contenuto del contratto di erogazione di prestazione sanitaria e ai fondamentali
diritti alla tutela della salute; alla
sicurezza e alla qualità dei prodotti
e dei servizi sancita a livello di codice del consumo ex articolo 2 del
Dlgs 205/2006).
La diligenza richiesta
Sul piano della diligenza richiesta,
la giurisprudenza ha dato una lettura coordinata degli articoli 1176 e
2236 del Cc considerandoli espressione di un concetto unitario di diliIL SOLE 24 ORE - GUIDA AL DIRITTO
genza secondo il quale il livello di
diligenza richiesto deve essere apprezzato con riferimento alla difficoltà del servizio prestato (Cassazione 23918/06) e quindi con riferimento a un debitore qualificato ai
sensi del comma 2 dell’articolo
1176 del Codice civile. Tale diligenza comprende l’adesione a quelle
regole e precauzioni che nel loro
complesso costituiscono la conoscenza della professione medica e
includono il dovere di monitoraggio
della salute del paziente anche nelle
fasi post operatorie (Cassazione
23918/06, 19133/04, 4400/04 e
3492/02). Questa lettura si impianta
e in parte sostituisce la distinzione
tra prestazioni di facile e di non
facile esecuzione che nel tempo è
servita a facilitare l’onere probatorio del paziente danneggiato. Oggi
possiamo considerare difficili quelle prestazioni che trascendono l’abilità media e che non sono sufficientemente studiate e testate dalla
scienza medica.
Coerentemente la giurisprudenza ha
precisato che la limitazione di responsabilità di cui all’articolo 2232,
comma 2, del Cc con riferimento ai
casi che richiedono la soluzione di
problemi tecnici di particolare difficoltà (Cassazione 9085/06) non si
applica alle ipotesi di imprudenza e
negligenza (Cassazione 8826/07).
Le basi della responsabilità del professionista e della struttura rimangono ancorate alla colpa. Entrambi sono tenuti contrattualmente al risultato di cura da apprezzarsi alla stregua del criterio del risultato normalmente atteso tenuto conto delle condizioni del paziente, delle capacità
DICEMBRE 2013
SANITÀ
n TRA DILIGENZA E RESPONSABILITÀ
tecniche del professionista e della
capacità istituzionale e organizzativa della struttura (Cassazione 13
aprile 2007 n. 8826, 22 dicembre
1999 n. 589, 2750/98 e 8 gennaio
1999 n. 103). Conseguentemente il
risultato normale dipende da una
pluralità di fattori che includono il
tipo di patologia trattato, le condizioni generali del paziente, lo stato
dell’arte, le conoscenze tecniche e
scientifiche del momento (tra le più
recenti, Cassazione 8 ottobre 2008
n. 24791, 15 ottobre 2009 n. 975 e
29 settembre 2009 n. 20806) e l’organizzazione dei mezzi appropriati
per raggiungere gli obiettivi sanitari
in condizioni normali e secondo le
previsioni contrattuali legislativamente integrate dalla normativa relativa al Servizio sanitario nazionale.
Alla luce di ciò, si parla infatti di
responsabilità per carenza organizzativa della struttura se a questa è
da ascrivere il danno subito dal paziente.
La causalità
I principi generali in tema di causalità si applicano anche alla materia in
esame. Normale quindi il riferimento agli articoli 40 e 41 del Cp in
primis. Coerentemente per la causalità materiale la giurisprudenza
(Cassazione a Sezioni unite 11 gennaio 2008 n. 581) in applicazione
dei principi penalistici, di cui agli
articoli 40 e 41 del Cp, ritiene che
un evento sia da considerare causato da un altro se il primo non si
sarebbe verificato in assenza del secondo (cosiddetta “teoria della condicio sine qua non”). Sul piano (sucDICEMBRE 2013
cessivo) della causalità giuridica trova in un secondo momento applicazione la regola dell’articolo 1223
del Cc, per il quale il risarcimento
deve comprendere le perdite «che
siano conseguenza immediata e diretta» del fatto lesivo. Il principio
dell’equivalenza delle cause, posto
dall’articolo 41 del Cp, in base al
quale, se la produzione di un evento
dannoso è riferibile a più azioni od
omissioni, si deve riconoscere a
ognuna di esse efficienza causale,
trova il suo temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dal comma 2. Questo attribuisce l’evento dannoso esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta, solo se questa sia tale da
rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle
normali linee di sviluppo della serie
causale già in atto (Cassazione 19
dicembre 2006 n. 27168, 8 settembre 2006 n. 19297, 10 marzo 2006
n. 5254 e 15 gennaio 1996 n. 268).
Sul piano del nesso causale, il giudice di merito è chiamato a identificare separatamente l’esistenza del nesso tra la condotta illecita e l’evento
di danno per determinare solo in seguito ed eventualmente se la condotta sia stata almeno colposa (Cassazione 14759/07). Il canone di accertamento utilizzato è quello probabilistico (Cassazione 16 ottobre 2007 n.
21619) secondo il quale se la prestazione professionale fosse stata resa
tempestivamente e correttamente vi
sarebbero state serie e consistenti opportunità di evitare il danno invece
concretizzatosi (Cassazione 4 marzo
2004 n. 4400, 23 settembre 2004 n.
IL SOLE 24 ORE - GUIDA AL DIRITTO
19133, 11 novembre 2005 n. 22894
e 21 gennaio 2000 n. 632).
Si noti incidentalmente che in sede
penale il criterio causale richiesto
impone la certezza in giudizio oltre
ogni ragionevole dubbio (Cassazione a Sezioni unite 11 settembre
2002 n. 30328 nel cosiddetto “caso
Franzese”).
Al paziente è richiesto di provare il
danno e il nesso causale tra questo e
l’inadempimento allegato. Tuttavia
la giurisprudenza è incline a una
inversione dell’onere probatorio, attuato mediante presunzioni, ove:
● l’atto medico presentava un alto
potenziale di risultati positivi raggiunti solo parzialmente (Cassazione 26 giugno 2007 n. 14759 e 13
aprile 2007 n. 8826);
● l’intervento si presentava come
facile ma ha realizzato un evento
avverso (Cassazione 14 febbraio
2008 n. 3520);
● la prestazione sanitaria non ha
raggiunto il risultato positivo che ci
si sarebbe attesi in base alle condizioni del paziente, le capacità tecniche del professionista e la capacità
organizzativa della istituzione sanitaria (Cassazione 13 aprile 2007 n.
8826 e 8 ottobre 2008 n. 24791).
Recenti novelle normative
e relativi problemi
Come anticipato, in tempi recenti il
Legislatore è intervenuto in modo
assai discutibile sull’assetto giurisprudenziale prima descritto dettando una disciplina esplicitamente rubricata «Responsabilità professionale dell’esercente le professioni sanitarie» all’articolo 3 del Dl 158/2012
PAGINA 33
SANITÀ
n TRA PENALE E CIVILE
(cosiddetto “decreto Balduzzi”) convertito con modifiche dalla legge 8
novembre 2012 n. 189.
L’attuale testo in vigore recita al
comma 1: «L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento
della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non
risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo
2043 del Codice civile. Il giudice,
anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al
primo periodo)». Il testo, di interpretazione non facile, nel dettare una
norma di rilievo penale parrebbe,
sul piano civilistico:
a) fare rivivere una responsabilità
extracontrattuale del professionista
e del solo professionista, stante il
richiamo all’articolo 2043 del Codice civile;
b) incidere sulle regole di quantificazione del danno giacché il giudice dovrebbe nella sua determinazione tenere «debitamente conto» del
fatto che il professionista si sia (o
meno) attenuto «a linee guida e buone pratiche cliniche accreditate dalla comunità scientifica».
Su quest’ultimo punto non è interamente chiaro quale possa essere l’innovazione visto che la giurisprudenza contempla già nel caso concreto
l’aderenza del comportamento professionale con le indicazioni delle
buone pratiche. Un carattere non ricognitivo della norma parrebbe presupporre un atteggiamento maggiorPAGINA 34
mente benevolo nei confronti dei
professionisti che, ove le circostanze del caso concreto lo richiedano,
si siano adeguati agli standard internazionali.
Fermi restando i dubbi di legittimità costituzionale sul versante penale
(già sollevati con ordinanza 21 marzo 2013, in «Rivista italiana di medicina legale», 2013, 1171, dalla sezione IX penale del tribunale di Milano) in quanto la norma non rispetterebbe il principio di ragionevolezza e di tassatività stante la genericità e ambiguità della formula legislativa utilizzata, sul piano civilistico
la norma appare prestarsi a soluzioni diametralmente opposte. E infatti
così la giurisprudenza si è già
espressa.
Secondo il tribunale di Arezzo 15
febbraio 2013 n. 196 (in Guida al
Diritto-Il Sole-24 Ore n. 17 del
2013, pag. 17), ad esempio, il testo
avrebbe - invero contra litteram una portata meramente ricognitiva
degli orientamenti giurisprudenziali
mentre per il tribunale di Torino,
sezione IV, 26 febbraio 2013 (in
«Danno e Responsabilità», 2013, 4,
367) esso permette/richiede l’applicazione dei principi della responsabilità aquiliana ai rapporti tra paziente e medici o funzionari pubblici con la conseguente allocazione
dell’onere probatorio diversa rispetto a quanto fin qui illustrato.
Il risultato ulteriormente perverso, fino a ora non manifestatosi in giurisprudenza, sarebbe una rediviva responsabilità aquiliana del professionista indipendente dalle evoluzioni priIL SOLE 24 ORE - GUIDA AL DIRITTO
ma descritte e piuttosto legata all’obbligo assicurativo previsto per tutti i
professionisti dal Dpr 137/2012.
Successivamente alla novella poi è
già intervenuta la Cassazione (sezione III civile, 19 febbraio 2013 n.
4030) rammentando che, sebbene
l’articolo 3, comma 1, del Dl 13 settembre 2012 n. 158, convertito dalla
legge 8 novembre 2012 n. 189, abbia
depenalizzato la responsabilità medica in caso di colpa lieve, dove l’esercente l’attività sanitaria si sia attenuto
a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, non è
stata elisa l’operatività dell’illecito civile e resta fermo l’obbligo di cui
all’articolo 2043 del Cc che è clausola generale del neminem laedere, sia
nel diritto positivo, sia con riguardo
ai diritti umani inviolabili quale è la
salute. Invero la Corte riafferma che
la materia della responsabilità civile
segue, tuttavia, le sue regole consolidate e non solo per la responsabilità
aquiliana del medico ma anche per
quella cosiddetta “contrattuale del
medico e della struttura sanitaria”, da
contatto sociale (il rischio di un ritorno al passato era segnalato dal tribunale di Varese 26 novembre 2012 n.
1406 ed era seguito da tribunale di
Torino, sezione IV civile, sentenza
26 febbraio 2013, che riteneva modificato il diritto vivente).
Lo stesso articolo 3, comma 3, del
Dl 158/2012 prevede anche l’estensione delle tabelle Rca in tema di
danno biologico alla responsabilità
sanitaria. Il testo, infatti, recita: «Il
danno biologico conseguente all’attività dell’esercente della professione
DICEMBRE 2013
SANITÀ
sanitaria è risarcito sulla base delle
tabelle di cui agli articoli 138 e 139
del decreto legislativo 7 settembre
2005, n. 209, eventualmente integrate con la procedura di cui al comma
1 del predetto articolo 138 e sulla
base dei criteri di cui ai citati articoli, per tener conto delle fattispecie
da esse non previste, afferenti all’attività di cui al presente articolo.».
