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I commenti fino a pag. 53 sono a cura di Giovanni Comandé SANITÀ PAGINA 30 IL SOLE 24 ORE -GUIDA AL DIRITTO DICEMBRE 2013 n TRE PROFILI DI RESPONSABILITÀ SANITÀ DICEMBRE 2013 IL SOLE 24 ORE -GUIDA AL DIRITTO PAGINA 31 n COSA DEVONO DIMOSTRARE MEDICO E PAZIENTE SANITÀ PAGINA 32 IL SOLE 24 ORE -GUIDA AL DIRITTO DICEMBRE 2013 Recenti novelle normative e relativi problemi Come anticipato, in tempi recenti il Legislatore è intervenuto in modo assai discutibile sull'assetto giurisprudenziale prima descritto dettando una disciplina esplicitamente rubricata «Responsabilità professionale dell'esercente le professioni sanitarie» all'articolo 3 del Dl 158/2012 n TRA DILIGENZA E RESPONSABILITÀ SANITÀ DICEMBRE 2013 IL SOLE 24 ORE -GUIDA AL DIRITTO PAGINA 33 n TRA PENALE E CIVILE SANITÀ PAGINA 34 IL SOLE 24 ORE -GUIDA AL DIRITTO DICEMBRE 2013 n SANITÀ DICEMBRE 2013 IL SOLE 24 ORE -GUIDA AL DIRITTO PAGINA 35 SANITÀ PAGINA 40 IL SOLE 24 ORE -GUIDA AL DIRITTO DICEMBRE 2013 SANITÀ PAGINA 42 IL SOLE 24 ORE -GUIDA AL DIRITTO DICEMBRE 2013 n I CRITERI PER LA COPERTURA ASSICURATIVA SANITÀ PAGINA 44 IL SOLE 24 ORE -GUIDA AL DIRITTO DICEMBRE 2013 n SANITÀ PAGINA 46 IL SOLE 24 ORE -GUIDA AL DIRITTO DICEMBRE 2013 Il danno risarcibile SANITÀ DICEMBRE 2013 IL SOLE 24 ORE -GUIDA AL DIRITTO PAGINA 47 SANITÀ PAGINA 48 IL SOLE 24 ORE -GUIDA AL DIRITTO DICEMBRE 2013

SANITÀ Analisi delle norme di riferimento I commenti fino a pag. 53 sono a cura di Giovanni Comandé l quadro della responsabilità civile connesso all’erogazione di una prestazione sanitaria è fondato sulle regole generali previste dal Codice civile. Solo di recente, come si vedrà, vi sono stati interventi normativi mirati a influenzare questo sottosettore del diritto in modo esplicito. Nel corso del tempo le basi teoriche che hanno fondato l’azione risarcitoria sono mutate anche in rapporto al mutare delle condizioni di erogazione delle prestazioni per poi ricondurre fondamentalmente il risarcimento alle regole generali di responsabilità contrattuale. Sebbene a rischio di una semplificazione eccessiva, le regole di responsabilità - sia in sede civile che in sede penale - hanno oscillato attraverso periodi diversi di indulgenza e di severità nei confronti del personale coinvolto per giungere a uno stadio evolutivo in cui il momento centrale non è rappresentato più (in sede civile) dalla responsabilità individuale dell’operatore quanto della struttura sanitaria all’interno della quale egli opera. Con specifico riferimento al risarcimento del danno, le innovazioni organizzative che hanno interessato l’erogazione di prestazioni sanitarie dall’anno 1970 assieme ai progressi della medicina e al crescente ruolo del consenso informato quale momento legittimante l’attività di cura hanno imposto profonde revisioni nei criteri di allocazione della responsabilità e nelle voci di danno risarcibili. I Dalla responsabilità del medico a quella della struttura In sintesi, si è assistito a una espansione dei confini della responsabiliPAGINA 30 tà civile in ambito sanitario agevolmente descritta dalle varie locuzioni linguistiche succedutesi nel tempo. All’inizio il riferimento naturale andava alla «responsabilità del medico», implicitamente riferendosi a una responsabilità contrattuale individuale per inesatto adempimento degli obblighi assunti contrattualmente dal professionista e con riferimento alla disciplina del relativo contratto di prestazione d’opera. A partire dall’anno 1950 circa, con l’emergere della complessità dei meccanismi di erogazione delle prestazioni sanitarie, dottrina e giurisprudenza cominciarono a utilizzare maggiormente l’espressione «responsabilità medica» riferendosi a quelle occasioni in cui il contributo individuale del professionista alla causazione del danno non era facilmente individuabile perché, ad esempio, il danno si era realizzato in un intervento in equipe. Oggi, la locuzione maggiormente usata è «responsabilità sanitaria», con ciò alludendo non tanto e non solo all’eventuale responsabilità individuale dell’operatore coinvolto quanto piuttosto alla responsabilità - diretta o vicaria - della struttura sanitaria coinvolta nell’erogazione della prestazione. Invero, come chiariscono anche documenti ufficiali del ministero della Salute (ad esempio, “Introduzione a: Risk Management in Sanità - Il problema degli errori - commissione tecnica sul rischio clinico - ministero dalla Salute”), «Il sistema sanitario è un sistema complesso per diverse variabili (specificità dei singoli pazienti, complessità degli interventi, esperienze professionali multiple, modelli gestionali diversi), al pari di altri sistemi quali le IL SOLE 24 ORE - GUIDA AL DIRITTO centrali nucleari, l’aviazione, la difesa militare. Dal momento che in ogni organizzazione complessa l’errore e la possibilità di un incidente non sono eliminabili, devono essere utilizzati tutti gli interventi possibili perché siano, per lo meno, controllabili». Da questa descrizione in termini di attività complessa deriva immediatamente la necessità e la relativa tendenza giurisprudenziale, di spostare l’allocazione della responsabilità dal singolo professionista alla struttura con il conseguente alleggerimento dell’onere probatorio a carico del paziente. Queste caratteristiche dell’erogazione delle prestazioni sanitarie hanno indubbiamene contribuito a muovere il sistema risarcitorio nella nostra materia oltre la mera ricerca di colpe individuali e verso meccanismi sistemici più complessi. Come anticipato, questa evoluzione si è accompagnata a una evoluzione dell’organizzazione dell’erogazione della prestazione sanitaria (con l’istituzione del Ssn, la sua successiva aziendalizzazione e regionalizzazione nonché con i relativi passaggi di pubblicizzazione e poi privatizzazione del rapporto di impiego del personale sanitario) e a una diversa percezione delle ragioni di una mancata guarigione in una stagione scientifica dalle accresciute potenzialità di cura tali di far percepire all’utente l’obbligazione di cura come un obbligo di guarire. In questo, spesso si concretizza una errata percezione dell’obbligazione medica che rimane di mezzi e mai di risultato (Corte di cassazione, sentenze 23918/06 e 4400/04). In parallelo, la giurisprudenza si è prodigata nel facilitare l’onere proDICEMBRE 2013 SANITÀ n TRE PROFILI DI RESPONSABILITÀ batorio del paziente presunto danneggiato e nel fare del risarcimento del danno connesso all’erogazione di una prestazione di cura una palestra per i processi di espansione delle voci di danno alla persona risarcibile. articolo 1228 del Cc - dall’inadempimento della prestazione professionale eseguita direttamente dal sanitario di cui si avvale, dipendente o meno (Corte di cassazione, sezione III civile, 13 aprile 2007 n. 8826 e 14 luglio 2004 n. 13066). Il principio della vicinanza della prova Il quadro normativo e costituzionale Il percorso di facilitazione dell’onere probatorio, passando attraverso momenti diversi basati ora sulla distinzione tra interventi di facile e di non facile esecuzione, ora su meccanismi presuntivi, si è oggi consolidato nel principio generale della vicinanza della prova secondo cui l’onere grava su chi è meglio in grado di assolverlo, e nell’ancoraggio della responsabilità contrattuale della struttura e del professionista non più al contratto di prestazione d’opera professionale ma sulle regole generali della responsabilità contrattuale (articoli 1218, 1176 e 1228 del Codice civile; per una conferma e una puntuale ricostruzione si veda anche Corte di cassazione, sezione III penale, 26 giugno 2012 n. 10616, in «Danno e Responsabilità», 2013, pagg. 889 e seguenti). Di conseguenza la responsabilità dell’ente verso il paziente può discendere direttamente - articolo 1218 del Cc - dall’inadempimento delle obbligazioni a suo carico o - ex DICEMBRE 2013 Fatte queste premesse, si deve necessariamente iscrivere il quadro normativo di riferimento nell’alveo della Costituzione: il fulcro dell’assistenza sanitaria ruota attorno ai precetti costituzionali degli articoli 32 e 38. Il primo, in particolare, ha assunto un rilievo centrale nella materia in esame sia nel definire le regole di responsabilità (ad esempio, centralità del risarcimento del danno alla salute) sia nel presidiare l’evoluzione delle voci di danno risarcibile. Il comma 1 dell’articolo 32 sancisce che: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti». Al comma 2 si precisa che: «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Quest’ultimo principio è stato dapprima declinato dal IL SOLE 24 ORE - GUIDA AL DIRITTO Legislatore con la legge istitutiva del Ssn (e già prima con la disciplina dei trattamenti sanitari obbligatori) sancendo (articolo 33) che: «Gli accertamenti e i trattamenti sanitari sono di norma volontari. Nei casi di cui alla presente legge e in quelli espressamente previsti da leggi dello Stato possono essere disposti dall’autorità sanitaria accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori, secondo l’articolo 32 della Costituzione, nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici, compreso per quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura». Questi principi sono stati declinati dalla giurisprudenza allargando l’area del danno risarcibile e giungendo a risarcire il danno (non patrimoniale) conseguente alla mera violazione del principio. Le regole di responsabilità contrattuale e la vicinanza dell’onere della prova Per lungo tempo la responsabilità medica è stata costruita attorno al contratto di prestazione professionale, anche se in tempi più recenti il Supremo collegio ha riclassificato questa responsabilità nell’alveo delle regole generali (Corte di cassazione 22 gennaio 1999 n. 589) di responsabilità contrattuale, eventualmente basandola su un mero contatPAGINA 31 SANITÀ n COSA DEVONO DIMOSTRARE MEDICO E PAZIENTE to sociale ove manchi un precedente rapporto contrattuale (Corte di cassazione 29 settembre 2004 n. 19564, 21 giugno 2004 n. 11488, 21 luglio 2003 n. 11316, 11 marzo 2002 n. 3492, 19133/04, 10297/04 e 9085/06). A ogni modo, anche ove la responsabilità derivi dalla violazione di obblighi legislativamente previsti (come nel caso del necessario consenso informato) o da un atto illecito la giurisprudenza applica le regole di responsabilità contrattuale almeno con riferimento ai criteri di allocazione dell’onere probatorio. A partire dal 2004 (Cassazione 21 giugno 2004 n. 11488), il Supremo collegio ha tarato la regola secondo cui nell’ambito della responsabilità professionale medica e delle strutture sanitarie - secondo le regole dell’articolo 1218 del Cc - il paziente ha l’onere di provare l’inadempimento che ha causato il danno e non è chiamato a dimostrare la colpa del convenuto o il suo grado. Sul paziente rimane l’onere di fornire in concreto la dimostrazione dell’esistenza del pregiudizio lamentato e il diretto nesso causale dall’inadempimento (Corte di cassazione 20 novembre 2007 n. 24140, 15 maggio 2007 n. 11189, 10 gennaio 2007 n. 238 e 4 luglio 2006 n. 15274). La prova dell’assenza di colpa e la valutazione del suo livello ai sensi dell’articolo 2236 del Cc, rimangono in capo ai convenuti chiamati a dimostrare che non vi è stato inadempimento colpevole (di fatto, la prova positiva dell’impossibilità di adempiere correttamente per cause non attribuibili a loro). In PAGINA 32 pratica dunque il paziente è chiamato a dimostrare il titolo della sua pretesa e ad allegarne l’inadempimento nei termini di un aggravamento dello stato di salute, della comparsa di una nuova patologia o del mancato ottenimento del miglioramento della medesima che nelle concrete circostanze poteva/doveva legittimamente attendersi, come ad esempio l’incremento delle capacità respiratorie a seguito di una setto-rino-plastica (tra le tante, Cassazione 9085/06 e più di recente 4030/13). Di conseguenza il professionista e la struttura devono provare non solo di avere correttamente erogato la propria prestazione ma anche l’imprevedibilità e la natura eccezionale del danno arrecato a seguito del proprio intervento (si veda per tutte, Cassazione 577/08). Ciò è coerente con l’ancoraggio della responsabilità del professionista e della struttura all’inadempimento dell’obbligazione di erogare la prestazione in linea con la qualità prescritta dalla legge (si veda la legge 502/1992 - articoli 8, 8-quinquies e 14 - che integra ipso iure il contenuto del contratto di erogazione di prestazione sanitaria e ai fondamentali diritti alla tutela della salute; alla sicurezza e alla qualità dei prodotti e dei servizi sancita a livello di codice del consumo ex articolo 2 del Dlgs 205/2006). La diligenza richiesta Sul piano della diligenza richiesta, la giurisprudenza ha dato una lettura coordinata degli articoli 1176 e 2236 del Cc considerandoli espressione di un concetto unitario di diliIL SOLE 24 ORE - GUIDA AL DIRITTO genza secondo il quale il livello di diligenza richiesto deve essere apprezzato con riferimento alla difficoltà del servizio prestato (Cassazione 23918/06) e quindi con riferimento a un debitore qualificato ai sensi del comma 2 dell’articolo 1176 del Codice civile. Tale diligenza comprende