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Questo elaborato propone alcune riflessioni sulla necessità urgente di un nuovo paradigma educativo, mediante la re-organizzazione delle scienze della conoscenza, scienze in parole di Morin, “disgiunte e frazionate, inadeguate ad affrontare problemi che richiedono oggi approcci multidisciplinari”. La sfida: affrontare i nuovi problemi di una convivenza planetaria, attraverso le connessioni del pensiero ecologico, in questo studio asse centrale delle cosmovisioni e della Sapienza ancestrale dei Popoli di AbyaYala (America Latina). Popoli in cui la Vita come orizzonte di Armonia ed Equilibrio si concretizza in pratiche di Vita Quotidiana grazie ad una Pedagogia del BuenVivir, inclusiva e partecipativa, rispettosa della diversità biologica e delle differenze culturali, nonché della Sacralità della Terra e della Vita in tutte le sue manifestazioni. La cornice teorica considerata fa riferimento in modo particolare a: L’Ecologia della Mente (Bateson); Il problematicismo Pedagogico e l’Educazione alla Progettualità Esistenziale (G.M.Bertin, Contini); l’Ecologia dei Saperi e le Epistemologie del Sud (Boaventura di Sousa Santos, sociologo portoghese), in modo da tessere ponti di dialogo fra le diverse discipline, in particolare fra la pedagogia, la geografia, l’antropologia, la filosofia, la sociologia, la letteratura, il diritto e anche con le neuroscienze

Alma Mater Studiorum Università di Bologna DOTTORATO DI RICERCA IN PEDAGOGIA Ciclo XXV Settore Concorsuale di afferenza: 11 /D1 Settore Scientifico disciplinare: M-PED-01 OLTRE OCEANO: ALTRI ORIZZONTI DEL POSSIBILE Epistemologie di Abya Yala e Progettualità Esistenziale Presentata da: Yolanda Parra Coordinatore Dottorato Relatore Prof.ssa Emma Beseghi Prof.ssa Mariagrazia Contini Esame finale anno 2013 1 INTRODUZIONE “L’alternativa è ineluttabile: o l’umanità entra in una nuova fase che potremmo definire post - storica e rappresenta una mutazione dello stesso essere umano, o una minoranza della specie ominide farà esplodere il pianeta provocando un aborto cosmico che viola le viscere della terra e lo schiudersi della vita.”1 “PENSATORIOS2” Serendipità è un curioso termine di grande ricchezza espressiva e non compare ancora nel dizionario della Reale Accademia della lingua spagnola. Nonostante, Manuel Seco nel suo noto Diccionario del Español Actual3, indica come serendipidad “ la facoltà di fare una scoperta fortunata in maniera accidentale” La storia “Il regno di Seréndip” è citata in un’antica e molto conosciuta opera letteraria: La storia di Simbad e “le mille e una notte”. Questo concetto è arrivato in occidente nel 1754, quando lo scrittore inglese HoraceWalpole, in uno dei suoi viaggi in Asia, ascolta il racconto rimanendone incantato. Come Walpole, in uno dei miei tanti viaggi, intraprendo una strada diversa, cercando di scoprire “Oltre Oceano, altri orizzonti pedagogici possibili” nei vasti Territori dell’Abya Yala4. Comincio all’Università di Bologna in Italia, passando per la Colombia e la Bolivia, per arrivare poi allo Stato del Chiapas in Messico e da lì di nuovo all’immensità del Sud. In questo percorso faccio scoperte tanto fortunate quanto inaspettate. “l’Educazione Interculturale Bilingue” Scopro che è rivolta in America Latina soltanto ai popoli indigeni e contiene alcuni degli aspetti che hanno orientato fino ad oggi in Italia l’educazione rivolta ai migranti, soprattutto per quanto riguarda le istituzioni e il mondo dell’associazionismo. Scopro che la figura italiana chiamata “mediatrice culturale”, in alcuni 1 Pannikkar, R, La religione, Il Mondo e il Corpo, (Carrara P., Milena a cura di) Jaca Book, Milano 2010, p. 69 Termine coniato da Berito Cubarwa, capo spirituale del popolo U’wa in Colombia, che facendo uso di un castigliano incorretto, in quanto ritenuto “analfabeta” (nonostante la sua saggezza millenaria) fa riferimento all’esercizio di metariflessività che connette spiritualità, politica, ecologia ed economia nei processi di decisione della Comunità. 3 SECO, Manuel; Ramos, Gabino; Andrès, Olimpia. Diccionario del Español Actual. Madrid: Aguilar, 1999. 2 vol, p. 4.600 4 López Hernández, Miguel Ángel, Encuentros en los senderos de Abya Yala. 1ª edición, Abya Yala. Quito, Ecuador,2004. “Abya Yala è il nome dato al continente americano dal popolo Kuna di Panama e Colombia, prima dell’arrivo di Cristoforo Colombo e gli europei Letteralmente significa “Terra piena in maturità o Terra di sangue vitale” 2 2 Popoli Originari della Colombia venne chiamata “Tejedora de mundos” (Tessitrice di mondi ). Questa scoperta, in particolare, ha avuto un ruolo fondamentale nella mia scelta e nel cambio di percorso formativo. Sono state le lunghe conversazioni con un anziano Maestro, saggio e scienziato della vita5, che mi hanno permesso di capire che il compito di Tessere i Mondi , è una cosa assai difficile da spiegare ma ancora più difficile da realizzare. Questa “missione”, mi ha detto Berito, ha a che fare con la disponibilità ad imparare. Si nutre del rispetto e del mutuo riconoscimento del diritto alla Vita di tutte le creature viventi che abitano il pianeta Terra. Deve permettere di dialogare con mille lingue diverse anche se non si possiedono grammatiche o dizionari, perchè i significati di queste lingue sono trasmessi dagli spiriti guida che ci accompagnano sempre, sono scritte nei sentieri, nelle stelle, nel cielo, nelle grotte, nelle montagne e nelle pietre. Dalla definizione di questa missione comincia la mia scoperta inattesa. Così nell’andirivieni sono stata costretta a disimparare tante cose per riuscire a sommergermi nel cuore di questi nuovi mondi. Mondi fino ad allora ignorati. Mondi che mi hanno permesso di sentire quel risveglio di coscienza, facendo affiorare quella forma del “K’anel” e del “Ch’ulel, di cui mi parlò Manuel Bolom6 nella nostra prima intervista e che con semplicità e saggezza descrive nel suo libro7. È stato grazie alla profonda essenza che Berito mi ha trasmesso sulla difficile mansione di “Tessere i Mondi” che ho imparato, nella lontananza, a riconoscermi in tanti mondi. Ho sentito più vicine le ingiustizie, i massacri che colpiscono tanti luoghi apparentemente lontani: Colombia, Somalia, Etiopia, Libia, Congo, Camerun, Afganistan, Palestina e tanti altri dimenticati o cancellati dalla geopolitica contemporanea. Ho sentito anche tristezza e rabbia per l’agonia esistenziale di tante creature umane che in questa società corrono dietro alla “felicità in bottiglia” e deambulano per le strade con il sorriso svanito e i sogni spenti. “ Un fiume straripato di morti, ingiustizie e visi spenti. Alterato l’ordine universale e stravolta l’armonia cosmica” - dicono le anziane sagge –8 5 Berito Cubarwa, Autorità spirituale del popolo U’wa con cui ho intrattenuto conversazioni durante le mie visite al territorio U’wa fra l’anno 2000 e 2006 e un’ultima intervista nel maggio 2012 6 Manuel è Tsotsil, parla e scrive la lingua tsotsil. È laureato in Psicologia Sociale e docente dell’Università Intercultural di Chiapas. (UNICH) 7 Bolom Pale, Manuel, K’anel. Funciones y representaciones sociales en Huixtàn Chiapas, San Cristobal de las Casas, SNAJTZ’IBAJOM Cultura de los Indios Mayas A.C, Chiapas 2010. 8 Tratto dai “pensatorios” con Berito Cubarwa e altre anziane e anziani durante una mia visita in territorio U’WA -Cubarà Boyacà – Colombia. Anno 2006 3 Così ho imparato a scrivere, a scrivere in italiano, non soltanto per sentirmi “integrata”, ma per lasciar uscire le parole dell’anima e con loro gli insegnamenti di tante donne e uomini sagge e saggi con chi ho avuto la gioia di condividere quello che ho voluto chiamare “Filosofie della Terra per una Pedagogia della Vita.” Questi saperi condivisi mi hanno “gettata” in un processo di riflessività profonda, donandomi la gioia di un incontro con me stessa. Un risveglio, direi, dopo aver passato vent’anni sommersa in una società che s’impegna a produrre esseri umani “frantumati”, spenti, consumisti, indifferenti, egoisti e incoscienti. All’improvviso, come figure di bruma sottile, ritornano alla mente bellissime creature vestite di farfalle gialle come all’epoca della grande Bakatà9. Ora “Farfalle gialle” dalle identità frammentate. Farfalle appartenenti tutte ad un universo femminile che aprendo l’armadio dei loro ricordi urlano al mondo i sogni sparpagliati per le strade, raccontando storie che ricordano, che feriscono, che curano. Sono state molte le notti in bianco attraverso le quali tanti viaggi sono stati possibili. Viaggi per cercare di scoprire dove fosse quel filo sospeso nei respiri infiniti del nulla. Magari – pensavo – sarà quel filo invisibile il motivo di questa voragine di esseri in movimento, esseri che fuggono e arrivano altrove. Esseri che nel mio mosaico conformavano questo mondo variopinto di cui io stessa facevo parte. Esseri che mi trasportavano come in un film dal Marocco alla Palestina, dalla Polonia all’India, dal Senegal alla Colombia, al Perù, all’Ecuador, alla Bolivia o al Messico. È allora che un viaggio di ritorno in Colombia nel 1998 mi ha aperto nuove strade: nuovi sentieri mi permisero di camminare lungo una storia fino ad allora sconosciuta: i sentieri del sapere dei Popoli Originari di quella Colombia cancellata dai libri di storia con cui ero cresciuta. Con quest’esperienza scopro il dono del “Ch’ulel”10 e, riconoscendomi “meticcia”, comprendo la grande sfida di educare una figlia di due mondi. Questo risveglio è stato accompagnato da paure e incertezze, ma sono state proprio le paure e le incertezze ad alimentare il mio impegno e la mia tenacia per educare, curare e far crescere questa nuova creatura dell’umanità. Mi sono chiesta, allora, quali potrebbero essere i modi, gli scenari per riuscire a educare una figlia portatrice di quello che gli studiosi contemporanei chiamano “identità plurale”. È stato questo il motivo per tornare a frequentare l’Università a Bologna, questa volta alla facoltà di 9 Bogotà, in lingua Muisca. “Risveglio della coscienza” Interpretazione di Manuel Bolom nel suo libro K’anel. La traduzione è mia responsabilità. 10 4 Sociologia. Per l’urgente necessità di approfondire le sfide della società contemporanea in un contesto dove le frontiere scompaiono e l’aria non riconosce più il profumo della Terra. Una volta finita questa tappa formativa, davanti alla complessità dei mondi in movimento, mi assale l’urgente necessità di assumere un impegno etico nella costruzione di una coscienza planetaria di rispetto per la differenza ( nel senso forte del problematicismo pedagogico), ma sopratutto di rispetto per la Vita in tutte le sue forme e manifestazioni. Questo richiamo, mi porta ad intraprendere una nuova tappa formativa: il dottorato in Pedagogia preso il Dipartimento di Scienze dell’Educazione all’Università di Bologna. In questa occasione la domanda è stata: “come risvegliare e costruire coscienze per curare l’esistenza non solo di mia figlia e di mio figlio, ma dell’intera umanità?” Non ero ancora a conoscenza del pensiero sviluppato dalla Scuola del Problematicismo Pedagogico, ma grazie ad esso sono arrivata a questo nuovo percorso, esistenziale forte e piena consapevolezza con un peso dell’urgenza di assumere un impegno etico importante, trovando proprio nelle fondamenta dell’educazione alla progettualità esistenziale alcune delle risposte che fino ad allora non avevo ancora individuato in altre discipline. Trovare l’ascolto e la guida della Professoressa Mariagrazia Contini e del Professore Antonio Genovese, è stata la prima porta aperta a questi “altri orizzonti del possibile”. Ringrazio loro che hanno accompagnato questo Grande Viaggio “Oltre Oceano” durato quasi tre anni. Un viaggio compiuto con la speranza profonda di scoprire e capire fra le trame di quella filosofia che incarna la “Saggezza Ancestrale della Terra” i capisaldi di quello che nello Stato Plurinazionale della Bolivia si consolida come “Buen Vivir”, “Sumak Kawsay” per il Popolo Quechua, “Suma Qamaña” per il Popolo Aymara, “Teko Kavi” per il Popolo Guaranì; Lekil Kuxlejal (Vita buona), per i popoli Tsotsil e Tseltal nello Stato di Chiapas in Messico, o il Kajkrasa Ruyina del popolo U’wa che in Colombia difende il petrolio come “Ruirìa”: Sangue della Madre Terra. L’ipotesi di partenza è stata, da una parte, il problema che affronta la “cultura occidentale”, in un momento epocale importante, considerata l’elevata presenza di uomini, donne, giovani e minori provenienti da diversi luoghi, fenomeno che dovrebbe portare a prendere in considerazione le migrazioni, i contesti e le cause in cui esse hanno origini: guerre, cambio climatico, carestie, ma anche i “mediorami”11 , in parole di Appadurai, prodotti dalla nuova economia culturale che portano milioni di esseri dietro all’anelato sogno americano o europeo, inseguendo il mito del “benessere e dello sviluppo12”. 11 Arjun, Appadurai, Modernità in polvere, Roma, Meltemi. Roma 200, p. 52 Ivi, p. 56 “I Mediorami, non importa se prodotti da centri d’interesse privato o statale, tendono ad essere rendiconti, incentrati sulle immagini e basati sulla narrazione, di porzioni di realtà e quel che offrono a coloro che li utilizzano e 12 5 Dall’altra , mi spinge la necessità urgente di ripensare le scienze della conoscenza, ad oggi “disgiunte e frazionate, inadeguate ad affrontare problemi che richiedono approcci multidisciplinari”13. Situazioni, entrambe, che richiamano ad un impegno pedagogico volto ad un’educazione interculturale in grado di rispondere alle necessità educative di un’Italia oggi abitata da esseri provenienti da mondi lontani che hanno portato nelle loro valigie “altri orizzonti del possibile”, ma soprattutto, ad un’educazione alla Progettualità Esistenziale essenziale per ricostruire le fondamenta di una società in crisi e proporre un’alternativa al modello economico attuale che non favorisce l’equilibrio fra gli esseri viventi e la Natura. La sfida: leggere la problematicità di una convivenza planetaria, attraverso il tessuto delle relazioni d’interdipendenza di cui danno conto le nuove teorie della conoscenza: il Problematicismo Pedagogico (Bertin), l’Approccio ecologico (Bateson), l’Ecologia dei Saperi (Boaventura De Sousa Santos). Teorie intrecciate, già esistenti nella saggezza ancestrale della Vita Comunitaria14 e quotidiana dei Popoli presi in considerazione e che in questo studio costituiscono i capisaldi sui quali si fonda la mia proposta. La scelta di andare “oltre” ha l’intenzione di apprendere le forme di costruzione e di trasmissione della conoscenza di Popoli che sono riusciti a mantenere pratiche di vita in Comunità; a conservare come pilastri della loro Pedagogia l’equilibrio fra gli esseri viventi (il mondo delle Creature in linguaggio Batesoniano) e a nutrire la convivenza armonica fra le differenze culturali, con l’obbiettivo che possano rappresentare un paradigma degno di essere considerato. Le pagine che formano questo elaborato prendono in considerazione pratiche di Vita Quotidiana di quattordici Popoli Originari incontrati negli otto Stati Nazione di seguito elencati: Guatemala, Popolo Maya Kich’è; Messico, Popoli Tsotsil e Tseltal nello Stato del Chiapas. Popolo Wirarica (Huichol) nello Stato di Jalisco; Colombia, Popoli U’wa, Wayuu, Kankuamo e Kogui; Venezuela, Popolo Wayuu, nello Stato del Zulia; Perù, Popolo Quechua, nella regione di Cuzco; Stato Plurinazionale della Bolivia, Popoli Quechua, Aymara, Kallawaya; Argentina, Popoli Kolla e Guaranì, nella Provincia di Jujuy; Uruguay, Popolo Charrùa. modificano è una serie di elementi (come personaggi, trame e forme testuali) con i quali è possibile dar forma a sceneggiature di vite immaginate. Vite degli spettatori stessi ma anche di altri che vivono altrove. Queste sceneggiature possono essere disaggregate ( e di fatto lo sono) in insiemi complessi di metafore per mezzo di cui la gente vive e aiutano a costituire narrazioni dell’Altro e narrazioni germinali di vite possibili, fantasie che potrebbero diventare premesse al desiderio di acquisizione e movimento” 13 Morin, Edgar, La Testa ben fatta, Rafaello Cortina, Milano, 2000. Quarto di copertina 14 Il concetto di Comunità in questo scritto vuole significare l’Unità sociale, economica, politica e spirituale dove si ri-crea la vita quotidiana dei popoli presi in considerazione. 6 La cornice teorica considerata lungo il percorso cerca di privilegiare un’approccio interdisciplinare in modo da tessere ponti di dialogo fra le diverse discipline, in particolare fra la pedagogia, la geografia, l’antropologia, la filosofia, la sociologia, la letteratura, il diritto e, in modo meno approfondito, anche con le neuroscienze, con uno specifico riferimento a: i) L’Ecologia della Mente: inserire Bateson è stata una scelta importante, nel tentativo di rendere comprensibili, in linguaggio pedagogico, l’intreccio di quel “ConoSCentire” accennato nel capitolo Zero nonché la dimensione della sacralità nelle relazioni “Esseriviventi-Cosmo”. ii) Il Problematicismo Pedagogico e l’Educazione alla Progettualità Esistenziale: avvicinarmi alla formulazione di una Pedagogia del “Buen Vivir” che possa connettere il “ConoSCentire” dei Popoli Originari con l’educazione alla progettualità esistenziale è forse l’obiettivo più importante di tutto questo percorso. iii) L’Ecologia dei Saperi e le Epistemologie del Sud: considerando la complessità dei diversi scenari che, in questo vasto Territorio dell’Abya Yala, compongono il mosaico delle Autonomie e dei Movimenti dei Popoli Originari, ho preso in considerazione uno degli intellettuali contemporanei, considerato dal mondo accademico e dai movimenti sociali in America Latina come la persona più autorevole in materia di interculturalità: Boaventura di Sousa Santos, sociologo portoghese. I Capitoli sono strutturati a partire del Capitolo Zero. “Oltre Oceano, andando “Oltre”. Questo capitolo spiega gli aspetti più importanti della metodologia utilizzata fra cui: la ricerca etnografica, alcuni elementi della “Ricerca-Azione-Partecipazione” del sociologo colombiano Orlando Fals Borda, nonché aspetti dell’ “Etnografia in collaborazione” dell’antropologa statunitense Anne Rappaport, per arrivare alla “Metodologia della Chakana15”, appresa dal gruppo di lavoro “Kawsay” a Cochabamba, attraverso la quale si tessono i diversi capitoli. Tutta l’analisi viene eseguita avendo come filo conduttore la complessa dimensione “TerritorioCorpoMemoria”, dimensione, appunto, attraverso cui i Popoli costruiscono, custodiscono e trasmettono la loro saggezza ancestrale. Inoltre, in questo capitolo, si presenta la creazione del termine “ConoSCentire”, nel tentativo di rendere comprensibili l’intreccio delle esperienze presentate nonché la complessità dei mondi in esse contenuti. Il lavoro di campo è rappresentato dalle 74 interviste realizzate e dai diversi laboratori con docenti indigeni e non, studenti e donne delle diverse Comunità all’interno dei Popoli sopra elencati. È da sottolineare che di queste interviste, 25 sono frutto dei “conversatorios” con testimoni privilegiati, considerati tali per il loro ruolo di 15 Cerruto A. Leonel, Quiroz Q. Irma, Ramos H. Beatriz, Saaresranta Tina, Rocha T. Josè A., Metodologia Propria. Educaciòn Diferente, Kawsay, Cochabamba 2005. 7 coinvolgimento, militanza e partecipazione nella vita Comunitaria, fra cui: Anziani Saggi, Autorità politiche e spirituali di alcune Comunità, donne che hanno dedicato la loro vita alla lotta e ri-costituzione della memoria storica dei Popoli, giovani che anche avendo una laurea universitaria continuano a far parte dei processi Comunitari, docenti indigeni, e non, con formazione a livello di dottorato, coinvolti nei processi educativi sia a livello delle Popolazioni stesse che a livello accademico, nonché alcune persone con ruoli socialmente rilevanti, fra cui il sacerdote del municipio di Huixtàn nello Stato del Chiapas, Sor Èlsida Jerez, direttrice dell “Internado Kogui” (collegio) di San Antonio della Sierra in territorio Kogui (Colombia) e il Viceministro di Decolonizzazione dello Stato Plurinazionale della Bolivia. L’intero elaborato presenta un lavoro di traduzione linguistica a diversi livelli: dalle lingue originarie al castigliano e da questo all’italiano. Inoltre, considerando l’importanza del linguaggio simbolico nei contesti in cui le esperienze qui narrate sono avvenute, la presentazione in cartaceo è stata arricchita da alcune fotografie e l’elaborazione di un sito web contenente i registri audiovisivi elencati nella videografia, i quali possono essere consultati al link www.youtube.com /IyaraAbyaYala/Espistemologìas desde el Sur. Capitolo Primo, “Ecologia dello Spirito e Filosofie della Terra per una Pedagogia del Buen Vivir”, presenta la Cosmovisione e i principi fondamentali nella costruzione del “Buen Vivir”, specificamente per quanto riguarda: il “ Lekil Kuxlejal”, per i popoli Tsotsil e Tseltal nello Stato del Chiapas (Messico); il “Sumak Kawsay” per il Popolo Quechua nello Stato Plurinazionale della Bolivia e il “Kajkrasa Ruyina” per il popolo U’wa della Colombia; nonché alcuni punti sulla costruzione e trasmissione della conoscenza del popolo Wayuu della Colombia. L’intero capitolo centra l’attenzione su uno degli elementi cardine della Pedagogia del Buen Vivir: la sacralità della natura e la relazione de tutto con le parti e le parti con il tutto. Capitolo Secondo, “La Scuola Nella Vita: Territorio e Comunità. La Grande “Mochila” della Saggezza Ancestrale”. La prima parte di questo capitolo rimanda ad alcune definizioni sui “concetti” di “Territorio” e “Comunità” negli orizzonti di senso che essi rappresentano per i Popoli Originari. La seconda parte si occupa di mettere in relazione, attraverso la “metodologia della Chakana”, la dimensione “TerritorioCorpoMemoria” con i quattro “assi” fondanti della conoscenza dei Popoli delle Ande (Spiritualità, Conoscenza, Lavoro, Organizzazione Sociale) in questa “Aula Magna” (Territorio), dove la Scuola nella Vita come sapere naturale, familiare e comunitario ha la sua genesi e la sua concretezza. Infine, un avvicinamento all’elaborazione di una epistemologia che, considerata in chiave “chakanistica”, mette in relazione i principi che Jacques Delors ha considerato nel 1996 8 come i “quattro pilastri” dell’educazione del secolo XXI: “imparare a conoscere, imparare a fare, imparare a vivere insieme, imparare ad essere”16. In questo accostamento, la Pedagogia del “Buen Vivir” trova la sua essenza nel tentativo di ricucire quella struttura che è stata spezzata, ritrovando quel filo conduttore dove le quattro dimensioni della Pacha (Spazio,Tempo,Contesto/situazione, Esseri Viventi) si possano interconnettere con i quattro principi vitali sopra accennati: Munay, Yachay, Ruway, Atiy. La “struttura che connette”, sia nella cosmovisione Andina che in quella Maya, è rappresentata da quel “centro” ciclico, circolare, complementare e “pariverso”17 nel quale si incontrano le energie cosmiche e telluriche nelle sue due manifestazioni: “negative” e “positive”. Capitolo Terzo, “La Scuola Ufficiale in America Latina fra Strutture Coloniali e Autonomie Indigene”, considera, in una prima parte, certe caratteristiche fondamentali per spiegare il riferimento all’America Latina come “Contenitore”, partendo dai dati forniti dalla CEPAL18 secondo la quale nella regione esistono approssimativamente 642 popoli indigeni, con una popolazione fra 30 e 50 milioni di persone. In seguito vengono presentate quelle strutture che prima della scuola sono riuscite a sgretolare le strutture precoloniali esistenti in lungo e in largo nel continente: in primis, la dominazione attraverso la religione cattolica, seguita dallo sfruttamento dei Territori, due degli elementi che fanno da filo conduttore per analizzare le condizioni in cui nasce la scuola ufficiale nel contesto coloniale. Successivamente, si presenta un breve percorso attraverso le strategie politiche che i diversi governi hanno avviato con la scuola per promuovere il così chiamato processo di “des-indianizaciòn”19, fino ad arrivare alle proposte dell’“Educazione Interculturale Bilingue” e infine le ultime proposte a partire delle Autonomie indigene in materia educativa. Capitolo Quarto. “Saperi intrecciati. Identità Terrestre, Buen Vivir e Progettualità Esistenziale”. Nel mantenere il collegamento con i capitoli precedenti, questo capitolo riprende uno dei punti cardine di questo elaborato: Il “Territorio”. Un Territorio in cui le dimensioni Spirituale, Ecologica, Cognitiva ed Esistenziale si intrecciano. Un Territorio : “Corpo-Spirito-Mente-Mondo”, dove l’Identità Terreste, il Buen Vivir e la Progettualità Esistenziale non solo si manifestano, ma soprattutto si connettono. Il capitolo prosegue attraverso la connessione “Territorio-Corpo”, considerando l’Unità Complementare nella Delors, J., Los cuatro pilares de la educación” en La educación encierra un tesoro. Informe a la UNESCO de la Comisión internacional sobre la educación para el siglo XXI, Madrid, España: Santillana/UNESCO.1996. pp. 91-103. 