Ancora una volta il testo si presta a
non poche ambiguità e forzature nel
sistema. Innanzitutto, in palese non
cale delle pluridecennali evoluzioni
giurisprudenziali e dell’evolversi degli assetti organizzativi della sanità,
esso fa riferimento al danno biologico «conseguente all’attività dell’esercente della professione sanitaria» letteralmente escludendo dall’ambito
operativo delle tabelle di liquidazione le ipotesi in cui il danno sia attribuito alle carenze organizzative della struttura o, in ogni modo, prescindendo dagli addebiti personali ai
DICEMBRE 2013
suoi dipendenti o collaboratori. L’illogicità del risultato e la disparità
irragionevole di trattamento che genera appaiono di tutta evidenza. Altrettanto poco chiaro è poi il riferimento all’integrazione (eventuale,
sic!) delle tabelle «per tenere conto
delle fattispecie da esse non previste,
afferenti» la professione sanitaria, come se esistessero menomazioni dell’integrità psicofisica esclusivamente causabili dall’attività sanitaria.
In attesa di - si spera - ben più
decisivi, interventi del Supremo collegio nell’interpretazione delle norme de qua il quadro giurisprudenziale prima descritto non pare essere stato profondamente influenzato
dalle novelle normative.
Va indicato poi che la medesima novella prevede una non perspicua normativa volta a incentivare e agevolare la copertura assicurativa dei rischi
per le specialità professionali sanitarie particolarmente esposte alla re-
IL SOLE 24 ORE - GUIDA AL DIRITTO
sponsabilità. Dei decreti attuativi attesi per lo scorso giugno, però, more
italico non vi è ancora traccia alcuna.
Infine, ma non ultimo, il quadro normativo di nostro interesse è completato dalla disciplina relativa alla mediazione obbligatoria. Già il Dlgs
28/2010 prevedeva il tentativo di mediazione obbligatoria per le controversie di risarcimento del danno derivante da responsabilità del medico (sebbene la prassi e la giurisprudenza facessero da subito riferimento alla responsabilità sanitaria come sopra descritta). A seguito dell’intervento della Corte costituzionale 292/2012, il
cosiddetto “decreto del Fare” (convertito dalla legge 9 agosto 2013 n. 98)
ha rinnovato l’obbligo con una esplicita estensione al «risarcimento del
danno derivante da responsabilità medica e sanitaria» nel rinnovato quadro
di obbligatorietà (l’esperimento del
tentativo di mediazione è presupposto processuale).
n
PAGINA 35
SANITÀ
L’evoluzione giurisprudenziale
C
ome detto nelle pagine precedenti, a prescindere dai recenti interventi normativi in
materia di mediazione obbligatoria
e con il cosiddetto “decreto Balduzzi”, l’intero quadro relativo al risarcimento dei danni connessi all’erogazione di una prestazione sanitaria
è frutto di una lenta e costante evoluzione giurisprudenziale. Vi sono
tuttavia temi particolarmente complessi e centrali ancora presenti nelle Corti che meritano un sia pur
breve approfondimento.
Consenso informato
Il consenso informato costituisce oggi indubbiamente la base legittimante prima dell’atto medico, nel quadro dell’erogazione organizzata delle prestazioni sanitarie, resa sempre
più complessa dai progressi scientifici e dalle conseguenti esigenze organizzative, al punto che se il consenso è necessario per ciascun atto
medico, è anche vero che le modalità della sua acquisizione sono disegnate piuttosto dall’istituzione cui il
professionista appartiene che da lui
medesimo (si veda, da ultimo, Cassazione 27 novembre 2012 n.
20894, che ancora puntualizza le
condizioni di manifestazione e di
formazione del consenso informato,
che ha natura bilaterale ed esprime
un incontro di volontà libere e consapevoli, consenso che si configura
quale diritto inviolabile della persona e che trova precisi referenti negli
articoli 2, 13 e 32 della Costituzione; si veda anche Cassazione 28
luglio 2011 n. 16543).
Se poi storicamente l’atto medico
era considerato lecito in virtù delle
sue finalità sociali (e anche quando
conduceva a un esito infausto) stanPAGINA 36
te l’assenza di intento di ledere o
perché agiva una specifica clausola
di esonero (ad esempio l’adempimento di un dovere ex articolo 51 o
lo stato di necessità ex articolo 54
del Cp oppure il consenso dell’avente diritto ex articolo 50 del Cp),
oggi invece ogni atto medico condotto senza o addirittura contro il
consenso del paziente (fatte salve le
rare eccezioni di trattamento sanitario obbligatorio, stato di necessità e
incapacità a prestare il consenso: si
vedano Cassazione 8 ottobre 2008
n. 24791 e 16 ottobre 2007 n.
21748) sarebbe in palese violazione
degli articoli 32 e 13 della Costituzione e contrario all’articolo 33 della legge 833/1978. In relazione a
ciò, oggi la giurisprudenza è pacifica seguendo i principi solennemente enunciati nel “caso Massimo”
(Cassazione penale 21 aprile 1992)
e recepiti pienamente nel codice di
deontologia medica.
La miglior sintesi del principio la
troviamo (non casualmente) nella
Cassazione, sezione I civile, 16 ottobre 2007 n. 21748: «il consenso informato costituisce, di norma, legittimazione e fondamento del trattamento sanitario: senza il consenso
informato l’intervento del medico è
sicuramente illecito, anche quando
è nell’interesse del paziente; la pratica del consenso libero e informato
rappresenta una forma di rispetto
per la libertà dell’individuo e un
mezzo per il perseguimento dei
suoi migliori interessi.».
Da questo quadro emerge, con piena
conferma giurisprudenziale, che è
onere del professionista e della struttura dimostrare la corretta acquisizione del prescritto consenso del paziente. Sebbene il consenso scritto
IL SOLE 24 ORE - GUIDA AL DIRITTO
debba essere acquisito solo in specifiche e limitate ipotesi legislativamente previste, la prassi porta ad
attestare per iscritto sia il consenso
sia l’erogazione delle necessarie informazioni preliminari a questo. Proprio il tema del contenuto delle informazioni necessarie a produrre un
consenso consapevole, informato, attuale e libero rappresenta un tema
cruciale nei dibattiti giurisprudenziali (Cassazione 11 maggio 2009 n.
10741). Rimane, infatti, in capo al
paziente la dimostrazione che le informazioni non erano complete e
hanno influenzato il consenso. In altri termini, ove la struttura/il professionista abbia dimostrato di avere
legittimamene acquisito il consenso
del paziente questi potrà sempre dimostrare che sono state omesse informazioni rilevanti e tali da inficiare il consenso prestato. È onere del
paziente la dimostrazione che qualora avesse avuto le informazioni invece omesse non avrebbe prestato il
proprio consenso al trattamento da
cui, eventualmente, sia scaturito un
danno iatrogeno o meno.
Il danno da mancanza
di consenso
Il consenso informato, quale consapevole adesione al trattamento medico
proposto, è un diritto fondamentale
garantito dall’articolo 32 della Costituzione alla luce del principio personalistico espresso dalla medesima all’articolo 2 e alla luce della protezione che essa accorda alle libertà fondamentali (articolo 13). Si veda anche
la Corte costituzionale 438/08. Stante queste premesse di principio, si
intuisce come anche nel caso in cui il
trattamento sanitario non abbia causato un danno alla (salute della) persoDICEMBRE 2013
SANITÀ
n IL PUNTO-CARDINE
na o addirittura questa sia migliorata
a seguito del trattamento stesso, le
Corti siano inclini ad accordare il
risarcimento del danno non patrimoniale. In questo caso il risarcimento
si limita alla violazione del diritto di
autodeterminarsi rispetto ai trattamenti sanitari e si estende ad altri
danni (patrimoniali e non) solo nell’ipotesi della dimostrazione positiva
che il paziente non si sarebbe sottoposto al trattamento se pienamente
informato dei rischi di evento avverso poi verificatisi.
La giurisprudenza, anche di legittimità, pare oscillare circa l’onere probatorio e le conseguenze risarcitorie
sul punto. Si rammenti, ad esempio,
la sentenza della Corte di cassazione
9 febbraio 2010 n. 2847, in «Foro
italiano», 2010, I, 2113, per la quale
l’autonoma configurabilità della lesione del diritto all’autodeterminazione e i danni autonomamente risarcibili e riconducibili alla carente informazione circa i possibili effetti
pregiudizievoli non imprevedibili
comporterebbe per il paziente l’onere di dimostrare che se debitamente
informato, non avrebbe verosimilmente accettato l’intervento. Più di
recente, invece, la Cassazione 27 novembre 2012 n. 20984 (in «Danno e
responsabilità», 2013, 743, con nota
di S. Clinca), dopo avere escluso
l’ammissibilità di un consenso tacito o l’onere di una minore informaDICEMBRE 2013
zione ove il paziente sia un professionista sanitario, ha riallocato l’onere probatorio in capo al personale
sanitario lasciando al paziente solo
un onere di deduzione del relativo
inadempimento.
Una volta acclarato che il consenso
è momento centrale e indefettibile
di ogni trattamento sanitario, è utile
passare in rassegna alcuni nodi giurisprudenziali particolarmente intricati e spinosi: il dissenso al trattamento; la costituzione di un amministratore di sostegno per l’espressione di un consenso (rectius: di un
dissenso) specifico. Entrambe le
ipotesi sono strettamente connesse
al requisito dell’attualità del consenso stesso.
Il dissenso al trattamento
del soggetto cosciente
e dell’incapace
Nella giurisprudenza si rileva una casistica sufficientemente ampia con riferimento ad alcune fattispecie per
così dire tipiche di dissenso esplicito
al trattamento. Il ventaglio di decisioni analizzate conferma che questo,
come il consenso, deve essere inequivoco, attuale, effettivo e consapevole (per tutte, Cassazione 23 febbraio
2007 n. 4211).
Assieme al caso dei testimoni di
Geova che rifiutano l’assunzione di
sangue, emoderivati ed emocomponenti (con alcune eccezioni) si registrano le ipotesi di coloro che chieIL SOLE 24 ORE - GUIDA AL DIRITTO
dono la interruzione di un trattamento (come è ad esempio il respiratore
meccanico) pienamente consapevoli delle conseguenze (è il caso di
Piergiorgio Welby). Il tema su cui
si gioca normalmente la partita, autorizzatoria prima ed eventualmente
risarcitoria dopo, è l’attualità del
consenso.
Le acquisizioni più recenti sembrano superare il principio che, sovente in modo forzato, lasciava presumere la non più attuale manifestazione del consenso (recte: dissenso)
liberando da responsabilità il personale che aveva, ad esempio, effettuato una trasfusione al paziente
che aveva dissentito prima di divenire incosciente. Le forzature si muovevano ora sul crinale del (presunto) stato di necessità che si sarebbe
creato in un secondo momento ovvero desumendo dalla (ovvia) non
volontà di morire il mutamento di
opinione rispetto al trattamento divenuto operativamente salvavita.
Le tendenze più recenti confermano
la risarcibilità del danno morale anche nel caso in cui non vi sia stato un
peggioramento dello stato di salute e
per la mera violazione del diritto all’autodeterminazione del paziente.
Assai problematico e pur tuttavia
risolto in modo netto è il caso del
dissenso al trattamento espresso dal
soggetto incapace.
La soluzione data dal Supremo collePAGINA 37
SANITÀ
n COSÌ IL RISARCIMENTO DEI DANNI
gio nel caso Englaro (Cassazione, sezione I civile, sentenza 16 ottobre
2007 n. 21748), sebbene rivolta alla
ipotesi del coma permanente irreversibile della vittima, ha tracciato uno
spartiacque culturale e concettuale
enucleando e consolidando principi
di ben più ampia portata sula scorta
dell’assunto per cui «Il consenso informato ha come correlato la facoltà
non solo di scegliere tra le diverse
possibilità di trattamento medico, ma
anche di eventualmente rifiutare la
terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi
della vita, anche in quella terminale.
Ciò è conforme al principio personalistico che anima la nostra Costituzione, la quale vede nella persona
umana un valore etico in sé, vieta
ogni strumentalizzazione della medesima per alcun fine eteronomo ed
assorbente, concepisce l’intervento
solidaristico e sociale in funzione
della persona e del suo sviluppo e
non viceversa, e guarda al limite del
“rispetto della persona umana” in
riferimento al singolo individuo, in
qualsiasi momento della sua vita e
nell’integralità della sua persona, in
considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive.» (paragrafo 6.1
della motivazione).