l’adesione a quelle regole e precauzioni che nel loro complesso costituiscono la conoscenza della professione medica e includono il dovere di monitoraggio della salute del paziente anche nelle fasi post operatorie (Cassazione 23918/06, 19133/04, 4400/04 e 3492/02). Questa lettura si impianta e in parte sostituisce la distinzione tra prestazioni di facile e di non facile esecuzione che nel tempo è servita a facilitare l’onere probatorio del paziente danneggiato. Oggi possiamo considerare difficili quelle prestazioni che trascendono l’abilità media e che non sono sufficientemente studiate e testate dalla scienza medica. Coerentemente la giurisprudenza ha precisato che la limitazione di responsabilità di cui all’articolo 2232, comma 2, del Cc con riferimento ai casi che richiedono la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà (Cassazione 9085/06) non si applica alle ipotesi di imprudenza e negligenza (Cassazione 8826/07). Le basi della responsabilità del professionista e della struttura rimangono ancorate alla colpa. Entrambi sono tenuti contrattualmente al risultato di cura da apprezzarsi alla stregua del criterio del risultato normalmente atteso tenuto conto delle condizioni del paziente, delle capacità DICEMBRE 2013 SANITÀ n TRA DILIGENZA E RESPONSABILITÀ tecniche del professionista e della capacità istituzionale e organizzativa della struttura (Cassazione 13 aprile 2007 n. 8826, 22 dicembre 1999 n. 589, 2750/98 e 8 gennaio 1999 n. 103). Conseguentemente il risultato normale dipende da una pluralità di fattori che includono il tipo di patologia trattato, le condizioni generali del paziente, lo stato dell’arte, le conoscenze tecniche e scientifiche del momento (tra le più recenti, Cassazione 8 ottobre 2008 n. 24791, 15 ottobre 2009 n. 975 e 29 settembre 2009 n. 20806) e l’organizzazione dei mezzi appropriati per raggiungere gli obiettivi sanitari in condizioni normali e secondo le previsioni contrattuali legislativamente integrate dalla normativa relativa al Servizio sanitario nazionale. Alla luce di ciò, si parla infatti di responsabilità per carenza organizzativa della struttura se a questa è da ascrivere il danno subito dal paziente. La causalità I principi generali in tema di causalità si applicano anche alla materia in esame. Normale quindi il riferimento agli articoli 40 e 41 del Cp in primis. Coerentemente per la causalità materiale la giurisprudenza (Cassazione a Sezioni unite 11 gennaio 2008 n. 581) in applicazione dei principi penalistici, di cui agli articoli 40 e 41 del Cp, ritiene che un evento sia da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (cosiddetta “teoria della condicio sine qua non”). Sul piano (sucDICEMBRE 2013 cessivo) della causalità giuridica trova in un secondo momento applicazione la regola dell’articolo 1223 del Cc, per il quale il risarcimento deve comprendere le perdite «che siano conseguenza immediata e diretta» del fatto lesivo. Il principio dell’equivalenza delle cause, posto dall’articolo 41 del Cp, in base al quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, si deve riconoscere a ognuna di esse efficienza causale, trova il suo temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dal comma 2. Questo attribuisce l’evento dannoso esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta, solo se questa sia tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto (Cassazione 19 dicembre 2006 n. 27168, 8 settembre 2006 n. 19297, 10 marzo 2006 n. 5254 e 15 gennaio 1996 n. 268). Sul piano del nesso causale, il giudice di merito è chiamato a identificare separatamente l’esistenza del nesso tra la condotta illecita e l’evento di danno per determinare solo in seguito ed eventualmente se la condotta sia stata almeno colposa (Cassazione 14759/07). Il canone di accertamento utilizzato è quello probabilistico (Cassazione 16 ottobre 2007 n. 21619) secondo il quale se la prestazione professionale fosse stata resa tempestivamente e correttamente vi sarebbero state serie e consistenti opportunità di evitare il danno invece concretizzatosi (Cassazione 4 marzo 2004 n. 4400, 23 settembre 2004 n. IL SOLE 24 ORE - GUIDA AL DIRITTO 19133, 11 novembre 2005 n. 22894 e 21 gennaio 2000 n. 632). Si noti incidentalmente che in sede penale il criterio causale richiesto impone la certezza in giudizio oltre ogni ragionevole dubbio (Cassazione a Sezioni unite 11 settembre 2002 n. 30328 nel cosiddetto “caso Franzese”). Al paziente è richiesto di provare il danno e il nesso causale tra questo e l’inadempimento allegato. Tuttavia la giurisprudenza è incline a una inversione dell’onere probatorio, attuato mediante presunzioni, ove: ● l’atto medico presentava un alto potenziale di risultati positivi raggiunti solo parzialmente (Cassazione 26 giugno 2007 n. 14759 e 13 aprile 2007 n. 8826); ● l’intervento si presentava come facile ma ha realizzato un evento avverso (Cassazione 14 febbraio 2008 n. 3520); ● la prestazione sanitaria non ha raggiunto il risultato positivo che ci si sarebbe attesi in base alle condizioni del paziente, le capacità tecniche del professionista e la capacità organizzativa della istituzione sanitaria (Cassazione 13 aprile 2007 n. 8826 e 8 ottobre 2008 n. 24791). Recenti novelle normative e relativi problemi Come anticipato, in tempi recenti il Legislatore è intervenuto in modo assai discutibile sull’assetto giurisprudenziale prima descritto dettando una disciplina esplicitamente rubricata «Responsabilità professionale dell’esercente le professioni sanitarie» all’articolo 3 del Dl 158/2012 PAGINA 33 SANITÀ n TRA PENALE E CIVILE (cosiddetto “decreto Balduzzi”) convertito con modifiche dalla legge 8 novembre 2012 n. 189. L’attuale testo in vigore recita al comma 1: «L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del Codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo)». Il testo, di interpretazione non facile, nel dettare una norma di rilievo penale parrebbe, sul piano civilistico: a) fare rivivere una responsabilità extracontrattuale del professionista e del solo professionista, stante il richiamo all’articolo 2043 del Codice civile; b) incidere sulle regole di quantificazione del danno giacché il giudice dovrebbe nella sua determinazione tenere «debitamente conto» del fatto che il professionista si sia (o meno) attenuto «a linee guida e buone pratiche cliniche accreditate dalla comunità scientifica». Su quest’ultimo punto non è interamente chiaro quale possa essere l’innovazione visto che la giurisprudenza contempla già nel caso concreto l’aderenza del comportamento professionale con le indicazioni delle buone pratiche. Un carattere non ricognitivo della norma parrebbe presupporre un atteggiamento maggiorPAGINA 34 mente benevolo nei confronti dei professionisti che, ove le circostanze del caso concreto lo richiedano, si siano adeguati agli standard internazionali. Fermi restando i dubbi di legittimità costituzionale sul versante penale (già sollevati con ordinanza 21 marzo 2013, in «Rivista italiana di medicina legale», 2013, 1171, dalla sezione IX penale del tribunale di Milano) in quanto la norma non rispetterebbe il principio di ragionevolezza e di tassatività stante la genericità e ambiguità della formula legislativa utilizzata, sul piano civilistico la norma appare prestarsi a soluzioni diametralmente opposte. E infatti così la giurisprudenza si è già espressa. Secondo il tribunale di Arezzo 15 febbraio 2013 n. 196 (in Guida al Diritto-Il Sole-24 Ore n. 17 del 2013, pag. 17), ad esempio, il testo avrebbe - invero contra litteram una portata meramente ricognitiva degli orientamenti giurisprudenziali mentre per il tribunale di Torino, sezione IV, 26 febbraio 2013 (in «Danno e Responsabilità», 2013, 4, 367) esso permette/richiede l’applicazione dei principi della responsabilità aquiliana ai rapporti tra paziente e medici o funzionari pubblici con la conseguente allocazione dell’onere probatorio diversa rispetto a quanto fin qui illustrato. Il risultato ulteriormente perverso, fino a ora non manifestatosi in giurisprudenza, sarebbe una rediviva responsabilità aquiliana del professionista indipendente dalle evoluzioni priIL SOLE 24 ORE - GUIDA AL DIRITTO ma descritte e piuttosto legata all’obbligo assicurativo previsto per tutti i professionisti dal Dpr 137/2012. Successivamente alla novella poi è già intervenuta la Cassazione (sezione III civile, 19 febbraio 2013 n. 4030) rammentando che, sebbene l’articolo 3, comma 1, del Dl 13 settembre 2012 n. 158, convertito dalla legge 8 novembre 2012 n. 189, abbia depenalizzato la responsabilità medica in caso di colpa lieve, dove l’esercente l’attività sanitaria si sia attenuto a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, non è stata elisa l’operatività dell’illecito civile e resta fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del Cc che è clausola generale del neminem laedere, sia nel diritto positivo, sia con riguardo ai diritti umani inviolabili quale è la salute. Invero la Corte riafferma che la materia della responsabilità civile segue, tuttavia, le sue regole consolidate e non solo per la responsabilità aquiliana del medico ma anche per quella cosiddetta “contrattuale del medico e della struttura sanitaria”, da contatto sociale (il rischio di un ritorno al passato era segnalato dal tribunale di Varese 26 novembre 2012 n. 1406 ed era seguito da tribunale di Torino, sezione IV civile, sentenza 26 febbraio 2013, che riteneva modificato il diritto vivente). Lo stesso articolo 3, comma 3, del Dl 158/2012 prevede anche l’estensione delle tabelle Rca in tema di danno biologico alla responsabilità sanitaria. Il testo, infatti, recita: «Il danno biologico conseguente all’attività dell’esercente della professione DICEMBRE 2013 SANITÀ sanitaria è risarcito sulla base delle tabelle di cui agli articoli 138 e 139 del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, eventualmente integrate con la procedura di cui al comma 1 del predetto articolo 138 e sulla base dei criteri di cui ai citati articoli, per tener conto delle fattispecie da esse non previste, afferenti all’attività di cui al presente articolo.». Ancora una volta il testo si presta a non poche ambiguità e forzature nel sistema. Innanzitutto, in palese non cale delle pluridecennali evoluzioni giurisprudenziali e dell’evolversi degli assetti organizzativi della sanità, esso fa riferimento al danno biologico «conseguente all’attività dell’esercente della professione sanitaria» letteralmente escludendo dall’ambito operativo delle tabelle di liquidazione le ipotesi in cui il danno sia attribuito alle carenze organizzative della struttura o, in ogni modo, prescindendo dagli addebiti personali ai DICEMBRE 2013 suoi dipendenti o collaboratori. L’illogicità del risultato e la disparità irragionevole di trattamento che genera appaiono di tutta evidenza. Altrettanto poco chiaro è poi il riferimento all’integrazione (eventuale, sic!) delle tabelle «per tenere conto delle fattispecie da esse non previste, afferenti» la professione sanitaria, come se esistessero menomazioni dell’integrità psicofisica esclusivamente causabili dall’attività sanitaria. In attesa di - si spera - ben più decisivi, interventi del Supremo collegio nell’interpretazione delle norme de qua il quadro giurisprudenziale prima descritto non pare essere stato profondamente influenzato dalle novelle normative. Va indicato poi che la medesima novella prevede una non perspicua normativa volta a incentivare e agevolare la copertura assicurativa dei rischi per le specialità professionali sanitarie particolarmente esposte alla re- IL SOLE 24 ORE - GUIDA AL DIRITTO sponsabilità. Dei decreti attuativi attesi per lo scorso giugno, però, more italico non vi è ancora traccia alcuna. Infine, ma non ultimo, il quadro normativo di nostro interesse è completato dalla disciplina relativa alla mediazione obbligatoria. Già il Dlgs 28/2010 prevedeva il tentativo di mediazione obbligatoria per le controversie di risarcimento del danno derivante da responsabilità del medico (sebbene la prassi e la giurisprudenza facessero da subito riferimento alla responsabilità sanitaria come sopra descritta). A seguito dell’intervento della Corte costituzionale 292/2012, il cosiddetto “decreto del Fare” (convertito dalla legge 9 agosto 2013 n. 98) ha rinnovato l’obbligo con una esplicita estensione al «risarcimento del danno derivante da responsabilità medica e sanitaria» nel rinnovato quadro di obbligatorietà (l’esperimento del tentativo di mediazione è presupposto processuale). n PAGINA 35 SANITÀ L’evoluzione giurisprudenziale C ome detto nelle pagine precedenti, a prescindere dai recenti interventi normativi in materia di mediazione obbligatoria e con il cosiddetto “decreto Balduzzi”, l’intero quadro relativo al risarcimento dei danni connessi all’erogazione di una prestazione sanitaria è frutto di una lenta e costante evoluzione giurisprudenziale. Vi sono tuttavia temi particolarmente complessi e centrali ancora presenti nelle Corti che meritano un sia pur breve approfondimento. Consenso informato Il consenso informato costituisce oggi indubbiamente la base legittimante prima dell’atto medico, nel quadro dell’erogazione organizzata delle prestazioni sanitarie, resa