17 Nella cultura Andina tutto l’esistente ha imprescindibilmente il suo “PARI”. L’origine non è l’unità, ma la “parità”, come ampiamente spiegato nel primo capitolo di questo elaborato. 18 Comisión Económica para América Latina y el Caribe (CEPAL) Organizzazione dipendente delle Nazione Unite ( ONU), responsabile di promuovere lo sviluppo economico e sociale della regione, dossier presentato con data 2006. 19 Parola usata dall’antropologo messicano Bonfil Batalla. 16 9 dimensione Spazio/Tempo in cui le diverse dimensioni dei Mondi si intrecciano all’interno della “Pacha Mama” - Madre Terra. L’analisi continua prendendo in considerazione anche la Geografia nel tentativo di seguire un percorso attraverso il quale individuare alcune connessioni con la condizione esplicita di “Esserci” nel Mondo e le forme attraverso le quali ha preso corpo quello che in questo elaborato viene chiamato “Ecologia dello Spirito”, che si concretizza attraverso l’intreccio “TerritorioCorpoMondo”. In questo orizzonte viene riportata la cosmovisione del Popolo Kogui della Colombia, sia attraverso le parole di don Emilio Cucchiella20, sia con i risultati dei gruppi di lavoro nel processo di elaborazione del “Curriculum etno-educativo” del Popolo Kogui in Colombia. Una seconda parte del capitolo rimanda alla connessione “Territorio/Corpo”, nel tentativo di ri-creare una dimensione dove la “Pedagogia delle emozioni” possa trovare un terreno fertile per il proprio germogliare e per la fioritura di quei “Territori” che possano diventare Unità nella differenza. Si procede, in seguito, verso l’incontro fra la “Pedagogia delle emozioni” e quanto presentato nel libro “Non di solo cervello. Educare alle connessioni mente-corpo-significati-contesti”21. Su questa strada, lo scritto approfondisce uno degli insegnamenti appresi dai Popoli durante la presente esperienza, nel tentativo di aprire la porta di questo dialogo: la Cura della Vita, manifestata attraverso quella “metafora” – che per loro metafora non è - che possa “rendere pensabile il corpo in termini diversi”, appunto, la metafora del “Corpo-Memoria-Territorio” che viene riempiendo di senso queste pagine. Come riporta ancora, fra le tante, la Cosmovisione del Popolo Kogui. In questo dialogo viene considerato particolarmente quanto espresso da Paola Manuzzi in merito all’importanza dell’Ascolto, il senso dell’Ascolto che dobbiamo al nostro Corpo e, nel caso di cui si sono occupate queste pagine, l’Ascolto che dobbiamo alla Natura, che come manifestato nelle pagine sopra per i Kogui – e non solo- è intrinseca al nostro Corpo. La parte finale del capitolo attraversa, mano nella mano con Mariagrazia Contini e con Paola Manuzzi, la dimensione “Territorio-Corpo”, cercando di arrivare a quello che rappresenta il cardine del “problematicismo” dei Popoli Originari, che non è la morte, ma la loro ricerca permanente dell’equilibrio con il Tutto, con “l’Unità Complementare”, destinata a “gestire” le tensioni nel rapporto salute/malattia, con un riguardo particolare alle “malattie sociali”. Pio Emilio Cucchiella, nato a L’Acquila nel 1936, dopo gli studi filosofici e teologici è stato missionario tra le popolazione indigene della penisola Guajira in Colombia. Specializzato in antropologia culturale presso l’Istituto di Antropologia Applicata alla Missione dell’Università Bolivariana (Medellìn-Colombia), ha fondato un centro per la promozione umana e lo sviluppo delle etnie della Sierra Nevada di Santa Martha. 21 Contini Mariagrazia, Fabbri Maurizio, Manuzzi Paola. Non di solo cervello. Educare alle connessioni mente-corposignificati-contesti. Raffaello Cortina, Milano 2006. 20 10 Quindi, l’essenza della loro “Pedagogia della Vita” ricade nel cercare sempre la saggezza necessaria per mantenere l’equilibrio del Cosmo attraverso la spiritualità. Un equilibrio non soltanto per i loro Territori Sacri, ma per tutta l’Umanità. Infine, la traversata nella dimensione “Teritorio-Corpo-Memoria” azzarda una proposta che possa essere integrata nell’educazione alla progettualità esistenziale, facendo tesoro di quella Forza Demonica, dove in questi “Corpi-Territori” possano abitare sia i “cittadini” della “Patria-Madre” di Morin, che le creature viventi della “Madre Terra” dei Popoli Originari. L’accostamento fra i due pensieri fa ricorso alla “Metodologia della Chakana”, come strumento “Ponte” scelto lungo questo elaborato, sintetizzando la proposta nello schema seguente: Munay/Demonismo; Yachay/ConoSCentire, MetaSentire; Rway/EcodiSCiplinarità; Atiy/Impegno Etico; Chawpy/Progettualità Esistenziale. Capitolo Quinto, “Intercultura ed Ecologia dei Saperi. Epistemologìas desde el Sur”. Nel parlare d’intercultura questo capitolo riprende alcune delle considerazioni fatte sul ruolo della “Scuola Ufficiale”, approfondendo il concetto d’intercultura che, così come concepito in Occidente, diventa insufficiente per spiegare le diverse dinamiche sociali, politiche, economiche e culturali in atto oggi in quello che Boaventura De Sousa Santos ha denominato il “Sud Globale”, contesto di cui l’America Latina fa parte. Successivamente si prende in considerazione la proposta del Sociologo portoghese: “L’ecologia dei Saperi” che nella sua portata epistemologica ci porta verso una dimensione politica dell’intercultura andando oltre la definizione di “concetti” o “categorie”. La fine del capitolo viene dedicata agli aspetti più rilevanti della “Sociologia decoloniale” di Boaventura e la connessione con le sei dimensioni Spazio/Tempo da lui esplicitate. Inoltre, si fa particolare attenzione ai modi in cui queste “relazioni di potere” abbiano un’origine privilegiata in contesti di “Spazio-Tempo” ben determinati. È a partire da questa ampia dissertazione sugli “Spazi-Tempi”, in cui si realizzano le relazioni di potere, che viene proposta, attraverso la “metodologia della Chakana”, la “connessione strutturale” con la dimensione “TerritorioCorpoMemoria” come soggetto reale attraverso il quale queste relazioni si subiscono, si costruiscono e si trasformano. Prendendo, così, in considerazione gli importanti contribuiti della proposta di Boaventura, si prova a tessere la “trama epistemologica” che possa far incontrare i due pensieri considerati lungo questo elaborato, accostandoli, sempre attraverso la “Metodologia della Chakana”, secondo la seguente interpretazione: Munay/Mondo Simbolico; Yachay/Ecologia dei Saperi; Ruway/Decolonizzazione-Interdisciplinarità;Atiy/InterpretazioneInter-politica,interpretazione Inter-culturale, Giustizia Sociale, Giustizia Cognitiva. Le pagine finali di questo capitolo 11 riportano l’intervista di Tupac Enrique Acosta, il cui argomento centrale è la “Descolonizaciòn de la Cogniciòn”, parole attraverso le quali sollecita con urgenza la presa di responsabilità nei confronti del pianeta e della Vita. Appendice. “ CorpoTerritrioMemoria.- Prima parte- Spiritualità e Politica fra le donne di Abya Yala”. Verso la fine di questo percorso “chakanistico”, interconnesso dalle quattro dimensioni: spiritualità, conoscenza, economia e politica, si presenta una riflessione che dal profondo dell’essenza femminile, spiega la lotta per il Territorio come la lotta per l’Autonomia delle donne in quanto tessitrici, generatrici, nutrici e custodi della Vita, della Natura e di tutte le creature viventi con cui interagiamo. Esperienze di Vita Quotidiana che, attraverso le loro testimonianze, rendono conto di un impegno etico, sociale e politico rivolto principalmente alle donne, teso a far capire che: la dimensione “Territorio” è un’estensione del proprio Corpo e della propria esistenza come creature viventi; che senza il “Territorio” risulta insufficiente insegnare la “condizione umana” o l’ “identità terrestre” di cui tanto ci ha parlato Morin; che i principi di “Complementarità” e di “Reciprocità”, che regolano le relazioni con l’intero Universo, sono rappresentanti anche dai rapporti complementari fra il maschile e il femminile, due componenti dei cicli vitali e dell’equilibrio umano, sociale e politico (principi, questi, che vanno oltre il famoso principio dell’uguaglianza); che l’Ascolto” , il “Silenzio” e il “Consiglio” , oltre ad essere percorsi di apprendimento e crescita spirituale, sono anche pratiche politiche e non semplice “passività” o negazione della partecipazione delle donne, come ben lo manifesta Francesca Gargallo 22 nel suo libro.23 La parte seconda di quest’appendice, “L’Orto dei Popoli a Bologna: uno spazio urbano di TerritorioCorpoMemoria”, presenta un’esperienza avviata nella primavera / estate 2010, per iniziativa delle Associazioni Kankurwa Kai Kashi24, Fed Fab, altri amici e diversi frequentatori del Centro Interculturale Zonarelli, nell'intenzione di offrire ai cittadini stranieri e italiani un luogo d'incontro, dove il contatto con la terra potesse agire come collante fra le diverse colture e culture. 22 Scrittrice italo – messicana, storica delle idee e filosofa femminista che ha realizzato una vera spedizione per l’America Latina, con l’intenzione di conoscere da vicino le diverse forme di organizzazione e di lotta nonchè il modo in cui il femminismo viene capito fra le donne dei diversi Popoli Originari. 23 Gargallo, Francesca, Feminismos desde Abya Yala. Ideas y proposiciones de las mujeres de 607 pueblos en nuestra América. Editorial: Desde Abajo, colección Pensadoras latinoamericanas, Bogotà 2012. 24 L’ Associazione Kankurwa Kai Kashi è stata creata nel 2009 a Bologna, grazie alla volontà di diverse persone che hanno creduto nella possibilità di promuovere un’educazione interculturale differente da quella dei canoni scolastici. www.kankurwakaikashi.altervista.org. 12 L’Orto dei Popoli, è una proposta collettiva aperta a tutti gli esseri maschili e femminili, di grano e di mais, di quinoa e di cacao, di cuore, carne e ossa, impegnati nel seminare la parola e coltivare il giardino dell'incontro e la diversità. L’Orto dei Popoli, è un luogo rituale, un luogo d’incontro. Infine le conclusioni, “Serpenti, Demoni e Frattali” presentano, a partire dall’arte del Popolo Wirarica del Messico, una traversata lungo il loro territorio sacro e il loro riti, sottolineando la necessità di educare all’Ascolto, nonché a coltivare la capacità di sorprendersi e di meravigliarsi davanti allo sconosciuto. La parte finale riprende le parole di Tupac Enrique Acosta, originario Izkaloteca (Arizona, Nord America), nell’intenzione di richiamare l’attenzione sull’urgenza del proprio impegno etico, invitando, attraverso la metafora della “deportazione volontaria”, a una presa di coscienza a livello individuale in modo che gli umani possano riconnettere la propria memoria con le memorie della Terra, richiamo che si accosta alla capacità delle creature umane di ri-elaborare le proprie esperienze grazie alla plasticità cerebrale, nel tentativo di incidere un nuovo imprinting per il germogliare di una nuova coscienza planetaria. Jallalla25 per una Pedagogìa della Madre Terra !! Murales en el Municipio de Tenejapa – Chiapas – Febbraio 2011 Parola in lingua Aymara che esprime speranza, soddisfazione e ringraziamento per la Vita. Viene utilizzata all’inizio o fine di un atto spirituale. 25 13 CAPITOLO ZERO26 OLTRE OCEANO ANDANDO “OLTRE” IL “CAMPO” E LA METODOLOGIA DELLA RICERCA “Allora, il tratto più stimolante e sapiente dello sconfinare mi sembra la capacità/impegno di attraversare i tratti di congiunzione tra le diverse regioni del mondo e dei saperi, in un gioco continuo di “andata oltre” e di “ritorno entro” i propri confini, per renderli via via più flessibili, dilatabili, interconnettibili 27” Premessa L’ipotesi di partenza è stata, da una parte, il problema che affronta la “cultura occidentale”, in un momento epocale importante, considerata l’elevata presenza di uomini, donne, giovani e minori provenienti da diversi luoghi. Dall’altra, la necessità urgente di ripensare le scienze della conoscenza, ad oggi “disgiunte e frazionate, inadeguate ad affrontare problemi che richiedono approcci multidisciplinari”28. Situazioni, entrambe, che richiamano ad un impegno pedagogico volto ad un’educazione interculturale in grado di rispondere alle necessità educative di un’Italia oggi abitata da esseri provenienti da mondi lontani che hanno portato nelle loro valigie “altri orizzonti del possibile”, ma soprattutto, ad un’educazione alla Progettualità Esistenziale essenziale per ricostruire le fondamenta di una società in crisi e proporre un’alternativa al modello economico attuale che non favorisce l’equilibrio fra gli esseri viventi e la Natura. Per affrontare la sfida di leggere la problematicità di una convivenza planetaria, attraverso il tessuto delle relazioni d’interdipendenza e di connessione di cui danno conto le nuove teorie della conoscenza in occidente: l’Ecologia della Mente (Gegroy Bateson), il Problematicismo Pedagogico(G.M.Bertin e Contini), l‘Ecologia dei Saperi (Boaventura De Sousa Santos) ho pensato che la scelta migliore fosse proprio quella di andare “oltre”, nei territorio dell’ Abya Yala, con l’intenzione di apprendere le forme di costruzione e di “Capitolo Zero” come un invito a riflettere su quelle dimensioni che non riusciamo ad immaginare proprio perche a noi sconosciute. 27 Contini Mariagrazia. “Sconfinamenti”. In Demozzi, Silvia, La struttura che connette. Gegory Bateson in educazione, ETS Pisa 2011, p. 9 28 Morin, Edgar. “La Testa ben fatta”, op, cit. 26 14 trasmissione della conoscenza di Popoli che sono riusciti a mantenere pratiche di vita in Comunità; a conservare come pilastri della loro Pedagogia l’Equilibrio fra gli esseri viventi, (il mondo delle Creature in linguaggio Batesoniano) e a nutrire la convivenza armonica fra le differenze culturali, con l’obiettivo che possa rappresentare un paradigma degno di essere considerato. Alla ricerca quindi di un nuovo paradigma son partita con le valigie piene di quaderni e quaderni, ma con tutte le pagine in bianco alla ricerca di quelli “altri orizzonti del possibile”. Nel redigere queste pagine mi sono quindi immersa fra le diverse cosmo-visioni e le pratiche di trasmissione della conoscenza a livello comunitario, alla ricerca dei saperi e di alcuni elementi comuni a tutti i popoli che mi permettessero collegare in qualche modo i punti del ricamo dell’intero “Huipil”29 Per riuscire a leggere il loro pensiero in chiave occidentale ho fatto ricorso a quell’insieme di pratiche di vita quotidiana che si nutrono della loro saggezza ancestrale e che rappresentano oggi la proposta politica dei governi degli Stati Plurinazionali della Bolivia e dell’Ecuador: “Il Sumak Kawsay” , tradotto approssimativamente in lingua castigliana come “Buen Vivir ”. (Buon Vivere), e che rappresenta quel vecchio paradigma dei Popoli Originari: “Il Paradigma Ecologico e Comunitario”. “Buen Vivir”, che dall’interno di questi popoli chiama alla riflessione planetaria sulla necessità di cambiare rotta verso un nuovo paradigma che possa offrire alternative alle crisi contemporanee, riguardanti sia il modello di sviluppo in atto che l’insieme delle pratiche educative con cui si sono confrontati dall’epoca coloniale ad oggi. Il “Buen Vivir” ha dei significati profondi per ogni popolo e la sua essenza è implicita in ognuna delle parole che lo compongono secondo la loro matrice linguistica. Per esempio: “ Lekil Kuxlejal”, per i popoli Tsotsil e Tseltal nello Stato del Chiapas (Messico); Sumak Kawsay” per il Popolo Quechua, “Suma Qamaña” per il popolo Aymara “Teko Kavi” per il popolo Guaranì nello Stato Plurinazionale della Bolivia e il Kajkrasa Ruyina” per il popolo U’wa che in Colombia difende la “Ruiria” (petrolio) come sangue della Madre Terra. É necessario navigare nelle profonde acque della saggezza degli amawtas30, per riuscire a capire gli universi di senso che il “Sumak Kawsay” comprende: 29 Il “Huipil” è un capo femminile del Centro e del Sud America, confezionato a mano e rappresentativo del processo di trasmissioni dei saperi e del linguaggio che, attraverso il tessuto, è stato usato dalle donne lungo la storia. 30 Gli Amawtas sono i savi indigeni dei popoli Quechua y Aymara. 15   Sumak: pienitudine, sublime, bello, superiore. Kawsay: Vita. Essere stando. Con questa premessa, l’uso dell’espressione: “Buen Vivir”, dall’inizio alla fine di questo elaborato fa riferimento a: “rapporti armonici con l’insieme, con il tutto, con l’universo, con tutti gli esseri viventi e le entità spirituali che lo compongono. Il tutto essenza e spirito di quello che la scienza chiama “medio ambiente” o “rapporto uomo-natura”. Sembrerebbe quasi che le due cose non fossero parte di un’unica essenza. Noi esseri umani, siamo già Natura31”. Questa la cornice teoretica che guida il mio camminare, alla ricerca dei registri di memoria e gli spazi pedagogici dove si è portato avanti, durante 520 anni d’impegno e resistenza, un processo di trasmissione orale della saggezza di quello che in questo elaborato ho chiamato “Filosofie della Terra per una Pedagogia del Buen Vivir” . 0.1 METODOLOGIA Senza perdere di vista l’approccio problematicista, ho appreso dalla accademia occidentale la metodologia della “ricerca etnografica” basata sull’”osservazione partecipante”, su interviste, narrazioni, storie di vita, focus group, laboratori e work shop, mirando a puntare l’attenzione sull’analisi delle forme di trasmissione dei saperi tradizionali, in una prospettiva che possa connettere le pratiche delle “Pedagogie del Buon Vivere” con l’”educazione alla progettualità esistenziale”, interrogandomi sulle modalità che hanno permesso a queste pratiche di sopravvivere nel tempo, dall’epoca coloniale ad oggi. Facendo tesoro della prospettiva critica problematicista e tenendo conto delle molteplici sfide che l’educazione alla progettualità esistenziale implica, la ricerca si propone di studiare stili di vita e pratiche pedagogiche quotidiane, istituzionalizzate e non, che hanno segnato l’esistenza individuale e collettiva di questi Popoli. Inoltre, attraverso lo studio della cosmovisione dei Popoli presi in considerazione, la ricerca intende approfondire i meccanismi tradizionali di accesso alla conoscenza ( l’eredità familiare, il richiamo divino, il bisogno o il vissuto personale), insieme alle pratiche rituali Parte dell’intervista da me realizzata a Leonel Cerruto. Educadotore e Pedagogo, coordinatore del progetto: Universidad Indígena Intercultural Kawsay (UNIK) (Bolivia, Ecuador e Perú). L’intervista è disponibile al link: www.youtube.com /YolandaAbyaYala / Kawsay Metodologìas Proprias /Leonel Cerruto. 31 16 che caratterizzano la trasmissione orale dei saperi, dove la progettualità di un’esistenza in armonia con la natura diviene l’obiettivo centrale del processo educativo sia individuale che comunitario, in modo da presentare alla scelta pedagogica occidentale, un ventaglio di possibilità, di “Orizzonti possibili”, in cui la scelta stessa possa concretizzarsi. In quest’ottica, divenne parte importante del “lavoro sul campo” la raccolta di narrazioni in cui i miti, alla luce dell’incontro tra ermeneutica e fenomenologia, possono dare delle risposte che penetrano nel senso dell’esistenza stessa e dell’ontologia, in un contesto come il Centro e il Sud America dove le culture mantengono vive le loro lingue e le loro tradizioni dopo 520 anni di colonialismo, prima del territorio e poi anche dell’immaginario. In questo contesto, il problema di partenza subisce lungo il camminare del mio percorso una specie di metamorfosi, nel senso che comincio ad individuare che il problema non è soltanto la disgiunzione e la frammentazione a rendere le scienze della conoscenza inadeguate, ma che ci sono dimensioni a cui la “ragione”, almeno la mia “ragione”, non è ancora in grado di rispondere. Per mia fortuna, la scelta di questi “altri orizzonti del possibile” è stata accompagnata anche della scelta di teorie occidentali che hanno sostenuto nella loro essenza l’andare “oltre”. L’ecologia della Mente e il Problematicismo, appunto. É in questa direzione che dopo il mio “spaesamento metodologico” mi ritrovo di nuovo, riprendendo alcune delle loro riflessioni: Da una parte, quel linguaggio delle emozioni, quelle “ragioni del cuore”, espresse da Pascal e riprese da Bateson, che mi permettono di collegarmi a quelle dimensioni dei mondi con cui mi sono trovata ad interagire. “Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce”…(…) “senza dubbio egli(Pascal) pensava alle ragioni del cuore come un insieme di regole di logica e di calcolo altrettanto preciso e complesso che le ragioni della coscienza. …(…) Questi algoritmi del cuore, o, come si dice, dell’inconscio, sono, tuttavia codificati e organizzati in modo affatto diverso dagli algoritmi del linguaggio. E poiché una gran parte del pensiero conscio è strutturata nei termini della logica del linguaggio, gli algoritmi dell’inconscio sono doppiamente inaccessibili. Non si tratta solo del fatto che la mente cosciente ha difficile accesso a questa materia, ma anche che quando tale accesso è ottenuto, ad esempio nei sogni, nell’arte, nella poesia, nella religione, nell’ebbrezza e simili, resta ancora un formidabile problema di traduzione.32” Per connettere l’esperienze e riuscire a rendere leggibile le voci della Natura, e quelle “ragioni del cuore, che la ragione non conosce”, ho voluto creare un “concetto”, un nuovo 32 Bateson, Gregory. Verso Un’ecologia della Mente. Adelphi. Milano. 1976, pp. 177 e 178 17 verbo, un “nome”: “ConoSCentire”. Non vorrei dare a questo nuovo verbo, così senza “trattino” un significato che abbia a che fare con le radici etimologiche che lo potessero identificare o inserire in categorie preconcette. Voglio soltanto attraverso questo “nome” dare contenuto e mettere in relazione le “ragioni del cuore” con “le ragione della ragione”, entrambe “SempreVive” e sempre presenti nelle pratiche di Vita Quotidiana di questi Popoli. Un “ConoSCentire”, molto vicino a quel “SentiPensante” del grande sociologo colombiano Orlando Fals Borda33, la cui origine lui stesso riconosce come creazione della “Cultura Anfibia”, nella regione colombiana di Mompox. A continuazione riporto parte dell’intervista in cui ci spiega la portata di questo concetto: “ Il “sentipensante” che compare nei miei libri, non l’ho inventato io. Questo nasce lì in una delle mangrovie, in un paesino, “ San Benito Abad” vicino a “Jegua”, lì spontaneamente un pescatore con cui andavo, mi ha detto, guardi: “noi in realtà credo che agiamo con il cuore ma allo stesso tempo usiamo la testa, e quando combiniamo le due cose, allora siamo così, siamo “Sentipensantes”. È un concetto così bello, così semplice che di capisce molto bene. Tanto bello che l’ha preso anche Eduardo Galeano. Il “Sentipensante” è diventato un concetto centrale nella sua filosofia letteraria”34 Vorrei avere la possibilità di maturare questo “ConoSCentire” attraverso il percorso che ha portato a Maturana e Varela alla creazione del termine “autopiesi”, cercando un percorso che potesse portare anche me, apprendista dell’arte della “danza di parte interagenti”35, ad affermare che questo “ConoSCentire” è un altra forma dell’”organizzazione circolare dei sistemi viventi”, riprendo in merito le parole di Humberto Maturana, appunto, sull’origine della parola “autopoiesi” “…(…) Lo scrivere questo saggio infatti ebbe spunto da una conversazione che ebbi con Francisco Varela, nella quale egli disse: “Se davvero l’organizzazione circolare è sufficiente per caratterizzare i sistemi viventi come unità, allora si dovrebbe poterla mettere in termini più formali”. Ero d’accordo, ma dissi che una formalizzazione poteva solo venire dopo una descrizione linguistica completa, e subito cominciammo a lavorare a quella descrizione completa. Tuttavia non eravamo contenti circa l’espressione “organizzazione circolare” e 33 Sànchez, A., Ricardo, Rivista Annuario Colombiano di Storia Sociale e della Cultura No.34, Bogotà 2008, p. 497. “Orlando Fals Borda (Barranquilla 1925-Bogotá 2008)è considerato il sociologo colombiano di più grande riconoscimento in America Latina e altri continenti. Fondatore della prima facoltà di Sociologia all’Università Nazionale della Colombia a Bogotà nel 1959. Autore e creatore della conosciuta teoria di ricerca “Investigaciòn Acciòn Participativa (IAP),nel 1968” La traduzione è responsabilità di chi scrive 34 Intervista di “Ricobassilon” consultabile al link: www.youtube.com, Maestro Orlando Fals Borda - Sentipensante. 