Se si astrae dalla fattispecie concreta e dal principio di diritto specificamente per esso enucleato emerge
un’istruzione operativa per il persoPAGINA 38
nale sanitario e il chiaro riconoscimento di un diritto per il paziente
spesso coartato da una malintesa
prevalenza del diritto alla vita: «in
caso di incapacità del paziente, la
doverosità medica trova il proprio
fondamento legittimante nei principi costituzionali di ispirazione solidaristica, che consentono e impongono l’effettuazione di quegli interventi urgenti che risultino nel miglior interesse terapeutico del paziente. E tuttavia, anche in siffatte
evenienze, superata l’urgenza dell’intervento derivante dallo stato di
necessità, l’istanza personalistica alla base del principio del consenso
informato e il principio di parità di
trattamento tra gli individui, a prescindere dal loro stato di capacità,
impongono di ricreare il dualismo
dei soggetti nel processo di elaborazione della decisione medica: tra
medico che deve informare in ordine alla diagnosi e alle possibilità
terapeutiche, e paziente che, attraverso il legale rappresentante, possa
accettare o rifiutare i trattamenti
prospettati.» (paragrafo 7.2).
Il Supremo collegio fissa un principio guida che travalica l’ipotesi del
paziente incapace quando precisa
che il tutore «deve decidere non “al
posto” dell’incapace né “per” l’incapace, ma “con” l’incapace: quindi,
ricostruendo la presunta volontà del
paziente incosciente, già adulto prima di cadere in tale stato, tenendo
conto dei desideri da lui espressi
IL SOLE 24 ORE - GUIDA AL DIRITTO
prima della perdita della coscienza,
ovvero inferendo quella volontà dalla sua personalità, dal suo stile di
vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi
valori di riferimento e dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e
filosofiche». E pur tuttavia il principio si è prestato e si presta a soluzioni ambigue sotto altri versanti.
L’amministratore di sostegno
e la volontà
La legge 6/2004 ha novellato il Codice civile introducendo il nuovo
istituto dell’amministratore di sostegno. L’articolo 404 del Cc prevede
che «La persona che, per effetto di
una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova
nella impossibilità, anche parziale o
temporanea, di provvedere ai propri
interessi, può essere assistita da un
amministratore di sostegno, nominato dal giudice tutelare del luogo in
cui questa ha la residenza o il domicilio.». Mentre l’articolo 408 del
Cc, con formula contestata in dottrina e in giurisprudenza permette che
«L’amministratore di sostegno [sia]
designato dallo stesso interessato,
in previsione della propria eventuale futura incapacità, mediante atto
pubblico o scrittura privata autenticata.».
E visto che (articolo 406 del Cc) «Il
ricorso per l’istituzione dell’amministrazione di sostegno può essere
proposto dallo stesso soggetto beneficiario», parte della dottrina e della
DICEMBRE 2013
SANITÀ
n SE IL PAZIENTE DISSENTE
giurisprudenza hanno individuato
nell’istituto una via invero forzata
di introduzione nel nostro ordinamento di una sorta di direttive anticipate (tribunale di Prato 8 aprile
2009 e tribunale di Parma 2 aprile
2004) o di dare sostanza a quelle
ipotesi in cui pur in assenza di una
incapacità sia necessario un sostegno alla scelta del paziente (ad
esempio con affezioni psichiche: tribunale di Palermo 9 dicembre
2009, tribunale di Genova 1˚ marzo
2005 e tribunale di Roma 19 marzo
2004). L’istituto si è prestato a soluzioni (discutibili per molti versi) di
sostituzione dell’amministratore di
sostegno all’amministrato nell’esprimere il consenso, ad esempio a un
trattamento riabilitativo successivo
a un Tso (tribunale di Cosenza 28
ottobre 2004) o in caso di gravi
deficit mentali (tribunale di Palermo 9 dicembre 2009).
Il nodo problematico maggiore si è
rivelato nelle ipotesi in cui, come si
è anticipato, si è tentata la strada
della nomina ora per allora dell’amministratore di sostegno. Tema questo su cui si rileva una netta divisione in giurisprudenza. Da una parte
vi è chi nega questa possibilità (come ad esempio tribunale di Cagliari
14 dicembre 2009, tribunale di Genova 6 marzo 2009 e tribunale di
Firenze 3 luglio 2009) e dall’altro
chi la ammette con motivazioni diDICEMBRE 2013
verse (come tribunale di Varese 25
agosto 2010, tribunale di Firenze 22
dicembre 2010, tribunale di Cagliari 22 ottobre 2009, tribunale di Modena 13 maggio 2008, 5 novembre
2008 e 23 dicembre 2008). Il presupposto tecnico impeditivo sarebbe la necessaria incapacità attuale
ai fini dell’attivazione del procedimento, dato contro cui argomentano numerose sentenze denunciandone incongruenze e illogicità tali da
generare disparità di trattamento
(ad esempio tra chi affetto da malattia degenerativa possa usufruire dell’istituto per proiettare le proprie
scelte in avanti e chi magari per un
improvviso trauma non potesse tempestivamente farlo; così il tribunale
di Cagliari 22 ottobre 2009).
Non ultime le argomentazioni favorevoli hanno argomentato la contraddittorietà intrinseca di un sistema che altrimenti negherebbe la
possibilità al soggetto capace di
esprimere pro futuro le proprie indicazioni e scelte rispetto a trattamenti sanitari e poi consentirebbe alla
luce della dottrina Englaro di farlo
in via presuntiva (tribunale di Firenze 22 dicembre 2010): per il giudice fiorentino «non può a fortiori
che risultare pacifico il dovere dell’ordinamento di rispettare l’espressione autodeterminativa del singolo
quando, ... quella stessa volontà sia
espressa oggi in previsione di un
IL SOLE 24 ORE - GUIDA AL DIRITTO
possibile evento futuro che lo privi
della capacità di esprimerla».
Il ruolo delle linee guida
in seguito al cosiddetto
“decreto Balduzzi”
La novella legislativa del comma 1
dell’articolo 3 del Dl 158/2012 (cosiddetto “decreto Balduzzi”), convertito con modifiche dalla legge 8
novembre 2012 n. 189, si è detto,
ha causato non pochi problemi interpretativi. Il testo in vigore esclude il
rilievo penale della colpa lieve ove
il medico si sia attenuto «a linee
guida e buone pratiche accreditate
dalla comunità scientifica» e con
specifico riferimento alla «determinazione determinazione del risarcimento del danno» prescrive che di
ciò il giudice «tiene debitamente
conto».
Orbene, la Corte di cassazione, sezione IV penale, 11493/13, ha limitato l’operatività della norma escludendo che essa possa «involgere
ipotesi di colpa per negligenza o
imprudenza, perché le linee guida
contengono solo regole di perizia»
e ha precisato le condizioni operative delle medesime rilevando che
«le linee guida, per avere rilevanza
nell’accertamento della responsabilità del medico, devono indicare
standard diagnostico-terapeutici
conformi alle regole dettate dalla
migliore scienza medica a garanzia
della salute del paziente e (come
PAGINA 39
SANITÀ
n COSA ACCADE SE LA COLPA È “LIEVE”
detto) non devono essere ispirate
ad esclusive logiche di economicità
della gestione, sotto il profilo del
contenimento delle spese, in contrasto con le esigenze di cura del paziente».
Con quest’ultimo assunto confermando la precedente giurisprudenza, però, il Supremo collegio non
ha sciolto tutti i nodi. Ad esempio,
non appare chiaro quale sia lo standard di valutazione della colpa lieve né i criteri di selezione e scelta
delle «linee guida e buone pratiche
accreditate dalla comunità scientifica». Per definizione, infatti, la comunità scientifica medica non è costretta da confini territoriali e anzi
tende a una dimensione transnazionale che lascia spazio a letture e
indicazioni non sempre coincidenti.
Sarà dunque necessario, di volta in
volta, accertare con l’aiuto di consulenze tecniche l’effettiva coincidenza tra le buone pratiche e linee guida seguite (o dalle quali si è legittimamene deviato date le peculiarità
del caso di specie) e quelle che corrispondono alla migliore scienza ed
esperienza del momento storico.
Con riferimento poi alla liquidazione del danno, e ferme restando le
perplessità operative relative all’estensione in generale del sistema
tabellare per il danno alla salute in
caso di danno da circolazione straPAGINA 40
dale, la formula per cui il giudice
deve tenere “debito conto” del fatto
che il medico abbia o meno seguito
(correttamente si immagina) le linee guida e le buone pratiche apre
questioni assai delicate. Qualsiasi
sia infatti la “direzione di marcia
interpretativa” (aumentare il risarcimento se non si sono seguite o diminuirlo se si sono seguite) appare
intuitivo che nel primo caso il risarcimento assumerebbe una valenza
sanzionatoria normalmente esclusa
dal Supremo collegio nei confronti
del personale sanitario e che creerebbe disparità di trattamento difficili ad accettare sul piano costituzionale.
Qualora poi si immaginasse il fenomeno inverso la (ulteriore) contrazione del risarcimento a discapito
del danneggiato non sembrerebbe
trovare giustificazione alcuna. Infatti, al danneggiato non andrebbe beneficio alcuno capace di giustificare
il sacrificio del suo diritto (come
invece avviene in sede di infortuni
sul lavoro ad esempio) e la quantificazione effettiva del danno sfuggirebbe a una valutazione obiettiva.
Mutatio libelli
e responsabilità sanitaria:
un contrasto in Cassazione
Un ultimo problema che vogliamo
segnalare è più squisitamente processuale ed è stato generato da una reIL SOLE 24 ORE - GUIDA AL DIRITTO
cente decisione del Supremo collegio (13269/12) secondo la quale
«non costituisce inammissibile mutamento della domanda la circostanza
che l’attore, dopo avere allegato nell’atto introduttivo che l’errore del sanitario sia consistito nell’imperita
esecuzione di un intervento chirurgico, nel concludere alleghi, invece,
che l’errore sia consistito nell’inadeguata assistenza post-operatoria». Il
contenuto della domanda infatti, andrebbe, secondo questa decisione ritenuto «idoneo a delimitare l’ambito
dell’indagine nella sua essenzialità
materiale, senza che le specificazioni della condotta, inizialmente allegate dall’attore, possano avere portata preclusiva, attesa la normale mancanza di conoscenze scientifiche da
parte del danneggiato».
Con ciò, però, la Corte contraddiva
la costante presa di posizione per la
quale, prospettare in corso di una
causa di risarcimento del danno una
condotta colposa diversa da quella
prospettata nell’atto introduttivo,
costituisse una mutatio libelli inammissibile (tra le tante, Cassazione,
sezione III civile, 7540/09) e in contrasto con il rigore della prova richiesta rispetto agli elementi costitutivi
della pretesa risarcitoria (soluzione
confermata anche da Cassazione, sezione III civile, 17408/12).
n
DICEMBRE 2013
SANITÀ
Le questioni ancora aperte
È
il caso di ribadire, anche in
questa sede, che ogni punto e
argomento in materia di responsabilità sanitaria rappresenta
una questione aperta e demandata
prioritariamente ai mobili assetti
giurisprudenziali. Fatta tale premessa e demandando le principali questioni aperte in giurisprudenza ad
altro approfondimento in questa
Guida, ci concentriamo su alcune
questioni aperte in cui, invece, il
ruolo della giurisprudenza, pur sempre presente e necessario, appare
più defilato e ancorato a interventi
regolatori.
La responsabilità sanitaria
(del personale e delle strutture)
e la gestione del rischio clinico
Il percorso di facilitazione della posizione del danneggiato culminato
nell’affermazione del principio di
vicinanza della prova e nell’ancoraggio della responsabilità del personale e della struttura alle regole della responsabilità da inadempimento
hanno teso a un pieno risarcimento
del danno alla persona con una crescente apertura alla tutela risarcitoria degli interessi costituzionalmente protetti andando oltre la mera tutela del diritto alla salute, grazie anche alla mediazione del consenso
informato quale oggetto specifico
di una illecita violazione. Come si è
visto il percorso ha teso a spostare
l’attenzione dal biasimo per l’errore
individuale alla consapevolezza che
il danno possa derivare prioritariamente da carenze strutturali e da
errori evitabili sul piano sistemico.