sempre più complessa dai progressi scientifici e dalle conseguenti esigenze organizzative, al punto che se il consenso è necessario per ciascun atto medico, è anche vero che le modalità della sua acquisizione sono disegnate piuttosto dall’istituzione cui il professionista appartiene che da lui medesimo (si veda, da ultimo, Cassazione 27 novembre 2012 n. 20894, che ancora puntualizza le condizioni di manifestazione e di formazione del consenso informato, che ha natura bilaterale ed esprime un incontro di volontà libere e consapevoli, consenso che si configura quale diritto inviolabile della persona e che trova precisi referenti negli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione; si veda anche Cassazione 28 luglio 2011 n. 16543). Se poi storicamente l’atto medico era considerato lecito in virtù delle sue finalità sociali (e anche quando conduceva a un esito infausto) stanPAGINA 36 te l’assenza di intento di ledere o perché agiva una specifica clausola di esonero (ad esempio l’adempimento di un dovere ex articolo 51 o lo stato di necessità ex articolo 54 del Cp oppure il consenso dell’avente diritto ex articolo 50 del Cp), oggi invece ogni atto medico condotto senza o addirittura contro il consenso del paziente (fatte salve le rare eccezioni di trattamento sanitario obbligatorio, stato di necessità e incapacità a prestare il consenso: si vedano Cassazione 8 ottobre 2008 n. 24791 e 16 ottobre 2007 n. 21748) sarebbe in palese violazione degli articoli 32 e 13 della Costituzione e contrario all’articolo 33 della legge 833/1978. In relazione a ciò, oggi la giurisprudenza è pacifica seguendo i principi solennemente enunciati nel “caso Massimo” (Cassazione penale 21 aprile 1992) e recepiti pienamente nel codice di deontologia medica. La miglior sintesi del principio la troviamo (non casualmente) nella Cassazione, sezione I civile, 16 ottobre 2007 n. 21748: «il consenso informato costituisce, di norma, legittimazione e fondamento del trattamento sanitario: senza il consenso informato l’intervento del medico è sicuramente illecito, anche quando è nell’interesse del paziente; la pratica del consenso libero e informato rappresenta una forma di rispetto per la libertà dell’individuo e un mezzo per il perseguimento dei suoi migliori interessi.». Da questo quadro emerge, con piena conferma giurisprudenziale, che è onere del professionista e della struttura dimostrare la corretta acquisizione del prescritto consenso del paziente. Sebbene il consenso scritto IL SOLE 24 ORE - GUIDA AL DIRITTO debba essere acquisito solo in specifiche e limitate ipotesi legislativamente previste, la prassi porta ad attestare per iscritto sia il consenso sia l’erogazione delle necessarie informazioni preliminari a questo. Proprio il tema del contenuto delle informazioni necessarie a produrre un consenso consapevole, informato, attuale e libero rappresenta un tema cruciale nei dibattiti giurisprudenziali (Cassazione 11 maggio 2009 n. 10741). Rimane, infatti, in capo al paziente la dimostrazione che le informazioni non erano complete e hanno influenzato il consenso. In altri termini, ove la struttura/il professionista abbia dimostrato di avere legittimamene acquisito il consenso del paziente questi potrà sempre dimostrare che sono state omesse informazioni rilevanti e tali da inficiare il consenso prestato. È onere del paziente la dimostrazione che qualora avesse avuto le informazioni invece omesse non avrebbe prestato il proprio consenso al trattamento da cui, eventualmente, sia scaturito un danno iatrogeno o meno. Il danno da mancanza di consenso Il consenso informato, quale consapevole adesione al trattamento medico proposto, è un diritto fondamentale garantito dall’articolo 32 della Costituzione alla luce del principio personalistico espresso dalla medesima all’articolo 2 e alla luce della protezione che essa accorda alle libertà fondamentali (articolo 13). Si veda anche la Corte costituzionale 438/08. Stante queste premesse di principio, si intuisce come anche nel caso in cui il trattamento sanitario non abbia causato un danno alla (salute della) persoDICEMBRE 2013 SANITÀ n IL PUNTO-CARDINE na o addirittura questa sia migliorata a seguito del trattamento stesso, le Corti siano inclini ad accordare il risarcimento del danno non patrimoniale. In questo caso il risarcimento si limita alla violazione del diritto di autodeterminarsi rispetto ai trattamenti sanitari e si estende ad altri danni (patrimoniali e non) solo nell’ipotesi della dimostrazione positiva che il paziente non si sarebbe sottoposto al trattamento se pienamente informato dei rischi di evento avverso poi verificatisi. La giurisprudenza, anche di legittimità, pare oscillare circa l’onere probatorio e le conseguenze risarcitorie sul punto. Si rammenti, ad esempio, la sentenza della Corte di cassazione 9 febbraio 2010 n. 2847, in «Foro italiano», 2010, I, 2113, per la quale l’autonoma configurabilità della lesione del diritto all’autodeterminazione e i danni autonomamente risarcibili e riconducibili alla carente informazione circa i possibili effetti pregiudizievoli non imprevedibili comporterebbe per il paziente l’onere di dimostrare che se debitamente informato, non avrebbe verosimilmente accettato l’intervento. Più di recente, invece, la Cassazione 27 novembre 2012 n. 20984 (in «Danno e responsabilità», 2013, 743, con nota di S. Clinca), dopo avere escluso l’ammissibilità di un consenso tacito o l’onere di una minore informaDICEMBRE 2013 zione ove il paziente sia un professionista sanitario, ha riallocato l’onere probatorio in capo al personale sanitario lasciando al paziente solo un onere di deduzione del relativo inadempimento. Una volta acclarato che il consenso è momento centrale e indefettibile di ogni trattamento sanitario, è utile passare in rassegna alcuni nodi giurisprudenziali particolarmente intricati e spinosi: il dissenso al trattamento; la costituzione di un amministratore di sostegno per l’espressione di un consenso (rectius: di un dissenso) specifico. Entrambe le ipotesi sono strettamente connesse al requisito dell’attualità del consenso stesso. Il dissenso al trattamento del soggetto cosciente e dell’incapace Nella giurisprudenza si rileva una casistica sufficientemente ampia con riferimento ad alcune fattispecie per così dire tipiche di dissenso esplicito al trattamento. Il ventaglio di decisioni analizzate conferma che questo, come il consenso, deve essere inequivoco, attuale, effettivo e consapevole (per tutte, Cassazione 23 febbraio 2007 n. 4211). Assieme al caso dei testimoni di Geova che rifiutano l’assunzione di sangue, emoderivati ed emocomponenti (con alcune eccezioni) si registrano le ipotesi di coloro che chieIL SOLE 24 ORE - GUIDA AL DIRITTO dono la interruzione di un trattamento (come è ad esempio il respiratore meccanico) pienamente consapevoli delle conseguenze (è il caso di Piergiorgio Welby). Il tema su cui si gioca normalmente la partita, autorizzatoria prima ed eventualmente risarcitoria dopo, è l’attualità del consenso. Le acquisizioni più recenti sembrano superare il principio che, sovente in modo forzato, lasciava presumere la non più attuale manifestazione del consenso (recte: dissenso) liberando da responsabilità il personale che aveva, ad esempio, effettuato una trasfusione al paziente che aveva dissentito prima di divenire incosciente. Le forzature si muovevano ora sul crinale del (presunto) stato di necessità che si sarebbe creato in un secondo momento ovvero desumendo dalla (ovvia) non volontà di morire il mutamento di opinione rispetto al trattamento divenuto operativamente salvavita. Le tendenze più recenti confermano la risarcibilità del danno morale anche nel caso in cui non vi sia stato un peggioramento dello stato di salute e per la mera violazione del diritto all’autodeterminazione del paziente. Assai problematico e pur tuttavia risolto in modo netto è il caso del dissenso al trattamento espresso dal soggetto incapace. La soluzione data dal Supremo collePAGINA 37 SANITÀ n COSÌ IL RISARCIMENTO DEI DANNI gio nel caso Englaro (Cassazione, sezione I civile, sentenza 16 ottobre 2007 n. 21748), sebbene rivolta alla ipotesi del coma permanente irreversibile della vittima, ha tracciato uno spartiacque culturale e concettuale enucleando e consolidando principi di ben più ampia portata sula scorta dell’assunto per cui «Il consenso informato ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale. Ciò è conforme al principio personalistico che anima la nostra Costituzione, la quale vede nella persona umana un valore etico in sé, vieta ogni strumentalizzazione della medesima per alcun fine eteronomo ed assorbente, concepisce l’intervento solidaristico e sociale in funzione della persona e del suo sviluppo e non viceversa, e guarda al limite del “rispetto della persona umana” in riferimento al singolo individuo, in qualsiasi momento della sua vita e nell’integralità della sua persona, in considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive.» (paragrafo 6.1 della motivazione). Se si astrae dalla fattispecie concreta e dal principio di diritto specificamente per esso enucleato emerge un’istruzione operativa per il persoPAGINA 38 nale sanitario e il chiaro riconoscimento di un diritto per il paziente spesso coartato da una malintesa prevalenza del diritto alla vita: «in caso di incapacità del paziente, la doverosità medica trova il proprio fondamento legittimante nei principi costituzionali di ispirazione solidaristica, che consentono e impongono l’effettuazione di quegli interventi urgenti che risultino nel miglior interesse terapeutico del paziente. E tuttavia, anche in siffatte evenienze, superata l’urgenza dell’intervento derivante dallo stato di necessità, l’istanza personalistica alla base del principio del consenso informato e il principio di parità di trattamento tra gli individui, a prescindere dal loro stato di capacità, impongono di ricreare il dualismo dei soggetti nel processo di elaborazione della decisione medica: tra medico che deve informare in ordine alla diagnosi e alle possibilità terapeutiche, e paziente che, attraverso il legale rappresentante, possa accettare o rifiutare i trattamenti prospettati.» (paragrafo 7.2). Il Supremo collegio fissa un principio guida che travalica l’ipotesi del paziente incapace quando precisa che il tutore «deve decidere non “al posto” dell’incapace né “per” l’incapace, ma “con” l’incapace: quindi, ricostruendo la presunta volontà del paziente incosciente, già adulto prima di cadere in tale stato, tenendo conto dei desideri da lui espressi IL SOLE 24 ORE - GUIDA AL DIRITTO prima della perdita della coscienza, ovvero inferendo quella volontà dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche». E pur tuttavia il principio si è prestato e si presta a soluzioni ambigue sotto altri versanti. L’amministratore di sostegno e la volontà La legge 6/2004 ha novellato il Codice civile introducendo il nuovo istituto dell’amministratore di sostegno. L’articolo 404 del Cc prevede che «La persona che, per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi, può essere assistita da un amministratore di sostegno, nominato dal giudice tutelare del luogo in cui questa ha la residenza o il domicilio.». Mentre l’articolo 408 del Cc, con formula contestata in dottrina e in giurisprudenza permette che «L’amministratore di sostegno [sia] designato dallo stesso interessato, in previsione della propria eventuale futura incapacità, mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata.». E visto che (articolo 406 del Cc) «Il ricorso per l’istituzione dell’amministrazione di sostegno può essere proposto dallo stesso soggetto beneficiario», parte della dottrina e della DICEMBRE 2013 SANITÀ n SE IL PAZIENTE DISSENTE giurisprudenza hanno individuato nell’istituto una via invero forzata di introduzione nel nostro ordinamento di una sorta di direttive anticipate (tribunale di Prato 8 aprile 2009 e tribunale di Parma 2 aprile 2004) o di dare sostanza a quelle ipotesi in cui pur in assenza di una incapacità sia necessario un sostegno alla scelta del paziente (ad esempio con affezioni psichiche: tribunale di Palermo 9 dicembre 2009, tribunale di Genova 1˚ marzo 2005 e tribunale di Roma 19 marzo 2004). L’istituto si è prestato a soluzioni (discutibili per molti versi) di sostituzione dell’amministratore di sostegno all’amministrato nell’esprimere il consenso, ad esempio a un trattamento riabilitativo successivo a un Tso (tribunale di Cosenza 28 ottobre 2004) o in caso di gravi deficit mentali (tribunale di Palermo 9 dicembre 2009). Il nodo problematico maggiore si è rivelato nelle ipotesi in cui, come si è anticipato, si è tentata la strada della nomina ora per allora dell’amministratore di sostegno. Tema questo su cui si rileva una netta divisione in giurisprudenza. Da una parte vi è chi nega questa possibilità (come ad esempio tribunale di Cagliari 14 dicembre 2009, tribunale di Genova 6 marzo 2009 e tribunale di Firenze 3 luglio 2009) e dall’altro chi la ammette con motivazioni diDICEMBRE 2013 verse (come tribunale di Varese 25 agosto 2010, tribunale di Firenze 22 dicembre 2010, tribunale di Cagliari 22 ottobre 2009, tribunale di Modena 13 maggio 2008, 