35 Termine batesoniano ripreso anche da Demozzi, S. In “La struttura che connette. op, cit. p. 21 18 volevamo una parola che da se stessa trasmettesse il tratto caratteristico centrale dell’organizzazione del vivente, che è l’autonomia. Fu in queste circostanze che un giorno mentre parlavo con un amico ( Josè Bulnes) di un suo saggio su don Chisciotte nel quale egli analizzava il dilemma di don Chisciotte se seguire il sentiero delle armi ( praxis, azione) oppure il sentiero delle lettere (poiesis, creazione, produzione), e la sua scelta del sentiero della “praxis” abbandonando ogni tentativo in quello della “poiesis”, capii per la prima volta la forza della parola “poiesis” ed inventai la parola che ci occorreva: “ autopiesis”. Questa era una parola senza una storia, una parola che poteva direttamente significare ciò che aveva luogo nelle dinamiche dell’autonomia propria dei sistemi viventi. Curiosamente, ma non sorprendentemente, l’invenzione di questa parola si dimostrò di grande valore. Semplificava enormemente il compito di parlare dell’organizzazione del vivente senza cadere3nella trappola sempre spalancata di non dire nulla di nuovo perché il linguaggio non lo permette”36 In merito a quanto detto sopra, ritengo doveroso riportare alcuni chiarimenti, riguardo alcuni concetti cardine della “Ricerca etnografica”: Il “metodo”, Il “campo” i “Questionari”, “Il lavoro sul campo”, considerando che anche sebbene abbia accolto i rifermenti teorici della “ricerca etnografica e dell’osservazione partecipante”37, non sono stati soltanto loro a guidare il mio percorso. “ Questa complicata modalità di stare con gli altri, senza però dimenticare il proprio mestiere quindi osservandoli, è ciò che si definisce con una brutta espressione “osservazione partecipante”.38…(…) l’osservazione partecipante diretta sul campo è la sola attendibile fonte di informazione etnografica. L’osservazione partecipante ha prodotto quella specifica modalità di scrittura che è stata ascritta a Malinowsky. Implica che le ricerche siano concentrate su singole popolazioni e che i risultati siano esposti attraverso il modello linguistico - narrativo ella monografia.39” Fin qui, ci son ben due aspetti da considerare. Il primo, non penso che questo elaborato si proponga come una “monografia” ma che abbia ben l’intenzione di andare “oltre”, ovvero, di Maturana, H.R.. Introduzione personale in: Maturana, H.R. e Varela, F.J. “Autopoiesi e cognizione. La realizzazione del vivente”. Marsilio, Venezia 2012, p. 29 e 30. 37 Fabietti, Ugo. Malighetti, R. Matera, V., Dal tribale al globale. Introduzione all’antropologia, Mondadori, Milano 2002, p.61 “ L’origine della moderna tradizione di ricerca etnografica si fa infatti risalire al lavoro di Malinowsky nelle isole Trobriand fra il 1916 e 1918” 38 Ivi, p. 36 39 Ivi, p. 67 36 19 essere un invito a una più profonda riflessione: mettere in dialogo due pensieri nell’intenzione di trovare le connessioni che possano portare alla costruzione di un nuovo paradigma educativo, mettendo in dialogo “l’Ecologia dello Spirito” di cui parlerò nei prossimi capitoli e “l’Ecologia della Mente”di Bateson, con cui mi sono confrontata lungo questo percorso. Il secondo punto riguarda il fatto che non ritengo di avere rispettato nessuna delle regole originali della “creazione” di Malinowsky, in quanto fondata sulla presunta neutralità dell’osservatore partecipante, che intende cogliere il “punto di vista del nativo” tramite l’esperienza “empatica immediata e soggettiva dell’etnografo", tecnica apparentemente molto affinata da parte sua. D’altronde da ciò che riportano i suoi diari, penso non l’abbia rispettata nemmeno lui. “l’eroe dell’antropologia culturale si era rivelato un “contorto, preoccupato e ipocondriaco narcisista” (Geertz, 1967), accusato perfino di razzismo per il frequente utilizzo del peggiorativo “niger” per riferirsi ai nativi. ..(..) ciò che dai diari è possibile comprendere sull’esperienza sul campo di Ml. Rivela una situazione di profondo “disagio dell’antropologo” caratterizzata dalle difficoltà e frustrazione del lavoro, dallo smarrimento e dalla solitudine. Allontana altresì l’idea che Mal. Avesse ottenuto le sue informazioni grazie a camaleontiche e “magiche” doti empatiche. . ..(..) l’osservazione partecipante è così rivelata essere un ossimoro che si fonda su principi contradditori e irrealizzabili. Di fatto, “partecipare” e al tempo stesso “osservare” risultano essere qualcosa di altamente problematico. Da un lato, infatti, il principio Malinowsky . No implica che l’antropologo si immerga in una forma di vita culturale e impari a comportarsi in modo adeguato, acquisendo empaticamente un “sentire” il più vicino a quello dei nativi. Dall’altro, pretende che l’antropologo conservi il distacco necessario dal proprio oggetto di studio per poter raccogliere oggettivamente i “dati” etnografici. Come dice Duranti, l’etnografo si trova dunque di fonte al cosìddetto “paradosso dell’osservazione partecipante per cui più partecipa, meno gli sarà possibile osservare40. In questo orizzonte si viene ad introdurre un intreccio metodologico che riprende anche alcuni degli elementi della “Ricerca Azione Partecipativa” del maestro Fals Borda, creata dal sociologo colombiano già dal 1968. “la riconosciuta teoria dell’ “Investigaciòn Accion Particpativa “ (IAP) creata nel 1968, è stata perfezionata negli anni, e rinnovata nei suoi ultimi scritti come “Kazidayu” che vuol dire 40 Ivi, p. 69 20 “risveglio”, alba”, in lingua Uitoto41. La “IAP” irrompe come ricerca militante, basata nella relazione dialettica fra teoria e prassi, studio – azione. Fals Borda, nell’appendice alla quinta edizione di “Scienza propria e colonialismo intellettuale”, scrisse:“il riconoscimento si ottiene non soltanto osservando i processi sociali concreti in cui si agisce, ma attuando in essi e militando per provocare cambi politici, sociali, economici in una direzione determinata …42” L’importanza di fare riferimento alla “IAP” in questo scenario, riguarda il fatto di essere una teoria della ricerca scientifica che ha preso il sopravvento nel contesto latinoamericano, di cui questo elaborato si occupa. Inoltre, per il fatto del suo richiamo costante all’impegno etico, morale e politico con cui il “ricercatore partecipane” deve assumere il suo lavoro. Di seguito riporto alcune delle interessanti riflessioni del maestro Fals Borda prima della sua morte (12 agosto 2008), in merito all’argomento della diversità dei saperi, argomento di cui mi occuperò nella parte finale del presente elaborato, in collegamento all’”Ecologia dei Saperi” proposta da Boaventura De Sousa Santos. “ Concedetemi di iniziare queste riflessioni ricordando il già consumato argomento della rottura epistemologia che ci ha portato a sfidare alcuni paradigmi nella nostra disciplina. ..(..) In questo contesto, l’educazione umanistica continua a coltivare lo sviluppo della ragione, ma deve riconoscere anche capacità intuitive, extra accademiche e anche esoteriche. Queste sono le conoscenze che provengono delle pratiche esperienziali, frequentemente spontanee, originate nella storia dei popoli e nel senso comune …(..)43 “ Oggi possiamo presentare già in maniera convincente la realtà di una scienza sociale attiva: la “IAP”, riconosciuta universalmente con esperienze sul campo e servizi sociali significativi... (..) con pratiche professionali reinventate, adattate alle circostanze del medio ambiente naturale, cambiando in questo modo la tradizionale percezione accademica “pura” o “non contaminata” della nostra realtà …(..) questo porterebbe ad un altro tipo di università, più legata ai popoli”44 “Sulla situazione contemporanea della IAP....(..) Quella proposta di “ricercare la realtà per trasformarla”, attraverso la prassi che alcuni abbiamo articolato nella decade del ’70 nei paesi del terzo mondo, ha cominciato ad istituzionalizzarsi . Sarà questo uno sviluppo o un retrocesso? . Non possiamo rispondere ancora. Ma non guasta ricordare le principali ragioni che abbiamo avuto per piantare quel seme della ribellione intellettuale come ricerca alternativa nei nostri paesi. Un proposito è stato protestare contro la castrante rutina Popolo Originario dell’Amazonia Colombiana. Sànchez, A., Ricardo, op.cit. Fra le sue opere più importanti: Orlando Fals Borda, Germán Guzmán y Eduardo Umaña Luna, La violencia en Colombia, tomo i (Bogotá: Taurus, 2005) ; El hombre y la tierra en Boyacá: bases sociológicas e históricas para una reforma agraria (Bogotá: Antares, 195); La subversión en Colombia. Visión del cambio social en la historia (Bogotá: Tercer Mundo, 1967); Historia de la cuestión agraria en Colombia (Bogotá: Fundación Rosca de Investigación y Acción Social, 1975); Región e historia: elementos sobre ordenamiento y equilibrio regional en Colombia (Bogotá: iepri, Tercer Mundo, 1996); Kaziyadu: registro del reciente despertar territorial en Colombia (Bogotá: Ediciones Desde Abajo, 2001); Hacia el socialismo raizal y otros escritos (Bogotá: cepa/ Ediciones Desde Abajo, 2007). 43 Fals Borda, Orlando, El Socialismo Raizal y la Gran ColombiaBolivariana. Investigaciòn Acciòn Participativa. Ed. El Perro y la rana, Caracas 2008, p. 79 44 Ivi, p. 80 41 42 21 universitaria, colonizzata dalla cultura dell’Occidente euroamericano, con una subordinazione tale che non permetteva scoprire ne valutare le nostre proprie realtà: ..(..) Un’altra ragione, questa più chicciotesca e utopica, è stata quella di correggere gli intorti per migliorare le nostre società en crisi, combattendo le ingiustizie e cercando di sradicare la povertà e altre piaghe socioeconomiche prodotte dai sistemi dominanti”45 “Negli avanzi teorici e pratiche di questa impressionante espansione istituzionale della “IAP” in questi trenta anni, conviene ricordare quali sono state le basi che abbiamo proposto nel Primo Congresso del 1977:    “Ricerca di una scienza/conoscenza interdisciplinare incentrata nelle realtà, contesti e problemi propri, come quelle del tropico e il sub – tropico” “Costruzione di una scienza(conoscenza ) utile e al servizio dei popoli di base, cercando la loro liberazione delle situazioni di sfruttamento, oppressione e sottomissione” Costruzione di tecniche che possano facilitare la ricerca della conoscenza in forma collettiva, il recupero critico della storia e la cultura dei popoli “raizales46”, originari e altri gruppi, e la restituzione sistematica e   facile da comprendere alla gente del comune, della conoscenza così acquisita” Ricerca mutua e rispettosa della somma dei saperi fra la conoscenza accademica formale e la sapienza e/o esperienza popolare. Trasformazione della personalità/cultura del ricercatore-partecipante per rafforzare la sua esperienza personale e l’impegno etico, morale e ideologico con le lotte per il cambiamento radicale delle società.”47 0.1.1 Le Procedure e la Raccolta dell’)nformazione Nell’esperienza qui trasmessa non ho utilizzato un modello d’intervista strutturata, inizialmente pensato come questionario di sette domande, perché mi sono arresa dopo lunghi tentativi di rintracciare le risposte precise all’interno dei loro discorsi saltellanti fra il futuro il passato o il presente, senza un ordine cronologico o “logico”. Così ho deciso mantenere tre focus d’attenzione: I tempi, gli spazi e i modi del “Sacro”; Le forme di costruzione e trasmissione della conoscenza e il loro pensiero di fronte all’educazione ufficiale e l’intercultura. Questi tre punti sono stati una costante durante tutto il mio viaggio. Molte volte le risposte arrivavano senza domande, in quelli interstizi di vita quotidiana: a volte sdraiata su una stuoia mentre giocavo con qualche piccolo in tanto che la mamma cucinava. A volte nel fiume mentre lavavamo i panni. Altre nella milpa mentre si ringraziava la Terra 45 Ivi, p. 81 “Los raizales”, sono riconosciuti dalla Costituzione Politica della Colombia del 1997, come una delle minoranze etniche del paese. Hanno la propria lingua (il Criol). Le loro radici culturali afro-anglo-antillane sono manifestazioni della loro identità culturale, diversa dal resto della popolazione colombiana. Le Comunità Raizales, abitano il territorio insulare dell’isola di San Andrès, Providencia e Santa Catalina. 47 Fals, B. Orlando, op. cit, p. 83 46 22 o davanti al Fuoco mentre si sgranavano le pannocchie per selezionare i chicchi adatti alla prossima semina. Cioè durante l’intreccio delle Relazioni. “rilevando la “progressione gerarchica” nelle fasi del lavoro antropologico, il ricercatore segue una serie di procedure. Partendo dalla raccolta dei dati giunge all’induzione ipotetica di leggi teoriche. Da queste perviene poi alla deduzione delle conseguenze che derivano da tali leggi. Infine, dalla sperimentazione attraverso casi empirici cerca la conferma delle leggi grazie alle prove fornite dai casi. Questa prospettiva è stata illustrata da Lèvi-Strauss nella disposizione gerarchicamente ordinata di etnografia, etnologia,antropologia. ….(…) Secondo LS, l’etnografia corrisponde ai primi stadi della ricerca: osservazione, descrizione e lavoro sul terreno. E’ condotta in un gruppo sufficientemente ristretto affiche sia possibile raccogliere le informazione grazie all’esperienza personale dell’etnografo. Implica la classificazione, la descrizione e l’analisi dei fenomeni culturali particolari. L’etnologia rappresenta invece un primo passo verso la sintesi. Tende a conclusioni abbastanza estese e si fonda sulla comparazione e sulla generalizzazione. L’antropologia, infine, costituisce l’ultima tappa di una sintesi che ha per base le conclusioni dell’etnografia e dell’etnologia e per finalità l’elaborazione teorica e la spiegazione (Lèvi-Strauss,1966, pp.l388-390)48 Ora nella fase di trascrizione ritengo che siano stati elementi diversi alla “procedura”, fra cui la fiducia reciproca e il rapporto di simmetria istaurato a permettermi l’accesso negli spazi di Vita Quotidiana dove l’intreccio relazionale si è materializzato. Qui ritengo fondamentale il fatto di avere spiegato loro le motivazioni che mi hanno portata ad approfondire sui modi di costruzione e trasmissione della conoscenza, le stesse che ho considerato nell’introduzione di questo elaborato e che attraverso il mio raccontare la condizione di “migrante” richiamava storie a loro molto vicine. Un altro punto da non trascurare è quello che riguarda le mie origini: colombiana e meticcia. Questa “appartenenza” geografica mi allontanava dalla figura “europea” permettendo di istaurare un rapporto di “sorellanza”, tanto che spesso ero presentata nei diversi gruppi in cui ho partecipato come una “sorella” colombiana che voleva condividere dell’esperienze e capire i modi propri di organizzare l’educazione. Un altro punto da non trascurare è il fatto dell’orientamento professionale. Quando arrivavo in alcune Comunità, dopo avere bevuto e mangiato insieme – mai prima – iniziavamo a parlare del motivo della mia visita, anticipando anche se in maniera scherzosa il fatto che erano stufi degli antropologi e che si auguravano che io non lo fossi. A dire la verità, anch’io mi sentivo sollevata di non esserlo, altrimenti non avrei saputo cosa dire. Quindi, il fatto di 48 Ivi, p. 48 23 raccontarmi sempre, con questo percorso costruito sulla convinzione che soltanto una maniera diversa di concepire e di costruire l’educazione poteva portarci verso una soluzione ai problemi comuni a noi, creature del mondo dei viventi, mi metteva in condizioni di avere il loro ascolto e la loro co-partecipazione. Quindi, in questo percorso metodologico, penso di essere stata più vicina al’etnografia in collaborazione, descritta dall’antropologa nord americana Rappaport Joane49; in un processo di ricerca durato cinque anni e portato avanti attraverso la metodologia dell’ “etnografia collaborativa”, con popolazioni indigene in Colombia, particolarmente con la cultura Nasa, del Sud occidente colombiano e la loro organizzazione, il (CRIC) “Consiglio Regionale Indigena del Cauca” 50. “l’etnografia generalmente viene capita come una strategia di rappresentazione, una forma di scrittura e in minore considerazione, una metodologia di ricerca. Questo articolo, basato in un’etnografia in collaborazione con ricercatori indigeni colombiani, suggerisci che l’etnografia è più che un testo scritto o un metodo per raccogliere dati; è uno spazio critico nel quale gli antropologi e i nostri interlocutori possiamo partecipare congiuntamente nella “coteorizaciòn” ( la creazione di nuove costruzioni teoriche). L’apertura dell’etnografia a tale possibilità in caso di collaborazione con organizzazioni di base, non ha soltanto significato etico, ma ha anche il potenziale di apportare nuove prospettive alla disciplina”51 Più di una volta, invece, mi è stato chiesto cosa potevo offrire loro come scambio reciproco dell’esperienze a cui mi era concesso di accedere. Prima di rispondere ho dovuto riflettere seriamente per capire che l’unica cosa che potevo mettere a loro disposizione era il mio vissuto, la mia conoscenza, la mia esperienza, il mio Esserci. Così prima di abbandonare una comunità o un luogo accademico, ho avuto occasione di realizzare dei laboratori o dei “riti” dove insieme ci esercitavamo, a loro scelta, su uno degli argomenti guida del mio percorso: “Il sacro, la conoscenza e l’intercultura”, che in alcune occasione comportava anche lo scambio culturale attraverso il cibo e la preparazione di qualche ricetta a mio piacimento; nonché la rilettura e condivisione delle conclusioni a cui eravamo arrivati per sottoporla anche all’ascolto e valutazione di chi non era riuscito ad essere presente durante 49 Rappaport, Joanne, Màs allà de la escritura. La epistemologia de la etnografia en colaboraciòn, en Revista Colombiana de Antropologia, vol 43, Colombia, 2007. 50 Il CRIC ha creato in Colombia la (UAII). Università Autonoma, Indigena e Interculturale, come risultato ad un esercicio di più di 30 anni di ricerca collettiva di un’educazione alternativa alle necessità e visione delle Comunità locali, contenuta nel progetto o piano di vita di ogni Popolo, sostenuta ora legalmente, sulla base della CP della Colombia che riconosce un paese multietnico e pluriculturale. 51 Rappaport, Joanne, op cit, pp.. 197-229 24 l’intera durata del laboratorio o anche alla valutazione delle autorità, anziane e anziani della Comunità, il più delle volte, spiegate dai più giovani partecipanti, nella loro lingua. Una scelta diversa da quella storicamente esperimentata con le popolazioni native : i “doni” materiali che possano catturare la loro attenzione, in epoca coloniale gli specchi o altri elementi luccicanti, oggi, le macchine fotografiche digitali che permettono loro di sorridere davanti alle loro immagini e ai loro sguardi meravigliati; i cosmetici per le ragazze; i profumi per i ragazzi, e molti altri che non cito per non allungare l’elenco. Queste riflessioni le ritengo opportune, perchè lungo la storia dell’antropologia, il proprio “metodo”, è stato un’ argomento che alcuni studiosi hanno considerato una “sorta di cospirazione del silenzio” “Il lavoro etnografico per eccellenza è il lavoro sul campo e la situazione etnografica è una situazione di campo. Ogni antropologo stabilisce una relazione privilegiata con il proprio “campo”…(…) Il lavoro sul campo è stato rappresentato sia come “laboratorio scientifico”, sia come “rito di passaggio” personale. Queste due metafore esprimono compiutamente l’ambigua relazione fra oggettività e soggettività latente all’interno dei discorsi antropologici.52 ..(…)..” a differenza degli altri scienziati sociali, gli antropologi difficilmente hanno tolto dall’aneddotica e inserito nei loro testi modalità con cui sono riusciti a produrre l’insieme di conoscenze che richiedono di accettare come vere. …(…) gli storici menzionano gli archivi che hanno utilizzato e che altri avranno la possibilità di consultare per trarne differenti interpretazioni. I sociologi descrivono i questionari e le procedure statistiche che permettono loro di arrivare alle conclusioni. Gli psicologi non esitano a descrivere i loro protocolli d’esperienza. Gli antropologi, invece sembrano rifiutarsi di esibire la processualità del proprio lavoro, di mostrarne le tecniche di raccolta dei dati e di scrittura. In una sorta di “Cospirazione del silenzio” ( Gerreman,1962) mistificatorie ed eticamente sospetta, tralasciando di considerare come l’etnografia sia stata prodotta.(…) In questo modo, hanno evitato di prendere in considerazione la successione degli errori e dei tentativi fatti per arrivare alla comprensione di un fenomeno, le interpretazioni false o incomplete e tutto quell’insieme complesso di sentimenti, qualità e occasioni che fondano la specificità del “metodo di lavoro”antropologico: i fraintendimenti, le gaffes, le difficoltà, le intuizioni, le situazioni di dubbio, le astuzie, le strategie, l’amicizia, i conflitti, le tensioni ecc. ( Agar, 1985, Jamin, 1986, Kilani, 1997) Eppure, la maggior parte del tempo dell’antropologo sul campo è spesa alla vana ricerca di dialoghi interessanti, eventi eccezionali o “puri”, ricorrendo informatori 52 Ivi, p. 46 25 annoiati, spesso incapaci di rispondere alle sollecitazione dell’antropologo o reticenti ad assumere responsabilità enunciative ( Maliguetti, 1999)53 Devo dire, che oggi dopo il “travaglio” che ha significato questo processo di scrittura, sono soddisfatta della strada percorsa e dell’esperienze fatte. Altrimenti mi sentirei come quelli “raccoglitori” d’informazione nell’epoca della cosìddetta antropologia “armchair”. “La separazione fra etnografia e antropologia è stata segnata agli esordi della disciplina da una differenza di ruoli. La fine del XVII secolo è infatti caratterizzata da una marcata divisone del lavoro, fra raccoglitori-osservatori ed “esperti” teorici …(…) In questo modo nel periodo evoluzionista si istituì la figura dell’antropologo “armchair”, che prendeva i propri dati etnografici dal resoconti di viaggio o dalle relazioni di esploratori, missionari o naturalisti, al fine di documentare le proprie concezioni evoluzionistiche degli stadi di sviluppo culturali.” (…) L’acquisizione di informazioni etnografiche da parte degli antropologi “armchair” era ottenuta mediante l’invio ai ricercatori sul campo di elenchi di domande o di temi nella forma di questionari. Dall’ossatura scarna ed essenziale per la ricerca, tali questionari erano destinati a guidare con rigidità normativa la raccolta dei dati e a dirigere lo sguardo degli osservatori-compilatori.54 0.1.1.1 )l Campo , gli )nterlocutori e i Registri “La nozione di “Campo”, nella sua valenza polisemica ( designa sia uno spazio geografico, sia il luogo in cui si sviluppa l’attività dell’antropologo,sia l’oggetto della ricerca) e polifunzionale ( si riferisce sia a un “meccanismo di produzione della verità”, sia a un “rito di passaggio” per gli apprendisti antropologi, sia a un segno del confine di una comunità scientifica), non denota una realtà che esiste indipendentemente dalle relazioni fra antropologo e nativo, un contenitore generico, asettico e neutrale. Piuttosto, il campo è essenzialmente il luogo simbolico di costruzione di senso, ciò che determina le caratteristiche specifiche di un’esperienza condivisa ( Borutti, 1988; Fabietti, 1993) Questo terreno comune all’antropologo e agli informatori si fonda su un’interazione intersoggettiva dialogica e pragmatica caratterizzata da propri rituali interattivi compromissori (…) L’etnografia si fonda su una gerarchia discorsiva e sulla dominazione “epistemologica” e scritturale dell’altro. Per questo è sempre sbilanciata e asimmetrica.( Asad, 1973, 1997), Bordieu, 1974; Tyler, 1987) . La relazione conoscitiva fra antropologo e nativo ha luogo all’interno delle relazioni tra linguaggi “deboli” e linguaggi “forti”….