Mentre si espandeva lo spazio di
risarcibilità del danno, la responsabilità medica diveniva sempre meno “personale” e quindi più... sanitaria nel senso detto prima: al complessificarsi della prestazione erogata corrisponde una maggiore diffiDICEMBRE 2013
coltà se non inutilità di individuare
responsabilità individuali. Gli elementi costitutivi di questo fenomeno sono molteplici e riconducibili,
senza pretesa di esaustività a:
● “oggettivazione” progressiva della responsabilità sanitaria nei suoi
diversi elementi costitutivi;
● complessificarsi delle prestazioni
cui ricondurre il danno, sempre meno riferibili a una sola persona fisica e sempre più riconducibili a un
complesso di fattori umani e organizzativi nonché alla struttura in
quanto tale (cosiddette “carenze organizzative”);
● indistinzione crescente tra attività in strutture pubbliche e in realtà
private oggi del tutto irrilevante ai
fini del risarcimento;
● aumento delle possibilità di diagnosi e cura a fronte di una contrazione delle risorse disponibili;
● presenza del momento assicurativo che contribuisce a fare superare
barriere anche psicologiche al contenzioso paziente-medico;
● copertura finanziaria offerta dalle
aziende sanitarie e ospedaliere al
proprio personale che ormai risponde economicamente solo per l’improbabile caso del dolo;
● piena coincidenza tra chi paga
per le prestazioni e chi paga per
l’eventuale risarcimento del danno
(gli enti titolari del Servizio e in
primis le Regioni attraverso le strutture locali).
Il governo del rischio clinico è assegnato dall’articolo 15 della legge
229/1999 al Collegio di Direzione
nelle strutture sanitarie aziendali e
ospedaliere. Più di recente l’articolo 3-bis del Dl 158/2012, come modificato in sede di conversione dalla
legge 189/2012, ha enucleato una
norma specifica dedicata al rischio
clinico. Esso recita: «Al fine di ridurre i costi connessi al complesso
IL SOLE 24 ORE - GUIDA AL DIRITTO
dei rischi relativi alla propria attività, le aziende sanitarie, nell’ambito
della loro organizzazione e senza
nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, ne curano l’analisi, studiano e adottano le necessarie soluzioni per la gestione dei rischi medesimi, per la prevenzione
del contenzioso e la riduzione degli
oneri assicurativi. Il Ministero della
salute e le regioni monitorano, a
livello nazionale e a livello regionale, i dati relativi al rischio clinico».
La nozione assunta a livello normativo, però, evidentemente è diversa
da quella conclamata a livello internazionale. Essa, infatti, è prettamente orientata alla riduzione dei costi
assicurativi e del contenzioso piuttosto che cercare di affrontare la riduzione dei rischi con il dovuto approccio multidisciplinare. Ciò nonostante le norme concernenti la qualità dei servizi non manchino nel sistema (ad esempio, gli articoli 10 e
14 del Dpr 502/1992 che ripartiscono le competenze tra Regioni e Stato) e richiedano, sempre ad esempio, al Direttore generale al dirigente sanitario del servizio «a richiesta
degli assistiti», di adottare «le misure necessarie per rimuovere i disservizi che incidono sulla qualità dell’assistenza» (articolo 14, comma 5,
del Dpr 502/1992).
Come evidenzia anche la richiamata normativa più recente e nonostante i costanti richiami al governo del
rischio clinico nei piani sanitari nazionali e regionali e nei numerosi
decreti ministeriali che vedono - ad
esempio - nelle linee guida uno strumento essenziale di governo del rischio clinico e dell’organizzazione
del Ssn (Dm 30 giugno 2004) la
gestione del rischio manca ancora
di una reale visione sistemica.
Ciò rimette al centro delle evoluzioni l’operato della giurisprudenza
PAGINA 41
SANITÀ
che in un quadro assai incerto deve
dare risposte a questioni concrete e
non risolte come il ruolo delle eventuali «segnalazioni» di eventi avversi nella determinazione della diligenza del professionista o il loro
eventuale rilievo penale.
La garanzia della qualità,
la gestione del rischio
e le infezioni nosocomiali:
un esempio
Il riflesso parallelo a un oggettivarsi
della responsabilità e al suo impuntarsi prioritariamente sulle organizzazioni sanitarie in cui operano i professionisti è l’individuazione, la gestione e la rimozione dei rischi eliminabili insiti nei percorsi diagnostico-terapeutici. Il presupposto di questa operazione è la scomparsa della
nozione di incidente per cui si è
materializzata l’idea che un incidente corrisponda semplicemente a un
rischio non ben gestito e immediatamente attribuibile agli individui cui
si riconducono specifiche azioni od
omissioni. Fuor di metafora, si ritiene che esista un rischio in sanità ed
è l’omissione o l’azione (errata) di
uno specifico elemento della catena
di erogazione della prestazione sanitaria che ne ha permesso la materializzazione in termini di danno.
Questo fenomeno, che richiederebbe il totale emergere di errori latenti
e sistemici (ad esempio malfunzionamenti strutturali e organizzativi),
si scontra con gli effetti perversi
sulla notifica di errori e quasi eventi
che anche nel nostro ordinamento
hanno le regole di responsabilità civile e penale. Se dunque errare humanum est, non sarebbe umano perseverare sapendo di potere evitare
almeno alcuni errori. Tuttavia, per
le “paure” che la accompagnano raramente l’analisi della casistica giurisprudenziale e della singola casistica di una struttura in tema di responsabilità sanitaria è stata utilizzata
per evidenziare i fattori di rischio
ed eliminarli individuando vulnerabilità sistemiche nelle strutture sanitarie e, soprattutto, disegnando perPAGINA 42
corsi formativi e riorganizzativi volti a rimuovere tali vulnerabilità o
almeno a disegnare meccanismi di
controllo. Tutto ciò a dispetto delle
norme che individuano precise responsabilità in tal senso.
Questi profili in concreto interessano anche i processi di accreditamento delle strutture e di “abilitazione”
dei professionisti nonché il controllo continuo del mantenimento e dell’aggiornamento delle competenze
necessarie. Non a caso il Piano sanitario 2006-2008 (in parte qua ancora in vigore) definisce il rischio clinico (pag. 57) come «la probabilità
che un paziente sia vittima di un
evento avverso, cioè subisca un
qualsiasi danno o disagio imputabile, anche se in modo involontario,
alle cure mediche prestate, che causa un peggioramento delle condizioni di salute o la morte». Il Psn prosegue specificando che «[u]na gestione efficace del rischio clinico presuppone che tutto il personale sia
consapevole del problema, che sia
incoraggiata la segnalazione degli
eventi e che si presti attenzione ai
reclami e al punto di vista dei pazienti. Le strategie di gestione del
rischio clinico devono utilizzare un
approccio pro-attivo, multi-disciplinare, di sistema, e devono prevedere attività di formazione e monitoraggio degli eventi avversi». Ovviamente a questi principi condivisibili
non seguono poi le regole operazionali atte a implementarli.
Un esempio tangibile del purtroppo
necessario intervento sostitutivo della giurisprudenza rispetto ai necessari interventi sistemici è rappresentato dalle infezioni nosocomiali su
cui pure vi sono numerosi interventi regolatori (come testimoniato dall’istituzione, con il protocollo Stato-Regioni del 20 marzo 2008, dell’Osservatorio nazionale di monitoraggio degli eventi sentinella,
Osmes, presso il ministero della Salute dello specifico Sistema informativo per il monitoraggio degli eventi avversi, Simes).
IL SOLE 24 ORE - GUIDA AL DIRITTO
Le infezioni nosocomiali, la cui riduzione è da tempo terreno di elezione
per la gestione (e riduzione) del rischio clinico (si vedano le circolari
ministeriali 52/1985 “Lotta alle infezioni ospedaliere” e 8/1988 “Lotta
alle infezioni ospedaliere: la sorveglianza”), rimangono infatti al centro dell’attenzione giurisprudenziale
(Cassazione, sezione III civile, 7 giugno 2011 n. 12274, in www.osservatoriodannoallapersona.org). In linea
con quanto emerso in generale per
la responsabilità sanitaria, la giurisprudenza tende a oggettivare la responsabilità anche per le infezioni
nosocomiali ricorrendo a un ampio
uso di presunzioni (Cassazione, sezione III civile, 1˚ dicembre 2010 n.
24401) come testimoniato dal linguaggio sovente utilizzato che fa riferimento al fatto che «sarebbe irragionevole chiedere al Ctu di indicare quale pratica non fosse stata effettuata in modo corretto, poiché il Ctu
a distanza di tempo non può certo
controllare se gli strumenti utilizzati
nella medicazione e le condizioni in
cui era avventa fossero state ottimali» (si veda tribunale di Torino 1˚
marzo 1999) ovvero che l’infezione
sopraggiunta all’intervento «era verosimilmente dovuta a un’igiene
non adeguata della sala operatoria»
(si veda il tribunale di Monza 17
luglio 2006). Del resto, la giurisprudenza in circostanze come queste ha
ritenuto configurata la responsabilità già per il solo fatto che non risultasse debitamente annotato in cartella clinica il decorso dell’infezione
(ad esempio, Cassazione, sezione III
civile, 26 gennaio 2010 n. 1538).
Infezioni nosocomiali
e responsabilità
del direttore generale
e del direttore sanitario
Il risultato combinato è quello di
addossare al professionista (Cassazione, sezione III civile, 5 luglio
2004 n. 12273) l’onere di contribuire all’adozione delle misure atte a
ridurre ed eliminare nei limiti del
possibile il rischio da infezione noDICEMBRE 2013
SANITÀ
n LA GESTIONE DEL RISCHIO CLINICO
socomiale nonché di avvisare il paziente... al limite consigliando il ricovero presso altra struttura (sic!);
si veda Cassazione, sezione III civile, 26 giugno 2012 n. 10616 che ha
riconosciuto la responsabilità del
medico per il cattivo funzionamento di una apparecchiatura.
Quanto tale risultato sia lontano da
quella che potrebbe essere la prassi
è facilmente intuibile. Meno chiaro
è spiegare perché non constino numerosi precedenti circa la responsabilità del direttore generale e del
direttore sanitario cui pure, come si
è visto, la normativa attribuisce in
tema particolari compiti e relativi
poteri nell’ambito dell’ampia autonomia loro attribuita assieme a quella delle istituzioni che sono chiamati a dirigere (Corte dei conti della
Toscana, Sezione giurisdizionale,
1˚ aprile 2008 n. 126).
Ove, infatti, le infezioni nosocomiali discendessero dalle inefficienze
organizzative a essi imputabili questi potrebbero risponderne civilmente e penalmente. Il direttore generale però risponderà di un’eventuale
negligenza nell’organizzazione dell’unità sanitaria e di mancata denuncia di deficienze a essa relative (Cassazione, sezione III penale, 29 aprile 2010 n. 22755). Al direttore sanitario rimane ascritta una responsabilità specifica in tema di organizzazione degli aspetti igienico-tecnico
sanitari nonché il potere di vigilanDICEMBRE 2013
za sul rispetto delle indicazioni fornite (Corte dei conti dell’Umbria,
Sezione giurisdizionale, 31 gennaio
2002 n. 39 che afferma la responsabilità amministrativa, a titolo di colpa grave, del commissario straordinario e del direttore sanitario di un
ospedale per il danno da disservizio
e all’immagine conseguenti alle gravi carenze del servizio di cucina dovute a prolungate negligenze nell’organizzazione generale, inidoneità
dei locali, carenza di manutenzione
ordinaria e straordinaria, inadeguatezza delle attrezzature e delle condizioni di pulizia, insufficienza delle
procedure di vigilanza, si veda anche Cassazione, sezione III penale,
22 gennaio 1993 n. 511).