5 novembre 2008 e 23 dicembre 2008). Il presupposto tecnico impeditivo sarebbe la necessaria incapacità attuale ai fini dell’attivazione del procedimento, dato contro cui argomentano numerose sentenze denunciandone incongruenze e illogicità tali da generare disparità di trattamento (ad esempio tra chi affetto da malattia degenerativa possa usufruire dell’istituto per proiettare le proprie scelte in avanti e chi magari per un improvviso trauma non potesse tempestivamente farlo; così il tribunale di Cagliari 22 ottobre 2009). Non ultime le argomentazioni favorevoli hanno argomentato la contraddittorietà intrinseca di un sistema che altrimenti negherebbe la possibilità al soggetto capace di esprimere pro futuro le proprie indicazioni e scelte rispetto a trattamenti sanitari e poi consentirebbe alla luce della dottrina Englaro di farlo in via presuntiva (tribunale di Firenze 22 dicembre 2010): per il giudice fiorentino «non può a fortiori che risultare pacifico il dovere dell’ordinamento di rispettare l’espressione autodeterminativa del singolo quando, ... quella stessa volontà sia espressa oggi in previsione di un IL SOLE 24 ORE - GUIDA AL DIRITTO possibile evento futuro che lo privi della capacità di esprimerla». Il ruolo delle linee guida in seguito al cosiddetto “decreto Balduzzi” La novella legislativa del comma 1 dell’articolo 3 del Dl 158/2012 (cosiddetto “decreto Balduzzi”), convertito con modifiche dalla legge 8 novembre 2012 n. 189, si è detto, ha causato non pochi problemi interpretativi. Il testo in vigore esclude il rilievo penale della colpa lieve ove il medico si sia attenuto «a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica» e con specifico riferimento alla «determinazione determinazione del risarcimento del danno» prescrive che di ciò il giudice «tiene debitamente conto». Orbene, la Corte di cassazione, sezione IV penale, 11493/13, ha limitato l’operatività della norma escludendo che essa possa «involgere ipotesi di colpa per negligenza o imprudenza, perché le linee guida contengono solo regole di perizia» e ha precisato le condizioni operative delle medesime rilevando che «le linee guida, per avere rilevanza nell’accertamento della responsabilità del medico, devono indicare standard diagnostico-terapeutici conformi alle regole dettate dalla migliore scienza medica a garanzia della salute del paziente e (come PAGINA 39 SANITÀ n COSA ACCADE SE LA COLPA È “LIEVE” detto) non devono essere ispirate ad esclusive logiche di economicità della gestione, sotto il profilo del contenimento delle spese, in contrasto con le esigenze di cura del paziente». Con quest’ultimo assunto confermando la precedente giurisprudenza, però, il Supremo collegio non ha sciolto tutti i nodi. Ad esempio, non appare chiaro quale sia lo standard di valutazione della colpa lieve né i criteri di selezione e scelta delle «linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica». Per definizione, infatti, la comunità scientifica medica non è costretta da confini territoriali e anzi tende a una dimensione transnazionale che lascia spazio a letture e indicazioni non sempre coincidenti. Sarà dunque necessario, di volta in volta, accertare con l’aiuto di consulenze tecniche l’effettiva coincidenza tra le buone pratiche e linee guida seguite (o dalle quali si è legittimamene deviato date le peculiarità del caso di specie) e quelle che corrispondono alla migliore scienza ed esperienza del momento storico. Con riferimento poi alla liquidazione del danno, e ferme restando le perplessità operative relative all’estensione in generale del sistema tabellare per il danno alla salute in caso di danno da circolazione straPAGINA 40 dale, la formula per cui il giudice deve tenere “debito conto” del fatto che il medico abbia o meno seguito (correttamente si immagina) le linee guida e le buone pratiche apre questioni assai delicate. Qualsiasi sia infatti la “direzione di marcia interpretativa” (aumentare il risarcimento se non si sono seguite o diminuirlo se si sono seguite) appare intuitivo che nel primo caso il risarcimento assumerebbe una valenza sanzionatoria normalmente esclusa dal Supremo collegio nei confronti del personale sanitario e che creerebbe disparità di trattamento difficili ad accettare sul piano costituzionale. Qualora poi si immaginasse il fenomeno inverso la (ulteriore) contrazione del risarcimento a discapito del danneggiato non sembrerebbe trovare giustificazione alcuna. Infatti, al danneggiato non andrebbe beneficio alcuno capace di giustificare il sacrificio del suo diritto (come invece avviene in sede di infortuni sul lavoro ad esempio) e la quantificazione effettiva del danno sfuggirebbe a una valutazione obiettiva. Mutatio libelli e responsabilità sanitaria: un contrasto in Cassazione Un ultimo problema che vogliamo segnalare è più squisitamente processuale ed è stato generato da una reIL SOLE 24 ORE - GUIDA AL DIRITTO cente decisione del Supremo collegio (13269/12) secondo la quale «non costituisce inammissibile mutamento della domanda la circostanza che l’attore, dopo avere allegato nell’atto introduttivo che l’errore del sanitario sia consistito nell’imperita esecuzione di un intervento chirurgico, nel concludere alleghi, invece, che l’errore sia consistito nell’inadeguata assistenza post-operatoria». Il contenuto della domanda infatti, andrebbe, secondo questa decisione ritenuto «idoneo a delimitare l’ambito dell’indagine nella sua essenzialità materiale, senza che le specificazioni della condotta, inizialmente allegate dall’attore, possano avere portata preclusiva, attesa la normale mancanza di conoscenze scientifiche da parte del danneggiato». Con ciò, però, la Corte contraddiva la costante presa di posizione per la quale, prospettare in corso di una causa di risarcimento del danno una condotta colposa diversa da quella prospettata nell’atto introduttivo, costituisse una mutatio libelli inammissibile (tra le tante, Cassazione, sezione III civile, 7540/09) e in contrasto con il rigore della prova richiesta rispetto agli elementi costitutivi della pretesa risarcitoria (soluzione confermata anche da Cassazione, sezione III civile, 17408/12). n DICEMBRE 2013 SANITÀ Le questioni ancora aperte È il caso di ribadire, anche in questa sede, che ogni punto e argomento in materia di responsabilità sanitaria rappresenta una questione aperta e demandata prioritariamente ai mobili assetti giurisprudenziali. Fatta tale premessa e demandando le principali questioni aperte in giurisprudenza ad altro approfondimento in questa Guida, ci concentriamo su alcune questioni aperte in cui, invece, il ruolo della giurisprudenza, pur sempre presente e necessario, appare più defilato e ancorato a interventi regolatori. La responsabilità sanitaria (del personale e delle strutture) e la gestione del rischio clinico Il percorso di facilitazione della posizione del danneggiato culminato nell’affermazione del principio di vicinanza della prova e nell’ancoraggio della responsabilità del personale e della struttura alle regole della responsabilità da inadempimento hanno teso a un pieno risarcimento del danno alla persona con una crescente apertura alla tutela risarcitoria degli interessi costituzionalmente protetti andando oltre la mera tutela del diritto alla salute, grazie anche alla mediazione del consenso informato quale oggetto specifico di una illecita violazione. Come si è visto il percorso ha teso a spostare l’attenzione dal biasimo per l’errore individuale alla consapevolezza che il danno possa derivare prioritariamente da carenze strutturali e da errori evitabili sul piano sistemico. Mentre si espandeva lo spazio di risarcibilità del danno, la responsabilità medica diveniva sempre meno “personale” e quindi più... sanitaria nel senso detto prima: al complessificarsi della prestazione erogata corrisponde una maggiore diffiDICEMBRE 2013 coltà se non inutilità di individuare responsabilità individuali. Gli elementi costitutivi di questo fenomeno sono molteplici e riconducibili, senza pretesa di esaustività a: ● “oggettivazione” progressiva della responsabilità sanitaria nei suoi diversi elementi costitutivi; ● complessificarsi delle prestazioni cui ricondurre il danno, sempre meno riferibili a una sola persona fisica e sempre più riconducibili a un complesso di fattori umani e organizzativi nonché alla struttura in quanto tale (cosiddette “carenze organizzative”); ● indistinzione crescente tra attività in strutture pubbliche e in realtà private oggi del tutto irrilevante ai fini del risarcimento; ● aumento delle possibilità di diagnosi e cura a fronte di una contrazione delle risorse disponibili; ● presenza del momento assicurativo che contribuisce a fare superare barriere anche psicologiche al contenzioso paziente-medico; ● copertura finanziaria offerta dalle aziende sanitarie e ospedaliere al proprio personale che ormai risponde economicamente solo per l’improbabile caso del dolo; ● piena coincidenza tra chi paga per le prestazioni e chi paga per l’eventuale risarcimento del danno (gli enti titolari del Servizio e in primis le Regioni attraverso le strutture locali). Il governo del rischio clinico è assegnato dall’articolo 15 della legge 229/1999 al Collegio di Direzione nelle strutture sanitarie aziendali e ospedaliere. Più di recente l’articolo 3-bis del Dl 158/2012, come modificato in sede di conversione dalla legge 189/2012, ha enucleato una norma specifica dedicata al rischio clinico. Esso recita: «Al fine di ridurre i costi connessi al complesso IL SOLE 24 ORE - GUIDA AL DIRITTO dei rischi relativi alla propria attività, le aziende sanitarie, nell’ambito della loro organizzazione e senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, ne curano l’analisi, studiano e adottano le necessarie soluzioni per la gestione dei rischi medesimi, per la prevenzione del contenzioso e la riduzione degli oneri assicurativi. Il Ministero della salute e le regioni monitorano, a livello nazionale e a livello regionale, i dati relativi al rischio clinico». La nozione assunta a livello normativo, però, evidentemente è diversa da quella conclamata a livello internazionale. Essa, infatti, è prettamente orientata alla riduzione dei costi assicurativi e del contenzioso piuttosto che cercare di affrontare la riduzione dei rischi con il dovuto approccio multidisciplinare. Ciò nonostante le norme concernenti la qualità dei servizi non manchino nel sistema (ad esempio, gli articoli 10 e 14 del Dpr 502/1992 che ripartiscono le competenze tra Regioni e Stato) e richiedano, sempre ad esempio, al Direttore generale al dirigente sanitario del servizio «a richiesta degli assistiti», di adottare «le misure necessarie per rimuovere i disservizi che incidono sulla qualità dell’assistenza» (articolo 14, comma 5, del Dpr 502/1992). Come evidenzia anche la richiamata normativa più recente e nonostante i costanti richiami al governo del rischio clinico nei piani sanitari nazionali e regionali e nei numerosi decreti ministeriali che vedono - ad esempio - nelle linee guida uno strumento essenziale di governo del rischio clinico e dell’organizzazione del Ssn (Dm 30 giugno 2004) la gestione del rischio manca ancora di una reale visione sistemica. Ciò rimette al centro delle evoluzioni l’operato della giurisprudenza PAGINA 41 SANITÀ che in un quadro assai incerto deve dare risposte a questioni concrete e non risolte come il ruolo delle eventuali «segnalazioni» di eventi avversi nella determinazione della diligenza del professionista o il loro eventuale rilievo penale. La garanzia della qualità, la gestione del rischio e le infezioni nosocomiali: un esempio Il riflesso parallelo a un oggettivarsi della responsabilità e al suo impuntarsi prioritariamente sulle organizzazioni sanitarie in cui operano i professionisti è l’individuazione, la gestione e la rimozione dei rischi eliminabili insiti nei percorsi diagnostico-terapeutici. Il presupposto di questa operazione è la scomparsa della nozione di incidente per cui si è materializzata l’idea che un incidente corrisponda semplicemente a un rischio non ben gestito e immediatamente attribuibile agli individui cui si riconducono specifiche azioni od omissioni. Fuor di metafora, si ritiene che esista un rischio in sanità ed è l’omissione o l’azione (errata) di uno specifico elemento della catena di erogazione della prestazione sanitaria che ne ha permesso la materializzazione in termini di danno. Questo fenomeno, che richiederebbe il totale emergere di errori latenti e sistemici (ad esempio malfunzionamenti strutturali e organizzativi), si scontra con gli effetti perversi sulla notifica di errori e quasi eventi che anche nel nostro ordinamento hanno le regole di responsabilità civile e penale. Se dunque errare humanum est, non sarebbe umano perseverare sapendo di potere evitare almeno alcuni errori. Tuttavia, per le “paure” che la accompagnano raramente l’analisi della casistica giurisprudenziale e della singola casistica di una struttura in tema di responsabilità sanitaria è stata utilizzata per evidenziare i fattori di rischio ed eliminarli individuando vulnerabilità sistemiche nelle strutture sanitarie e, soprattutto, disegnando perPAGINA 42 corsi formativi e riorganizzativi volti