(..) La sua autorità sul nativo si fonda non solo sul 53 54 Ibidem Ivi, p. 49 26 potere economico e politico dell’Occidente, ma anche soprattutto, sul “saper e poterScrivere”55 Nel presente elaborato questa situazione è meno pregnante perché mi sono confrontata anche con “nativi”, loro stessi protagonisti delle narrazioni, alcuni con una formazione professionale a livello di dottorato e impegnati in diversi scenari accademici, come riportato nelle diverse testimonianze. In questo senso devo dire che non ho tabelle o grafici che quantifichino i “dati”, ne “carte sinottiche” che rappresentino in kili o metri, le emozioni, le narrazioni, le storie, i miti, i riti, i canti. I giorni e le notti di “pensatorios”, di esperienze e d’insegnamenti sono registrati oltre che nella mia memoria, nelle narrazioni riportate lungo queste pagine, nonché in registri di voce che ho a disposizione e alcuni anche su un registri visuali le cui immagini sono a disposizioni nei link che indicherò alla fine di questo percorso. D’altra parte le persone con cui ho stabilito dei rapporti – che non ritengo affatto degli “informatori”, ma degli Interlocutori, vengono riportate con i loro nomi e le loro esperienze di vita all’interno di un contesto. Nonostante ciò, per rigore metodologico, riporto che le riflessioni qui presentate si sono nutrite dalle 74 interviste realizzate e dai diversi laboratori con docenti indigeni e non, studenti e donne delle diverse Comunità all’interno dei Popoli sopra elencati. È da sottolineare che di queste interviste, 25 sono frutto dei “conversatorios” con testimoni privilegiati, considerati tali per il loro ruolo di coinvolgimento, militanza e partecipazione nella vita Comunitaria, fra cui: Anziani Saggi, Autorità politiche e spirituali di alcune Comunità, donne che hanno dedicato la loro vita alla lotta e ri-costituzione della memoria storica dei Popoli, giovani che anche avendo una laurea universitaria continuano a far parte dei processi Comunitari, docenti indigeni, e non, con formazione a livello di dottorato, coinvolti nei processi educativi sia a livello delle Popolazioni stesse che a livello accademico, nonché alcune persone con ruoli socialmente rilevanti, fra cui il sacerdote del municipio di Huixtàn nello Stato del Chiapas, Sor Èlsida Jerez, direttrice dell “Internado Kogui” (collegio) di San Antonio della Sierra in territorio Kogui (Colombia) e il Viceministro di Decolonizzazione dello Stato Plurinazionale della Bolivia. Un altro aspetto da mettere in evidenza è il lavoro di traduzione linguistica a diversi livelli: dalle lingue originarie al castigliano e da questo all’italiano. Inoltre, considerando l’importanza del linguaggio simbolico nei contesti in cui le esperienze qui narrate sono avvenute, ho ritenuto opportuno 55 Ivi, p. 84 27 arricchire la presentazione in cartaceo con alcune fotografie e l’elaborazione di un sito web contenente i registri audiovisivi elencati nella videografia, i quali possono essere consultati al link www.youtube.com /IyaraAbyaYala/Espistemologìas desde el Sur. In questa prospettiva quindi, le pagine sottoposte a vostra considerazione, rendono conto innanzitutto di un processo di conoscere “esperienziale” e “sensoriale”, all’interno del quale si collocano le mie riflessioni, senza che siano esse una “monografia” o una “ricerca antropologica” nei termini sopra indicati. Per fortuna gli avanzi anche all’interno della disciplina antropologica sono arrivati ad ammettere una realtà per lungo tempo in discussione. “Solo negli ultimi anni ( Watson, 1987, 1991.; Kilani, 1992,1997), la consapevolezza che l’esperienza personale dell’antropologo costruisca la fondazione della disciplina e rappresenti l’elemento chiave del metodo è emersa con una certa chiarezza. La soggettività dell’antropologo in quanto tale è stata considerata parte integrante del rapporto con l’altro e dell’esperienza umana che cerca di comprendere. Allo stesso modo, l’esperienza dell’informatore è stata vista alla luce dell’esperienza che l’informatore ha del’antropologo, e all’interno della dinamica dell’osservazione dell’osservatore” ( Marcus, Clifford, 1997; Borutti, 1988) …(…) L’antropologia è sempre stata fondata sull’esperienza degli antropologi, sebbene abbia tradizionalmente voluto caratterizzarsi per l’utilizzo dell’Altro nella comprensione del Sé.” 56 Ne vale la pena su questo argomento riprendere di nuovo le parole della Rappaport “James Clifford conclude che la crisi della rappresentazione etnografica – l’impossibilità che esiste nel mondo contemporaneo di continuare a produrre descrizioni sull’ “Altro” ancorato fermamente in una comunità circoscritta e atemporale – potrebbe essere risolta mediante la ridefinizione dell’etnografia come dialogo: è necessario concepire l’etnografia non come l’esperienza e l’interpretazione di una realtà “altra”, ma più tosto come una negoziazione costruttiva che coinvolge al meno due, e usualmente più soggetti, coscienti e politicamente significativi. I paradigmi dell’esperienza e l’interpretazione stano cedendo il passo ai paradigmi discorsivi del dialogo e la polifonia. (Clifford, 1988: 41)”57 “Per Clifford, così come per altre autori del precedente e influente volume “Writing culture” 56 57 Marcus G, Cliffor J. ( a c.di), 1997. Scrivere le culture Meltemi, Roma 1986, p. 85 Rappaport, J. Op. cit. p. 198 28 ( Clifford e Marcus, 1986), i problemi centrali dell’antropologia si devono lavorare attraverso l’innovazione nella scrittura etnografica. ..(..) Cioè, anzi che capire l’etnografia come un processo di ricerca sul campo, negli Stati Uniti viene definita come un genere letterario, come la rappresentazione scritta dell’interpretazione culturale. Tuttavia, se pensiamo all’antropologia nel suo contesto globale, anzi che ridurla alla sua manifestazione statunitense, possiamo avvertire che la monografia etnografica è solo uno dei vari possibili prodotti della ricerca, cosa che suggerisce che la re concettualizzazione della scrittura soltanto risolve parzialmente il problema del come l’antropologia rappresenta il suo oggetto.” Ho capito questo in Colombia, dove gli sforzi di ricerca di una comunità antropologica viva e creativa, poche volte fruttificano in monografie etnografiche classiche, ma più tosto in articoli, saggi accademici, interpretazioni storiche e altri generi di scritti che siano di utilità alle Comunità che sono state coinvolte …(..). Inoltre in Colombia l’etnografia viene pensata come un’attività sul campo, non necessariamente come una forma di scrittura. La pratica etnografica colombiana conduce spesso a collaborazioni a lungo termine, sfidando le distinzioni fatte generalmente negli Stati Uniti, fra ricerca pura e antropologia applicata, sono molto più vicine alle nozioni più recenti di antropologia pubblica e attivista” Per quanto riguarda l’antropologia dei popoli indigeni in particolare, gli antropologi colombiani hanno cominciato a confrontare i demoni di rappresentare l’ “altro” prima dei suoi collegi degli Stati Uniti, in quanto la maggior parte della ricerca è stata portata avanti in collaborazione con organizzazioni native i cui discorsi e obiettivi politici hanno determinato le domande della ricerca e i modi antropologici della rappresentazione.”58 0.2 ) PUNT) D) R)CAMO DEL (U)P)L: )L CONTESTO DELLE ESPER)ENZE 59 Da quanto riportato sopra, un’ulteriore precisione riguarda anche il linguaggio utilizzato nel processo di trasmissione dell’esperienza, come fatto centrale della Ricerca Pedagogica: Il contesto, concetto che mi obbliga di nuovo a riprendere il pensiero di Bateson. “ Nei saggi raccolti nella parte terza, io parlo di un’azione o di un’enunciazione come occorrente “in” un contesto, e che quell’azione particolare sia una variabile “dipendente”, mentre il contesto è la variabile “indipendente” o determinante. Ma questo modo di vedere la relazione tra l’azione e il suo contesto svia il lettore – come ha sviato me- dal percepire l’ecologia delle idee che, insieme, costituiscono il piccolo sottosistema che chiamo “contesto”. 58 Ibidem. Con quest’espressione ho voluto sostituire quella classica di “lavoro sul campo” per tutto quanto esplicitato nelle pagine precedenti. 59 29 Questo errore euristico – ricalcato come altri dal modo di pensare del fisico e del chimico – dev’essere corretto” ..(..) “E’ importante considerare quella particolare enunciazione o azione come una “parte” del sottosistema ecologico chiamato contesto, e non come un prodotto o effetto di ciò che resta del cotesto dopo che il pezzo che vogliamo spiegare non è stato reciso.”60 Quindi, le pagine che confermano questo lungo camminare, prendono in considerazione nel contesto dell’ Abya Yala, alcune delle pratiche dei quattordici popoli con cui sono entrata in contatto durante i sedici mesi di ricerche all’estero, (Novembre – Maggio 2011 e Novembre 2011 – Settembre 2012), periodo nel quale ho visitato gli otto paesi sotto elencati. - Guatemala: Popolo Maya Kich’è - Messico: Popoli Tsotsil e Tseltal nello Stato del Chiapas. Popolo Wirarica (Huichol) nello Stato di Jalisco. - Venezuela: Popolo Wayuu nello Stato del Zulia. - Perù: Popolo Quechua, nella regione di Cuzco. - Stato Plurinazionale della Bolivia: Popoli Quechua, Aymara e Kallawaya. - Argentina: Popoli Kolla e Guaranì, nella Provincia di Jujuy - Uruguay: Popolo Charrùa. - Colombia: Popoli U’wa, Wayuu, Kankuamo e Kogui. Per capire la specificità di ogni Popolo, è necessario conoscere la evoluzione storica degli “Stati Nazione” in America Latina. Un percorso storico che dopo 520 anni si nutre ancora dal paradigma egemonico dominante, sostenuta mantenendo fino ad oggi le eredità coloniale negli spazi di potere in cui la “scuola ufficiale” è stata l’anello forte di trasmissione. In quest’ottica, non mi soffermerò sugli studi che in occidenti sono stati scritti sulle Americhe61 in termine della “questione indigena”, vorrei invece, richiamare l’attenzione in particolare sui cambiamenti che l’ultima decade ha rappresentato per i popoli dell’Abya Yala, un esercizio di “problematicismo pedagogico”, con la consapevolezza che è giunto il Bateson,G. Verso Un’ecologia della mente, op. cit., p. 389 Sottolineo questo termine, per correggere la cattiva abitudine, ancora in uso in certi spazi accademici e politici in Italia, di chiamare “americani” soltanto agli abitanti del Nord America, conosciuti in America Latina come Statutinentensi. Americani sono anche i popoli del Centro e del Sud America. 60 61 30 momento di passare di quella “Condizione Data” alla “Destinazione prescelta62”, verso il paradigma delle Autonomia, sul quale accennerò più avanti. In questo scenario sono nate le nuove Carte Politiche che consolidano lo Stato Plurinazionale della Bolivia nel 2009 e lo Stato Plurinazionale dell’ Ecuador nel (2008). Questo nuovo scenario politico rappresenta una vera rivoluzione in materia educativa, orientata ad elaborare una nuova proposta che va oltre le precedente “riforme” e che mira a puntare l’attenzione nella consolidazione del “Paradigma Ecologico Comunitario”, come una proposta non soltanto per i Popoli Originari, dell’America Latina, ma per l’intera Umanità. Una proposta nella quale, a mio avviso, si concretizza il monito tanto caro a Bertin “Realizza tu stesso realizzando gli altri”. Una realizzazione che si nutre sì dell’Autonomia, ma che si realizza nel vivere Comunitario. Per proseguire, ci tengo a precisare il termine “Popoli Originari”, perché è questo il modo in cui loro stessi rivendicano la loro identità, argomentando che il termine “indigeno” ha soppiantato quello storicamente peggiorativo: “indio”, ma il termine “indigeno” è anche esso un’espressione coniata in occidente e trasmette ancora una forte interpretazione di stampo coloniale.63 0.2.1 Le esperienze e il Contesto durante il mio Primo Viaggio in Messico64 Sono arrivata allo Stato di Chiapas in Messico, presso la UNICH (Universidad Intercultural de Chiapas), nel novembre 2010. In uno scenario così complesso come il Messico, il lavoro di campo è stato possibile grazie alla guida permanete dei miei due tutor il Dr. Miguel Sànchez Alvarez e il Maestro Stefano Claudio Sartorello; al sostegno permanente del Segretario Accademico Maestro Josè Adriano Anaya,nonché del rettore Dr. Andrès Fàbregas Puig il quale ha messo a disposizione tutti gli spazi istituzionali e accademici necessari per la mia ricerca, offrendomi in questo modo la possibilità di interagire sia con il collegio dei docenti, che con gli studenti dei quattro programmi di laurea: Sviluppo sostenibile, Turismo alternativo, Comunicazione interculturale e Lingua e cultura. 62 Cfr. Bertin, G.M., Contini M., Educazione alla progettualità esistenziale, Armando, Roma 2004, pp . 11 - 14 Precisione fatta dal rappresentante del CELALI, Centro Estatal de Lenguas y Literatura Indigenas, alla Giornata delle Lingue Materne, San Cristobal de las Casas, febbraio 2011. 64 Fra novembre 2010 e maggio 2011. 63 31 D’altra parte, attraverso la collaborazione e disponibilità di Manuel Bolom Pale, assistente del mio tutor, Dr. Miguel Sànchez Alvarez, (appartenenti tutti e due al popolo Tsotsil) si sono stabiliti rapporti di fiducia con alcune Comunità, grazie ai quali ho avuto l’opportunità di prendere parte a diversi scenari, dove attraverso la metodologia dell’ osservazione partecipante65 sono riuscita ad avvicinarmi sia ai pilastri concettuali della cosmovisione Maya, che agli spazi comunitari e familiari di trasmissione dei saperi ancestrali. Tutte le esperienze sono state altamente significative per la mia ricerca, ma ci tengo a citare specialmente: le festività dei carnevali, della raccolta e della semina, nonché il grande rituale comunitario del tre di maggio che fonde il rituale ancestrale alle sorgenti di acqua con la tradizionale festa cattolica della “croce” (pratica ormai comune in tutte le comunità, dove è marcata la presenza della religione cattolica), cosa che non succede invece nelle Comunità in cui la presenza di chiese evangeliche è aumentata negli ultimi anni, dato che queste pratiche sono da loro proibite nonché condannate. Visita ai municipi de Chanal, Tenejapa e San Juàn Chamula. - Il Il Carnevale al Municipio di Tenejapa66 Carnevale a Tenejapa è stato lo scenario in cui ho avuto più possibilità di coinvolgimento, grazie all’invito e alla compagnia di Juàn, giovane dell’UNICH, tseltal studente che nella sua veste di musicista della musica rituale tseltal, mi ha accompagnata durante i quindici giorni del carnevale, permettendomi di accedere anche a certe cerimonie più ristrette e a qualche visita alle montagne e in altri luoghi sacri che si visitano in questo periodo. Lunghe conversazioni con Juan67 e altre, tante, lunghe ore di osservazione durante i quindici giorni delle feste, mi hanno fatto capire che la scarsa partecipazione della popolazione alle festività del carnevale è dovuta sia al fatto che molte persone appartengono alle chiese chiamate “evangeliche”, sia ai conflitti fra chi vuole seguire la tradizione tseltal e molti 65 Carvajal B. Arizaldo. Elementos de investigaciòn social. Universidad del Valle. Facultad de Humanidades. CaliColombia. 2008 . “La tecnica dell'osservazione partecipante è finalizzata ad afferrare il punto di vista dei nativi, il loro rapporto con la vita, la loro visione del loro mondo (si fonda sulla presunta neutralità del ricercatore). Nasce nella ricerca antropologica tra il XIX e il XX sec. Il primo a formalizzare questa tecnica è B. Malinowski” Pag. 62-63 66 Le attività del carnevale possono essere consultabili al link..www.youtube.com/ YolandaAbyaYala /Tejiendo el Huipil. 67 L’ntervista è consultabile al link: www.youtube.com /YolandaAbyaYala/Jòvenes Identidades de AbyaYala/Juàn PuebloTseltal-Chiapas/ 32 cattolici che propongono che tutte le cerimonie vengano realizzate nella chiesa cattolica, escludendo le montagne e i luoghi sacri dove si realizza la celebrazione attualmente. Carnaval en Tenejapa – Chiapas. Intercambio de Semillas. Febrero 2011 Devo ammettere che questa è stata una delle esperienze di maggior impatto, forse perché non sono stati sufficienti i quindici giorni di osservazione, né le lunghe ore di conversazione, sia con Juàn che con i tassisti o abitanti del luogo, per afferrare il significato ancestrale del carnevale o per collegare questa festività con qualche celebrazione precoloniale. Nonostante ciò, sono riuscita a cogliere alcuni elementi comuni ai tre municipi: il primo, senz’altro il più evidente, riguarda la marcata influenza nel simbolismo cattolico che si esprime attraverso le diverse tappe realizzate all’interno della chiesa; l’uso della croce non la croce quadrata della tradizione maya, bensì la croce cattolica. Altri elementi sono rappresentati dall’ uso del colore rosso nei vestiti e dal consumo di “pox”68 come bibita rituale. Questo laddove il pox non è stato sostituito dalla coca cola a causa del divieto del parroco locale di consumare bibite alcoliche durante le festività. Durante i quindici giorni mi sono chiesta se, forse col passare del tempo, qualche celebrazione precoloniale fosse stata rielaborata, “risignificata” e ricreata per inserire nel carnevale gli aspetti introdotti con la colonia. 68 Bibita alcolica utilizzata tradizionalmente nelle cerimonie spirituali. 33 Purtroppo non ho avuto risposta in merito e quindi mi sono rivolta a una serie di ricerche teoriche grazie alle quali sono riuscita a trovare qualche informazione che rimanda al profondo senso di spiritualità di comunione con la natura che ha caratterizzato i riti precoloniali realizzati in questo periodo dell’anno ( Febbraio) e che corrispondevano al “nemontemi y chaik'in” o “cinque giorni persi” del calendario azteco o il “wayeb” del calendario maya. Giorni dedicati alla riflessione, al ringraziamento e alla purificazione per cominciare il nuovo ciclo della terra. - Visita al Municipio de Huixtàn69 Huixtàn, magico luogo di cui è originario il mio tutor Dr. Miguel Sànchez Alvarez. Si trova soltanto a quaranta minuti dal comune capoluogo dello Stato del Chiapas, San Cristobal de las Casas. Lì sono riuscita a trovare ancora il sapore della tradizione: le “tortillas”, i fagioli, le uova con il sapore e la bellezza dei fiori di “Nix U’kum”, che si mangiano durante il periodo della quaresima. Ma sopratutto ho trovato le parole dolci di Lucia, di Micaela e la parola forte di Martìn. Loro, abitanti dell’ejido70 “Lòpez Mateus”, tessono la vita giorno dopo giorno, seminando la “Milpa”71 e facendo ancora le offerte alla Madre Terra durante i riti di semina e raccolta, in una cerimonia che intreccia le pratiche tradizionali con le pratiche cattoliche. L’ospitalità e il calore umano con cui sono stata accolta nella loro casa fanno parte di questo patrimonio ancestrale dove gli spazi comunitari si mantengono ancora in mezzo alle difficoltà e alle interferenze della televisione e del cosìddetto “progresso” che lascia le sue impronte dipinte nelle montagne di rifiuti che da San Cristobal portano sulle strade comunali, oppure nei cimiteri di alberi stroncati dai trafficanti della vita per venderne il legname . Sono state profonde le parole tessute intorno al fuoco, spazio pedagogico ancestrale. Mentre le donne “torteaban”72 iniziarono a lasciare da parte la timidezza per parlare degli aspetti che inquietano la loro vita comunitaria. Uno degli argomenti più rilevanti è stato la necessità di avere un’educazione comunitaria per superare gli effetti di un’educazione monolingue e di stampo colonialista che offre la scuola ufficiale. Un’educazione che nega loro la propria identità, provocando fra i giovani rotture identitarie che aumentano incertezze e paure. Un’educazione che incentiva il disgregarsi delle strutture comunitarie mentre alimenta il famoso sogno della vita in città o dei paesi lontani, come fanno vedere le famose 69 Registrazione disponibile al link: www.youtube.com / YolandaAbyaYala / Tejiendo el Huipil/Municipio de Huixtàn/ Ejido, è una delle forme di gestione collettiva della terra all’interno delle comunità indigene in Messico. 71 La Milpa fa riferimento all’orto, il terreno dove si coltiva il Maiz. 72 Tortear, è il verbo che indica “ fare le “tortillas”. Ma significa anche un sapere che si tramanda da generazione a generazione, in quello spazio pedagogico che costituisce il focolare domestico. 70 34 “telenovelas”. Uno scenario a cui i giovani si ritengono impreparati e dove l’essere tsotsil o tseltal, si perde per le strade delle grosse città o nei tempi del consumo chiamati centri commerciali. Altro argomento di cui si è parlato a lungo è stata la malattia della Madre Terra. La deforestazione e il problema per le Comunità, rappresentato dalle montagne di rifiuti nel loro territorio. Tutti problemi che rispecchiano i modelli di consumo e di “sviluppo” che niente hanno a che fare con il Lekil Kuxlejal, fondamento di vita del Popolo tsotsil. Infine, non poteva mancare il tema delle religioni e come queste incidono nel tessuto comunitario, cambiando, o molte volte vietando, le pratiche rituali tradizionali, oppure mescolando una serie di manifestazioni che molte volte creano confusione e allontanano i giovani da qualsiasi pratica spirituale della ritualità Maya, come sostiene il Dr. Miguel Sànchez Alvarez nella sua tesi di dottorato. Questo rituale della parola intorno al fuoco si è concluso a notte inoltrata, con la promessa di visitare il fiume e le fantastiche guardiane di pietra chiamate “Las Pastoras” e, tempo permettendo, anche un altro spazio cerimoniale chiamato la “Gruta de los Venados”. Il tempo è stato generoso e la visita a questi meravigliosi luoghi cerimoniali è stata possibile, partendo quasi all’alba, avendo la conferma che la memoria di questi popoli è scritta nelle montagne, le rocce, le pietre e gli alberi, come mi aveva avvertito tanti anni fa Berito Cubarubwa del popolo U’wa, in Colombia. Per un momento ho immaginato di essere nella grotta di Nailch’en Xchel, descritta con grande mistero dal professor Miguel73. La visita a Huixtàn, mi ha offerto scene e dimensioni di vita quotidiana importanti, per cui in soltanto cinque giorni il mio baule si è riempito di nuovo, lasciandomi tanti interrogativi. Uno fra tanti, riguarda la scarsa partecipazione della donna negli spazi sociali, politici e anche spirituali. Ci tengo ad accennare questo particolare, perchè sono pratiche che rompono con le pratiche ancestrali del Sumaj Kawsay delle Ande boliviane, dove la spiritualità si vive in Relazione con il tutto e il principio di complementarità del maschile e femminile sono fondamenti di armonia ed equilibrio. Qui, questa Complementarità l’ho percepita spezzata, soprattutto dopo avere partecipato a cerimonie religiose cattoliche dove un gruppo di 73 Sànchez A. Migel. Los procesos y elementos de apropiación territorial de los tsotsiles-tseltales en el municipio de Huixtán, Chiapas Tesis doctoral, 2009, p. 311. “Nailch’en Xchel. Nome della grotta e del centro cerimoniale dei tsotsiles huixtecos. Si trova ai piedi del (cerro) piccola montagna Xchel, in un lato dove nasce il fiume dallo stesso nome. I “ j-iloletik”, guaritori, e i “ j-ik’ o’etik”,( “richiedenti” dell’Acqua) vengono in questo luogo per chiedere la pioggia, la fertilità e l’abbondanza per le coltivazione e per gli animali domestici, ma anche la guarigione degli esseri umani. Xchel è anche il luogo dove andavano i cacciatori per chiedere il permesso di cacciare il cervo. Andavano anche le donne che volevano conoscere e dominare l’arte de jolob, tessere in un telaio speciale chiamato “telar de cintura”. Altro aspetto collegato con la dea Xchel o Ixchel, considera che all’interno del cerro Xchel si trovi un’altra dimensione del mondo, dove si custodiscono tutti gli animali selvaggi, grande diversità di piante e alberi da frutto. Lì esistono “servitori” che custodiscono e mantengono la vita e l’ordine. Le credenze huixteca sull’altra dimensione del mondo, nel “yut balamil o yolon balamil” rappresenta la continuità del pensiero maya preispanico. 