In questa prospettiva si può realizzare un corto circuito della responsabilità ove a discolpa dei dirigenti venissero addotte deficienze strutturali e di risorse attribuibili a mancate
autorizzazioni all’acquisto o assunzione da parte degli enti competenti
(le Regioni) chiudendo con una
“responsabilità” politica non perseguibile una irresponsabilità civile di
fatto.
Assicurazione e risarcimento
prima e dopo
il cosiddetto “decreto Balduzzi”
Sebbene sia centrale in ogni sistema
risarcitorio, la problematica della copertura assicurativa dei rischi connessi all’erogazione di prestazioni
sanitarie non è affrontata in modo
organico nel nostro ordinamento.
IL SOLE 24 ORE - GUIDA AL DIRITTO
Le polizze oggi presenti sul mercato coprono assieme ai rischi connessi all’erogazione della prestazione
anche altri, in qualche modo collaterali, come ad esempio quella da trattamento di dati sanitari. Peraltro, gli
obblighi assicurativi nel settore sono assai ridotti, riducendosi, per un
verso alle ipotesi di sperimentazione clinica, per l’autorizzazione della quale deve essere prestata idonea
garanzia assicurativa (articolo 6,
comma 1, lettera i), della legge
211/2003) e alle previsioni di contratto collettivo nazionale del comparto a mente del quale le aziende
devono agevolare la copertura assicurativa per i dipendenti relativamente alle ipotesi in cui potrebbero
rispondere per colpa grave. Ovviamente le polizze sul mercato escludono (in quanto il contratto sarebbe
nullo) le ipotesi di dolo, sebbene la
giurisprudenza continui a permettere una diversa valutazione in sede
penale (ove può essere riconosciuta
la natura dolosa di un reato) e in
sede civile (sul punto, Cassazione
17 dicembre 2009 n. 26505).
Fatte queste premesse è agevole rilevare come negli ultimi anni si siano
registrati fenomeni di crisi nel settore consistenti non solo in significativi aumenti dei premi assicurativi richiesti ma anche nella difficoltà di
trovare idonea copertura sul mercato, anche a fronte di premi ingenti,
da parte di numerose istituzioni saniPAGINA 43
SANITÀ
n I CRITERI PER LA COPERTURA ASSICURATIVA
tarie. Questi fenomeni, assieme alle
evidenti ristrettezze economiche in
cui versano i sistemi sanitari regionali, sovente vincolati da stringenti
piani di rientro, hanno spinto alla
formulazione di soluzioni sperimentali di forme di “autoassicurazione”
a livello regionale.
La difficoltà riscontrata negli ultimi
anni dalle aziende sanitarie e dagli
ospedali a trovare idonea copertura
assicurativa (per il passaggio alle
polizze claims made e per l’incremento dei premi assicurativi) ha
mosso diverse Regioni a cercare
modalità più efficienti di gestire
(purtroppo, raramente di ridurre) i
rischi per i pazienti e per il personale (ad esempio l’esposizione mediatica e lo stress del giudizio). Spesso, però, le soluzioni adottate, oltre
ad avere condotto a una eterogeneità di risposte a volte all’interno della medesima Regione, hanno puntato puramente a una riduzione dei
costi assicurativi che si sta rivelando effimera perché coincide con
una riduzione dei premi ma anche
con una riduzione dei rischi coperti
(con il conseguente aumento dell’esborso diretto effettivo) e a una
incompiuta centralizzazione delle
coperture che diventano una mera
sommatoria di rischi e non una ripartizione in vasche omogenee sulle quali intervenire selettivamente.
Invero, pur consapevoli di effettuaPAGINA 44
re una eccessiva semplificazione,
queste forme sono piuttosto una assunzione diretta/indiretta dei rischi
a carico dei bilanci aziendali e mediatamente regionali, nella speranza
che i risparmi pro tempore sui premi non vengano azzerati da eventi
avversi tali da superare il costo (evitato) dei premi stessi.
I meccanismi attuati sono i più vari
ma sono (nel migliore dei casi) associati a polizze per la copertura per
danni di particolare entità magari
accompagnati da clausole claims
made per richiese eccedenti determinate soglie.
La difficile esistenza
delle clausole claims made
Queste ultime sono state oggetto di
numerosi e non sempre convergenti
interventi giurisprudenziali relativi
alle sue principali due forme. Quella cioè che ancora il sinistro assicurato nei termini di materializzazione dell’evento avverso e della richiesta di risarcimento alla vigenza
del periodo di copertura della polizza e quello che, con minore incidenza sull’oggetto del contratto tipico,
identifica il sinistro risarcibile con
la richiesta risarcitoria (che avvia il
processo per il quale si registrerà
eventualmente la perdita patrimoniale assicurata).
A prescindere dalle varianti - commerciali e giuridiche - possibili di
IL SOLE 24 ORE - GUIDA AL DIRITTO
queste clausole, la totale chiusura in
termini di invalidità per vessatorietà
di tali clausole ha trovato una prima
smentita in Cassazione 15 marzo
2005 n. 5624 (più di recente si veda
anche Cassazione 22 marzo 2013 n.
7273) lasciando la giurisprudenza
di merito a oscillare tra recise condanne (tribunale di Bari 12 luglio
2012, in “Contratti”, 2012, 10, 825;
tribunale di Milano 18 marzo 2010,
in “Giurisprudenza Italiana”, 2011,
4, 831) e aperte ammissibilità delle
relative clausole (Corte di appello
di Roma, Sezione III, 22 marzo
2011, in “Massima redazionale”,
Utet, 2011; tribunale di Napoli 11
febbraio 2010, in “Assicurazioni”,
2011, 131; tribunale di Crotone, 8
novembre 004, in “Massima redazionale”, Utet, 2008).
La novella del Dl 158/2012
sull’impianto assicurativo
Come anticipato, il Dl 158/2012,
come modificato in sede di conversione dalla legge 189/2012, è intervenuto (invero solo a livello potenziale fino a oggi) sul tema dell’assicurazione dei danni da responsabilità sanitaria. Il comma 2 dell’articolo 3 prevedeva che «Con decreto
del Presidente della Repubblica,
adottato ai sensi dell’articolo 17,
comma 1, della legge 23 agosto
1988, n. 400, da emanare entro il 30
giugno 2013, su proposta del MiniDICEMBRE 2013
SANITÀ
n PRIMA DEL “DECRETO BALDUZZI”
stro della salute, di concerto con i
Ministri dello sviluppo economico
e dell’economia e delle finanze, sentite l’Associazione nazionale fra le
imprese assicuratrici (ANIA), la Federazione nazionale degli ordini dei
medici chirurghi e degli odontoiatri, nonché le Federazioni nazionali
degli ordini e dei collegi delle professioni sanitarie e le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative delle categorie professionali interessate, anche in attuazione
dell’articolo 3, comma 5, lettera e),
del decreto-legge 13 agosto 2011,
n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011,
n. 148, al fine di agevolare l’accesso alla copertura assicurativa agli
esercenti le professioni sanitarie, sono disciplinati le procedure e i requisiti minimi e uniformi per l’idoneità
dei relativi contratti, in conformità
ai seguenti criteri:
a) determinare i casi nei quali,
sulla base di definite categorie di
rischio professionale, prevedere
l’obbligo, in capo a un fondo appositamente costituito, di garantire idonea copertura assicurativa agli esercenti le professioni sanitarie. Il fondo viene finanziato dal contributo
dei professionisti che ne facciano
espressa richiesta, in misura definita in sede di contrattazione collettiva, e da un ulteriore contributo a
carico delle imprese autorizzate all’esercizio dell’assicurazione per
danni derivanti dall’attività medicoprofessionale, determinato in misuDICEMBRE 2013
ra percentuale ai premi incassati nel
precedente esercizio, comunque
non superiore al 4% del premio stesso, con provvedimento adottato dal
ministro dello Sviluppo economico,
di concerto con il ministro della Salute e il ministro dell’Economia e
delle Finanze, sentite la Federazione nazionale degli ordini dei medici
chirurghi e degli odontoiatri, nonché le Federazioni nazionali degli
ordini e dei collegi delle professioni
sanitarie;
b) determinare il soggetto gestore
del Fondo di cui alla lettera a) e le
sue competenze senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza
pubblica;
c) prevedere che i contratti di assicurazione debbano essere stipulati
anche in base a condizioni che dispongano alla scadenza la variazione in aumento o in diminuzione del
premio in relazione al verificarsi o
meno di sinistri e subordinare comunque la disdetta della polizza alla reiterazione di una condotta colposa da parte del sanitario accertata
con sentenza definitiva».
La previsione normativa inizia a delineare un sistema di risarcimento
obbligatoriamente assicurato e... calmierato prono a più opzioni.
Sotto il profilo assicurativo è di sicuro interesse la previsione di un fondo non già a garanzia delle vittime
quanto a supporto del presunto danneggiante e solo indirettamente della vittima. Il comma 2, infatti, dopo
avere demandato a un emanando regolamento governativo la disciplina
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delle «procedure e i requisiti minimi
e uniformi per l’idoneità» dei contratti assicurativi per il settore, «al
fine di agevolare l’accesso alla copertura assicurativa agli esercenti le
professioni sanitarie» fissa le basi
per un vero a e proprio sistema bonus malus (lettera c) di cui sopra)
calmierato di assicurazione della responsabilità sanitaria.
Su quest’ultimo punto si prospetta
assai intelligente immaginare un
fondo cui possono accedere (finanziandolo in corrispondenza) i professionisti che ne facciano richiesta e
che rientrino nelle categorie di rischio professionale individuate dal
menzionato regolamento, di fatto in
concertazione con quasi tutti i soggetti interessati. Invero, spiccano inspiegabilmente per assenza nella ricca lista di soggetti che il Governo
dovrebbe ascoltare sia il mondo dei
potenziali danneggiati sia il regolatore del settore assicurativo. Il risultato di calmieramento previsto dovrebbe essere sul punto dell’accessibilità poiché, e presupponendo il
fondo si muova in una logica assicurativa, si fisserebbe un parametro di
riferimento per il mercato, sebbene
agevolato da un sussidio incrociato
ben preciso - pari al 4% massimo di
contributo a carico dei premi assicurativi incassati dalle compagnie nell’esercizio precedente.
Il meccanismo non prefigura né una
compagnia assicurativa pubblica né
un vero piano no-fault. Si prevede
solo che certe professionalità maggiormente esposte possano essere
PAGINA 45
SANITÀ
sussidiate da altre professionalità
meno esposte a rischio garantendo
sempre la possibilità del risarcimento alla vittima. Se però si considera
la prospettiva di una predeterminazione dei costi risarcitori maggiormente significativi, le premesse per
un passaggio a un risarcimento/indennizzo amministrato sono largamente poste anche se inspiegabilmente non coordinate ai profili di
riduzione dei rischi sistemici.
Il risarcimento del danno
e le tabelle in Rc sanitaria
L’annosa questione della parità di
trattamento tra le vittime di danni
alla persona aperta dalla previsione
in sede di codice delle assicurazioni
private dalla previsione di meccanismi tabellari, distinti per le lesioni
di lieve e di non lieve entità (1-9%
e 10-100%), per i danni alla salute
derivanti da circolazione stradale pare trovare risposta positiva per la
responsabilità sanitaria. Già il Consiglio di Stato in sede consultiva
PAGINA 46
(parere 17 novembre 2011 n. 4209)
aveva sollecitato il Governo segnalando «una possibile conseguenza
distorsiva derivante dall’applicazione ai soli sinistri stradali degli indici parametrici contenuti nelle tabelle allegate allo schema di regolamento in questione: infatti, analoghe conseguenze sul piano lesivo
verrebbero a ottenere differenti trattamenti risarcitori, a seconda del solo fatto che la lesione sia avvenuta
nell’ambito della circolazione stradale o meno». Il suggerimento conseguente all’amministrazione era
scontato: si valuti «se sia utile promuovere una modifica legislativa in
proposito, che consenta di ampliare
lo spettro applicativo delle predette
tabelle parametriche».