a rimuovere tali vulnerabilità o almeno a disegnare meccanismi di controllo. Tutto ciò a dispetto delle norme che individuano precise responsabilità in tal senso. Questi profili in concreto interessano anche i processi di accreditamento delle strutture e di “abilitazione” dei professionisti nonché il controllo continuo del mantenimento e dell’aggiornamento delle competenze necessarie. Non a caso il Piano sanitario 2006-2008 (in parte qua ancora in vigore) definisce il rischio clinico (pag. 57) come «la probabilità che un paziente sia vittima di un evento avverso, cioè subisca un qualsiasi danno o disagio imputabile, anche se in modo involontario, alle cure mediche prestate, che causa un peggioramento delle condizioni di salute o la morte». Il Psn prosegue specificando che «[u]na gestione efficace del rischio clinico presuppone che tutto il personale sia consapevole del problema, che sia incoraggiata la segnalazione degli eventi e che si presti attenzione ai reclami e al punto di vista dei pazienti. Le strategie di gestione del rischio clinico devono utilizzare un approccio pro-attivo, multi-disciplinare, di sistema, e devono prevedere attività di formazione e monitoraggio degli eventi avversi». Ovviamente a questi principi condivisibili non seguono poi le regole operazionali atte a implementarli. Un esempio tangibile del purtroppo necessario intervento sostitutivo della giurisprudenza rispetto ai necessari interventi sistemici è rappresentato dalle infezioni nosocomiali su cui pure vi sono numerosi interventi regolatori (come testimoniato dall’istituzione, con il protocollo Stato-Regioni del 20 marzo 2008, dell’Osservatorio nazionale di monitoraggio degli eventi sentinella, Osmes, presso il ministero della Salute dello specifico Sistema informativo per il monitoraggio degli eventi avversi, Simes). IL SOLE 24 ORE - GUIDA AL DIRITTO Le infezioni nosocomiali, la cui riduzione è da tempo terreno di elezione per la gestione (e riduzione) del rischio clinico (si vedano le circolari ministeriali 52/1985 “Lotta alle infezioni ospedaliere” e 8/1988 “Lotta alle infezioni ospedaliere: la sorveglianza”), rimangono infatti al centro dell’attenzione giurisprudenziale (Cassazione, sezione III civile, 7 giugno 2011 n. 12274, in www.osservatoriodannoallapersona.org). In linea con quanto emerso in generale per la responsabilità sanitaria, la giurisprudenza tende a oggettivare la responsabilità anche per le infezioni nosocomiali ricorrendo a un ampio uso di presunzioni (Cassazione, sezione III civile, 1˚ dicembre 2010 n. 24401) come testimoniato dal linguaggio sovente utilizzato che fa riferimento al fatto che «sarebbe irragionevole chiedere al Ctu di indicare quale pratica non fosse stata effettuata in modo corretto, poiché il Ctu a distanza di tempo non può certo controllare se gli strumenti utilizzati nella medicazione e le condizioni in cui era avventa fossero state ottimali» (si veda tribunale di Torino 1˚ marzo 1999) ovvero che l’infezione sopraggiunta all’intervento «era verosimilmente dovuta a un’igiene non adeguata della sala operatoria» (si veda il tribunale di Monza 17 luglio 2006). Del resto, la giurisprudenza in circostanze come queste ha ritenuto configurata la responsabilità già per il solo fatto che non risultasse debitamente annotato in cartella clinica il decorso dell’infezione (ad esempio, Cassazione, sezione III civile, 26 gennaio 2010 n. 1538). Infezioni nosocomiali e responsabilità del direttore generale e del direttore sanitario Il risultato combinato è quello di addossare al professionista (Cassazione, sezione III civile, 5 luglio 2004 n. 12273) l’onere di contribuire all’adozione delle misure atte a ridurre ed eliminare nei limiti del possibile il rischio da infezione noDICEMBRE 2013 SANITÀ n LA GESTIONE DEL RISCHIO CLINICO socomiale nonché di avvisare il paziente... al limite consigliando il ricovero presso altra struttura (sic!); si veda Cassazione, sezione III civile, 26 giugno 2012 n. 10616 che ha riconosciuto la responsabilità del medico per il cattivo funzionamento di una apparecchiatura. Quanto tale risultato sia lontano da quella che potrebbe essere la prassi è facilmente intuibile. Meno chiaro è spiegare perché non constino numerosi precedenti circa la responsabilità del direttore generale e del direttore sanitario cui pure, come si è visto, la normativa attribuisce in tema particolari compiti e relativi poteri nell’ambito dell’ampia autonomia loro attribuita assieme a quella delle istituzioni che sono chiamati a dirigere (Corte dei conti della Toscana, Sezione giurisdizionale, 1˚ aprile 2008 n. 126). Ove, infatti, le infezioni nosocomiali discendessero dalle inefficienze organizzative a essi imputabili questi potrebbero risponderne civilmente e penalmente. Il direttore generale però risponderà di un’eventuale negligenza nell’organizzazione dell’unità sanitaria e di mancata denuncia di deficienze a essa relative (Cassazione, sezione III penale, 29 aprile 2010 n. 22755). Al direttore sanitario rimane ascritta una responsabilità specifica in tema di organizzazione degli aspetti igienico-tecnico sanitari nonché il potere di vigilanDICEMBRE 2013 za sul rispetto delle indicazioni fornite (Corte dei conti dell’Umbria, Sezione giurisdizionale, 31 gennaio 2002 n. 39 che afferma la responsabilità amministrativa, a titolo di colpa grave, del commissario straordinario e del direttore sanitario di un ospedale per il danno da disservizio e all’immagine conseguenti alle gravi carenze del servizio di cucina dovute a prolungate negligenze nell’organizzazione generale, inidoneità dei locali, carenza di manutenzione ordinaria e straordinaria, inadeguatezza delle attrezzature e delle condizioni di pulizia, insufficienza delle procedure di vigilanza, si veda anche Cassazione, sezione III penale, 22 gennaio 1993 n. 511). In questa prospettiva si può realizzare un corto circuito della responsabilità ove a discolpa dei dirigenti venissero addotte deficienze strutturali e di risorse attribuibili a mancate autorizzazioni all’acquisto o assunzione da parte degli enti competenti (le Regioni) chiudendo con una “responsabilità” politica non perseguibile una irresponsabilità civile di fatto. Assicurazione e risarcimento prima e dopo il cosiddetto “decreto Balduzzi” Sebbene sia centrale in ogni sistema risarcitorio, la problematica della copertura assicurativa dei rischi connessi all’erogazione di prestazioni sanitarie non è affrontata in modo organico nel nostro ordinamento. IL SOLE 24 ORE - GUIDA AL DIRITTO Le polizze oggi presenti sul mercato coprono assieme ai rischi connessi all’erogazione della prestazione anche altri, in qualche modo collaterali, come ad esempio quella da trattamento di dati sanitari. Peraltro, gli obblighi assicurativi nel settore sono assai ridotti, riducendosi, per un verso alle ipotesi di sperimentazione clinica, per l’autorizzazione della quale deve essere prestata idonea garanzia assicurativa (articolo 6, comma 1, lettera i), della legge 211/2003) e alle previsioni di contratto collettivo nazionale del comparto a mente del quale le aziende devono agevolare la copertura assicurativa per i dipendenti relativamente alle ipotesi in cui potrebbero rispondere per colpa grave. Ovviamente le polizze sul mercato escludono (in quanto il contratto sarebbe nullo) le ipotesi di dolo, sebbene la giurisprudenza continui a permettere una diversa valutazione in sede penale (ove può essere riconosciuta la natura dolosa di un reato) e in sede civile (sul punto, Cassazione 17 dicembre 2009 n. 26505). Fatte queste premesse è agevole rilevare come negli ultimi anni si siano registrati fenomeni di crisi nel settore consistenti non solo in significativi aumenti dei premi assicurativi richiesti ma anche nella difficoltà di trovare idonea copertura sul mercato, anche a fronte di premi ingenti, da parte di numerose istituzioni saniPAGINA 43 SANITÀ n I CRITERI PER LA COPERTURA ASSICURATIVA tarie. Questi fenomeni, assieme alle evidenti ristrettezze economiche in cui versano i sistemi sanitari regionali, sovente vincolati da stringenti piani di rientro, hanno spinto alla formulazione di soluzioni sperimentali di forme di “autoassicurazione” a livello regionale. La difficoltà riscontrata negli ultimi anni dalle aziende sanitarie e dagli ospedali a trovare idonea copertura assicurativa (per il passaggio alle polizze claims made e per l’incremento dei premi assicurativi) ha mosso diverse Regioni a cercare modalità più efficienti di gestire (purtroppo, raramente di ridurre) i rischi per i pazienti e per il personale (ad esempio l’esposizione mediatica e lo stress del giudizio). Spesso, però, le soluzioni adottate, oltre ad avere condotto a una eterogeneità di risposte a volte all’interno della medesima Regione, hanno puntato puramente a una riduzione dei costi assicurativi che si sta rivelando effimera perché coincide con una riduzione dei premi ma anche con una riduzione dei rischi coperti (con il conseguente aumento dell’esborso diretto effettivo) e a una incompiuta centralizzazione delle coperture che diventano una mera sommatoria di rischi e non una ripartizione in vasche omogenee sulle quali intervenire selettivamente. Invero, pur consapevoli di effettuaPAGINA 44 re una eccessiva semplificazione, queste forme sono piuttosto una assunzione diretta/indiretta dei rischi a carico dei bilanci aziendali e mediatamente regionali, nella speranza che i risparmi pro tempore sui premi non vengano azzerati da eventi avversi tali da superare il costo (evitato) dei premi stessi. I meccanismi attuati sono i più vari ma sono (nel migliore dei casi) associati a polizze per la copertura per danni di particolare entità magari accompagnati da clausole claims made per richiese eccedenti determinate soglie. La difficile esistenza delle clausole claims made Queste ultime sono state oggetto di numerosi e non sempre convergenti interventi giurisprudenziali relativi alle sue principali due forme. Quella cioè che ancora il sinistro assicurato nei termini di materializzazione dell’evento avverso e della richiesta di risarcimento alla vigenza del periodo di copertura della polizza e quello che, con minore incidenza sull’oggetto del contratto tipico, identifica il sinistro risarcibile con la richiesta risarcitoria (che avvia il processo per il quale si registrerà eventualmente la perdita patrimoniale assicurata). A prescindere dalle varianti - commerciali e giuridiche - possibili di IL SOLE 24 ORE - GUIDA AL DIRITTO queste clausole, la totale chiusura in termini di invalidità per vessatorietà di tali clausole ha trovato una prima smentita in Cassazione 15 marzo 2005 n. 5624 (più di recente si veda anche Cassazione 22 marzo 2013 n. 7273) lasciando la giurisprudenza di merito a oscillare tra recise condanne (tribunale di Bari 12 luglio 2012, in “Contratti”, 2012, 10, 825; tribunale di Milano 18 marzo 2010, in “Giurisprudenza Italiana”, 2011, 4, 831) e aperte ammissibilità delle relative clausole (Corte di appello di Roma, Sezione III, 22 marzo 2011, in “Massima redazionale”, Utet, 2011; tribunale di Napoli 11 febbraio 2010, in “Assicurazioni”, 2011, 131; tribunale di Crotone, 8 novembre 004, in “Massima redazionale”, Utet, 2008). La novella del Dl 158/2012 sull’impianto assicurativo Come anticipato, il Dl 158/2012, come modificato in sede di conversione dalla legge 189/2012, è intervenuto (invero solo a livello potenziale fino a oggi) sul tema dell’assicurazione dei danni da responsabilità sanitaria. Il comma 2 dell’articolo 3 prevedeva che «Con decreto del Presidente della Repubblica, adottato ai sensi dell’articolo 17, comma 1, della legge 23 agosto 1988, n. 400, da emanare entro il 30 giugno 2013, su proposta del MiniDICEMBRE 2013 SANITÀ n PRIMA DEL “DECRETO BALDUZZI” stro della salute, di concerto con i Ministri dello sviluppo economico e dell’economia e delle finanze, sentite l’Associazione nazionale fra le imprese assicuratrici (ANIA), la Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri, nonché le Federazioni nazionali degli ordini e dei collegi delle professioni sanitarie e le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative delle categorie professionali interessate, anche in attuazione dell’articolo 3, comma 5, lettera e), del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, al fine di agevolare l’accesso alla copertura assicurativa agli esercenti le professioni sanitarie, sono disciplinati le procedure e i requisiti minimi e uniformi per l’idoneità dei relativi contratti, in conformità ai seguenti criteri: a) determinare i casi nei quali, sulla base di definite categorie di rischio professionale, prevedere l’obbligo, in capo a un fondo appositamente costituito, di garantire idonea copertura assicurativa agli esercenti le professioni sanitarie. Il fondo viene finanziato dal contributo dei professionisti che ne facciano espressa richiesta, in misura definita in sede di contrattazione collettiva, e da un ulteriore contributo a carico delle imprese autorizzate all’esercizio dell’assicurazione per danni derivanti dall’attività medicoprofessionale, determinato in misuDICEMBRE 2013 ra percentuale ai premi incassati nel precedente esercizio, comunque non superiore al 4% del premio stesso, con