35 “principali”, composto da tredici uomini, accompagnano il sacerdote nella liturgia e nelle celebrazioni di battesimi e comunioni.74 - Visita alle scuole elementari/secondarie e interviste con i docenti nei municipi di an Juàn Chamula, Huixtàn e Tenejapa. Qui ho avuto occasione di verificare l’insegnamento monolingue (spagnolo) in zone prevalentemente indigene, oppure l’incarico di un docente bilingue, per esempio di lingua tsoltsil, in zona di lingua tojolabal. Tutte queste, strategie della politica indigenista portata avanti dallo Stato Messicano a cui fa riferimento Bonfil Battalla75. Per quanto riguarda il tema dell’educazione istituzionalizzata nei comuni di Chamula, Huixtàn y Tenejapa, sono vari i punti che suscitano inquietudine. Per esempio non riesco a capire il senso di un’educazione primaria monolingue (spagnolo), in comuni dove tutta la popolazione è indigena. A mio avviso questa situazione limita la possibilità di stabilire una comunicazione diretta fra insegnanti e genitori. In tanti casi sono gli stessi figli ad assumere il ruolo di “interpreti” negli scarsi colloqui con le madri, considerando che la grande maggioranza parla il tsotsil o il tseltal. Di solito per le questioni che riguardano la scuola vengono privilegiati i genitori maschi, visto che sono loro che parlano anche lo spagnolo. Questa situazione peggiora la condizione di esclusione delle donne dagli scenari della vita pubblica, sociale, culturale, religiosa e politica. Un altro punto riguarda la nomina d’insegnanti bilingue in contesti diversi alla loro competenza linguistica. Esempio: docenti di lingua madre tseltal, tsotsil o Ch’ol in zone di lingua tojolab’al. A questo scenario di squilibrio, si aggiunge il fatto che i curricula delle scuole secondarie non prevedono una continuità dell’insegnamento bilingue e tanto meno a livello della scuola superiore, chiamata “prepa.” Inoltre, è necessario considerare il basso livello con cui arrivano alle medie gli studenti che hanno frequentato le scuole elementari bilingue, situazione che genera un alto livello di abbandono scolastico, visto che gli studenti arrivano con grandi vuoti, frutto di una scarsa padronanza dello spagnolo e della mancanza di docenti veramente bilingue che possano 74 75 Registrazione disponibile al link: www.youtube.com / YolandaAbyaYala / Tejiendo el Huipil/Ceremonia ritual Huixtàn Bonfil Batalla, Buillermo, Mèxico Profundo. Una civilizaciòn negada. Grijalbo, 1989 36 declinare le due lingue per approfondire, nella loro lingua, i diversi argomenti. A questo si somma anche l’incapacità dei genitori di rafforzare l’insegnamento dello spagnolo, visto che la maggior parte del tempo in famiglia lo trascorrono insieme alla madre, e questa come detto prima non parla lo spagnolo. - Visita nella città di San Cristobal de las Casas alla (OMIECH) Organizzazione di Medici Indigeni Maya dello Stato del Chiapas Il Museo della Medicina Maya forma parte del Centro di Sviluppo della Medicina Maya (CEDEMM). Ha come obiettivo principale la diffusione delle pratiche curative tsotsil-tseltal nello Stato del Chiapas. È costituito da diversi ambienti museografici che ricreano gli usi di questa medicina tradizionale, e la pratica e gli usi terapeutici utilizzati dalle diverse specialità dei medici tradizionali (guaritori) J'ilol (pulsador – medico che prescrive cure sentendo le pulsazioni delle persone ), K’oponej witz (rezador de los cerros – Specialista nelle invocazioni e preghiere alle montagne), Tzak’bak (huesero – Specialista nelle ossa ), Jve’t’ome (partera, ostetricha) y Ac’vomol (hierbero – medico delle erbe). In questo spazio la (OMIECH) agisce per mantenere viva la saggezza ancestrale attraverso la medicina tradizionale, offrendo anche ad un pubblico urbano le cure dei Medici Tradizionali. Tutto un insieme di specialità per l’esercizio della naturopatia e l’erboristeria, nonché ostetriche tradizionali che ancora esercitano la loro professione. La OMIECH si gestisce autonomamente, in parte con fondi della cooperazione internazionale e in parte con il ricavato delle vendite dei prodotti omeopatici nella loro farmacia, ma non ha nessun finanziamento ufficiale dallo Stato del Chiapas. Nel momento della mia visita, maggio 2011, l’ospedale delle culture aveva proposto alle direttive di firmare un accordo di collaborazione fra le due realtà, soprattutto per quanto riguarda il caso delle ostetriche, in modo di accrescere la fiducia nel confronto delle donne indigene che si rifiutano di andare a partorire negli ospedali, per mancanza di persone che possano capire la loro cultura. In merito ho intervistato a Flavio, giovane tseltal di 28 anni, hierbero (erborista), nonché specialista ostetrico, caso poco comune visto che questo mestiere lo esercitano preferenzialmente le donne. “ io sono uscito dalla mia Comunità per studiare come promotore di salute, dopo sono tornato, per servire, per lavorare con la mia gente. Quando sono tornato ho iniziato ad accompagnare le nostre ostetriche (Parteras) e così ho imparato. Per fortuna sempre sono sempre stato 37 accompagnato da loro, non ho dovuto ancora assistere un parto da solo. Adesso qui in città non ho quasi occasione di fare l’ostetrico perché ora sono nel Consiglio dell’OMIECH, ma comunque continuo il mio apprendistato sia come “partero” che come “erborista”. Siamo più di 17 Comunità in tutto lo Stato del Chiapas e al nostro interno ci sono più o meno 60 “parteras”. In quanto al l’interesse dell’ospedale è più legato al voler farsi vedere a livello internazionale, perché prima non ci hanno considerato. Adesso forse perché anche l’UNESCO si è interessata a noi. In aprile, nella giornata mondiale della salute, l’argomento scelto dal governo è stato proprio “las parteras tradicionales”, ma diciamo che nonostante questo interesse, non ci sono al momento nessun tipo di rapporti ufficiali76” Ho avuto anche occasione di intervistare Sebastiana Hernandez Intzin ostetrica tradizionale presidente dell’OMIECH, che mi racconta che nella sua vita ha perso già il conto di quanti bambini ha ricevuto in questo mondo, e dice con orgoglio che ancora tutti sono vivi. Loro due sono parte dei quasi 800 membri di quest’associazione. Attraverso di loro ho avuto la conferma che i giovani e le donne sono parte attiva in questo processo di trasmissione dei saperi, anche senza un ruolo attivo nelle istituzioni. - Partecipazione ai Laboratori di “normalización lingüística”. Questo processo è stato avviato già da due anni, con la partecipazione di docenti, anziani e persone appartenenti a otto dei dodici gruppi linguistici dello Stato del Chiapas, volto a regolamentare la scrittura di lingue che fino ad oggi sono state trasmesse oralmente, nell’intenzioni di mettere le fondamenta per la creazione dell’Accademia delle lingue Maya e Zoque. Il processo è stato abbastanza complesso e nelle ultime tappe, alle quali sono stata presente, sono emerse delle limitazioni e dei dibattiti accesi, sull’opportunità o meno di lasciare scritte lingue nutrite fino ad oggi dalla tradizione orale. La discussione fra professionisti indigeni di diverse discipline: linguisti, antropologi, insegnanti delle scuole elementari e anziani delle comunità – non parlanti lo spagnolo- è stata ricca di elementi. Uno dei punti più sentiti da parte degli anziani era il rifiuto alla traduzione letterale in spagnolo, argomentando che in quel passaggio si perdeva tutta 76 Intervista realizzate a San Cristobal de las Casas nel febbraio 2011, consultabile al link www.youtube.com / YolandaAbyaYala / Tejiendo el Huipil / OMIECH-Mèdicos Tradicionales/ 38 l’integralità della lingua, ma soprattutto si perdeva la connessione che ogni parte aveva con il tutto, situazione su cui i linguisti professionisti non erano d’accordo. Le discussioni più accese riguardano alcune parti del corpo, e queste mi sono rimaste impresse. Non ho la scrittura in lingua tsotsil che era quella che si discuteva in quel momento, ma ci tengo a fare riferimento specifico a: “ testa del mio piede” –ginocchia; “finestre della mia bocca” – labbra -; “farfalle dei miei occhi” – ciglia -. - Partecipazione al “Primo incontro di intellettuali indigeni” all’UNICH. È stato grazie all’intervento del mio tutor professor Miguel Sànchez, che ho avuto il privilegio frequentare queste due giornate, considerando che si trattava di uno spazio chiuso per i professionisti indigeni che per la prima volta si trovavano a fare un esercizio di memoria collettiva per cercare di sanare le ferite del passato e prendere in mano come intellettuali il destino sia della storia individuale che collettiva, ma soprattutto la costruzione di modelli pedagogici diversi da quelli subiti da loro nelle strutture dell’educazione istituzionalizzata. Quest’esperienza è stata preziosa per la mia ricerca perché ho avuto la possibilità di condividere quattordici storie di vita dei professionisti indigeni, che, con le lacrime agli occhi, hanno voluto condividere i passaggi più amari della loro infanzia ma soprattutto i momenti più difficili della loro vita alle scuole superiori. Queste ore dense di sofferenze ma anche di impegno mi hanno permesso di ricavare tante informazioni, riguardanti le rotture identitarie cominciate negli anni della scuola media, quando hanno cominciato a negare la loro identità indigena, trascinando fino alla fine degli studi universitari un conflitto interiore che ha logorato parte della loro esistenza. Alla fine delle due giornate la maggioranza dei partecipanti concordano su un passaggio altamente significativo della loro esistenza che riguarda una fase di coscienza identitaria che comincia alla fine degli studi universitari. Due aspetti vengono ricavati da questi due giorni di riflessione come elementi base per avere una solidità identitaria in grado di aprire anche all’interno della loro comunità quegli altri “orizzonti del possibile”: la padronanza parlata e scritta della lingua materna e la spiritualità e le pratiche educative comunitarie. Da qui anche una certa responsabilità sul fatto di non avere trasmesso ai figli la lingua madre, precisamente per evitare quello stigma di cui loro erano stati vittime, ma si è fatto anche sentire il richiamo di chi ha detto: “abbiamo ancora tempo per farlo”. 39 È stato proprio dal bisogno di costruire nuovi modelli di educazione che sono partiti per organizzare questo incontro, a cui sono stati invitati tutti i professionisti, uomini e donne, impegnati nelle diverse aree dell’educazione. Lo sguardo centrale della discussione dopo le giornate di memoria e riflessione, è stato rivolto ai giovani. Ai vuoti e alle incertezze con cui si devono confrontare quando, attratti dalla televisione, dalla telenovelas, dal vicino più ambito, gli USA, o da quel Mexico “immaginario” del nord, decidono di emigrare dalle loro comunità, diventando esseri frammentati e doppiamente assenti ( prendendo in prestito le parole di Sayad).77 Queste ore dense di sofferenze ma anche di impegno mi hanno permesso di ricavare tante informazioni, ma allo stesso tempo è stato un momento importante rappresentato dalla presa di consapevolezza delle responsabilità e dell’impegno di prendere la vita nelle proprie mani e passare dalla “condizione data” alla “destinazione prescelta78” - Esercizio -rituale/ Pedagogico (UNICH)79 Rito UNICH – San Cristobal de las Casas – febbraio 2011 77 Sayad, Abdelmalek, La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, Rafaello Cortina, Milano 2002. 78 Bertin, G.M., Contini MG, Educazione alla progettualità esistenziale, op, cit. pp. 11-14 79 Realizzato il 22 febbraio 2011 nella sede della UNICH, per commemorare l’inizio del nuovo ciclo nel calendario lunare Maya. Hanno partecipato tre corsi di diverse Facoltà, accompagnati dai loro insegnanti di lingua (tsotsil e tseltal). 40 Quest’esperienza ha messo in evidenza la difficoltà degli studenti a partecipare a dinamiche di gruppo che richiamino le pratiche comunitarie tradizionali. Il semplice esercizio di formare un cerchio fra i partecipanti, o sedersi per terra, è diventato una barriera per la loro partecipazione. Una difficoltà ancora maggiore si è manifestata davanti ad una forma diversa dal rito cattolico per esprimere altre forme di spiritualità, ad esempio salutare in senso orario le sette direzioni dell’Universo (Est, nord, ovest, sud, sopra, sotto e mezzo), o innalzare le braccia per salutare il Sole o danzare intorno al Fuoco; tutte pratiche molto normali nei riti dei popoli originari del Abya Yala. In questa occasione non è stato possibile avere la presenza di un “rezador” (cerimoniere) tradizionale di alcune comunità vicine, perché hanno richiesto un compenso non sostenibile. - Partecipazione al “Sexto Encuentro de Especialistas de la Región Norte de Jalisco y el Sur de Zacatecas” A questo incontro sono stata invitata dall’Università di Guadalajara - CUNORTE (Centro Universitario del Norte, Universidad de Guadalajara) per partecipare come relatrice al workshop “Educación e Interculturalidad”. Quest’esperienza mi ha consentito di avvicinarmi alla cultura Wixarica (Huichola), nonché alle problematiche non soltanto educative ma anche politico sociali dello Stato di Jalisco, fra cui il delicato problema del narcotraffico nella regione. In merito a questo argomento ho avuto possibilità di fare una visita al municipio di Mezquitic, dove ho intervistato alcuni funzionari del comune e alcune persone residenti, che non avevano però molta voglia di approfondire l’argomento. Dal punto di vista educativo, è stata invece molto interessante la visita all’Università Pedagogica Nazionale (UPN) aperta di recente a Mezquitic, con un primo gruppo formato da una trentina di studenti indigeni (Wirarica) e due “meticce”. La conformazione di questo gruppo con maggioranza di studenti indigeni, ha creato una dinamica interculturale spontanea gestita dagli studenti stessi, che niente ha a che fare con i programmi e i contenuti seguiti a livello nazionale. 41 - Partecipazione al Primo Congresso Educativo Regionale: “La Reforma de secundaria y la interculturalidad” nella Universidad Tecnológica de la Selva ad Ocosìngo.80 In questo evento sono stata relatrice, col tema “Oltre Oceano altri Orizzonti del possibile. Dialogo di saperi per una Pedagogia Interculturale”. Durante quest’esperienza sono entrata in contatto diretto con un gruppo di ottanta docenti delle scuole secondarie che hanno partecipato all’incontro, avendo così la possibilità di confermare la spaccatura dei programmi nel passaggio dalle elementari alla secondaria, dove nessuna delle scuole ha un programma bilingue e dove i bambini arrivano parlando le loro lingue materne, con grosse difficoltà nel capire e seguire i diversi insegnamenti, situazione che gli stessi insegnanti non riescono ad affrontare. Pensieri intrecciati Proprio per la complessità delle esperienze vissute, devo confessare che è stato assai complicato navigare nelle acque di quel “Messico Profondo” descritto da Bonfil Batalla nel suo libro. Mi risulta difficile percepire la tradizione e le filosofie dei popoli originari in Chiapas, in mezzo alle tormente politiche dei diversi partiti: PRI, EL PAN, EL PRD, CONVERGENCIA, el PARTIDO VERDE ECOLOGISTA DE MEXICO, o davanti all’invisibile presenza del EZLN, la quale svanisce o si glorifica in base all’interlocutore. Ma nonostante ciò è evidente che la storia dello Stato del Chiapas è rappresentata da un prima e un dopo il 1994, anno della rivoluzione Zapatista. Non meno difficile è stato intravedere attraverso il gremito panteon di divinità del suggestivo scenario della chiesa di “San Juàn Chamula”, che vengono venerate da nativi e visitanti durante il colorito percorso di offerte, dove ho osservato, anche con un certo stupore, la sacralizzazione della coca cola elevata a bibita rituale. Da questo punto di vista il panorama si complica se aggiungiamo la proficua presenza delle chiese cristiane avventiste e del settimo giorno, senza parlare delle chiese anglicane “Ali d’Aquila”. 80 Alcune delle registrazioni possono essere consultabili al link www.youtube.com /YolandaAbyaYala /Tejiendo el Huipil/Primer Congreso Regional UTS-Ocosingo Chiapas/ 42 Non è affatto semplice capire la funzione o misurare l’efficienza o la missione, delle agenzie dello Stato Federale o della Nazione, che si occupano della “questione indigena”: DGEI, CDI, INALI, CGEIB, CELALI, SECRETARIA DE PUEBLOS INDIOS e SEDESOL , fra le tante. A questo si somma la visita al Museo Nazionale di Antropologia a Chapultepec, così come al museo Tojolab’al nell’antica “hacienda” “Napité” del municipio de las Margaritas,Chiapas, dove tutti i pannelli esplicativi, così come la guida del museo, usavano i verbi in tempo passato, per fare riferimento ai Maya o ai Tojolabales, come “loro” che “esistevano”, “vivevano”, “vestivano”. Sembra, quindi, che la funzione pedagogica del museo sia convincere i propri protagonisti della loro funesta scomparsa. Ci vogliono dei sensi molto raffinati per riuscire a percepire le sfumature di quell’intreccio di divinità che fonde in un insieme sacro a Ixchel, Tonantzin, Tlalli, Coatlicue o Tlaltecuhtli, con l’immagine della madonna di Guadalupe, in mezzo a San Giovanni, San Isidoro, Sant’Antonio o Gesù Cristo. Ma, è proprio di questa complessità che questo cammino “oltre oceano” si è nutrito, intrecciando i pensieri di giovani, uomini e donne di Maìz, che come Shukara, Eulogia, Yanet, Lucìa, Sebastiana, Adriana, Cristina, Juàn, Leonel, Josè, Yuro, Andrès, Flavio, Roberto e Manuel si sono impegnati, alcuni attraverso l’accademia, ma sopratutto dalla vita stessa, in stretto rapporto con le loro comunità e in intima relazione con la propria spiritualità, alla ricerca di quella saggezza ancestrale della Terra, per ri-tessere i fili di quel pensiero complesso dei loro popoli, ritrovando quella “identità terrestre81, la “coscienza di specie”82,o la “progettualità esistenziale83”, capisaldi che hanno costituito da sempre, la linfa vitale delle loro cosmovisione e che gli studiosi contemporanei chiamano “paradigma olistico” o “pensiero complesso”. Concludo, esprimendo la mia immensa gratitudine a tutte le persone che hanno resa possibile questa prima esperienza sul campo nello Stato del Chiapas. Esperienza che mi ha permesso di concretizzare l’orizzonte di riferimento e di acquisire conoscenze per la costruzione dell’apparato teorico- metodologico, focalizzando le mie ipotesi di ricerca su nuclei tematici più specifici riguardanti le trasmissioni dei saperi, e di avere una domanda in più nella mia ricerca: come s’insegna e come s’impara oggi nei popoli originari dell’Abya Yala? Partendo quindi da questo orizzonte mi propongo d’indagare se il modello pedagogico dei Popoli Originari, fondato nel rispetto, la comunione e l’armonia “esseri umani-natura”, sia Morin, Edgar, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Raffaello Cortina, Milano 2001, p.63 Toledo, Victor. Polis, Revista de la Universidad Bolivariana, Volumen 8, Nº 22, 2009, p. 219-228 83 Bertin, G. Maria e Contini, Maria Grazia, Educazione alla progettualità esistenziale, op. cit. 81 82 43 vigente ancora oggi ?. Se, potrebbe questo diventare un paradigma da proporre come alternativa alla crisi delle società contemporanee?, e infine, se potrebbe contribuire alla proposta di educare ad una coscienza planetaria inclusiva, rispettosa della differenza, della dignità umana e della vita in tutte le su diverse manifestazioni.? 0.2.1.1 Le esperienze e il Contesto a Cochabamba La seconda tappa di questo primo viaggio è stata la città di Cochabamba, dopo una piccola sosta per contemplare le sfumature del cielo e gli interstizi del tempo dipinti sulle brume magiche del Lago Titicaca e la memoria viva germogliante nel centro rituale di Tiwanaco. Non sono bastati i giorni e le notti trascorsi in Bolivia per riuscire a cogliere la saggezza millenaria dei loro Popoli, ma ho approfittato di ogni momento e nonostante la fatica e la stanchezza, quaderni e quaderni cominciarono a riempirsi in maniera così precipitosa che decise di non scrivere più per qualche giorno, permettendomi di percepire con tutti i sensi il profumo delle sacre foglie di Coca, che con grande generosità e senza brevetti di nessun tipo hanno regalano da sempre la loro millenaria saggezza. Mentre le masticavano – pratica millenaria dei popoli delle Ande -, Leonel, Rogelio e Eulogia mi trasmettevano con le loro parole semplici, un sapere millenario sintetizzato nella chiamata “metodologia della Chakana” La complessità dell’argomento mi ha fatto riprendere una e più volte le interviste con Eulogia, Leonel, e le altre persone del Centro di culture Originarie (KAWSAY), per mia fortuna, con grande pazienza e in linguaggio molto semplice hanno avuto la generosità di spiegarmi molte cose che non si possono scrivere, perché così l’hanno deciso i loro saggi. Leonel, da parte sua ha messo a mia disposizione uno dei suoi pochi lavori scritti, grazie al quale la cornice epistemologica della mia ricerca si va pian piano consolidando ed Eulogia mi ha condiviso il lavoro di “sistematizzazione”attraverso la metodologia della Chakana, del processo di coltivazione delle patate nella sua Comunità de Moyapampa della Nazione Kallawaya in Bolivia.84 84 Capajeique Eulogia, “Papkuna Moyapampaq Kawsanimpi”. Las Papas Nativas en la vida de la Comunidad de Moyapamba., Naciòn Kallawaya. Sawsay, Framtidsjorden. (Tierras del Futuro –Suecia) Cochabamba Bolivia noviembre 2010. 44 Gruppo di lavoro Kawsay- Processo di coltivazione delle patate nella Nazione Kallawaya “Le mamme delle patate ( mama tawichu) sono sacre. Non si vendono e si custodiscono preziosamente fino al giorno della Madonna della Candelaria, il 2 di febbraio, data che coincide con il calendario agricolo del mese della grande produzione “Jatun Poqoy Quilla”85 0.2.2 Il Contesto e le Esperienze Durante il Secondo Viaggio in Abya Yala86 Una volta iniziata la trascrizione del materiale raccolto sentì la necessità di approfondire alcuni elementi che potevano aiutarmi a trovare “la struttura che connette” fra le diverse cosmovisioni e le pratiche di trasmissione dei saperi che a livello comunitario si nutrono 85 86 Ivi, p.13 Fra novembre 2011 a settembre 2012 45 dalla saggezza ancestrale dei Popoli attraverso quelle dimensioni di Mondi che ho chiamato “filosofie della Terra per una Pedagogia della Vita”. Furono queste le motivazioni che mi spinsero ad intraprendere questo secondo viaggio, nell’intenzione di capire le fondamenta e i capisaldi che sostengono la proposta del “Buen Vivir”, come nuovo paradigma in grado di dare risposta alla crisi planetaria in atto: “ Il Paradigma Ecologico e Comunitario”. Capire le fondamenta del “Buon Vivere”, può permettere nello scenario di quegli “altri orizzonti possibile”, di dialogare con i concetti di “Ecologia della Mente”, di cui ci parla Bateson, dell’ educazione “all’identità terrestre” di cui ci parla Morin e dell’educazione “alla progettualità esistenziale” in sintonia con il pensiero di G. M Bertin e Mariagrazia Contini. Obiettivi Raggiunti L’Università di Cartagena, attraverso la mia tutor, Dssa. Diana Lago di Vergara, coordinatrice del dottorato in Scienze dell’Educazione della Rete di Università Statali della Colombia (RUDECOLOMBIA), mi ha offerto la possibilità di partecipare ad importanti scenari sia a livello della Colombia che del Centro e Sudamerica, appoggiando incontri con la comunità accademica: docenti, studenti, ricercatori, dottori e dottorandi in scienze dell’educazione, appartenenti alle reti RUDECOLOMBIA, e SUECARIBE 87, che portano avanti ricerche attinenti al mio tema. Durante questo periodo, oltre all’opportunità di partecipare agli spazi istituzionali e ai diversi incontri con i pari accademici, ho avuto la possibilità di realizzare importanti esperienze sul campo che hanno contribuito decisamente ad arricchire la mia ricerca, attraverso i laboratori, interviste, focus Group, realizzati con diverse comunità indigene del Centro e Sudamerica. Queste esperienze sono state particolarmente dense di significato, da una parte grazie al lavoro in situ, dall’altra, alla partecipazione negli spazi istituzionali. A continuazione elenco in ordine cronologico le attività portate avanti in questo periodo, le quali sono state previamente concordate ed autorizzate dalla Dssa. Lago. 87 Sistema Universitario Estatal del Caribe Colombiano 46 - Novembre- dicembre 2011 ( San Cristobal de las Casas – Chiapas- Messico  Università Intercultural de Chiapas (UNICH) Partecipazione come docente invitata nel laboratorio “Buen Vivir: Miradas desde abajo y desde adentro para el diàlogo y la inter-comprensiòn intercultural”, all’interno del progetto UNICH-IESALC-  UNESCO. I risultati di questo progetto sono stati pubblicati recentemente88. Centro de Investigaciones y Estudios Superiores en Antropologìa Social. Unidad Sureste (CIESAS). Partecipazione come “Asesora Pedagògica” nel corso Fortalecimiento del liderazgo de mujeres indìgenas. Segunda Promociòn” – San Cristobal de las Casas – Chiapas – Messico ( Novembre14 a dicembre 9 ). I lavori di ricerca delle partecipanti sono raccolti in una pubblicazione di data recente89. Questa partecipazione mi ha permesso di entrare in contatto con ventidue donne, provenienti da undici Popoli Originari dell’America Latina, fra cui Ernestina Sotomayor Candia, appartenente al Popolo Quechua in Perù. Natalia Sarapura, appartenente al Popolo Kolla in Argentina e Monica Michelena, del Popolo Charrùa in Uruguay, tutte donne leader delle loro Comunità, che ho avuto opportunità di visitare nei loro territori. Foto de Mariana Lòpez (FIMI)90 88 Sartorello, Stefano C., Àvila Leòn E, Àvila Agustìn, coordinadores, El Buen Vivir: Miradas desde adentro de Chiapas, UNICH-IESALC-UNESCO, San Cristobal de lasCasas, 2012 89 Burguete Cal y Mayor Aracely, Blickwede Verena, Condarco Homayra, Stengel Claudia. Introducciòn y colaboraciones, Universidad Indigena Intercultural. Fondo Indigena, La Paz Bolivia, Noviembre 2012 90 Foro Internacional de Mujeres Indìgenas. 47 - Gennaio 2012 ( Regione del Cesar - Colombia ) Visite e interviste al popolo indigena Kankuamo, uno dei quattro popoli della Sierra Nevada de Santa Martha, per socializzare con le autorità delle singole Comunità, la realizzazione di un laboratorio rivolto alle donne kankuame sul tema “Genere, Spiritualità e Territorio” - Febbraio – aprile 2012 ( Stato Plurinazionale di Bolivia – Provincia di Jujuy Nord dell’Argentina e Uruguay ( Montevideo)  Partecipazione insieme al gruppo di ricerca “AA’INI” dell’Università della Guajira Colombiana, nel seminario internazionale “Educaciòn productiva, comunitaria, descolonizadora intra-intercultural en el Estado Plurinacional de Bolivia” – Cochabamba - ( febbraio 2 al 9 ) Durante la settimana del seminario è stato importante l’intervista con il Viceministro per la descolonizaciòn: Fèlix Càrdenas, nonché la possibilità di visitare l’Università Mayor de San Simòn a Cochabamba e le interviste con il professore Vidal Arratia Torres, coordinatore della facoltà di Scienze dell’Educazione e il professore Vicente Limachi Pèerez, direttore del Dipartimento di Post-Grados (Educazione avanzata) e del PROEIBANDES, che gestisce in collaborazione con il Fondo Indigena,  il programma dell’Università Indigena Intercultural. Visita all’Università Indigena Aymara “TUPAC KATARI”, nel comune di Cayahuani ( La Paz). Laboratorio con gli studenti e docenti di tutte le facoltà sul primo capitolo  della mia tesi “Filosofie della Terra per una Pedagogia della Vita” ( 13-15 febbraio) Riunioni e interviste a tre ragazze studentesse provenienti dal Nepal, Sudafrica e Amsterdam, iscritte al : Youth Initiative Program “YIP” dell’associazione di antroposofia “SOFIA”, -Svezia - che in collaborazione con il “Centro de Culturas Originarias KAWSAY” a Cochabamba,  promuovono scambi interculturali con giovani di 18 paesi diversi. ( 24 febbraio). Visita al comune di Charazani, territorio della nazione KALLAWAYA, per partecipare ai laboratori di socializzazione dello Statuto Autonomo. Questa esperienza è particolarmente importante, se si considera che la medicina tradizionale del popolo Kallawaya è stata dichiarata dall’UNESCO, patrimonio immateriale dell’umanità nel 2003. ( 25-27 febbraio). 