Coerentemente con questo auspicio, il comma 3 dell’articolo 3 del
Decreto Balduzzi estende le tabelle
Rca ai danni da responsabilità sanitaria: «Il danno biologico conseguente all’attività dell’esercente del-
IL SOLE 24 ORE - GUIDA AL DIRITTO
la professione sanitaria è risarcito
sulla base delle tabelle di cui agli
articoli 138 e 139 del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209,
eventualmente integrate con la procedura di cui al comma 1 del predetto articolo 138 e sulla base dei criteri di cui ai citati articoli, per tener
conto delle fattispecie da esse non
previste, afferenti all’attività di cui
al presente articolo».
Tenuto conto che i decreti di attuazione per la tabella delle liquidazioni di non lieve entità in materia di
Rca, che dovrebbe essere estesa
“eventualmente integrata” con la
medesima procedura alla responsabilità sanitaria, sono in attesa di essere
emanati da più di 12 anni, non pare
vi sia molto da sperare dalla novella
legislativa che, more italico, fa la
legge e ne demanda la piena realizzazione a norme successive e secondarie. Nel frattempo a dominare per
la liquidazione del danno in questo
settore sono le tabelle adottate dal
tribunale di Milano (pubblicate sul
sito collegato a questa Guida e illustrato a pag. 2).
n
DICEMBRE 2013
SANITÀ
Il danno risarcibile
on le eccezioni dei danni da
emotrasfusione (specialmente la contrazione del virus
Hiv a esse legate), in cui la giurisprudenza continua ad applicare le
regole di responsabilità extracontrattuale, si applicano di norma le regole relative al riconoscimento e alla
quantificazione del danno in sede
contrattuale.
Il danno conseguente (sempre considerato alla stregua di danno conseguenza della lesione e mai come
danno evento in re ipsa) è riconosciuto sub specie di danno emergente e di lucro cessante. Ove non sia
dimostrata la perdita di reddito (valutata alla stregua degli ultimi tre
anni fiscali) concretamente connessa sul piano causale con il danno
causato, operano i consueti meccanismi presuntivi ai sensi dell’articolo
2056 del Cc e fino all’applicazione
del criterio - legislativamente sancito invero per la sola Rca - del triplo
della pensione sociale.
Quanto ai danni emergenti (spese
sanitarie e altro), essi sono liquidati
secondo i consueti parametri di mercato e secondo il normale regime
probatorio ove effettivamente incorsi o attesi nel futuro, tenuto conto
anche del fatto che larga parte degli
stessi sono sostenuti direttamente
dal sistema sanitario e che questo
raramente agisce in ricorso contro i
danneggianti.
Tra i danni emergenti risarciti ovviamente rimangono anche le spese ragionevoli di riadattamento dell’abitazione alle nuove disabilità e gli
acquisti necessari in termini di supporti (sedie a rotelle, materiali sanitari eccetera) e di assistenza anche
infermieristica necessari e non supportati dalla sicurezza sociale.
Con riferimento ai danni non patrimoniali risarcibili, nell’alveo dei
quali dal 2003 risulta ricondotto anche il danno biologico, essi si esten-
C
DICEMBRE 2013
dono a tutti quelli oltre la misura di
una certa gravità da tollerarsi, conseguenti alla violazione di diritti inviolabili secondo l’insegnamento delle
Sezioni unite (26972/08).
Il risarcimento del danno non patrimoniale rimane, invero, la chiave di
volta del sistema risarcitorio in tema di responsabilità sanitaria sia
per la centralità assunta nel sistema
dal danno alla salute, o biologico
che dir si voglia, sia per il trend
espansivo che interessa altre ipotesi
come quelle connesse alla violazione del consenso legato a una lettura
costituzionalmente orientata delle
norme.
Conseguentemente, in questa sede
potremo solo concentrarci su alcune
delle ipotesi più significative e problematiche: il danno alla salute, il
danno da violazione del consenso
informato, il danno da perdita di
chance.
Il danno alla salute
e la sua centralità
Il danno alla salute rimane figura
centrale e indefettibile del risarcimento del danno, da risarcirsi indipendentemente dalla sua capacità di
incidere sul reddito della vittima.
Esso deve essere accertato secondo
parametri medico-legali che ne determinano l’esistenza in termini di
patologia accertata e di incidenza
(rectius: indicano al giudice una valutazione della) percentuale sulla salute dell’individuo. Questa valutazione viene poi utilizzata in sede di
liquidazione assieme ai parametri
monetari secondo i noti criteri tabellari che si sono sviluppati a partire
dagli anni 1990.
Sin dagli insegnamenti del Supremo collegio, in seguito alle note posizioni della Corte costituzionale
(14 luglio 1986 n. 184, Foro Italiano 1986, I, 2067), negli anni 1990
la liquidazione del danno alla salute
IL SOLE 24 ORE - GUIDA AL DIRITTO
deve seguire parametri uniformi di
base e adeguamento al caso di specie. Il significato di questa formula
richiede di perseguire assieme a logiche di prevedibilità del danno e di
parità di trattamento la necessaria
flessibilità di una valutazione che,
sebbene alla stregua di parametri
uniformi, apprezzi il danno in concreto della vittima sub iudice.
Il criterio della personalizzazione
del danno ha ricorrentemente messo
in discussione il parametro tabellare
ove questo ha teso a cristallizzarsi
in automatismi non compatibili con
il sistema. Emblematica in tal senso
la “stroncatura” degli automatismi
liquidatori operata dalle citate Sezioni unite di San Martino 2008 che
hanno ricostruito in modo unitario
la figura del danno non patrimoniale
“vietando” automatismi proni sia a
duplicazioni sia a sottoliquidazioni.
Invero, il criterio del riferimento tabellare più che soccombere ha trovato a valle delle decisioni del 2008
un rafforzamento. Il riferimento
principale in questa direzione va alle decisione della Cassazione
12408/11 e alla parziale correzione
di rotta con la 14402/11 che hanno
in apparenza riavviato l’agenda della riforma del danno alla persona
secondo una linea di coerenza tracciabile a ritroso almeno fino ai primi anni ’90 del secolo scorso (G.
Comandé, “Il danno alla salute Supplenza e sistema nella recente
giurisprudenza di Cassazione”, in
«Cultura e Diritti per una formazione giuridica», anno I, n. 1, gennaio-marzo, 2012, pagine 119 e seguenti).
Nelle decisioni appena citate, e «nella perdurante mancanza di riferimenti normativi (...) considerato
che il legislatore ha già espresso
(...) la chiara opzione per una tabella unica da applicare su tutto il territorio nazionale, la Corte di cassazioPAGINA 47
SANITÀ
ne ritiene che sia suo specifico compito, al fine di garantire l’uniforme
interpretazione del diritto (...) fornire ai giudici di merito l’indicazione
di un unico valore medio di riferimento da porre a base del risarcimento del danno alla persona, quale
che sia la latitudine in cui si radica
la controversia». La scelta cade sulle tabelle milanesi.
Il punto 3.2.2 della decisione parte
dalle premesse che sin dal 1993 (ex
plurimis sentenza n. 357) ha legato
la liquidazione del danno alla salute
al criterio equitativo di cui agli articoli 2056 e 1226 del Codice civile
ancorandolo all’obbligo di motivazione, e in primis della scelta della
tabella e delle modalità di applicazione al caso concreto. In coerenza,
per la Corte del 2011 la decisione di
merito è insindacabile in sede di
legittimità ove il giudice «dia l’indicazione di congrue, anche se sommarie, ragioni del processo logico
seguito» mentre «essa è invece censurabile se sia stato liquidato un importo manifestamente simbolico o
non correlato alla effettiva natura o
entità del danno; o quando nella sentenza di merito non si dia conto del
criterio utilizzato, o la relativa valutazione risulti incongrua rispetto al
caso concreto, o la determinazione
del danno sia palesemente sproporzionata per difetto o per eccesso».
A valle di queste prese di posizione,
non certo senza contestazioni e disaccordi tra i giudici di merito, si
evidenzia oggi il ricorso preponderante alle tabelle del tribunale di
Milano per la liquidazione del danno biologico in materia di responsabilità sanitaria (si veda più in dettaglio i contributi in «Osservatorio
della Giurisprudenza» in materia di
danno alla persona, in “Danno e Responsabilità”, 12/2013).
La perdita di chance
tra problema e sistema
Il danno da perdita di chance ha assunto un rilievo assai importante nel
risarcimento dei danni da responsabilità sanitaria anche se con il complePAGINA 48
to “divorzio” delle regole di causalità in sede penale e civile il suo ruolo
dovrebbe - in teoria, almeno - essere
progressivamente ridimensionato
(per una recente ricostruzione delle
ragioni di ciò si veda C. Viazzi,
“Perdita di chance nella responsabilità medica: una questione ancora da
definire”, in «Danno e responsabilità», 2013, 581 e seguenti). Invero, la
teoria del danno da perdita di chance
ha svolto e svolge un ruolo di espansione del risarcimento del danno nonostante i limiti concettuali che essa
incontra e che potrà durare nel tempo.
In ambito medico, la condotta medica interviene su una catena causale
in evoluzione, precludendo la possibilità di raggiungere un risultato di
cura o addirittura di sopravvivenza
(tribunale di Venezia, 25 luglio
2007, in «Danno e responsabilità»,
2008, 43, con commento di R. Pucella, “Causalità civile e probabilità: spunti per una riflessione”). Ciò
nonostante, le Corti assegnano con
frequenza il risarcimento per la connessa perdita di chance legata a
omesso o tardivo intervento dei sanitari coinvolti (per esempio, con
una tardiva diagnosi).
Cronologicamente, la teoria si è affermata nel settore a seguito del caso Franzese (Cassazione, 30328/02),
nel quale le Sezioni unite penali sancirono il criterio della certezza causale oltre ogni ragionevole dubbio
sia in sede penale sia in sede civile.
L’adozione di tale e più rigoroso
standard probatorio era stato esteso
dalla Suprema corte (Cassazione, sezione III civile, 4 marzo 2004 n.
4400, in «Danno e Responsabilità»,
2005, 45, con note di Feola e Nocco) alla materia civile spingendo le
corti ad adottare il criterio della risarcibilità della perdita di chance di
sopravvivenza o di guarigione per
evitare drastiche riduzioni nelle possibilità di risarcire il danno. In breve la giurisprudenza in sede civile
accettò la riparabilità dei danni derivanti dalla perdita di chance come
danni in quanto tali scollegandoli
IL SOLE 24 ORE - GUIDA AL DIRITTO
dall’indagine causale. E infatti per
la stessa Cassazione 4400/04 «la domanda avente ad oggetto la perdita
di chance è ontologicamente diversa da quella avente ad oggetto il
mancato raggiungimento del risultato sperato, perché in questo ultimo
caso, l’accertamento è incentrato
sul nesso causale, mentre nella prima ipotesi, oggetto dell’indagine è
un particolare tipo di danno ed, in
particolare, una distinta ed autonoma ipotesi di danno emergente, incidente su un diverso bene giuridico,
quale la mera possibilità del risultato finale, ovvero la sopravvivenza
del paziente» (più di recente, Cassazione, 21245/12).
Sul piano operativo, la giurisprudenza (sebbene in modo non unanime)
liquida il danno in questione in proporzione al danno che sarebbe liquidato se l’intero danno fosse stato
causato dalla “colpa” professionale
del convenuto. Se cioè la perdita di
chance è valutata nel 30% di possibilità di guarigione dovuta alla tardiva diagnosi, il danno viene liquidato nei termini del 30% dell’intero
danno (alla salute) dimostrato. Tale
operazione non è affatto unanime in
giurisprudenza, stante alcune decisioni (Cassazione, 18 aprile 2005 n.