provvedimento adottato dal ministro dello Sviluppo economico, di concerto con il ministro della Salute e il ministro dell’Economia e delle Finanze, sentite la Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri, nonché le Federazioni nazionali degli ordini e dei collegi delle professioni sanitarie; b) determinare il soggetto gestore del Fondo di cui alla lettera a) e le sue competenze senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica; c) prevedere che i contratti di assicurazione debbano essere stipulati anche in base a condizioni che dispongano alla scadenza la variazione in aumento o in diminuzione del premio in relazione al verificarsi o meno di sinistri e subordinare comunque la disdetta della polizza alla reiterazione di una condotta colposa da parte del sanitario accertata con sentenza definitiva». La previsione normativa inizia a delineare un sistema di risarcimento obbligatoriamente assicurato e... calmierato prono a più opzioni. Sotto il profilo assicurativo è di sicuro interesse la previsione di un fondo non già a garanzia delle vittime quanto a supporto del presunto danneggiante e solo indirettamente della vittima. Il comma 2, infatti, dopo avere demandato a un emanando regolamento governativo la disciplina IL SOLE 24 ORE - GUIDA AL DIRITTO delle «procedure e i requisiti minimi e uniformi per l’idoneità» dei contratti assicurativi per il settore, «al fine di agevolare l’accesso alla copertura assicurativa agli esercenti le professioni sanitarie» fissa le basi per un vero a e proprio sistema bonus malus (lettera c) di cui sopra) calmierato di assicurazione della responsabilità sanitaria. Su quest’ultimo punto si prospetta assai intelligente immaginare un fondo cui possono accedere (finanziandolo in corrispondenza) i professionisti che ne facciano richiesta e che rientrino nelle categorie di rischio professionale individuate dal menzionato regolamento, di fatto in concertazione con quasi tutti i soggetti interessati. Invero, spiccano inspiegabilmente per assenza nella ricca lista di soggetti che il Governo dovrebbe ascoltare sia il mondo dei potenziali danneggiati sia il regolatore del settore assicurativo. Il risultato di calmieramento previsto dovrebbe essere sul punto dell’accessibilità poiché, e presupponendo il fondo si muova in una logica assicurativa, si fisserebbe un parametro di riferimento per il mercato, sebbene agevolato da un sussidio incrociato ben preciso - pari al 4% massimo di contributo a carico dei premi assicurativi incassati dalle compagnie nell’esercizio precedente. Il meccanismo non prefigura né una compagnia assicurativa pubblica né un vero piano no-fault. Si prevede solo che certe professionalità maggiormente esposte possano essere PAGINA 45 SANITÀ sussidiate da altre professionalità meno esposte a rischio garantendo sempre la possibilità del risarcimento alla vittima. Se però si considera la prospettiva di una predeterminazione dei costi risarcitori maggiormente significativi, le premesse per un passaggio a un risarcimento/indennizzo amministrato sono largamente poste anche se inspiegabilmente non coordinate ai profili di riduzione dei rischi sistemici. Il risarcimento del danno e le tabelle in Rc sanitaria L’annosa questione della parità di trattamento tra le vittime di danni alla persona aperta dalla previsione in sede di codice delle assicurazioni private dalla previsione di meccanismi tabellari, distinti per le lesioni di lieve e di non lieve entità (1-9% e 10-100%), per i danni alla salute derivanti da circolazione stradale pare trovare risposta positiva per la responsabilità sanitaria. Già il Consiglio di Stato in sede consultiva PAGINA 46 (parere 17 novembre 2011 n. 4209) aveva sollecitato il Governo segnalando «una possibile conseguenza distorsiva derivante dall’applicazione ai soli sinistri stradali degli indici parametrici contenuti nelle tabelle allegate allo schema di regolamento in questione: infatti, analoghe conseguenze sul piano lesivo verrebbero a ottenere differenti trattamenti risarcitori, a seconda del solo fatto che la lesione sia avvenuta nell’ambito della circolazione stradale o meno». Il suggerimento conseguente all’amministrazione era scontato: si valuti «se sia utile promuovere una modifica legislativa in proposito, che consenta di ampliare lo spettro applicativo delle predette tabelle parametriche». Coerentemente con questo auspicio, il comma 3 dell’articolo 3 del Decreto Balduzzi estende le tabelle Rca ai danni da responsabilità sanitaria: «Il danno biologico conseguente all’attività dell’esercente del- IL SOLE 24 ORE - GUIDA AL DIRITTO la professione sanitaria è risarcito sulla base delle tabelle di cui agli articoli 138 e 139 del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, eventualmente integrate con la procedura di cui al comma 1 del predetto articolo 138 e sulla base dei criteri di cui ai citati articoli, per tener conto delle fattispecie da esse non previste, afferenti all’attività di cui al presente articolo». Tenuto conto che i decreti di attuazione per la tabella delle liquidazioni di non lieve entità in materia di Rca, che dovrebbe essere estesa “eventualmente integrata” con la medesima procedura alla responsabilità sanitaria, sono in attesa di essere emanati da più di 12 anni, non pare vi sia molto da sperare dalla novella legislativa che, more italico, fa la legge e ne demanda la piena realizzazione a norme successive e secondarie. Nel frattempo a dominare per la liquidazione del danno in questo settore sono le tabelle adottate dal tribunale di Milano (pubblicate sul sito collegato a questa Guida e illustrato a pag. 2). n DICEMBRE 2013 SANITÀ Il danno risarcibile on le eccezioni dei danni da emotrasfusione (specialmente la contrazione del virus Hiv a esse legate), in cui la giurisprudenza continua ad applicare le regole di responsabilità extracontrattuale, si applicano di norma le regole relative al riconoscimento e alla quantificazione del danno in sede contrattuale. Il danno conseguente (sempre considerato alla stregua di danno conseguenza della lesione e mai come danno evento in re ipsa) è riconosciuto sub specie di danno emergente e di lucro cessante. Ove non sia dimostrata la perdita di reddito (valutata alla stregua degli ultimi tre anni fiscali) concretamente connessa sul piano causale con il danno causato, operano i consueti meccanismi presuntivi ai sensi dell’articolo 2056 del Cc e fino all’applicazione del criterio - legislativamente sancito invero per la sola Rca - del triplo della pensione sociale. Quanto ai danni emergenti (spese sanitarie e altro), essi sono liquidati secondo i consueti parametri di mercato e secondo il normale regime probatorio ove effettivamente incorsi o attesi nel futuro, tenuto conto anche del fatto che larga parte degli stessi sono sostenuti direttamente dal sistema sanitario e che questo raramente agisce in ricorso contro i danneggianti. Tra i danni emergenti risarciti ovviamente rimangono anche le spese ragionevoli di riadattamento dell’abitazione alle nuove disabilità e gli acquisti necessari in termini di supporti (sedie a rotelle, materiali sanitari eccetera) e di assistenza anche infermieristica necessari e non supportati dalla sicurezza sociale. Con riferimento ai danni non patrimoniali risarcibili, nell’alveo dei quali dal 2003 risulta ricondotto anche il danno biologico, essi si esten- C DICEMBRE 2013 dono a tutti quelli oltre la misura di una certa gravità da tollerarsi, conseguenti alla violazione di diritti inviolabili secondo l’insegnamento delle Sezioni unite (26972/08). Il risarcimento del danno non patrimoniale rimane, invero, la chiave di volta del sistema risarcitorio in tema di responsabilità sanitaria sia per la centralità assunta nel sistema dal danno alla salute, o biologico che dir si voglia, sia per il trend espansivo che interessa altre ipotesi come quelle connesse alla violazione del consenso legato a una lettura costituzionalmente orientata delle norme. Conseguentemente, in questa sede potremo solo concentrarci su alcune delle ipotesi più significative e problematiche: il danno alla salute, il danno da violazione del consenso informato, il danno da perdita di chance. Il danno alla salute e la sua centralità Il danno alla salute rimane figura centrale e indefettibile del risarcimento del danno, da risarcirsi indipendentemente dalla sua capacità di incidere sul reddito della vittima. Esso deve essere accertato secondo parametri medico-legali che ne determinano l’esistenza in termini di patologia accertata e di incidenza (rectius: indicano al giudice una valutazione della) percentuale sulla salute dell’individuo. Questa valutazione viene poi utilizzata in sede di liquidazione assieme ai parametri monetari secondo i noti criteri tabellari che si sono sviluppati a partire dagli anni 1990. Sin dagli insegnamenti del Supremo collegio, in seguito alle note posizioni della Corte costituzionale (14 luglio 1986 n. 184, Foro Italiano 1986, I, 2067), negli anni 1990 la liquidazione del danno alla salute IL SOLE 24 ORE - GUIDA AL DIRITTO deve seguire parametri uniformi di base e adeguamento al caso di specie. Il significato di questa formula richiede di perseguire assieme a logiche di prevedibilità del danno e di parità di trattamento la necessaria flessibilità di una valutazione che, sebbene alla stregua di parametri uniformi, apprezzi il danno in concreto della vittima sub iudice. Il criterio della personalizzazione del danno ha ricorrentemente messo in discussione il parametro tabellare ove questo ha teso a cristallizzarsi in automatismi non compatibili con il sistema. Emblematica in tal senso la “stroncatura” degli automatismi liquidatori operata dalle citate Sezioni unite di San Martino 2008 che hanno ricostruito in modo unitario la figura del danno non patrimoniale “vietando” automatismi proni sia a duplicazioni sia a sottoliquidazioni. Invero, il criterio del riferimento tabellare più che soccombere ha trovato a valle delle decisioni del 2008 un rafforzamento. Il riferimento principale in questa direzione va alle decisione della Cassazione 12408/11 e alla parziale correzione di rotta con la 14402/11 che hanno in apparenza riavviato l’agenda della riforma del danno alla persona secondo una linea di coerenza tracciabile a ritroso almeno fino ai primi anni ’90 del secolo scorso (G. Comandé, “Il danno alla salute Supplenza e sistema nella recente giurisprudenza di Cassazione”, in «Cultura e Diritti per una formazione giuridica», anno I, n. 1, gennaio-marzo, 2012, pagine 119 e seguenti). Nelle decisioni appena citate, e «nella perdurante mancanza di riferimenti normativi (...) considerato che il legislatore ha già espresso (...) la chiara opzione per una tabella unica da applicare su tutto il territorio nazionale, la Corte di cassazioPAGINA 47 SANITÀ ne ritiene che sia suo specifico compito, al fine di garantire l’uniforme interpretazione del diritto (...) fornire ai giudici di merito l’indicazione di un unico valore medio di riferimento da porre a base del risarcimento del danno alla persona, quale che sia la latitudine in cui si radica la controversia». La scelta cade sulle tabelle milanesi. Il punto 3.2.2 della decisione parte dalle premesse che sin dal 1993 (ex plurimis sentenza n. 357) ha legato la liquidazione del danno alla salute al criterio equitativo di cui agli articoli 2056 e 1226 del Codice civile ancorandolo all’obbligo di motivazione, e in primis della scelta della tabella e delle modalità di applicazione al caso concreto. In coerenza, per la Corte del 2011 la decisione di merito è insindacabile in sede di legittimità ove il giudice «dia l’indicazione di congrue, anche se sommarie, ragioni del processo logico seguito» mentre «essa è invece censurabile se sia stato liquidato un importo manifestamente simbolico o non correlato alla effettiva natura o entità del danno; o quando nella sentenza di merito non si dia conto del criterio utilizzato, o la relativa valutazione risulti incongrua rispetto al caso concreto, o la determinazione del danno sia palesemente sproporzionata per difetto o per eccesso». A valle di queste prese di posizione, non certo senza contestazioni e disaccordi tra i giudici di merito, si evidenzia oggi il ricorso preponderante alle tabelle del tribunale di Milano per la liquidazione del danno biologico in materia di responsabilità sanitaria (si veda più in dettaglio i contributi in «Osservatorio della Giurisprudenza» in materia di danno alla persona, in “Danno e Responsabilità”, 12/2013). La perdita di chance tra problema e sistema Il danno da perdita di chance ha assunto un rilievo assai importante nel risarcimento dei danni da responsabilità sanitaria anche se con il complePAGINA 48 to “divorzio” delle regole di causalità in sede penale e civile il suo ruolo dovrebbe - in teoria, almeno - essere progressivamente ridimensionato (per una recente ricostruzione delle ragioni di ciò si veda C. Viazzi, “Perdita di chance nella responsabilità medica: una questione ancora da definire”, in «Danno e responsabilità», 2013, 581 e seguenti). Invero, la teoria del danno da perdita di chance ha svolto e svolge un ruolo di espansione del risarcimento del danno nonostante i limiti concettuali che essa