48  Riunioni e interviste con i membri del Centro di culture originarie KAWSAY e il suo direttore Leonel Cerruto, sui programmi di educazione comunitaria che loro portano avanti nelle diverse comunità, fra cui la comunità di Cuatro Esquinas, nel comune di Tikipaya ( Cochabamba) dove ho avuto l’opportunità di partecipare come docente invitata. Inoltre ho avuto l’opportunità di partecipare al seminario “Taller plurinacional de definiciòn de estrategias de construcciòn de curriculos regionalizados” realizzato a Cochabamba, sotto la direzione del Ministero Nazionale  di Educazione. ( 28 febbraio – 9 marzo ).91 Visita alla provincia di Jujuy, (Nord dell’Argentina) per indagare sul processo di educazione e recupero delle culture originarie del Nord dell’Argentina, fra cui i Popoli Kolla, Ocloya, Diaguita, Omaguaca e Guaranì, portata avanti dal “Consejo de Organizaciones Aborìgenes de Jujuy” (COAJ), attraverso l’implementazione del corso “Tecnicatura en desarrollo indìgena”, oggi riconosciuta dallo Stato argentino. Qui ho avuto la possibilità di intervistare più di 30 persone, studenti e docenti, fra cui   la sua direttrice e leader indigena Natalia Sarapura.( 12 – 16 marzo).92 Partecipazione come osservatrice –ricercatrice, nelle attività della fiesta tradicional del Pujllay en el municipio de Tarabuco – Chuqisaca - Bolivia. (18 marzo 2011). Esercizio di “osservazione partecipante”, nell’incontro realizzato a TIWANAKU, in occasione del equinozio di autunno, festività rituale molto importante per i popoli Quechua e Aymara. ( 21 marzo 2012). Rito dell’equinozio a Tiwanaku – Bolivia – Marzo 2012 91 92 Interviste disponibili al link: www.youtube.com / Kawsay Metodologìas Propias /Talleres/ Interviste disponibili al link: www.youtube.com/ COAJ / Tecnicatura en Desarrollo Indìgena / Natalia Sarapura. 49  Visita alla città di Montevideo, per realizzare interviste con persone appartenenti al processo di recupero culturale del popolo Charrùa. Intervista con la loro referente: Monica Michelena, partecipante al corso su “ Fortalecimiento del liderazgo a mujeres Indìgenas”, organizzato dal Fondo Indigena. ( 27 marzo – 10 aprile)93 - Maggio – settembre 2012 ( Colombia)  Visite alle Università del Cesar e Cartagena per interviste con studenti e docenti del dottorato in Educazione del SUECARIBE e partecipazione come docente invitata all’Università della Guajira nel corso di “Etnoeducazione, Interculturalità e Diversità”, all’interno del programma di Etnoeducazione della facoltà di Scienze  dell’Educazione. ( maggio e agosto ) Visite alla “Casa del Sapere” del Chuscal, nella zona rurale del municipio di Cubarà – Boyacà - del popolo U’wa e interviste con docenti indigeni e il loro capo spirituale Berito Cubarubwa, così come docenti non indigeni della scuola nazionalizzata “Pablo  VI” nella zona urbana del municipio di Cubarà- Boyacà - Colombia94 (giugno 2012) Partecipazione come relatrice al convegno internazionale “Experiencias latinoamericanas y del Caribe” nel workshop “Interculturalidad y fronteras”. ( 12 14 luglio ).  Universidad del Zulia en Maracibo - Republica Bolivariana de Venezuela. Partecipazione come docente al laboratorio “Territorio, Sitios Sagrados y Medio Ambiente”, rivolto a più di novanta donne, anziani e autorità del popolo Kankuamo.  (Cesar – Colombia - Agosto 2012)95 Partecipazione come docente al laboratorio “Un modelo etnoeducativo Kogui”., presso il collegio di San Antonio in Territorio del popolo Kogui, Sierra Nevada de Santa Martha, gestito dalla Diocesi di Riohacha – Guajira, con la partecipazione di docenti indigeni e non. ( 1 – 7 settembre 2012)96 93 Intervista disponibile al link: www.youtube.com / YolandaAbyaYala / Mujeres de AbyaYala/ Monica Michelena Pueblo Charrùa 94 Ibidem / PensamientoTerritorioMemoria/Kajkrasa Ruyina-Casa del Saber / Pueblo U’wa. 95 Ibidem / PensamientoTerritorioMemoria/Pueblo Kankuamo/Taller CuerpoTerritorioMemoria/ 96 Ibidem / PensamientoTerritorioMemoria/ Pueblo Kogui /Taller Curriculum Propio. 50 Laboratorio in territorio Kogui – Colombia settembre 2012  Università di Cartagena: Partecipazione alle riunioni di organizzazione e coordinamento del gruppo di lavoro “Interculturalidad e Identidad en America Latina y el Caribe”. Partecipazione come uditrice nelle giornate accademiche di lettura di tesi degli studenti della seconda e terza promozione del dottorato in Scienze dell’Educazione. Partecipazione al XIII congresso della Società Latinoamericana di Studi sull’America Latina e i Caraibi (SOLAR), come relatrice nel gruppo di lavoro “Educazione e Pedagogie per la diversità”. ( 10-14 settembre) 0.3 LA SCRITTURA Nel redigere questo elaborato, considerando che sono iscritta ad una istituzione universitaria occidentale, per rigore epistemologico non posso fare altro che trovare le figure linguistiche e i riferimenti teorici che mi consentano di connettere i due pensieri. D’altra parte non posso fare a meno di attingere alle fonti e ai registri ritagliati da quelle esperienze di Vita che sono riuscita a condividere, cercando di immergermi nei mondi in cui 51 la Vita, sia loro che mia, è stata vissuta. In questo senso ritengo doveroso esplicitare quanto segue:  In primo luogo, ribadisco che non ho avuto “informatori” ma interlocutori, per cui l’informazione ottenuta attraverso alcuni degli strumenti metodologici dell’accademia occidentale: “focus group, workshop, laboratori, interviste, colloqui, storie di vita”, è stata condivisi e rielaborata con gli stessi protagonisti – i Popoli-, come riportato nelle diverse testimonianze e risultati dei gruppi con cui ho realizzato dei laboratori. Direi che è stato un processo molto più vicino a quello dell’ “etnografia in collaborazione” a cui fa riferimento la antropologa statunitense Rappaport. Inoltre, i risultati in alcuni casi, possono rispondere al processo di concettualizzazione condivisa, la “co- teorizzazione” a cui fa riferimento la stessa Rappaport, ad esempio nel caso del Popolo Kogui, arrivando ad abozzare una proposta di modello educativo proprio, chiamata “Malkua”,97 . Infine, tutto il processo è stato segnato da alcuni degli elementi della “ Investigaciòn Acciòn Participativa”, accennata sopra, soprattutto per quanto riguarda il coinvolgimento e impegno diretto da parte mia, in veste di “ricercatore  partecipante.” La metodologia che ho scelto per la presentazione di questo processo di “etnografia in collaborazione”, è stata la “Metodologia della Chakana” (sotto indicata), la quale incorpora tutti i passaggi dell’esperienza descritta lungo queste pagine, la quale deve essere vista attraverso la chiave di lettura che ho denominato “ConoSCentire” nell’intenzione di rendere percepibile l’intima connessione fra il “sentire-pensaredire-fare” comune ai Popoli presi in considerazione e che si manifesta in modo specifico nella struttura della cosmovisione delle culture delle Ande, attraverso il “Estar Siendo-Ocurriendo Siempre no Mas. La Sabidurìa Inca del Sentimiento98”, la cui traduzione letterale diventa impossibile (sarebbe qualcosa del tipo Stare Essendo Accadendo Sempre “non più”. La Saggezza Inca del Sentimento), ma di cui ricavo il  concetto intrecciato che ho chiamato appunto, “ConoSCentire”. Un secondo chiarimento importante riguarda la dimensione Spazio/Tempo. Per riuscire ad apprendere le dimensioni in cui la loro conoscenza viene costruita e la continuità nel processo di trasmissione della conoscenza (che inizia dal momento del concepimento nel ventre materno fino al momento della morte) si fa necessario 97 Cfr. IV capitolo del presente elaborato. Wild del Campo, Pedro, El Estar Siendo-Ocurriendo Siempre no Màs. La sabidurìa Inca del Sentimento, Tesi di laurea in antropologia. Santiago –Chile. 2001. 98 52 comprendere che il processo d’insegnamento/apprendimento si concretizza in uno Spazio definito dai Popoli come “Territorio”, la loro “Aula Magna” all’interno di una loro “Alma Mater Studiorum”: La Vita. Un Territorio in connessione profonda col Corpo attraverso relazioni tra funzioni vitali, salute/malattia che collegano la malattia del Corpo con le “malattie sociali” e le malattie dello Spirito con le malattie della Terra. “Il Territorio è il fondamento sul quale nasce la vita degli U’wa, Cuore del mondo. E’ uno spazio biogeografico delimitato. Il Territorio che figura nella mitologia dei canti (la geografia cantata) degli U’wa va dalla Sierra Nevada di Mèrida nel Venezuela e comprende le attuali popolazioni di Chinacota, Malaga, Oiba, Chima, Bucaramanga, Chiscas, Chita, Salinas di Chita, Guican e Piedemonte llaneros. Include la regione denominata del Sarare (Dipartimenti di Arauca, Nord di Santander, Santander, Boyacà e Casanare) che va dalla Sierra Nevada del Cocuy e dal Piedimonte Llanero (dal sud), fino alla valle di Pamplona nel nord”99 Altri studiosi si sono occupati di fare riferimento a questa dimensione, proprio per la pregnanza che questo “concetto” ha per i Popoli Originari delle Americhe. “ La terra non si concepisce come una merce. Esiste un vincolo molto più profondo con essa La terra è sì una risorsa produttiva indispensabile, ma è ancora molto di più: è un territorio comune100, che forma parte dell’eredità culturale ricevuta. È la terra dei “maggiori”101; in essa riposano gli antenati, i defunti. Lì in quello spazio concreto, si manifestano in diverse forme le forze superiori. .(…).. La Terra è una entità viva, che reagisce alla condotta degli uomini, per questo le relazioni con essa non sono puramente meccaniche ma si stabiliscono simbolicamente attraverso innumerevoli riti espressi in miti e leggende. Spesso, l’immagine che si ha del mondo è organizzata a partire di quel territorio, che occupa il centro dell’Universo.”102 Spiegare il Territorio come lo spazio in cui si comprende la totalità delle cosmovisioni e la vita quotidiana della Comunità con l’insieme di pratiche pedagogiche che in essa si costruiscono è fondamentale per proseguire nell’analisi di quanto chiamo “ecologia dello Testo da me curato in occasione della mostra fotografica “Popoli, Semi e Saperi” realizzata nella città di Ferrara – Italia nel 2007, in collaborazione con la Provincia e l’Associazione culturale “Hermanos Latinos”. Tratto da interviste con Daris Cristancho e Berito Cubarubwa, durante la realizzazione del progetto “Popoli, Semi e Saperi” finanziato dalla regione Emilia Romagna, fra il 2003 e il 2006. 100 Il grassetto è mio 101 Il termine “maggiore” è usato all’interno dei Popoli, per far riferimento alle persone più anziane, come ..custodi della memoria collettiva. 102 Bonfil Batalla Guillermo. Mèxico profundo. Una civilizaciòn negada. Grijalbo, Mex 1990. p.64, La traduzione è responsabilità di chi scrive. 99 53 spirito” e dell’importanza che questo insieme ha nel processo di trasmissione attraverso la “Scuola nella Vita”. “ Nella concezione giuridica ed economica occidentale, c’è una chiara differenza fra la terra come un mezzo di produzione e il territorio, come uno spazio pieno di risorse sul quale si ha piena giurisdizione. …(…).. Nonostante, nella concezione dei Popoli Andini, esiste un’evidente relazione fra terra e territorio. Entrambe hanno forti connotazioni “sacre” e nello stesso tempo sono realtà sociali ed economiche fondamentali. …(….) Nel Ayllu o la Comunità, una delle prime manifestazioni di appartenenza al proprio territorio è il rapporto spirituale con la Terra, nonché per il lavoro realizzato in essa. Entrambe situazioni che favoriscono la riproduzione sia dal punto di vista economico che sociale. Per esempio il ciclo produttivo inizia con riti in cui si rafforza sia la relazione sacra con la “Pacha Mama” (Madre Terra), produttiva, che i rapporti con tutto l’Ayllu, con il proprio territorio. Questo ultimo in rapporto con diversi Esseri protettori come i “wywiris” o i “cerros” (colline), che rappresentano gli antenati o gli “achachilas” (considerati i nonni, gli anziani), i quali legittimano i rapporti di unità socio – territoriale con quello spazio – territorio che occupano, dando all’insieme un carattere sacro d’integralità.”103 L’importanza di capire il pensiero dei Popoli attraverso la loro vicinanza con la Terra e le relazioni che in essa si tessono, attraverso quello spazio più largo, che in questo elaborato ho considerato come “Territorio”, viene considerata anche da Luis Alberto Reyes nel suo importante studio sugli antichi popoli Andini, Mayas e Nahuas104. ….(…)“La possibilità di comprendere va ricercata attraverso un cammino più affidabile che quello di assimilare il nostro oggetto a tradizioni estranee ad esso. La comprensione è possibile perchè il pensiero indigeno è basato su esperienze primarie dell’essere umano: il movimento degli astri, i cicli delle piante e degli animali e la sessualità. …(…) A differenza dell’intenzione di allontanare dalla terra quest’esperienze, modalità che ha orientato le culture europee, l’antico pensiero di Nahuas, Mayas e Andini, trova il senso dell’esistenza non nel aldilà, ma nell’universo localizzato in cui si svolge la vita. Per quello gli studi di questo libro progrediscono a partire dal riferimento mitico più originale: la Madre Terra ”105 103 Ticona Alejo, Esteban, Saberes, conocimientos y pràcticas anticoloniales del pueblo Aymara-Quechua en Bolivia, Plural, La Paz 2010, pp. 63 e 64 104 Reyes, Luis A, El pensamiento indigena en Amèrica. Los antiguos andinos, mayas y nahuas. Biblos, Buenos Aires 2008 105 Ivi, p.31 54 In fine, un terzo punto di necessario chiarimento, riguarda l’assenza in questo elaborato di cifre e di statistiche nonché, ahimè, lo scarso approfondimento dei contesti politici in cui i quattordici popoli hanno tessuto la loro storia e le loro resistenza, contesti che cerco difficilmente di inglobare nel terzo capitolo. Questa è stata una scelta metodologica consapevole, nel tentativo di concentrare l’attenzione nell’obiettivo centrale di questo elaborato: le forme di costruzione e trasmissione della conoscenza dei Popoli Originari del Centro e Sud America, come contributo alla costruzioni di nuove epistemologie tese alla costruzione di un dialogo interculturale ed interpolitico che possa fare incontrare le due pedagogie di cui queste pagine rendono conto: “La Pedagogia del Buen Vivir” e “L’educazione alla progettualità Esistenziale”. 0.3.1 La Metodologia della Chakana 106 La densità delle esperienze narrate, così come l’intreccio e la complessità dei mondi in esse contenuti, mi hanno portato, da una parte, a creare come esplicitato prima, il termine “ConoSCentire”, dall’altra, ad arricchire questo elaborato utilizzando la “Metodologia della Chakana” considerando la “Chakana” 107, in parole di Villena, quel “Ponte - Comunicazione fra l’uno e l’altro cosmo, visto che viviamo in un cosmo PAR, ovvero un “Pariverso,” 108 quel “ponte” che tesse, che intreccia la profondità del pensiero dei Popoli delle Ande. In questa prospettiva, la Chakana, nelle sue quattro dimensioni può rappresentare uno strumento attraverso il quale consolidare i quattro elementi del “Paradigma Ecologico Comunitario”, accennato precedentemente. Avere avuto l’opportunità di avvicinarmi all’anima del pensiero “chakanistico” è stata la più grande scoperta di questo percorso esperienziale. La “Metodologia della Chakana” è una creazione del gruppo di lavoro del Centro di Culture Originarie KAWSAY a Cochabamba di cui ho fatto parte durante due mesi. Lo scambio con questo gruppo è stato molto importante, per aspetti che ritengo fondamentali: da una parte per la dinamica stessa con cui i processi di insegnamento/apprendimento vengono elaborati, avendo cura dell’interconnessione delle quattro dimensioni della Chakana che sono allo stesso tempo le quattro dimensioni dei mondi esplicitati nella cosmovisione Quechua. 106 Cerruto A. Leonel, Quiroz Q. Irma, Ramos H. Beatriz, Saaresranta Tina, Rocha T. Josè A., Metodologia Propria. Educaciòn Diferente, op.cit. 107 Millena , Carlos, Genesi della Cultura Andina, Perù, 1983 108 Millena, Carlos. AYNI, Cochabamba 2002. 55 Questo processo di elaborazione del modello “chakanistico” del gruppo in risponde, a mio avviso, Kawsay, al concetto di “co-teorizaciòn”, della Rappaport , accenatto precedentemente, vediamo: “ capisco la “ co-teorizaciòn” come la produzione collettiva di veicoli concettuali che riprendono tanto un corpo di teorie antropologiche come i concetti sviluppati dai nostri interlocutori109. In essenza, questa impresa ha il potenziale di creare nuove forme di teoria che l’accademia solo considera parzialmente dai suoi contenuti110” “ l’esito più importante della nostra metodologia è stata la creazione di un dialogo collettivo su numerosi concetti chiave – veicoli concettuali- che potessero servire di guida alla nostra ricerca. Questi concetti non si originano nella letteratura accademica, seno nelle culture politiche native in cui tutto il gruppo è stato coinvolto.111” Un altro aspetto importante in questo lavoro di “ co – teorizzazione” di Kawsay, è rappresentato dalla stessa composizione del gruppo, il quale oltre ad essere interdisciplinare è anche “eco-disciplinare”, nel senso in cui viene considerato da Silvia Demozzi112: alla ricerca di quell’ “ideale assiologico trascendentale che dovrebbe mirare all’integrazione delle istanze individuali con le esigenze collettive”, nei casi dei popoli: la Comunità. In fine, perché con questa metodologia il gruppo KAWSAY, da oltre quindici anni porta avanti processi di “Pedagogia Interculturale” e “Pedagogia Comunitaria” in diverse Comunità Quechua in Bolivia, Perù ed Ecuador, nonché in Svezia in collaborazione con la Linkoping University, consolidando ad oggi un modello pedagogico proprio, che riprende la metodologia ancestrale d’interconnessione cosmica (la Chakana) come ponte che unisce le quattro dimensioni in cui la vita si concretizza. Per illustrare sinteticamente come viene elaborato il modello “chakanistico”, riporto alcuni dei punti che saranno considerati nel capitolo primo, sul “Sapere Quechua e la Metodologia della Chakana.” 109 Il grassetto è mio Rappaport, Joanne, Mas allà de la escritura. La epistemologia de la etnografia en colaboraciòn, en Revista Colombiana de Anropologia, vol. 43, Colombia 2007, pp. 197-229. 111 Rappaport, J. Op. Cit. 112 Demozzi, Silvia. “La struttura che connette. Gregory Bateson in educazione” ETS. Pisa 2011. pag.22 110 56 Il Sapere Quechua e la Metodologia della Chakana Munay Chawpi Taypi Yachay Atiy T Ruway Approfondire la “metodologia della Chakana” è stato l’impegno nella seconda fase del mio lavoro che mi ha portato, anche se ancora in maniera molto limitata, a darne una prima spiegazione, grazie al materiale gentilmente concesso da Leonel Cerruto113. “La Chakana è il simbolo della cosmovisione Andina. Ci fa vedere quattro dimensioni vitali: Munay (affetto, energia, spirito), Yachay (saggezza, estetica, scienza, arte), Ruway (lavoro, azione, produzione), Atiy (organizzazione, autorità, capacità, governo dell’ Ayllu114). Fa anche riferimento alle quattro dimensioni della Pacha (Terra): spazio, tempo, situazione/contesto, esseri viventi. Tutti connessi da una quinta dimensione o Chawpi-Taypi, che è il Centro connettore della complementarità, attraverso il quale si concretizza il “Sumak Kawsay” “La Chakana è uno strumento metodologico importante nell’ organizzazione e pianificazione educativa comunitaria grazie alla possibilità di disegnare contenuti curriculari pluridimensionali. I contenuti sono costituiti da quattro assi: vitali, trasversali, differenziali e 113 Cerruto A., Leonel (2009) La experiencia de la Universidad Indígena Intercultural Kawsay (UNIK). En Daniel Mato (coord.), Instituciones Interculturales de Educación Superior en América Latina. Procesos de construcción, logros, innovaciones y desafíos. Caracas: Instituto Internacional de la UNESCO para la Educación Superior en América Latina y el Caribe (UNESCO-IESALC), pp. 123-154 . Le interviste del gruppo Kawsay sono disponibili al link: www.youtube.com/ YolandaAbyaYala / Kawsay-Metodologìas Propias/Leonel Cerruto/Sabidurìa Ancestral Quechua/Educaciòn descolonizadora 114 Concetto che riguarda la forma di organizzazione politica, sociale ed economica delle singole comunità. 57 locali, che a loro volta interagiscono con le quattro dimensioni della Chakana, generando quella struttura che connette con il centro e che conduce alla costruzione del “Sumak Kawsay”. L’inter-relazione delle quattro dimensioni della Chakana con i quatto assi sopra individuati sono l’essenza di questa pedagogia” “Munay, orientata alle scienze della cosmovisione nelle sue dimensioni di energia, spiritualità, idioma, identità e cultura. Questa dimensione ci fornisce le basi dei principi e valori sui quali agire nelle altre dimensioni. Ruway, orientata alle scienze della produzione e riproduzione comunitaria, il lavoro, l’economia comunitaria, lo scambio, l’autosufficienza del Ayllu per il buon vivere. Atiy, orientata alla scienze dell’organizzazione e gestione territoriale comunitaria e le sue normative, dell’amministrazione comunitaria e dell’autogoverno. Yachay, orientata alle arti e alle scienze originarie, la saggezza ancestrale, le metodologie comunitarie, la ricerca e le tecnologie. In questa dimensione si cerca l’innovazione permanente, in armonia con i principi e valori della Pacha”. 0.3.2 La Traduzione Come accennato nell’introduzione sto scrivendo in italiano, non tanto per sentirmi “integrata”, quanto per l’impegno di riportare la voce di questi saperi silenziati, oggi qui presentati come interlocutori Vivi attraverso questa proposta, augurandomi possa essere questo il “Ponte” di dialogo interplanetario dove quell’ “Ecologia dei Saperi”115 si possa concretizzare. I livelli di traduzioni sono diversi. Un primo livello, la traduzione dalle diversi lingue: quechua, aymara, guarani, tsotsil, tseltal, maya quichè, ukuba, wayunaiki ai diversi scritti in lingua castigliana, un secondo, da questa all’italiano ed un ulteriore esercizio di traduzione “inter-politica” ed “interculturale”, aspetti che saranno considerati all’interno dell’ “Ecologia dei Saperi. Ritengo opportuno fare questa precisione, considerando che la maggioranza delle fonti qui riportate sono state da me tradotte all’italiano, esercizio attraverso il quale ho cercato di superare le mie difficoltà riguardanti la mia, non altissima padronanza della lingua italiana, ma soprattutto ho messo in gioco la mia capacità di trasmettere la profondità del messaggio, 115 Una proposta del sociologo portoghese Boaventura De Sousa Santos. Cfr. V Capitolo di questo elaborato 58 cercando al massimo di cogliere il ritmo di quella danza pluridimensionale di cui è fatta la parola. Non è stato un compito facile, ma fra le tante sfide che ho deciso di assumere in questo andare “oltre” c’è anche questa, alla quale spero di rispondere con tutto l’impegno e l’entusiasmo con cui ho iniziato a scrivere queste pagine. Assumo come mia la responsabilità e chiedo scuse ai Popoli, per i registri che in questo viaggio nella memoria di 520 anni di un intero continente possano essermi sfuggiti. Agli accademici chiedo la loro comprensione e la loro disponibilità a leggere i linguaggi “altri” anche se possono sembrare lontani dai repertori con cui l’accademia è solita interagire. Infine, spero di riuscire in questo “salto”. “ Heidegger chiama lo spazio tra lingue diverse un abisso che costringe il traduttore/filosofo a compiere un salto. In questo sforzo è implicito il rischio di cadere e di non riuscire a raggiungere l’altro lato dell’abisso. Ogni traduzione è un tentativo di compiere questo salto, nonché l’abilità di trasferire un lato dell’abisso dall’altra parte, senza cancellare le divisioni fondamentali che separano le lingue. Per questo motivo, tradurre significa cercare di avvicinarsi a ciò che non si può tradurre linguisticamente; significa evidenziare il silenzio inerente al linguaggio. Il luogo in cui avviene la traduzione è opaco piuttosto che trasparente, e così la traduzione allude sempre all’impossibilità di dare voce, in una lingua, a ciò che è destinato ad essere silenzioso ed estremamente complesso.”116 0.3.3 Le immagini Nel tentativo di riportare quanto il linguaggio simbolico possa rappresentare nelle Culture qui considerate, questo elaborato è accompagnato da un elenco di “viodeo-registri”, i quali lunghi dall’essere un’opera perfetta in merito alla qualità – considerando anche molte difficoltà tecniche nei diversi contesti- vuole essere la testimonianza di quelle esperienze dove le parole difficilmente riescono a darne del tutto conto, come affermano alcuni studiosi delle forme di linguaggio non verbali. 116 Giordano Cristiana, Riflessione sulla traduzione. Tra clinica ed antropologia, in etnopsicologia della migrazione, Unicopli, Milano, 2006, p. 309 59 Altri Corpi. Antropologia ed “Tinkuy” Ofrenda rituale en el Koricancha - Cusco Perù117 “La ragione risiede in quello che ho chiamato il regno dell’emotività, nel quale governano le immagini e il linguaggio visuale. E l’espressione dell’emotività non segue un percorso logico-lineare: il pensiero per immagini “è alogico. Esso ha la forma di un mosaico, senza il rilievo ai primi piani di una sintassi”(Debray 1999:265). Ed è questa alogicità a dare all’immagine il suo ineguagliabile potere comunicativo, ed il segreto della sua forza “è senza dubbio la forza dell’inconscio in noi (destrutturante come un’immagine, piuttosto che strutturato come un linguaggio)”.