7997, in «Corriere giuridico»,
2006, 257, commentata da F. Rolfi,
“Il nesso di causalità nell’illecito
civile: la cassazione alla ricerca di
un modello unitario” e Cassazione,
19 maggio 2006 n. 11755, in «Danno e responsabilità», 2006, 1238 e
seguenti, commentate da L. Nocco,
“Causalità: dalla probabilità logica
(nuovamente) alla probabilità statistica: la Cassazione civile fa retromarcia”), che operano in modo diverso. La Cassazione 11755/06, per
esempio, ha tentato di accorciare le
distanze tra la lettura del concetto
di chance in sede penale e civile
escludendo l’applicabilità del criterio della certezza causale oltre ogni
ragionevole dubbio (di cui a Cassazione penale 11 settembre 2002 n.
30328).
A valle di questa decisione, il SupreDICEMBRE 2013
SANITÀ
n IL DANNO ALLA SALUTE
mo collegio operò il definitivo divorzio della causalità in sede civile
e penale con Cassazione, sezione
III civile, 16 ottobre 2007 n. 21619,
sancendo per la prima il criterio del
“più probabile che non” quale canone di accertamento causale.
Il criterio a oggi stabile in giurisprudenza rimane però (Cassazione, sezione III civile, 14 giugno 2011 n.
12961) quello per cui «in tema di
danno alla persona, conseguente a
responsabilità medica, integra l’esistenza di un danno risarcibile alla
persona l’omissione della diagnosi
di un processo morboso terminale,
allorché abbia determinato la tardiva esecuzione di un intervento chirurgico, che normalmente sia da praticare per evitare che l’esito definitivo del processo morboso si verifichi anzitempo, prima del suo normale decorso, e risulti inoltre che, per
effetto del ritardo, sia andata perduta dal paziente la “chance” di conservare, durante quel decorso, una
migliore qualità della vita nonché la
“chance” di vivere alcune settimane
od alcuni mesi in più, rispetto a
quelli poi effettivamente vissuti
(Cass. 18/09/2008, n. 23846)».
Ne consegue che «quando sia stata
fornita la dimostrazione, anche in
via presuntiva e di calcolo probabilistico, dell’esistenza di una chance
di consecuzione di un vantaggio in
relazione ad una determinata situazione giuridica, la perdita di tale
chance è risarcibile come danno alla situazione giuridica di cui trattasi
indipendentemente dalla dimostrazione che la concreta utilizzazione
della chance avrebbe presuntivamente o probabilmente determinato
DICEMBRE 2013
la consecuzione del vantaggio, essendo sufficiente anche la sola possibilità di tale consecuzione. La idoneità della chance a determinare presuntivamente o probabilmente ovvero solo possibilmente la detta consecuzione, viceversa, è rilevante, soltanto ai fini della concreta individuazione e quantificazione del danno, da effettuarsi eventualmente in
via equitativa, posto che nel primo
caso il valore della chance è certamente maggiore che nel secondo e,
quindi, lo è il danno per la sua perdita, che, del resto, in presenza di una
possibilità potrà anche essere escluso, all’esito di una valutazione in
concreto della prossimità della chance rispetto alla consecuzione del risultato e della sua idoneità ad assicurarla.».
Sul piano della prova richiesta (Cassazione, sezione I civile, 8 novembre 2011 n. 23240) per il «risarcimento dei danni derivanti dalla perdita di chance, intesa come concreta
ed effettiva occasione favorevole di
conseguire un bene e, dunque, come entità patrimoniale a sé stante,
giuridicamente ed economicamente
suscettibile di autonoma valutazione, è necessario fornire la prova,
sebbene in modo presuntivo o secondo un calcolo di probabilità, della realizzazione in concreto di alcuni dei presupposti per il raggiungimento del risultato sperato e precluso dalla condotta illecita di cui il
danno risarcibile deve essere immediata e diretta conseguenza». In altri termini, oltre e dopo avere provato il nesso causale tra la condotta e
l’evento di danno è necessario dimostrare - anche presuntivamente attraIL SOLE 24 ORE - GUIDA AL DIRITTO
verso la prova di alcuni presupposti
per il suo raggiungimento - la ragionevole probabilità di verificazione
della chance (negata) dall’omissione o errore.
Lo stesso Supremo collegio, tuttavia,
non appare univocamente orientato
sul tema, come di mostrano i numerosi oscillamenti che ancora si riscontrano (ad esempio, le diverse basi
ricostruttive del tema rinvenibili in
Cassazione, sezione III civile, 9 giugno 2011 n. 12686, 14 giugno 2011
n. 12961, 21 luglio 2011 n. 15991,
18 giugno 2012 n. 9927, 27 novembre 2012 n. 20996, Sezione lavoro,
1˚ marzo 2013 n. 5138, per una disamina delle quali si veda B. Tassone,
“Concause, orientamenti recenti e teorie sulla causalità”, in «Danno e responsabilità», 2013, 649).
Il consenso e il danno
Alla base del risarcimento del danno per assenza del (o carenze nel,
che è lo stesso) consenso è ovviamente il bagaglio informativo fornito al paziente perché si autodetermini rispetto al trattamento sanitario.
Ciò a mente, ovviamente, del principio secondo cui il consenso non
può essere presunto o appoggiato
ad informazione carente neppure
nei confronti di un medico (Cassazione, sezione III civile, 27 novembre 2012 n. 20984): esso deve concretarsi in un’esplicita manifestazione di volontà conseguenziale a
un’adeguata attività informativa e
non può mai essere tacito o presunto. Se qualcosa è basato sul regime
delle presunzioni è piuttosto che un
consenso informato sia stato effettivamente ed esplicitamente dato,
PAGINA 49
SANITÀ
n IL DANNO DA PERDITA DI “CHANCE”
onere probatorio che grava sul convenuto.
Coerentemente con sentenza 14 marzo 2006 n. 5444, il Supremo collegio ha statuito che «la responsabilità
del sanitario (e di riflesso della struttura per cui egli agisce) per violazione dell’obbligo del consenso informato discende dalla tenuta della condotta omissiva di adempimento dell’obbligo di informazione circa le
prevedibili conseguenze del trattamento cui il paziente venga sottoposto e dalla successiva verificazione
di un aggravamento delle sue condizioni di salute, mentre è del tutto
indifferente se il trattamento sia stato eseguito correttamente o meno».
L’apparente linearità del disposto
però non fa giustizia dello stato dell’arte. Devono infatti essere distinte
ipotesi diverse. Se è scontato il risarcimento del danno ove, per inadempimento del sanitario o della struttura diverso dall’obbligo informativo,
questo risulti in un peggioramento
della salute del paziente più sottile è
il ragionamento ove non vi sia tale
contributo specifico ed il “danno”
consista in un evento avverso prevedibile (sebbene raro) possibile e
non voluto dal professionista. Le voci di danno e gli oneri probatori
sono, infatti, diversi. La giurisprudenza non è unanime sulle modalità
di risarcimento.
In alcuni casi dal vizio del consenso
si fa discendere il risarcimento della menomazione della salute che è
disceso dalla carenza informativa.
Tale danno a volte è liquidato in
termini di chance perdute di seguire
un percorso diagnostico-terapeutico
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diverso ed altre in termini di vero e
proprio danno alla salute.
In tali casi condizione necessaria e
sufficiente per il risarcimento è ritenuta la compresenza (e la relativa
prova in giudizio) di:
1) possibili alternative terapeutiche;
2) la ragionevole probabilità che il
paziente correttamente informato le
avrebbe scelte;
3) la probabilità che, scelta l’opzione sub 2, l’evento avverso non si
sarebbe materializzato.
Altri orientamenti giurisprudenziali, invece, trovano (ad esempio, tribunale di Milano, sezione V civile,
20 marzo 2005 n. 3520) nella effettiva concretizzazione del danno biologico una sorta di elemento indiziario della serietà della violazione dell’autodeterminazione e il danno viene quantificato in misura corrispondente a esso.
Tuttavia, gli orientamenti che fanno
discendere, senza prova effettiva
che il paziente avrebbe deciso diversamente sul percorso diagnostico-terapeutico fino ai limiti dell’astensione da ogni percorso, il risarcimento
del danno (vuoi del solo danno non
patrimoniale per violazione del consenso, vuoi anche dell’eventuale
danno alla salute conseguente all’evento avverso materializzatosi)
appaiono criticabili laddove aggirano in modo evidente la necessaria
dimostrazione di un nesso causale
tra condotta ed evento e si rivela un
artificio per semplificare la prova
del paziente e superare carenze probatorie.
Al contrario, consapevoli che il paziente non debitamente informato si
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duole di ciò, ci si avvede che l’ipotesi in cui più correttamente si può
parlare di danno da violazione del
consenso è l’ipotesi in cui dalla lesione del diritto all’autodeterminazione non discenda né direttamente
né indirettamente una lesione della
salute. La menomazione della salute, cioè, non è presupposto tecnico
necessario della eventuale risarcibilità del danno da violazione del consenso giacché leso è un interesse
diverso (quello all’autodeterminazione rispetto ai trattamenti sanitari
come garantito dall’articolo 32 della Costituzione).
Il danno alla salute può, al massimo
e se realizzatosi in concreto, accompagnare la lesione di tale interesse
ed essere risarcito in quanto tale
secondo le regole generali ma non
certo essere utilizzato quale parametro per la liquidazione del primo
senza trascendere nell’arbitrio. È il
caso, non di scuola, del testimone
di Geova trasfuso contro la sua volontà la cui salute è quindi addirittura migliorata, ma la cui libertà sia
stata conculcata in tal modo. I danni
saranno liquidati ai sensi del combinato disposto degli articoli 1223 e
2056 del Cc nei limiti in cui il danno non patrimoniale lamentato e
provato anche in modo presuntivo
«si presenti come un effetto normale, secondo il principio della cosiddetta regolarità causale» (Cassazione 9556/02).
Il figlio non voluto
e malformato
Uno dei temi tristemente spinosi in
materia di danni è legato ai danni
DICEMBRE 2013
SANITÀ
n IL DANNO DA NASCITA INDESIDERATA
connessi al momento della nascita.
In particolare, queste ipotesi sono
saldamente connesse alla tematica
del consenso informato che permette di apprezzare l’eventuale negligenza dei sanitari sia di comprendere i profili di antigiuridicità della
fattispecie. Le ipotesi di danno possono schematicamente distinguersi
ai nostri fini in:
● nascita indesiderata perché ad
esempio si è confidato in una procedura di sterilizzazione non riuscita;
● nascita indesiderata perché non si
è avuta la possibilità di autodeterminarsi con riferimento alle procedure
di interruzione della gravidanza previste dalla normativa vigente;
● danno cagionato in occasione del
parto per eventuali errori medici o
per carenze organizzative.
Ciascuna ipotesi tipica presenta poi
specificazioni diverse (ad esempio
figlio non voluto ma nato sano) connettendo il risarcimento del danno
vuoi a carenze sul piano dell’acquisizione del consenso, vuoi sul piano
della diligenza nell’adempimento
della prestazione.
In questa sede possiamo solo occuparci del grande e difficile tema del
danno da nascita indesiderata per le
problematiche emerse in giurisprudenza e risolte in modo non del tutto convincente nelle sue ultime acquisizioni. Le cosiddette “wrongful
birth actions” o “risarcimento del
danno da nascita indesiderata” si riferiscono alle richieste di risarcimenDICEMBRE 2013
to dei genitori di bambini nati affetti
da patologie congenite o da anomalie cromosomiche non debitamente
(come invece possibile) accertate
nel corso di una gravidanza per la
negligenza dei sanitari intervenuti.
La mancata o tardiva diagnosi in
tempo utile per consentire alla madre l’eventuale interruzione volontaria della gravidanza si risolve quindi
in una nascita “non voluta” la cui
complessità è resa particolarmente
intricata dal necessario bilanciamento tra la tutela del diritto dotato di
copertura costituzionale che sussiste
in capo alla madre di autodeterminarsi anche in ambito sanitario, la
corretta applicazione della legge
194/1978 che subordina l’interruzione volontaria della gravidanza al ricorrere di specifici presupposti e la
tutela della salute del nascituro.