incontra e che potrà durare nel tempo. In ambito medico, la condotta medica interviene su una catena causale in evoluzione, precludendo la possibilità di raggiungere un risultato di cura o addirittura di sopravvivenza (tribunale di Venezia, 25 luglio 2007, in «Danno e responsabilità», 2008, 43, con commento di R. Pucella, “Causalità civile e probabilità: spunti per una riflessione”). Ciò nonostante, le Corti assegnano con frequenza il risarcimento per la connessa perdita di chance legata a omesso o tardivo intervento dei sanitari coinvolti (per esempio, con una tardiva diagnosi). Cronologicamente, la teoria si è affermata nel settore a seguito del caso Franzese (Cassazione, 30328/02), nel quale le Sezioni unite penali sancirono il criterio della certezza causale oltre ogni ragionevole dubbio sia in sede penale sia in sede civile. L’adozione di tale e più rigoroso standard probatorio era stato esteso dalla Suprema corte (Cassazione, sezione III civile, 4 marzo 2004 n. 4400, in «Danno e Responsabilità», 2005, 45, con note di Feola e Nocco) alla materia civile spingendo le corti ad adottare il criterio della risarcibilità della perdita di chance di sopravvivenza o di guarigione per evitare drastiche riduzioni nelle possibilità di risarcire il danno. In breve la giurisprudenza in sede civile accettò la riparabilità dei danni derivanti dalla perdita di chance come danni in quanto tali scollegandoli IL SOLE 24 ORE - GUIDA AL DIRITTO dall’indagine causale. E infatti per la stessa Cassazione 4400/04 «la domanda avente ad oggetto la perdita di chance è ontologicamente diversa da quella avente ad oggetto il mancato raggiungimento del risultato sperato, perché in questo ultimo caso, l’accertamento è incentrato sul nesso causale, mentre nella prima ipotesi, oggetto dell’indagine è un particolare tipo di danno ed, in particolare, una distinta ed autonoma ipotesi di danno emergente, incidente su un diverso bene giuridico, quale la mera possibilità del risultato finale, ovvero la sopravvivenza del paziente» (più di recente, Cassazione, 21245/12). Sul piano operativo, la giurisprudenza (sebbene in modo non unanime) liquida il danno in questione in proporzione al danno che sarebbe liquidato se l’intero danno fosse stato causato dalla “colpa” professionale del convenuto. Se cioè la perdita di chance è valutata nel 30% di possibilità di guarigione dovuta alla tardiva diagnosi, il danno viene liquidato nei termini del 30% dell’intero danno (alla salute) dimostrato. Tale operazione non è affatto unanime in giurisprudenza, stante alcune decisioni (Cassazione, 18 aprile 2005 n. 7997, in «Corriere giuridico», 2006, 257, commentata da F. Rolfi, “Il nesso di causalità nell’illecito civile: la cassazione alla ricerca di un modello unitario” e Cassazione, 19 maggio 2006 n. 11755, in «Danno e responsabilità», 2006, 1238 e seguenti, commentate da L. Nocco, “Causalità: dalla probabilità logica (nuovamente) alla probabilità statistica: la Cassazione civile fa retromarcia”), che operano in modo diverso. La Cassazione 11755/06, per esempio, ha tentato di accorciare le distanze tra la lettura del concetto di chance in sede penale e civile escludendo l’applicabilità del criterio della certezza causale oltre ogni ragionevole dubbio (di cui a Cassazione penale 11 settembre 2002 n. 30328). A valle di questa decisione, il SupreDICEMBRE 2013 SANITÀ n IL DANNO ALLA SALUTE mo collegio operò il definitivo divorzio della causalità in sede civile e penale con Cassazione, sezione III civile, 16 ottobre 2007 n. 21619, sancendo per la prima il criterio del “più probabile che non” quale canone di accertamento causale. Il criterio a oggi stabile in giurisprudenza rimane però (Cassazione, sezione III civile, 14 giugno 2011 n. 12961) quello per cui «in tema di danno alla persona, conseguente a responsabilità medica, integra l’esistenza di un danno risarcibile alla persona l’omissione della diagnosi di un processo morboso terminale, allorché abbia determinato la tardiva esecuzione di un intervento chirurgico, che normalmente sia da praticare per evitare che l’esito definitivo del processo morboso si verifichi anzitempo, prima del suo normale decorso, e risulti inoltre che, per effetto del ritardo, sia andata perduta dal paziente la “chance” di conservare, durante quel decorso, una migliore qualità della vita nonché la “chance” di vivere alcune settimane od alcuni mesi in più, rispetto a quelli poi effettivamente vissuti (Cass. 18/09/2008, n. 23846)». Ne consegue che «quando sia stata fornita la dimostrazione, anche in via presuntiva e di calcolo probabilistico, dell’esistenza di una chance di consecuzione di un vantaggio in relazione ad una determinata situazione giuridica, la perdita di tale chance è risarcibile come danno alla situazione giuridica di cui trattasi indipendentemente dalla dimostrazione che la concreta utilizzazione della chance avrebbe presuntivamente o probabilmente determinato DICEMBRE 2013 la consecuzione del vantaggio, essendo sufficiente anche la sola possibilità di tale consecuzione. La idoneità della chance a determinare presuntivamente o probabilmente ovvero solo possibilmente la detta consecuzione, viceversa, è rilevante, soltanto ai fini della concreta individuazione e quantificazione del danno, da effettuarsi eventualmente in via equitativa, posto che nel primo caso il valore della chance è certamente maggiore che nel secondo e, quindi, lo è il danno per la sua perdita, che, del resto, in presenza di una possibilità potrà anche essere escluso, all’esito di una valutazione in concreto della prossimità della chance rispetto alla consecuzione del risultato e della sua idoneità ad assicurarla.». Sul piano della prova richiesta (Cassazione, sezione I civile, 8 novembre 2011 n. 23240) per il «risarcimento dei danni derivanti dalla perdita di chance, intesa come concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un bene e, dunque, come entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione, è necessario fornire la prova, sebbene in modo presuntivo o secondo un calcolo di probabilità, della realizzazione in concreto di alcuni dei presupposti per il raggiungimento del risultato sperato e precluso dalla condotta illecita di cui il danno risarcibile deve essere immediata e diretta conseguenza». In altri termini, oltre e dopo avere provato il nesso causale tra la condotta e l’evento di danno è necessario dimostrare - anche presuntivamente attraIL SOLE 24 ORE - GUIDA AL DIRITTO verso la prova di alcuni presupposti per il suo raggiungimento - la ragionevole probabilità di verificazione della chance (negata) dall’omissione o errore. Lo stesso Supremo collegio, tuttavia, non appare univocamente orientato sul tema, come di mostrano i numerosi oscillamenti che ancora si riscontrano (ad esempio, le diverse basi ricostruttive del tema rinvenibili in Cassazione, sezione III civile, 9 giugno 2011 n. 12686, 14 giugno 2011 n. 12961, 21 luglio 2011 n. 15991, 18 giugno 2012 n. 9927, 27 novembre 2012 n. 20996, Sezione lavoro, 1˚ marzo 2013 n. 5138, per una disamina delle quali si veda B. Tassone, “Concause, orientamenti recenti e teorie sulla causalità”, in «Danno e responsabilità», 2013, 649). Il consenso e il danno Alla base del risarcimento del danno per assenza del (o carenze nel, che è lo stesso) consenso è ovviamente il bagaglio informativo fornito al paziente perché si autodetermini rispetto al trattamento sanitario. Ciò a mente, ovviamente, del principio secondo cui il consenso non può essere presunto o appoggiato ad informazione carente neppure nei confronti di un medico (Cassazione, sezione III civile, 27 novembre 2012 n. 20984): esso deve concretarsi in un’esplicita manifestazione di volontà conseguenziale a un’adeguata attività informativa e non può mai essere tacito o presunto. Se qualcosa è basato sul regime delle presunzioni è piuttosto che un consenso informato sia stato effettivamente ed esplicitamente dato, PAGINA 49 SANITÀ n IL DANNO DA PERDITA DI “CHANCE” onere probatorio che grava sul convenuto. Coerentemente con sentenza 14 marzo 2006 n. 5444, il Supremo collegio ha statuito che «la responsabilità del sanitario (e di riflesso della struttura per cui egli agisce) per violazione dell’obbligo del consenso informato discende dalla tenuta della condotta omissiva di adempimento dell’obbligo di informazione circa le prevedibili conseguenze del trattamento cui il paziente venga sottoposto e dalla successiva verificazione di un aggravamento delle sue condizioni di salute, mentre è del tutto indifferente se il trattamento sia stato eseguito correttamente o meno». L’apparente linearità del disposto però non fa giustizia dello stato dell’arte. Devono infatti essere distinte ipotesi diverse. Se è scontato il risarcimento del danno ove, per inadempimento del sanitario o della struttura diverso dall’obbligo informativo, questo risulti in un peggioramento della salute del paziente più sottile è il ragionamento ove non vi sia tale contributo specifico ed il “danno” consista in un evento avverso prevedibile (sebbene raro) possibile e non voluto dal professionista. Le voci di danno e gli oneri probatori sono, infatti, diversi. La giurisprudenza non è unanime sulle modalità di risarcimento. In alcuni casi dal vizio del consenso si fa discendere il risarcimento della menomazione della salute che è disceso dalla carenza informativa. Tale danno a volte è liquidato in termini di chance perdute di seguire un percorso diagnostico-terapeutico PAGINA 50 diverso ed altre in termini di vero e proprio danno alla salute. In tali casi condizione necessaria e sufficiente per il risarcimento è ritenuta la compresenza (e la relativa prova in giudizio) di: 1) possibili alternative terapeutiche; 2) la ragionevole probabilità che il paziente correttamente informato le avrebbe scelte; 3) la probabilità che, scelta l’opzione sub 2, l’evento avverso non si sarebbe materializzato. Altri orientamenti giurisprudenziali, invece, trovano (ad esempio, tribunale di Milano, sezione V civile, 20 marzo 2005 n. 3520) nella effettiva concretizzazione del danno biologico una sorta di elemento indiziario della serietà della violazione dell’autodeterminazione e il danno viene quantificato in misura corrispondente a esso. Tuttavia, gli orientamenti che fanno discendere, senza prova effettiva che il paziente avrebbe deciso diversamente sul percorso diagnostico-terapeutico fino ai limiti dell’astensione da ogni percorso, il risarcimento del danno (vuoi del solo danno non patrimoniale per violazione del consenso, vuoi anche dell’eventuale danno alla salute conseguente all’evento avverso materializzatosi) appaiono criticabili laddove aggirano in modo evidente la necessaria dimostrazione di un nesso causale tra condotta ed evento e si rivela un artificio per semplificare la prova del paziente e superare carenze probatorie. Al contrario, consapevoli che il paziente non debitamente informato si IL SOLE 24 ORE - GUIDA AL DIRITTO duole di ciò, ci si avvede che l’ipotesi in cui più correttamente si può parlare di danno da violazione del consenso è l’ipotesi in cui dalla lesione del diritto all’autodeterminazione non discenda né direttamente né indirettamente una lesione della salute. La menomazione della salute, cioè, non è presupposto tecnico necessario della eventuale risarcibilità del danno da violazione del consenso giacché leso è un interesse diverso (quello all’autodeterminazione rispetto ai trattamenti sanitari come garantito dall’articolo 32 della Costituzione). Il danno alla salute può, al massimo e se realizzatosi in concreto, accompagnare la lesione di tale interesse ed essere risarcito in quanto tale secondo le regole generali ma non certo essere utilizzato quale parametro per la liquidazione del primo senza trascendere nell’arbitrio. È il caso, non di scuola, del testimone di Geova trasfuso contro la sua volontà la cui salute è quindi addirittura migliorata, ma la cui libertà sia stata conculcata in tal modo. I danni saranno liquidati ai sensi del combinato disposto degli articoli 1223 e 2056 del Cc nei limiti in cui il danno non patrimoniale lamentato e provato anche in modo presuntivo «si presenti come un effetto normale, secondo il principio della cosiddetta regolarità causale» (Cassazione 9556/02). Il figlio non voluto e malformato Uno dei temi tristemente spinosi in materia di danni è legato ai danni DICEMBRE 2013 SANITÀ n IL DANNO DA NASCITA INDESIDERATA connessi al momento della nascita. In particolare, queste ipotesi sono saldamente connesse alla tematica del consenso informato che permette di apprezzare l’eventuale negligenza dei sanitari sia di comprendere i profili di antigiuridicità della fattispecie. Le ipotesi di danno possono schematicamente distinguersi ai nostri fini in: ● nascita indesiderata perché ad esempio si è confidato in una procedura di sterilizzazione non riuscita; ● nascita indesiderata perché non si è avuta la possibilità di autodeterminarsi con riferimento alle procedure di interruzione della gravidanza previste dalla normativa vigente; ● danno cagionato in occasione del parto per eventuali errori medici o per carenze organizzative. Ciascuna ipotesi tipica presenta poi specificazioni diverse (ad esempio figlio