(Ibidem:93)”118 117 Tinkuy in lingua quechua vuol dire “Incontro”. Il Koricancha in lingua quechua “Recinto de Oro”, è un importante centro cerimoniale a Cuzco –Perù, dove ho partecipato ad una delle cerimonie realizzate i primi venerdì di ogni mese, in un processo di recupero della tradizione. Ai partecipanti viene offerto un singolo “Kintu” elaborato con quattro foglie di Coca e dei fiori speciali attaccati con grasso di lama che è un animale sacro nella cosmovisione andina. La pannocchia “vestita” con foglie di Coca, fiori e grasso di lama, sarà offerta alla Terra. Informazione di Teresa Rayme Molina. Cusco- gennaio 2011 118 Faccioli Patrizia, Losacco Giuseppe, Manuale di Sociologia Visuale, FrancoAngeli, Milano 2008,p. 164 60 0.4 I RIFERIMENTI TEORICI Con quanto esposto precedentemente auspico che questo capitolo possa essere il punto di partenza di una più ampia riflessione. Uno scenario che oltre i “registri”, i “concetti” e le “categorie” abbia a che fare con la creatura umana come parte di quell’insieme Ecologico dove “Ecologia dello Spirito” ed “Ecologia della Mente” si possano incontrare, non con l’obiettivo di dimostrare una particolare tesi, ma nell’intenzione di trovare in prospettiva pedagogica una struttura che li possa connettere. . . Gregory Bateson e l’Ecologia della Mente Inserire Bateson nel mio percorso è stata una grande fortuna, altrimenti sarei in difficoltà per riuscire a rendere in linguaggio pedagogico l’intreccio di quel “ConoSCentire” accennato precedentemente. Sono stata fortunata anche a trovare il sostegno e l’accompagnamento di Silvia Demozzi attraverso la lettura del suo libro, ma soprattutto attraverso la sua presenza, i suoi consigli e la professionalità con cui ha seguito l’accurata revisione di questo elaborato, aiuto grazie al quale sono riuscita a collegare questo insieme di “parti interagenti” nella stessa danza: La danza cosmica delle creature viventi a cui Silvia fa riferimento: “ Quando Gregory Bateson parla di “Ecologia della mente” lo fa, pertanto, nei termini per cui riconosce l’esperienza e l’azione conoscitiva come radicate nel mondo naturale: non importa, infatti, che il sistema in cui la mente si concretizza sia una macchina, un singolo organismo vivente, una foresta o una famiglia, se esso è in grado di apprendere. Il mondo mentale e quello naturale formano un’unità necessaria ( una dualità e non un dualismo): sono entrambi necessari, infatti, nella descrizione del mondo. Oggetto della conoscenza, quindi , non è la cosa in sé ma la relazione che essa ha nel e con il suo contesto. Per Bateson, la conoscenza è quindi una dinamica ecologica dove i processi cognitivi sono dentro i sistemi viventi, per cui i sistemi viventi sono essi stessi, per genesi, “mentali”. Nell’ecologia della mente ogni organismo produce se stesso in un riconoscimento creativo ed auto-riflessivo all’interno dei contesti (“una danza di parti interagenti”), per cui sono le idee e i comportamenti a connettersi e a costruire un’ecologia.119” 119 Demozzi, Silvia., La struttura che connette, op, cit, p.21 61 In questa prospettiva, saranno quindi la “danza di parti interagenti”, nonché l’ecologia della mente, ad essere una costante ricorrente lungo queste pagine. Ma cosa intende dirci Bateson attraverso l’elaborazione complessa di questo suo concetto di “ecologia”? Vuole dirci che questo insieme di “danze” – relazioni- sono sempre presenti attraverso una struttura che le connette e che si ripete, ed è proprio in questa “struttura che connette” che le dimensioni dei mondi in cui sono andata si possono incrociare. “Negli ultimi giorni diverse persone mi hanno chiesto: “che cosa intende per ecologia della mente?. Più meno sono le cose di vario tipo che accadono nella nostra testa e nel nostro comportamento e quando abbiamo a che fare con altre persone e quando andiamo su e giù per le montagne e quando ci ammaliamo e poi stiamo di nuovo bene. Tutte queste cose si interconnettono e, di fatto costituiscono una rete che nel linguaggio locale, si chiama “mandala”. Mi sento più a mio agio con la parola “ecologia”, sono idee che hanno molto in comune. Alla radice vi è la nozione che le idee vivono e muoiono. Le idee che muoiono, muoiono perché non si armonizzano con le altre. È una sorta di intrico complicato, vivo, che lotta e che collabora, simile a quello che si trova nelle zone di montagna, composto dagli alberi, dalle varie piante e dagli animali che lì vivono – un’ecologia, appunto”120 . . )l Problematicismo Pedagogico e l’Educazione alla Progettualità Esistenziale Avvicinarmi alla formulazione di una Pedagogia del “Buen Vivir” che possa connettere il “ConoSCentire” dei Popoli Originari con il “Problematicismo Pedagogico”, nell’orizzonte di una “Educazione alla Progettualità Esistenziale” che tenda a consolidare il “Paradigma ecologico-Comunitario”, come alternativa al “paradigma economico-finanziario” che oggi affligge l’umanità, è forse l’obiettivo più importante di tutto questo mio percorso. Sembra un tentativo quasi impossibile considerando il binomio “problematicità-ragione” apparentemente lontano a quanto ho voluto chiamare il “ConoSCentire”. Sembrerebbe quasi che i Popoli con cui voglio interagire fossero privi di ragione, ma così non è, anzi, sono quasi certa che andando “oltre”, nel profondo di quella “ragione proteiforme” definita da Bertin, si possano incontrare attraverso quella danza cosmica della Vita, senza che questo implichi una fusione ma una connessione: “problematicità-ragione e conoSCentire”. 120 Bateson Gregory, Una Sacra Unità. Altri passi verso un’ecologia della mente, Adelphi. Milano 199, pp. 399 e 400 62 Richiamo qui le importanti riflessioni di chi, in questo percorso, è stata la mia Maestra. “ La complessità cui mi riferisco è costituita da una costellazione di categorie che percorrono gli scritti bertiniani assumendo ruoli di centralità o più marginali, ma sempre connota doli in termini che sfuggono all’esclusività del binomio problematicità-ragione rigidamente inteso: il possibile, la differenza, il demonismo e l’utopico si pongono come tappe di un’escalation che rivendica un oltre rispetto a quel binomio. Certo, non si tratta di un oltre mitizzato nella sua assoluta alterità, anzi, negli ultimi lavori esso si intreccia con i motivi classici delle teorizzazioni bertiniane, ma lo spazio di convergenza che si viene a costituire offre – ed esige – margini di lettura inediti e differenziati anche per quanto riguarda i temi della problematicità e della ragione121” Il compito è difficile, ma proprio per questo accattivante. Mi consente quindi di osare in questi profondi oceani di acque tumultuose, cercando di non affondare. Comincio riportando alcune definizioni di cui non posso fare a meno, nel tentativo di trovare attraverso loro il sentiero da percorrere, sperando di riuscire a navigare nella loro complessità. Sono andata alla ricerca di questo libro122, tante volte nominato dalla mia Maestra Contini, attraverso cui il suo Maestro Bertin delinea i capisaldi dell’educazione alla progettualità esistenziale, soffermandomi qualche giorno su alcune sue riflessioni. “In Costruire l’esistenza. Il riscatto della ragione educativa ho affermato che “la ragione” – esigenza di soluzione del problematico, di composizione del diverso e di soppressione del contraddittorio; attiva in prospettive caratterizzate da non unilateralità e non parzialità – è in costante rapporto di interazione con la realtà”; e perciò può essere, anche in quanto ragione proteiforme123, deformata, traviata, soggiogata da questa ( si potrebbe anzi ipotizzare, oltre che una ragione debole, una ragione malata, malata paurosamente di umanità e pervertita da questa). Da siffatto rapporto di interazione dipende, a mio parere, anche la cosìddetta crisi della ragione. …(.-..) In quanto precede ho preso in esame un momento costitutivo della progettualità razionale – il sentimento-, considerandolo in generale, ma dando debito rilievo a quell’aspetto di esso che ho denominato, in analogia al motivo contenuto nel capitolo precedente, sentimento demonico - esistenziale. L’ho definito come energia biopsichica ed etico - culturale, in grado 121 Bertin, G.M., Contini Mariagrazia., Educazione alla progettualità esistenziale, op. cit., pp. 23 e 24 Bertin, G.N., Ragione proteiforme e demonismo educativo, La Nuova Italia, Firenze 1987. p. 26 123 Ivi, p. IX. Prefazione “la ragione, criterio metodologico della ricerca pedagogica ed obiettivo centrale della vita educativa, non è quella (dimezzata o deformata) strumentalizzabile a scopi utilitari od ideologici; è la ragione creativa, progettuale e demonica ( ed in tal senso “proteiforme.)” 122 63 nel suo aspetto più elevato di razionalità, di sostenere e potenziare, nella vita individuale e collettiva – con lo slancio della passionalità che può intensificarla – la tensione al lontano, al diverso, al nobile, al lieve ( attributi nietzscheani qualificanti il demonico secondo l’accezione richiamata in precedenza) …(…) La ragione subisce indubbiamente, per quanto si è detto, nella vita sociale ed individuale, tra altre influenze, quelle provenienti dai sentimenti dei singoli e da quelli che potremmo chiamare collettivi: caratterizzati da ambiguità, incertezze, oscillazioni, e soggetti a spinte eterogenee, mal definibili e spesso contraddittorie. Dai sentimenti individuali e collettivi o, piuttosto, dal molteplice e confuso gioco di essi, la ragione è indotta, nell’esercizio delle sue svariate funzioni,k ad elevarsi o ad abbassarsi di livello, a raffinarsi o a imbarbarirsi, a ingentilirsi o a incattivire, a compatire o ad irridere, ad esaltarsi o a deprimersi; ad ampliare o a restringere il proprio orizzonte vitale a seconda delle pressioni derivanti da individualità di rilievo (leader,divi, ecc), da gruppi di opinione, correnti culturali, ceti emergenti o in declino; da situazioni “influenti”, scelte importanti, esperienze traumatizzanti; dal nutrimento affettivo e culturale assimilato dai singoli nel quotidiano, speso nella banalità o vissuto in modi intelligenti. …(…) Il sentimento esistenziale, a sua volta, si può avvalere del rapporto costante con la ragione – che si vuole fortificata da un esercizio critico secolare, da una coscienza stoica vigile e aperta, da scelte etiche coraggiose ed intrepide – per intensificarsi e raffinarsi, cosìcché le sue aspirazioni oltrepassino il campo limitato dei bisogni e quello vago e fluttuante dei desideri, correggendone enfasi e rifiutando deliri, per protendersi a soddisfare esigenze di tipo socioculturale e specialmente esistenziale.”124 0.4.3 L’Ecologia dei Saperi e le Epistemologie del Sud Considerando la complessità dei diversi scenari che in questo vasto Territorio dell’Abya Yala, compongono il mosaico delle Autonomie e dei Movimenti, non posso fare altro che prendere in considerazione uno degli intellettuali contemporanei, considerato dal mondo accademico e dai movimenti sociali in America Latina come la persona più autorevole in materia: Boaventura di Sousa Santos, considerazione meritata per il suo lungo impegno etico verso quella parte del mondo da lui chiamata “Il Sud Global”. Impegno che ha nutrito attraverso le diverse proposte elaborate con i contributi e il confronto con tanti altri spazi politici, accademici, sociali , attraverso cui ha dato corpo alla sua proposta. 124 Ivi, p. 27 64 Una proposta altamente innovativa che rappresenta una vera sfida nella costruzione delle nuove epistemologie, come alternativa al pensiero egemonico, coloniale e capitalista. “Le Epistemologie del Sud sono il richiamo a nuovi processi di produzione, di valorizzazione delle conoscenze valide, scientifici e non scientifici, e di nuove relazioni fra differenti tipi di conoscenza, a partire delle pratiche delle classi e i gruppi sociali che hanno sofferto in maniera sistematica, distruzione, oppressione e discriminazione causate dal capitalismo, il colonialismo e tutte le naturalizzazione della disuguaglianza nelle quali si sono dispiegati”. “In questo senso, sono un insieme di epistemologie, non una sola, che parta da questa premessa e de un Sud che non è geografico, ma metaforico: il Sud antimperialista. È la metafora della sofferenza sistematica prodotta dal capitalismo e il colonialismo, così come de altre forme che si sono poggiate in essi, ad esempio, il patriarcato. È anche il Sud che esiste nel Nord, quello che prima chiamavamo il terzo mondo interiore o quarto mondo: i gruppi oppressi, marginati di Europa e Nordamerica. Esiste anche un Nord globale nel Sud; sono le elite locali che si beneficiano del capitalismo globale. Per questo stiamo parlando di un Sud antimperialista. È importante che possiamo osservare la prospettiva delle Epistemologie del Sud come punto di partenza.” Dal momento della conquista e dall’inizio del colonialismo moderno, c’è una forma di ingiustizia che fonda e contamina tutte le altre forme d’ingiustizia che abbiamo riconosciuto nella modernità, siano ingiustizia socioeconomiche, sessuale o razziale, storica, generazionale, ecc., si tratta dell’ingiustizia cognitiva.” “Non c’è peggiore ingiustizia che essa, perché è l’ingiustizia fra conoscenze. È l’idea che esiste soltanto una conoscenza valida, prodotta come perfetta conoscenza in gran misura nel Nord globale, che chiamiamo la scienza modera. Non è che la scienza modera sia in principio sbagliata. Quello che è sbagliato, o criticato per le Epistemologie del Sur, è questa pretesa di esclusività del rigore. Dal mio punto di vista questo contesto ha la sua base in un problema epistemologico, di conoscenza, ed è per questo che è necessario cominciare dalle Epistemologie del Sud. Questo è il punto di partenza”125. “Le Epistemologie del Sud sono lo strumento che noi consideriamo più efficace contro la guerra, perchè se non ampliamo la conversazione con l’umanità, l’alternativa è la guerra. Solo, a partire di questa pluralità di storie, nasce la possibilità dell’Utopia”126 125 De Sousa Santos Boaventura, Introducciòn: Las epistemologìas del Sur. bsantos@ces.uc.pt www.boaventuradesousasantos.pt/.../ la traduzione è responsabilità di chi scrive. 126 Ibidem 65 Un’ altra delle importanti considerazioni elaborate da Boaventura De Sousa Santos, riguarda l’Ecologia dei Saperi. “L’apprendimento di determinati saperi può implicare il dimenticare altri, e infine, l’ignoranza di questi. In altre parole, in un’Ecologia dei Saperi, l’ignoranza non è necessariamente uno stadio iniziale o punto di partenza. Potrà essere il risultato del dimenticare o del des- imparare impliciti in un processo di apprendimento reciproco, attraverso del quale si conseguono le interdipendenze. Così che in ogni passo dell’Ecologia dei Saperi, è crociale interrogarsi se quello che stiamo per imparare è valido o se dovrà essere dimenticato o des – imparato. L’ignoranza è solo una forma di qualificazione quando quello che si offre per essere imparato è più valido di quello che dovrà essere dimenticato. L’utopia del interconoscimento consiste in apprendere nuovi ed strani saperi, senza che sia necessario omettere i precedenti e propri. Questa è l’idea di prudenza che soggiace all’Ecologia dei Saperi.” “L’Ecologia dei Saperi parte dal presupposto che tutte le pratiche relazionali fra gli esseri umani e anche fra gli esseri umani e la natura, implicano più di una forma del sapere, per cui, anche di ignoranza”127 “..(..) come la conoscenza scientifica no è distribuita di una forma socialmente equitativa, i suoi interventi nel mondo reale tendono ad essere quelli che servono ai gruppi sociali che hanno accesso a questa conoscenza. In ultima istanza, l’ingiustizia sociale poggia nella giustizia cognitiva. Nonostante, la lotta per l’ingiustizia cognitiva non avrà successo se basata soltanto nell’idea di una distribuzione più equitativa della conoscenza scientifica.128. Infine, un ultima considerazione necessaria per approfondire, il ruolo di quello che lui ha definito come “la sociologia delle assenze “ e le “Sociologia delle emergenze129”. “Mentre la sociologia delle assenze espande il campo delle esperienze sociali disponibili, la sociologia delle emergenze espande il campo delle esperienze possibili.”130 127 De Sousa Santos, Boaventura, Una epistemologia del Sur: la reinvenciòn del conocimiento y la emancipaciòn social, Siglo XXI. Mèxico, CLACSO, 2009, p. 114. La traduzione è responsabilità di chi scrive. 128 Ivi, 115 129 In questo caso il termine viene usato come possibilità (NdT) 130 Ivi, 132 66 …(…) I campi sociali più importanti dove la molteplicità e la diversità si rivelano con maggiore probabilità sono i seguenti: . Esperienze di conoscenza: possibile fra diverse forme di conoscenza”… (..) si tratta di conflitti e dialoghi “ Esperienze di sviluppo, lavoro e produzione, riguarda dialoghi e conflitti possibili fra diverse forme di produzione” .- (..)131 Davanti a questo “sconfinamento” il mio “ritorno entro” si fa difficile, ma ho osato. Ci ho provato, e il frutto di tutto quanto appreso scorre lungo queste pagine. “Certo, chi osa e pratica lo sconfinamento rischia di non sentirsi mai, completamente, “a casa” quando è dentro i propri confini, sia perché e costantemente in procinto di andarsene, sia perché non coincide più con la Weltanschauung dominante.” (..)132 131 132 Ivi, 133 Contini Mariagrazia. In Demozzi,S, op. cit, p. 9 67 CAPITOLO PRIMO ECOLOGIA DELLO SPIRITO E FILOSOFIE PER UNA PEDAGOGIA DEL BUEN VIVIR “Todo aquello que es vivo tiene sangre, todos los árboles, todos los vegetales, todos los animales. También la Tierra. Esta sangre de la Tierra, Ruiría (Petróleo), es aquello que le da fuerza a todo, a las plantas, a los animales, a los hombres” Cosmovisione del Popolo U’wa “Tutto quello che è vivo ha del sangue, Tutti gli alberi, tutti i vegetlai, tutti gli animali. Anche la Terra. Questo sangue della Terra, Ruiria (petrolio), è quello che da forza a tutto, alle piante, agli animali, agli uomini” Casa Cerimoniale U’wa- Foto di Ann Osborn133 133 Osborn, Ann (1995) Las cuatro estaciones. Mitología y estructura social entre los U'wa. Colección Bibliográfica, Banco de la República, Bogotá D.C.- “Osborn (1995: 150; 81 ) indica che questa e in generale le case degli U’wa rappresentano il loro universo; allo stesso tempo, l’universo viene visto come molte case, contenute una dentro l’altra. Le case servono come “osservatori astronomici”, perchè orientate dall’est verso ovest permettono di ubicare i momenti dei solstizi e gli equinozi” 68 Premessa Con queste pagine, voglio condividere il frutto di più di quasi quindici anni di cammino con il popolo U’wa e degli ultimi tre, fra i saperi dei quattordici Popoli Originari dell’ Abya Yala , nei paesi oggi conosciuti come: Guatemala, Messico, Colombia, Venezuela, Perù, Bolivia, Argentina, Uruguay. Gli scenari condivisi lungo questo percorso mi hanno consentito di sentire la musica dell’Acqua a Lacanjà134; i sussurri di Wayra135 nel grande lago del Titicaca; i sospiri della Terra a Tiwanaco e la forza del Fuoco a Cochabamba, dove un raggio ha bruciato completamente il “Tempio del Sole”, nei terreni di un centro denominato Planetaria “Janajpacha”. Comunità 136 È stato questo camminare, appunto, a risvegliarmi da quel lungo letargo, gettandomi per diversi anni in un processo di Riflessività profonda che mi ha portato fino alle aule del Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’ Università degli Studi di Bologna, per intraprendere un nuovo sentiero della conoscenza attraverso il dottorato in pedagogia. Questa è stata una scelta fortemente desiderata e cercata, dopo aver peregrinato nei sentieri dell’economia e della sociologia nello stesso Ateneo. Oggi, ringrazio questo pellegrinaggio che mi ha fatto capire giorno dopo giorno che in tutta questa conoscenza c’era qualcosa che andava controsenso rispetto a quel che gli anziani saggi mi raccontavano nei lunghi “pensatorios” sotto la luna piena o sulla riva di un fiume sacro le cui acque ci ascoltavano nel piu musicale dei silenzi. Tali sono le motivazioni che hanno determinato la scelta di sviluppare la mia ricerca: “Oltre oceano: altri orizzonti del possibile”, andando a cercare “oltre”, i fondamenti epistemologici del “Lekil Kuxlejal”, il “ Kajkrasa Ruyina” e il “Sumak Kawsay”, tutti postulati ancestrali di quello che in castigliano vene tradotto scarsamente, come “Buen Vivir” ( Buon vivere o Vita Buona.) Il “Buen Vivir”, come già accennato, costituisce la base epistemologica di questo scritto. In quest’orizzonte, ritengo opportuno specificare che i concetti più vicini (in castigliano) del “Buen Vivir”, sarebbero i concetti di “sviluppo” o “benessere”, i quali risultano assai scarsi per intravedere gli orizzonti che in queste pagine vorrei trasmettere. A tal proposito ho voluto presentare un’approssimazione dell’ecologia dello spirito di questi Popoli, del pensiero complesso e da me chiamata “Filosofie della Terra”. Un Casa del serpente d’Acqua nella lingua del popolo Lancandòn del Chiapas. Vento, in lingua Quechua in Bolivia. 136 In lingua Quechua: Terra senza male. 134 135 69 insieme di principi esistenziali e connessioni che rappresentano la cosmovisione dei popoli che hanno nutrito la mia conoscenza in questi ultimi anni. . L’ECOLOG)A DELLO SP)R)TO Per riuscire ad esplicitare tutti gli elementi che strutturano il processo di trasmissione della conoscenza nei Popoli Originari presi in considerazione è necessario aprire orizzonti epistemologici che vadano oltre la tradizione educativa in occidente e che rompano la forma in cui le scienze della conoscenza sono state organizzate sia a livello scientifico sia a livello istituzionale fino ad oggi. È necessario camminare per i loro sentieri del conoscere. In questa prospettiva, si rende necessario apprendere i significati che all’interno di questi popoli hanno quelle dimensioni di Mondo che in occidente invece vengono organizzate attraverso categorie e concetti. Ta dimensioni, nella concezione dei Mondi considerati lungo queste pagine, diventano punti chiave nella costruzione della conoscenza in tutte le culture cui ci si riferisce e vengono considerate non individualmente ma nella loro interconnessione: Tempo, Spazio, Mente, Corpo, Natura, Spirito, Parola, Cuore, Esperienza, Felicità, Dolore, Malattia, Salute, Morte. Un insieme che si concretizza in quella “categoria” individuata come “Territorio.” Non mi soffermerò sulla bibliografia di tutto quanto la filosofia Occidentale abbia scritto in merito a questi temi così complessi. Quanto cerco di trasmettere sono, appunto, le forme diverse in cui questi popoli interconnettono queste dimensioni; i modi attraverso i quali viene elaborata la loro conoscenza e l’importanza dei riti e degli spazi del Sacro, dove la Sacralità della Parola ha una particolare importanza nei processi di insegnamento/ apprendimento. Considerando, dunque, una conoscenza che è stata trasmessa oralmente, diventa un compito assai difficile organizzarla in categorie e concetti. Nonostante ciò, il mio proposito è di cercare il modo in cui queste dimensioni dei Mondi possano essere apprese anche negli scenari accademici in cui questo approccio non è stato ancora considerato, e di riuscire a iniziare un dialogo fra i due pensieri, con la dignità che ogni conoscenza e ogni cultura merita. A questo proposito, mi affido a uno dei teorici ch è stato spunto di riflessioni capaci di aiutare a connettere le dimensioni dei Mondi in cui il pensiero e la costruzione della conoscenza di questi popoli trovano la sua genesi. 