Infatti, mentre è sufficientemente
pacifico il risarcimento dei danni
richiesti dai genitori (con un quasi
completo capovolgimento dell’arresto di Cassazione nel caso Jod, Cassazione 6464/94; si veda Cassazione, 1˚ dicembre 1998 n. 12195, in
«Danno e Responsabilità», 1999,
522 con nota di Filograna, “Se avessi potuto scegliere...”: la diagnosi
prenatale e il diritto all’autodeterminazione.) così non è con riferimento
specifico al danno richiesto dal soggetto nato malformato. Con variegate soluzioni giurisprudenziali, oggi
i genitori ottengono (in tutto o in
parte) il risarcimento del costo di
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mantenimento del pargolo inatteso
e i danni non patrimoniali da essi
sofferti anche nelle ipotesi di bimbo
nato sano. Le ricostruzioni teoriche
su cui si basa il risultato sono variate nel tempo, ma oggi fondamentalmente ricondotte all’inadempimento del contratto (relativo, ad esempio, alla sterilizzazione evidentemente non riuscita) o all’obbligo informativo (di astenersi da rapporti
non protetti per un certo periodo di
tempo a valle di un intervento di
vasectomia, ad esempio).
Ancora, se è lineare il risarcimento
del danno al nato menomato nella
sua integrità psicofisica a causa di
un errore medico o di una carenza
organizzativa che ne abbia materialmente e giuridicamente causato la
menomazione, così non è in quelle
ipotesi in cui tale nesso causale non
vi sia, ma l’itinerario di fattori umani e naturali si presenti più complesso. I casi assai noti presentatisi sono, ad esempio, quelli di una rosolia non diagnosticata alla madre che
causi menomazioni al feto o di una
malformazione genetica congenita
non diagnosticata (ove invece possibile).
Queste ipotesi sono naturalisticamente accomunate dal fatto che l’alternativa alla nascita menomati era
la non nascita e dall’assenza, appunto, di un nesso di causalità materiale tra la condotta inadempiente (errata/omessa diagnosi o carente informazione) e la menomazione in
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SANITÀ
quanto tale. A causare la menomazione è la rosolia o il difetto genetico, non certo la carenza di informazione o la mancata diagnosi della
malformazione.
Queste ultime, semmai avrebbero
solo impedito l’esercizio eventuale
del diritto a interrompere la gravidanza al presentarsi dei presupposti
di legge. Pur tuttavia, la giurisprudenza è usa a riconoscere il danno e
il nesso causale ritenendo che la
«omessa rilevazione, da parte del
medico specialista, della presenza
di gravi malformazioni nel feto, e la
correlativa mancata comunicazione
di tale dato alla gestante, deve ritenersi circostanza idonea a porsi in
rapporto di causalità con il mancato
esercizio, da parte della donna, della facoltà di interrompere la gravidanza, in quanto deve ritenersi rispondente ad un criterio di regolarità causale che la donna, ove adeguatamente è tempestivamente informata della presenza di una malformazione atta ad incidere sulla estrinsecazione della personalità del nascituro, preferisca non portare a termine
la gravidanza» (così Cassazione, 4
gennaio 2010 n. 13, in «Responsabilità civile e previdenza», 2010,
1027 con nota di Fortino M., “La
prevedibile resurrezione del danno
esistenziale”; ma si veda anche prima allo stesso modo, più risalenti
nel tempo, Cassazione, 21 giugno
2004 n. 11488, in «Nuova Giur.
Civ. Comm.», 2005, 552, con nota
di Pasquinelli C., “La prova della
colpa nella responsabilità medica e
l’accertamento del nesso causale
per i danni da nascita indesiderata”
e Cassazione, 10 maggio 2002 n.
6735, ivi, 2003, 1, 619, con nota di
De Matteis R., “La responsabilità
medica per omessa diagnosi prenatale: interessi protetti e danni risarcibili”). Si noti però che, con sentenza
ancora isolata, in un suo recente intervento sul tema (Cassazione,
16754/12), la Corte va ben oltre
l’orientamento che, una volta verificata la ricorrenza dei presupposti
legali per l’accesso all’interruzione
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della gravidanza, assumeva alla stregua dell’id quod plerumque accidit
che una se donna consapevole di
tali diagnosi di malformazioni si sarebbe risolta all’interruzione stessa
permettendo il loro risarcimento del
danno. La sentenza 2 ottobre 2012
n. 16754, infatti, per la prima volta
presume dalla generica richiesta di
informazioni intese eventualmente
all’esercizio dell’interruzione che,
ove debitamente informata, nella
madre sarebbero insorti i presupposti (sanitari) per l’interruzione della
gravidanza e che questa avrebbe
esercitato tale scelta.
Concentrandoci ora sulle pretese risarcitorie del nato malformato in
queste specifiche ipotesi va rilevato
che la giurisprudenza di Cassazione
ebbe a esprimersi in modo negativo
con sentenza 14488/04 (in «Nuova
giur. civ. comm.», 2005, I, 433, con
nota di Palmerini, “La vita come
danno? No.., Sì.., Dipende”) con
soluzione diametralmente opposta
al francese arrêt Perruche del 27
novembre 2001) escludendo l’esistenza nel nostro ordinamento di un
«diritto a non nascere se non sano».
In apparenza, il panorama cambiava nel 2009 quando la Corte di cassazione, con decisione n. 10741,
era nuovamente investita del tema
della risarcibilità in proprio del nascituro (la si legga con commento e
materiali su www.osservatoriodannoallapersona.org). Gli ermellini,
in questo caso, argomentarono: «il
principio di diritto secondo il quale,
stante la soggettività giuridica del
concepito, al suo diritto a nascere
sano corrisponde l’obbligo dei sanitari di risarcirlo (diritto al risarcimento condizionato, quanto alla titolarità, all’evento nascita ex art. 1
c.c., comma 2, ed azionabile dagli
esercenti la potestà) per mancata
osservanza sia del dovere di una
corretta informazione (ai fini del
consenso informato) in ordine ai
possibili rischi teratogeni conseguenti alla terapia prescritta alla madre (e ciò in quanto il rapporto instaurato dalla madre con i sanitari
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produce effetti protettivi nei confronti del nascituro), sia del dovere
di somministrare farmaci non dannosi per il nascituro stesso».
In continuità con l’arresto del 2004
e con la decisione 6735/02 che aveva esteso la risarcibilità dei danni
anche al padre, il Collegio del 2009
precisò incidentalmente che tale diritto al risarcimento sarebbe venuto
meno ove il consenso informato attinente al rischio di malformazioni
fosse stato esclusivamente finalizzato all’interruzione della gravidanza.
Nel suo più recente intervento sul
tema, la Suprema corte (2 ottobre
2012 n. 16754, in «Danno e Responsabilità», con nota di S. Cacace) ha
ritenuto che «la domanda risarcitoria avanzata personalmente dal bambino malformato trovi il suo fondamento negli artt. 2, 3, 29, 30 e 32
Cost.» per arrivare a concludere
«che l’interesse giuridicamente protetto, del quale viene richiesta tutela
da parte del minore ai sensi degli
articoli della Carta fondamentale dianzi citati, è quello che gli consente
di alleviare, sul piano risarcitorio,
la propria condizione di vita, destinata a una non del tutto libera estrinsecazione secondo gli auspici del
Costituente: il quale ha identificato
l’intangibile essenza della Carta fondamentale nei diritti inviolabili da
esercitarsi dall’individuo come singolo e nelle formazioni sociali ove
svolgere la propria personalità, nel
pieno sviluppo della persona umana, nell’istituzione familiare, nella
salute».
Nel percorrere gli elementi della fattispecie risarcitoria, il Supremo collegio identifica l’evento di danno
nella «individuazione di sintesi della “nascita malformata”, intesa come condizione dinamica dell’esistenza riferita ad un soggetto di diritto attualmente esistente, e non già
destinata “a realizzare un suicidio
per interposto risarcimento danni”,
come pure s’è talvolta opinato.».
Sul piano causale, invece, esso procede alla «equiparazione quoad effecta tra la fattispecie dell’errore
DICEMBRE 2013
SANITÀ
n VIOLAZIONE DELL’OBBLIGO DEL CONSENSO INFORMATO
medico che non abbia evitato l’handicap evitabile (l’handicap, si badi,
non la nascita handicappata), ovvero che tale handicap abbia cagionato (come nella ipotesi scrutinata dalla sentenza 10741/2009) e l’errore
medico che non ha evitato (o ha
concorso a non evitare) la nascita
malformata (evitabile, senza l’errore diagnostico, in conseguenza della facoltà di scelta della gestante
derivante da una espressa disposizione di legge). Facoltà il cui esercizio la gestante aveva, nella specie,
espressamente dichiarato di voler
esercitare, donde l’evidente paralogismo che si cela nella motivazione
della corte territoriale nel momento
in cui onera la odierna ricorrente
dell’incombente di provare quello
che risultava già provato ed acquisito agli atti del processo».
Nelle riflessioni dell’estensore,
quindi, sarebbe sufficiente che la
madre abbia indicato la volontà (generica?) di interrompere la gravidanza ai sensi di legge in caso di diagnosi di malformazioni per ritenere
provato presuntivamente il nesso
causale tra l’errata informazione e
il mancato evento (interruttivo) che
ha permesso la nascita di un bimbo
malformato. E invero, nel caso di
specie risultava acclarato che «la
gestante avesse espressamente richiesto un accertamento medico-diagnostico per esser resa partecipe delle eventuali malformazioni genetiDICEMBRE 2013
che del feto, così da poter interrompere la gravidanza».
Il Collegio, nel caso in questione,
stabilisce quindi il principio per cui
«la responsabilità sanitaria per omessa diagnosi di malformazioni fetali e
conseguente nascita indesiderata va
estesa, oltre che nei confronti della
madre nella qualità di parte contrattuale (ovvero di un rapporto da contatto sociale qualificato), anche al padre (come già affermato da Cass. n.
14488/2004 e prima ancora da Cass.
n. 6735/2002), nonché, a giudizio
del collegio, alla stregua dello stesso
principio di diritto posto a presidio
del riconoscimento di un diritto risarcitorio autonomo in capo al padre
stesso, ai fratelli e alle sorelle del
neonato, che rientrano a pieno titolo
tra i soggetti protetti dal rapporto
intercorrente tra il medico e la gestante, nei cui confronti la prestazione è dovuta».
Una rondine, per quanto autorevole,
non fa primavera, ma è indubbio
che il tema della risarcibilità dei
danni al nascituro nato è quanto
mai al centro del dibattito e della
riflessione giurisprudenziale e dottrinaria. E infatti, tornando sul tema
della ripartizione dell’onere probatorio, in queste ipotesi il Supremo collegio (Cassazione, sezione III civile, 22 marzo 2013 n. 7269, pubblicata in www.osservatoriodannoallapersona.org, con nota di S. Cacace,
“Nascita indesiderata: il nesso cauIL SOLE 24 ORE - GUIDA AL DIRITTO
sale e la sua prova”) ha confermato
il principio secondo cui è sempre
onere della parte attrice allegare e
dimostrare che, se fosse stata informata delle malformazioni del concepito, avrebbe interrotto la gravidanza. La mera richiesta di accertamenti volti a tal fine viene correttamente ricondotto a elemento indiziario
di una volontà che è necessario suffragare altrimenti in termini di necessaria gravità e univocità.
Consenso non chiaro, danno
e chirurgia estetica
Qualche peculiarità specifica è presente anche nella prova e liquidazione del danno nelle ipotesi legate alla
chirurgia estetica, giacché si tratta
di ipotesi di intervento sovente non
necessitati da patologie cliniche e la
rappresentazione del “risultato” ottenibile assieme a una chiara enucleazione dei rischi di evento avverso
riceve un più stretto scrutinio da parte delle Corti. Sul piano della liquidazione, poi, assumono un rilievo
importante i risvolti psicologici soggettivi della menomazione, sia per il
fatto che motivazioni di tale ordine
possibilmente sostenevano la richiesta di intervento a monte, sia perché
spesso il profilo soggettivo è quello
di maggiore impatto economico una
volta realizzatasi la menomazione.
In questa prospettiva, la personalizzazione del danno assume una centralità degna di nota specifica. n
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