non voluto ma nato sano) connettendo il risarcimento del danno vuoi a carenze sul piano dell’acquisizione del consenso, vuoi sul piano della diligenza nell’adempimento della prestazione. In questa sede possiamo solo occuparci del grande e difficile tema del danno da nascita indesiderata per le problematiche emerse in giurisprudenza e risolte in modo non del tutto convincente nelle sue ultime acquisizioni. Le cosiddette “wrongful birth actions” o “risarcimento del danno da nascita indesiderata” si riferiscono alle richieste di risarcimenDICEMBRE 2013 to dei genitori di bambini nati affetti da patologie congenite o da anomalie cromosomiche non debitamente (come invece possibile) accertate nel corso di una gravidanza per la negligenza dei sanitari intervenuti. La mancata o tardiva diagnosi in tempo utile per consentire alla madre l’eventuale interruzione volontaria della gravidanza si risolve quindi in una nascita “non voluta” la cui complessità è resa particolarmente intricata dal necessario bilanciamento tra la tutela del diritto dotato di copertura costituzionale che sussiste in capo alla madre di autodeterminarsi anche in ambito sanitario, la corretta applicazione della legge 194/1978 che subordina l’interruzione volontaria della gravidanza al ricorrere di specifici presupposti e la tutela della salute del nascituro. Infatti, mentre è sufficientemente pacifico il risarcimento dei danni richiesti dai genitori (con un quasi completo capovolgimento dell’arresto di Cassazione nel caso Jod, Cassazione 6464/94; si veda Cassazione, 1˚ dicembre 1998 n. 12195, in «Danno e Responsabilità», 1999, 522 con nota di Filograna, “Se avessi potuto scegliere...”: la diagnosi prenatale e il diritto all’autodeterminazione.) così non è con riferimento specifico al danno richiesto dal soggetto nato malformato. Con variegate soluzioni giurisprudenziali, oggi i genitori ottengono (in tutto o in parte) il risarcimento del costo di IL SOLE 24 ORE - GUIDA AL DIRITTO mantenimento del pargolo inatteso e i danni non patrimoniali da essi sofferti anche nelle ipotesi di bimbo nato sano. Le ricostruzioni teoriche su cui si basa il risultato sono variate nel tempo, ma oggi fondamentalmente ricondotte all’inadempimento del contratto (relativo, ad esempio, alla sterilizzazione evidentemente non riuscita) o all’obbligo informativo (di astenersi da rapporti non protetti per un certo periodo di tempo a valle di un intervento di vasectomia, ad esempio). Ancora, se è lineare il risarcimento del danno al nato menomato nella sua integrità psicofisica a causa di un errore medico o di una carenza organizzativa che ne abbia materialmente e giuridicamente causato la menomazione, così non è in quelle ipotesi in cui tale nesso causale non vi sia, ma l’itinerario di fattori umani e naturali si presenti più complesso. I casi assai noti presentatisi sono, ad esempio, quelli di una rosolia non diagnosticata alla madre che causi menomazioni al feto o di una malformazione genetica congenita non diagnosticata (ove invece possibile). Queste ipotesi sono naturalisticamente accomunate dal fatto che l’alternativa alla nascita menomati era la non nascita e dall’assenza, appunto, di un nesso di causalità materiale tra la condotta inadempiente (errata/omessa diagnosi o carente informazione) e la menomazione in PAGINA 51 SANITÀ quanto tale. A causare la menomazione è la rosolia o il difetto genetico, non certo la carenza di informazione o la mancata diagnosi della malformazione. Queste ultime, semmai avrebbero solo impedito l’esercizio eventuale del diritto a interrompere la gravidanza al presentarsi dei presupposti di legge. Pur tuttavia, la giurisprudenza è usa a riconoscere il danno e il nesso causale ritenendo che la «omessa rilevazione, da parte del medico specialista, della presenza di gravi malformazioni nel feto, e la correlativa mancata comunicazione di tale dato alla gestante, deve ritenersi circostanza idonea a porsi in rapporto di causalità con il mancato esercizio, da parte della donna, della facoltà di interrompere la gravidanza, in quanto deve ritenersi rispondente ad un criterio di regolarità causale che la donna, ove adeguatamente è tempestivamente informata della presenza di una malformazione atta ad incidere sulla estrinsecazione della personalità del nascituro, preferisca non portare a termine la gravidanza» (così Cassazione, 4 gennaio 2010 n. 13, in «Responsabilità civile e previdenza», 2010, 1027 con nota di Fortino M., “La prevedibile resurrezione del danno esistenziale”; ma si veda anche prima allo stesso modo, più risalenti nel tempo, Cassazione, 21 giugno 2004 n. 11488, in «Nuova Giur. Civ. Comm.», 2005, 552, con nota di Pasquinelli C., “La prova della colpa nella responsabilità medica e l’accertamento del nesso causale per i danni da nascita indesiderata” e Cassazione, 10 maggio 2002 n. 6735, ivi, 2003, 1, 619, con nota di De Matteis R., “La responsabilità medica per omessa diagnosi prenatale: interessi protetti e danni risarcibili”). Si noti però che, con sentenza ancora isolata, in un suo recente intervento sul tema (Cassazione, 16754/12), la Corte va ben oltre l’orientamento che, una volta verificata la ricorrenza dei presupposti legali per l’accesso all’interruzione PAGINA 52 della gravidanza, assumeva alla stregua dell’id quod plerumque accidit che una se donna consapevole di tali diagnosi di malformazioni si sarebbe risolta all’interruzione stessa permettendo il loro risarcimento del danno. La sentenza 2 ottobre 2012 n. 16754, infatti, per la prima volta presume dalla generica richiesta di informazioni intese eventualmente all’esercizio dell’interruzione che, ove debitamente informata, nella madre sarebbero insorti i presupposti (sanitari) per l’interruzione della gravidanza e che questa avrebbe esercitato tale scelta. Concentrandoci ora sulle pretese risarcitorie del nato malformato in queste specifiche ipotesi va rilevato che la giurisprudenza di Cassazione ebbe a esprimersi in modo negativo con sentenza 14488/04 (in «Nuova giur. civ. comm.», 2005, I, 433, con nota di Palmerini, “La vita come danno? No.., Sì.., Dipende”) con soluzione diametralmente opposta al francese arrêt Perruche del 27 novembre 2001) escludendo l’esistenza nel nostro ordinamento di un «diritto a non nascere se non sano». In apparenza, il panorama cambiava nel 2009 quando la Corte di cassazione, con decisione n. 10741, era nuovamente investita del tema della risarcibilità in proprio del nascituro (la si legga con commento e materiali su www.osservatoriodannoallapersona.org). Gli ermellini, in questo caso, argomentarono: «il principio di diritto secondo il quale, stante la soggettività giuridica del concepito, al suo diritto a nascere sano corrisponde l’obbligo dei sanitari di risarcirlo (diritto al risarcimento condizionato, quanto alla titolarità, all’evento nascita ex art. 1 c.c., comma 2, ed azionabile dagli esercenti la potestà) per mancata osservanza sia del dovere di una corretta informazione (ai fini del consenso informato) in ordine ai possibili rischi teratogeni conseguenti alla terapia prescritta alla madre (e ciò in quanto il rapporto instaurato dalla madre con i sanitari IL SOLE 24 ORE - GUIDA AL DIRITTO produce effetti protettivi nei confronti del nascituro), sia del dovere di somministrare farmaci non dannosi per il nascituro stesso». In continuità con l’arresto del 2004 e con la decisione 6735/02 che aveva esteso la risarcibilità dei danni anche al padre, il Collegio del 2009 precisò incidentalmente che tale diritto al risarcimento sarebbe venuto meno ove il consenso informato attinente al rischio di malformazioni fosse stato esclusivamente finalizzato all’interruzione della gravidanza. Nel suo più recente intervento sul tema, la Suprema corte (2 ottobre 2012 n. 16754, in «Danno e Responsabilità», con nota di S. Cacace) ha ritenuto che «la domanda risarcitoria avanzata personalmente dal bambino malformato trovi il suo fondamento negli artt. 2, 3, 29, 30 e 32 Cost.» per arrivare a concludere «che l’interesse giuridicamente protetto, del quale viene richiesta tutela da parte del minore ai sensi degli articoli della Carta fondamentale dianzi citati, è quello che gli consente di alleviare, sul piano risarcitorio, la propria condizione di vita, destinata a una non del tutto libera estrinsecazione secondo gli auspici del Costituente: il quale ha identificato l’intangibile essenza della Carta fondamentale nei diritti inviolabili da esercitarsi dall’individuo come singolo e nelle formazioni sociali ove svolgere la propria personalità, nel pieno sviluppo della persona umana, nell’istituzione familiare, nella salute». Nel percorrere gli elementi della fattispecie risarcitoria, il Supremo collegio identifica l’evento di danno nella «individuazione di sintesi della “nascita malformata”, intesa come condizione dinamica dell’esistenza riferita ad un soggetto di diritto attualmente esistente, e non già destinata “a realizzare un suicidio per interposto risarcimento danni”, come pure s’è talvolta opinato.». Sul piano causale, invece, esso procede alla «equiparazione quoad effecta tra la fattispecie dell’errore DICEMBRE 2013 SANITÀ n VIOLAZIONE DELL’OBBLIGO DEL CONSENSO INFORMATO medico che non abbia evitato l’handicap evitabile (l’handicap, si badi, non la nascita handicappata), ovvero che tale handicap abbia cagionato (come nella ipotesi scrutinata dalla sentenza 10741/2009) e l’errore medico che non ha evitato (o ha concorso a non evitare) la nascita malformata (evitabile, senza l’errore diagnostico, in conseguenza della facoltà di scelta della gestante derivante da una espressa disposizione di legge). Facoltà il cui esercizio la gestante aveva, nella specie, espressamente dichiarato di voler esercitare, donde l’evidente paralogismo che si cela nella motivazione della corte territoriale nel momento in cui onera la odierna ricorrente dell’incombente di provare quello che risultava già provato ed acquisito agli atti del processo». Nelle riflessioni dell’estensore, quindi, sarebbe sufficiente che la madre abbia indicato la volontà (generica?) di interrompere la gravidanza ai sensi di legge in caso di diagnosi di malformazioni per ritenere provato presuntivamente il nesso causale tra l’errata informazione e il mancato evento (interruttivo) che ha permesso la nascita di un bimbo malformato. E invero, nel caso di specie risultava acclarato che «la gestante avesse espressamente richiesto un accertamento medico-diagnostico per esser resa partecipe delle eventuali malformazioni genetiDICEMBRE 2013 che del feto, così da poter interrompere la gravidanza». Il Collegio, nel caso in questione, stabilisce quindi il principio per cui «la responsabilità sanitaria per omessa diagnosi di malformazioni fetali e conseguente nascita indesiderata va estesa, oltre che nei confronti della madre nella qualità di parte contrattuale (ovvero di un rapporto da contatto sociale qualificato), anche al padre (come già affermato da Cass. n. 14488/2004 e prima ancora da Cass. n. 6735/2002), nonché, a giudizio del collegio, alla stregua dello stesso principio di diritto posto a presidio del riconoscimento di un diritto risarcitorio autonomo in capo al padre stesso, ai fratelli e alle sorelle del neonato, che rientrano a pieno titolo tra i soggetti protetti dal rapporto intercorrente tra il medico e la gestante, nei cui confronti la prestazione è dovuta». Una rondine, per quanto autorevole, non fa primavera, ma è indubbio che il tema della risarcibilità dei danni al nascituro nato è quanto mai al centro del dibattito e della riflessione giurisprudenziale e dottrinaria. E infatti, tornando sul tema della ripartizione dell’onere probatorio, in queste ipotesi il Supremo collegio (Cassazione, sezione III civile, 22 marzo 2013 n. 7269, pubblicata in www.osservatoriodannoallapersona.org, con nota di S. Cacace, “Nascita indesiderata: il nesso cauIL SOLE 24 ORE - GUIDA AL DIRITTO sale e la sua prova”) ha confermato il principio secondo cui è sempre onere della parte attrice allegare e dimostrare che, se fosse stata informata delle malformazioni del concepito, avrebbe interrotto la gravidanza. La mera richiesta di accertamenti volti a tal fine viene correttamente ricondotto a elemento indiziario di una volontà che è necessario suffragare altrimenti in termini di necessaria gravità e univocità. Consenso non chiaro, danno e chirurgia estetica Qualche peculiarità specifica è presente anche nella prova e liquidazione del danno nelle ipotesi legate alla chirurgia estetica, giacché si tratta di ipotesi di intervento sovente non necessitati da patologie cliniche e la rappresentazione del “risultato” ottenibile assieme a una chiara enucleazione dei rischi di evento avverso riceve un più stretto scrutinio da parte delle Corti. Sul piano della liquidazione, poi, assumono un rilievo importante i risvolti psicologici soggettivi della menomazione, sia per il fatto che motivazioni di tale ordine possibilmente sostenevano la richiesta di intervento a monte, sia perché spesso il profilo soggettivo è quello di maggiore impatto economico una volta realizzatasi la menomazione. In questa prospettiva, la personalizzazione del danno assume una centralità degna di nota specifica. n PAGINA 53