70 “Vedete, ci sono altri rimedi, oltre alla meditazione , e uno di essi è la contemplazione del mondo vivente, una cosa che pochissimi praticano; e quando lo praticano quasi non sanno dire perché l’abbiano fatto. Sono moltissimi a pensare che una passeggiata nei boschi faccia bene al fegato o al fegato spirituale; ma, credo, non sanno proprio perché137” Per arrivare a connettere in una cornice teoretica gli argomenti che scorrono tra le pagine di questo capitolo ho scelto fra tutti i Popoli in considerazione, quelli con cui ho avuto maggior possibilità di condividere la loro profondità epistemologica e spirituale. In questo orizzonte hanno particolare importanza le riflessioni sulle dimensioni del Sacro, punto di partenza obbligato per transitare nella complessità dei loro sentieri del conoscere, collegando in questo punto alcuni aspetti riguardanti la connessione Territorio – Corpo, dove la cura del Corpo e dello Spirito sono pratiche che nutrono ciò che in questo elaborato ho voluto chiamare “l’ecologia dello Spirito”. Nel tentativo di elaborare una cornice “concettuale”, incorporo alcune manifestazioni di quel “ConoSCentire” dei Popoli Tostsil, Tseltal, Quechua, U’wa, e Wayuu, approfondendo in quest’ultimo alcuni degli aspetti più rilevanti del processo di costruzione della conoscenza, i quali sono stati appresi grazie all’esperienza di ricerca assieme al gruppo di ricercatori dell’Università della Guajira in Colombia “ANA’IN”138, dove ho avuto l’opportunità di realizzare due focus group sia con gli studenti che con gli insegnanti del corso di laurea “etnoeducazione, interculturalità e diversità”. Quest’esperienza è stata ulteriormente arricchita dal workshop “Pedagogie per la diversità” programmato in occasione del XIII convegno internazionale della SOLAR139, nella città di Cartagena in Colombia, durante il mese di Settembre 2012, al quale ho partecipato come relatrice sul tema “Filosofie della Terra per una Pedagogia della Vita”. Oltre alle esperienze di campo ho avuto anche la preziosa opportunità di condividere con Justo Perez Van-Leenden, Emilse Beatriz Sànchez Castellòn e Maria Margarita Pimienta Prieto, dottorandi in Educazione dell’Università di Cartagena, il loro percorso come docenti all’Università della Guajira, dove abbiamo realizzato diversi incontri. Perciò, tutto quanto riportato sul popolo Wayuu, è in parte il frutto del mio percorso come coordinatrice del progetto di cooperazione internazionale “Popoli, Semi e Saperi”, finanziato dalla Regione Emilia Romagna fra gli anni 2003 e 2006, ma soprattutto delle più recenti Bateson, Gregory. “Una Sacra Unità. Altri passi verso un’ecologia della mente”. A cura di Rodney E. Donaldson. Adelphi. Milano 2010, Pag.410 138 Termine che in lingua Wayunaiki ( la lingua del popolo Wayuu) significa “Principio motore di Vita” 139 Sociedad Latinoamericana de estudios sobre America Latina y el Caribe. 137 71 “pensatorios” e dei lavori condivisi con Margarita Pimienta, in quanto donna Wayuu, parlante lingua wayunaiki, docente universitaria e dottoranda in educazione. Percorrere i sentieri del loro conoscere, ricchi di esperienze tanto intellettuali quanto personali, mi ha costretto a qualche giorno di pausa per riuscire a riordinare i pensieri. 1.1.1 Il Territorio e l’Ecologia dello Spirito Nell’esercizio di dare organicità e logica ad un linguaggio che lontano dalla logica della ragione appartiene di più alla logica del cuore, faccio riferimento in questo elaborato a quello che ho voluto chiamare “Ecologia dello Spirito”, per riferirmi alla connessione con l’Universo, che si concretizza in una dimensione Spazio/Tempo, denominata “Territorio.” Un Territorio le cui parti costitutive sono: Terra, Aria, Acqua, Montagne, Caverne, Foreste, Fiumi, Sentieri, Pietre, Cielo e Sottosuolo, è abitato da tutti gli esseri vivi e morti, nonché da energie che garantiscono l’equilibrio e l’armonia. Una dimensione Spazio / Tempo dove prendono vita le diverse forme di costruzione e trasmissione della conoscenza, descritte in questi capitoli. Questa “Ecologia dello Spirito”, è un tentativo di collegamento al pensiero di Gregory Bateson attraverso la sua “Ecologia della Mente”, considerando che per i Popoli Originari, “Spirito, Mente, Cuore, Stomaco, Parola” sono un sistema interconnesso tramite il quale “le idee” del Mondo del “reale” vengono elaborate. Una interconnessione dove Vita e Morte, Salute e Malattia ci riportano, qualunque strada s’intraprenda, alla sfera del Sacro. In merito, ritrovo facilmente il collegamento con Bateson, quando si riferisce appunto alla sua “Ecologia della Mente.” “Negli ultimi giorni diverse persone mi hanno chiesto: “che cosa intende per ecologia della mente?. Più meno sono le cose di vario tipo che accadono nella nostra testa e nel nostro comportamento e quando abbiamo a che fare con altre persone e quando andiamo su e giù per le montagne e quando ci ammaliamo e poi stiamo di nuovo bene. Tutte queste cose si interconnettono e, di fatto costituiscono una rete che nel linguaggio locale, si chiama “mandala”. Mi sento più a mio agio con la parola “ecologia”, a sono idee che hanno molto in comune. Alla radice vi è la nozione che le idee vivono e muoiono. Le idee che muoiono, muoiono perché non si armonizzano con le altre. È una sorta di intrico complicato, vivo, che lotta e che collabora, simile a quello che si trova nelle zone di montagna, composto dagli alberi, dalle varie piante e dagli animali che lì vivono – un’ecologia, appunto. All’interno di 72 questa ecologia i sono temi importanti d’ogni genere, che si possono enucleare e su cui si può riflettere separatamente. Naturalmente si fa sempre violenza al sistema nel suo complesso se si pensa alle sue parti separatamente; ma se vogliamo pensare dobbiamo fare così, perché pensare a tutto contemporaneamente è troppo difficile. Allora ho pensato di rivelarvi un po’ di ecologia un po’ della posizione e della natura che ha il sacro nel sistema ecologico. Come probabilmente sapete, è molto difficile parlare di questi sistemi viventi quando sono sani e stanno bene; è molto più facile parlare degli oggetti viventi quando sono malati, quando sono disturbati, quando le cose vanno male. Ragionare di patologie è relativamente facile, ragionare di salute è molto difficile. Questa naturalmente è una delle ragioni per cui esiste una cosa come il sacro e per cui del sacro è difficile parlare, perché il sacro ha un legame particolare con la salute.”140 Ho scelto di approfondire questa dimensione dell’“ecologia dello Spirito”, materializzata nei loro Territori, perché, a mio avviso, è una dimensione condivisa da tutti i Popoli. Condivisa perché in essa si contengono tutte le loro cosmovisioni e le Relazioni con tutte le creature e i Mondi che nutrono, come detto prima, sia la Vita che la Morte. Questa dimensione: “Territorio”, è costituita dall’energie tangibili ed intangibili che abitano quello Spazio /Tempo e che diventano colonne portanti della grande Casa della Saggeza Ancestrale: l’Universo. Il “Territorio”, vissuto come lo spazio dove soggiornano i loro Morti, dove respirano i loro Riti, dove cullano i loro Canti, dove attraverso la ritualità della Parola, generazione dopo generazione, viene trasmessa la loro saggezza millenaria. Una Relazione, nel senso Batesoniano del termine: Sacra ed Ecologica. È quindi in questa dimensione del Territorio, che l’ecologia della mente trova il suo luogo. Per spiegare un caso concreto riguardante il concetto di Territorio, riporto alcuni paragrafi presi da Antonio Paoli, studioso non indigeno, che grazie alla conoscenza della lingua Tseltal, presenta nel suo libro141 un’analisi dettagliata di alcuni “concetti” fondamentali da lui elaborati in castigliano. 140 Bateson Gregory, Una Sacra Unità, op, cit, pp. 399 - 400 Paoli, J.A, Educaciòn, autonomìa y lekil kuxlejal: Aproximaciones sociolinguisticas a la sabidurìa de los teltales, Universidad Autonoma Metropolitana Xochimilco, Mèxico, D.F, 2003. 141 73 “K’INAL” vuol dire medio ambiente e in alcune occasioni terreno, ma significa anche mente, e la mente si configura in gran parte per l’esperienza del medio ambiente e allo stesso tempo anche il medio ambiente si riconfigura secondo le azioni degli umani nel eseguire i dettami della mente.”142 “Il K’inal non è soltanto il territorio, visto che anche il “Ch’ul Chan” ( la sacra serpente143, che viene tradotta come cielo) forma parte del K’inal. K’inal, è dove scorre tutta la vita, sulla Terra e nell’Aria. Il K’inal è anche la dimensione dove il Corpo lascia il Ch’ulel ( l’anima). Il K’inal è connesso con altri mondi e altri livelli del “Ch’u Chan; è anche lo Spazio/Tempo.144” Con quanto sopra riportato, cerco di richiamare l’attenzione sul fatto che queste “categorie” Spazio/Tempo, immerse nella dimensione della Ritualità e Sacralità con cui il Territorio è vissuto, diventano i capisaldi nella costruzione della conoscenza dei Popoli presi in considerazione. 1.2 LEKILKUXLEJAL NEI POPOLI TSOTSIL E TSELTAL 145 NELLO STATO DEL CHIAPAS – MESSICO Il “Lekil Kuxlejal” principio di Vita comune ai Popoli tsotsil e tseltal, come accennato prima, viene tradotto scarsamente in castigliano come “Vita Buona /Buen Vivir”. Per spiegare la profondità del suo significato è necessario avvicinarsi alla loro cosmovisione, compito assai complesso considerando che la maggioranza delle fonti scritte corrispondono a ricerche realizzate da studiosi non indigeni, per cui è frequente trovare diverse letture e interpretazioni di una stessa realtà. In questa prospettiva, le prime considerazioni riportate corrispondono all’elaborazione di due persone appartenenti entrambe al Popolo Tsotsil. In primo luogo riporto i contribuiti del mio 142 Paoli, J.A, op. cit, p. 43 ( La traduzione è letterale ed è responsabilità di chi scrive) In spagnolo “il” Serpente è femminile. 144 Ibidem. 145 Il Chiapas ha un’estensione di 73 289 (Km2) e occupa il decimo posto a livello nazionale per estensione territoriale. Lo Stato del Chiapas rappresenta il 3.7 % della superficie del Messico. Un terzo della popolazione appartiene alla famiglia linguistica Maya: tsotsiles (306.854 ), tseltales (322.224 ), tojolabales (25.031), choles (119.000 ), kanjobales (5.769 ), mochós (8.184 ), chujes (3.000 ), mames (23.423) e lacandones (500 personas); e alla famiglia linguistica Mixe-Zoque), gli attuali “Zoque” sono intorno a 95.000 - (Fàbregas Puig, Andrès. Rector UNICH). Da quanto rilevato dal “ Censo de Población y Vivienda” ( censimento 12 giugno 2010) realizzato dall’ Istituto Nazionale di Statistica e Geografía (INEGI) lo Stato del Chiapas ha un totale di 4 796 580 abitanti di cui 2 352 807 uomini e 2 443 773 donne. Seguendo le informazioni del censimento del 2010, in dodici stati del paese si trova quasi il 90% della popolazione che parla almeno una lingua indigena. La più alta percentuale si trova negli stati del Chiapas e Oaxaca, dove risiede più di un terzo ( 34.9%) della popolazione parlante. Seguono nell’ordine gli stati di Puebla (8.9%), Yucatán (7.9%), Guerrero (7%), México (5.5%) e Hidalgo (5.3 % Indigena )- Istituto Nazionale di Statistica e Geografia. (INEGI) Censo de Población y Vivienda 2010. 143 74 tutor all’UNICH, professore Miguel Sànchez Alvarez146 , da chi riprendo una sua definizione di “Lekil Kuxlejal”. “Il Lekil Kuxlejal o “buon Vivere” forma parte dei modi di vita dei Popoli Originari. Le sue basi concettuali hanno le loro fondamenta nelle pratiche di vita collettiva e comunitaria nel lavoro, nel compromesso e nella reciprocità fra i membri di una Comunità, nella ricerca dell’equilibrio e l’armonia fra gli esseri umani, con la Madre Terra e con la Natura. Il “Buon Vivere” cerca la libertà, la democrazia e l’autonomia dei popoli, la sovranità e l’autosufficienza alimentare, da qui il rapporto diretto con i sistemi di conoscenza e con gli elementi identitari propri che permettono di acquisire il “Ch’ulel” o la Coscienza”.147 Data questa premessa, le definizioni qui presentate sono state elaborate sulla base del materiale raccolto dalle diverse interviste a persone appartenenti al popolo tsotsil, ma soprattutto ricavate dalle lunghe ore di conversazione con Manuel Bolom Pale, autore del libro “K’anel”, la cui testimonianza in quanto originario Tsotsil ritengo particolarmente importante. Manuel, è docente all’UNICH ha 32 anni, è nato a Jok’osik, municipio di Huixtàn (Chiapas) nel 1972. Dal 1999 al 2005 ha studiato psicologia sociale all’Università Maya di San Cristobal de Las Casas. Parla e scrive in lingua tsotsil. Nel 2004 ha ottenuto il premio in narrativa “Y el bolom dice”. Nel 2005 ha vinto il premio di saggistica indigena “Pueblos y Palabras”. Nel 2008 ha vinto il premio di poesia indìgena “Pat O’tan”. Nel 2006 è stato direttore della Casa della Cultura a Hiuxtàn. Fra il 2007 e il 2008 è stato ricercatore nell’area di scienze del programma di Fomento allo Sviluppo delle scienze e delle arti Maya,Zoque – FOCAMAZ-. Attualmente (2011) è docente di lingua tsotsil all’Università Interculturale del Chiapas (UNICH), e insieme abbiamo elaborato lo schema seguente. Miguel Sànchez Alvarez, nato nella Comunità tsotsil di J0k’osik, municipio di Huixtàn (Chiapas), è antropologo sociale della Facoltà di Scienze Sociali dell’Università Autonoma del Chiapas(UNACH) e dottore in Scienze e Pianificazione d’Imprese e Sviluppo Regionale. Attualmente è docente a tempo pieno dell’UNICH, al Corso di laurea in Sviluppo Sostentabile. 147 Sànchez Alvarez Miguel, Introducciòn a las bases conceptuales del lekil kuxlejal o buen vivir, en , El Buen vivir: Miradas desde adentro de Chiapas, UNICH-IESALC-UNESCO, Mèxico 2012, p.7 146 75 LEKIL KUXLJEAL K’anel Ch’ulel Ich’el ta Muk’ K’an bail "..Anteriormente il sistema culturale Maya era un’incessante esistenza riflessiva in movimento cercava in ogni atto della vita di ritrovare l’origine cosmica insieme a tutti gli esseri fisici ed energetici. I segni e i significati della vita nella sua totalità – scoperti attraverso il tempo dalle nostre nonne e dei nostri nonni – sono il riflesso della nostra autocoscienza, ma sono anche la coscienza dell’intera umanità”148 1.2.1 Per una Cornice Concettuale  K’anel: Querer(Volere) Categoria etica, in intima relazione con il cuore e il pensiero. È vincolata con le relazioni sociali e l’equilibrio comunitario. “Trovare il K’anel è trovare il cammino del buon fare, del fare bene nel nostro cuore come persone, come  comunità o collettività” Ch’ulel149: Conciencia ( Coscienza). Ha a che fare con lo sviluppo conoscitivo. Il Chulel non nasce con la persona ma matura insieme a lei. È il mezzo per accedere alla conoscenza ampia della vita, cioè per “Svegliare la coscienza”. Il K’anel è intimamente collegato alla maturità del Ch’ulel. Bolom Pale, Manuel, K’anel: Funciones y representaciones sociales en Huixtàn, Chiapas. 2010, p. 112. Tutte le traduzioni sono a cura di chi scrive 149 Questo concetto, viene definito negli studi di Antonio Paoli come “anima”, ma Manuel ha sottolineato che lui in quanto parlante di tsotsil e da quanto appreso dagli anziani di Jocosic lo trova più vicino alla definizione di “Coscienza”. 148 76  Ich’el ta Muk’: Recibir en Grande (Ricevere in grande) Ha a che fare con la disponibilità di ascolto e di rispetto (Kuxubinel) per l’altro. È indispensabile per la  costruzione di un Kanel Interculturale. K’an bail: Hablar con el corazòn ( Parlare con il cuore). Il parlare, unicamente nella pratica, diventa realtà. Si trasforma infatti quando esiste il k’an bail. Quando ci vogliamo bene collettivamente, quando si parla con il cuore. La parola ha Vita e non è soltanto la parola, è anche la guida. Quando diciamo che è viva è perchè si muove insieme a noi. Tutte l’interviste realizzate direttamente a persone della comunità durante la mia visita a Huixtàn si riferiscono all’importanza del K’anel e del Ch’ulel, come ci indicano le parole di Lucia. “ è molto triste vedere della gente non ha più K’anel. Non ha più il Ch’ulel. Non c’è più il “Lekil Kuxlejal” (Buen Vivir/Vita buona) nel cammino. Nei sentieri si trovano i rifiuti. Sembra quasi una fabbrica di spazzatura. Forse è il governo che fabbrica questa spazzatura( sportine e bottiglie di plastica), io non lo so. Non so spiegare, ma da San Cristobal arrivano i camion e la buttano nei nostri campi. Nessuno nel governo dice niente. Nonostante vengano continuamente i funzionari a dirci che le leggi sono cambiate, che adesso stiamo meglio perché ci portano lo Sviluppo, con il programma di “oportunidades”. (opportunità). Ma noi, non capiamo queste leggi fatte dal governo. Adesso per esempio, hanno “ ucciso” tanti alberelli. Dicono che le leggi sono cambiate e non c’è più la penalità per chi lo fa. Così tanta gente continua ad “uccidere” tanti alberi per vendere il legname. Questo è molto grave perché “l’Ojo de Agua” ( il Manantial ) sarà molto malato e molto triste. Così, fra la spazzatura e i tanti alberelli morti, la nostra Comunità viene danneggiata, arriverà il momento che non potremo più bere l’Acqua delle nostre sorgenti. Se continuano così “uccideranno” anche il Manantial. ”150 Di queste lunghe ore di conversazione è emersa più di una volta la preoccupazione costante di Manuel sull’educazione dei giovani al fine di rallentare quella corsa sfrenata verso le città e l’ambito sogno americano. Un altro punto importante delle sue riflessioni si riferisce alla necessità di trovare un modo di riuscire a continuare i suoi studi universitari e continuare a trasmettere i postulati del Lekil Kuxlejal, e far in modo che il k’anel, I’chel tamuk, il ch’ulel, e il kan’bail, tornino a far parte delle pratiche di vita quotidiana nelle comunità, ricreando alcuni degli spazi pedagogici 150 Conversazione con Lucia, donna Tsotsil dell’Ejido Lòpez Mateus, Municpio de Huixtàn, Chiapas, Aprile 2011. 77 comunitari che sono andati perduti nel tempo: “la Milpa”151, le riflessioni in cucina intorno al fuoco, i riti e le cerimonie per la Natura. Una preoccupazione costante di recuperare quegli spazi dove il Ch’ulel è nutrito: “Così si impara la dignità e la libertà spirituale. Si educa attraverso la vita, s’insegna e s’impara attraverso il comportamento, intorno al fuoco cerimoniale, dove sparisce l’individualismo ed emerge il trascendente come nuova opportunità per lo sviluppo e l’espansione della coscienza: IL CH’ULEL”152 Sono state conversazioni molto ricche, incontri quotidiani durante i miei tre mesi di soggiorno a Jobel ( nome originario di San Cristobal de las Casas), dove insieme ad Adriana153, moglie di Manuel, abbiamo condiviso a lungo molte esperienze di vita quotidiana in Comunità e le caratteristiche che accomunano i due popoli ( tsotsil e tseltal). Queste le parole di Adriana: “Un elemento comune ai tsotsil e ai tseltal è la loro organizzazione sociale, caratterizzata da una struttura comunitaria, sistema che sostiene, come valore principale, il principio di riconoscere, alla Natura tanto quanto alle persone, la vita propria e i propri spazi. Su questo principio, la struttura sociale si fonda nei valori del rispetto, della complementarità, della solidarietà e della reciprocità come realtà quotidiane.154” 1.2.2 I Capisaldi del Lekil Kuxlejal e il Popolo Tseltal Anche se ci sono dei punti comuni fra i Tseltal e i Tsotsil, nell’intenzione di offrire ulteriori elementi per la comprensione di quanto il “Lekil Kuxljeal” possa significare, vorrei riportare alcune informazioni specifiche sul Popolo Tseltal apprese dallo studio dettagliato realizzato da Antonio Paoli, 155 di cui riprendo alcune importanti considerazioni. La Milpa è l’orto, i lugo adibito alla coltivazione del Mais, i fagioli e altri prodotti che stanno alla base della dieta alimentare in Messico, ma anche luogo pedagogico essenziale nella trasmissione dei saperi tradizionali. 152 Bolom, M,op. cit, p. 127. 153 Adriana è originaria del Popolo tseltal, laureata in antropologia e insegnante di lingua tseltal all’UNICH. 154 Intervista realizzata nel maggio 2011, consultabile al link: www.youtube.com /YolandaAbyaYala/Jòvenes Identidades de AbyaYala/Adriana/Pueblo Tseltal. 155 Antonio Paoli è dottore in Sicenze Sociali dall’Università Iberoamericana e Professore ricercatore all’Università Autonoma Metropolitana a Xochimilco dal 1977. Fra il 1998 e il 2001 è stato coordinatore dell’area di ricerca del “Comitato di Diritti Umani “Fray Lorenzo de la Nada” 151 78 “Il Lekil Kuxlejal è la Vita buona per antonomasia156: Non è un’utopia perché non si riferisce a un sogno inesistente. No, il Lekil Kuxljeal è esistito, si è degradato ma non è ancora estinto ed è possibile recuperarlo”.157 In quest’orizzonte, vorrei partire da un principio che Paoli richiama lungo le pagine, a mio avviso centrale per capire, non solo l’essenza del pensiero del Popolo Tseltal, ma anche le fondamenta di tutto quanto abbia significato, nello Stato del Chiapas, il sorgere dell’ ”Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale” (EZLN),158 nella zona di “las Cañadas de Ocosìngo”, luogo in cui Paoli ha portato avanti lo studio qui preso in considerazione. Riprendo quindi alcune importanti riflessioni sul “concetto” di autonomia. “ Se vogliamo comprendere la razionalità, o le principali tendenze della razionalità della cultura e della società tseltal tradizionale, dobbiamo partire da un valore che i tseltali considerano centrale, chiave, per pensare e apprezzare la loro organizzazione sociale; un valore tradizionale, ancestrale, fortemente codificato nel loro linguaggio (...) Un valore che possa metterli in relazione a molti “altri” e che oggi gli stessi tseltal richiamano con grande vigore. Non soltanto i tseltal di una tendenza politica, ma tutti loro, o almeno la grande maggioranza di ogni Comunità, di ognuna delle quasi 2.000 Comunità che formano il mondo tseltal. Osservando i movimenti sociali della regione, abbiamo presto individuato che c’era una tematica centrale, un valore centrale: l’autonomia159” “Nell’andare vicino a questo valore così centrale, abbiamo capito che per comprendere la vocazione dell’autonomia del mondo tseltal era necessario guardarla attraverso cinque livelli: l’autonomia degli individui, delle famiglie, delle Comunità, della comunità delle Comunità e del Popolo indio” (...) Queste cinque dimensioni devono pensarsi a partire dalle loro credenze, dal loro passato, dal loro territorio, dal loro sistema di educazione, dalla loro forma di riproduzione sociale, dai loro limiti, dalle loro forme di aggregazione (…) ci siamo concentrati, dunque, nel comprendere le forme di organizzazione sociale tradizionali della Comunità Tseltal, le loro forme di fare giustizia e soprattutto le loro forme di pensare e vivere l’educazione”160 156 Il grasetto lungo queste pagine è una mia scelta Paoli, Antonio, Educaciòn, autonomìa y lekil kuxlejal,op. Cit, p. 71. La traduzione è responsabilità di chi scrive e corrisponde letteralmente allo spagnolo riportato da Paoli, dopo la sua traduzione dal tseltal al castigliano. 158 “Il primo gennaio del 1994 albeggia con la sorpresa di quattro città occupate dalla “EZLN” , costituito in gran parte da Tseltali. Hanno dichiarato formalmente la guerra al Governo Federale. Più di dodici giorni sono durati i combattimenti armati ..(..)” Paoli, A. op.cit, . p. 67 159 Paoli, A, op. Cit, p.18. 160 Ivi, p. 19 157 79 Tenendo come punto di partenza il significato dell’autonomia come valore per il popolo Tseltal, nella costruzione del “Lekil Kuxlejal”, procede ancora Paoli: “I valori ci permettono di avvicinarci al loro ideale di vita, al “lekil kuxlejal”, che è la “vita buona” per antonomasia. Il “lekil kuxlejal” è una realtà trascendente, è la vita in questo mondo e oltre questo. È molto di più di un’utopia. È la vita reale, oggi in degrado, ma che può esse restaurata. Può, però, restaurarsi soltanto a partire dal “kochelin jbahtik”, che significa, cercando una traduzione letterale, “interiorità e intersoggettività comunitaria”161 (...) L’autonomia è fondamentale per orientarsi verso il “lekil kuxlejal”, senza il “kochelin jbahtik” è impossibile approssimarsi a quello che è la Vita veramente Buona. (...) “Per i tseltal questo è un diritto fondamentale ed anche la responsabilità fondamentale. (...) lungo questo testo ci sono diverse espressioni che fanno riferimento a questo diritto.”162 “Per secoli i Tseltal si sono tenuti relativamente isolati e in molte delle loro “comarcas”163 riuscendo a mantenere la propria autonomia, la cui espressione si manifesta in diversi modi: “governarsi loro da soli”, o bene, “la loro autodeterminazione collettiva per dedicarsi di cuore alla realizzazione di quello a cui si sono impegnati”, “la loro autogestione per diritto proprio”, o il “yu’elin sbahik” (il loro potere indipendente per governarsi).”164 Il contributo del lavoro realizzato da Paoli e dal suo gruppo di ricerca, è quello di aver dato una chiave di lettura “da fuori” verso dentro, da dentro verso fuori, ma anche da dentro verso dentro, ciò verso i membri della stessa Comunità. “Presentiamo queste “finestre” in modo che gli stranieri che guardano ai tseltal, possano contemplare e ammirare la razionalità dei tseltal, la grandezza della loro cultura tradizionale e le loro forme di apprezzamento della propria vita e quella degli altri, nel senso profondo della loro dignità, di quello che loro chiamano “kocheltik” (nostro diritto e nostro obbligo) verso l’interno della loro Comunità e dell’intero Popolo tseltal.”165 Ma non abbiamo pensato soltanto alle “finestre”, abbiamo pensato anche agli “specchi”, in modo che gli stessi Tseltal potessero vedersi. Riconoscersi nelle pratiche quotidiane; contemplare e ammirare il loro modo di apprezzare la vita, di rispetto verso se stessi, verso le loro Comunità, e a partire da questo riconoscimento dialogare e approfondire sui grandi valori 161 Ibidem Ibidem 163 Forma di organizzazione sociale e politica tradizionale: “la Comunità delle Comunità” 164 Paoli, op. cit., p.32 165 Ndt. “i riferimenti all’intero Popolo, vuole indicare la massima organizzazione delle Comunità, una specie di “confederazione delle Comunità” 162 80 della loro cultura. Comprendere e vivere i propri valori regalandoli agli altri, è rafforzare la propria dignità e anche la dignità degli altri.”166 Quindi, il lavoro di Paoli mira ad affermare i valori che, nonostante le difficoltà e le situazioni affrontate lungo il percorso storico dei Popoli Originari nello Stato del Chiapas, sono riusciti a conservare fino ad oggi. “Il “lekil kuxlejal” che è l’ideale tseltal-tsotsil dell’esistenza, si potrebbe dire che è l’ideale di esistenza che tutte le culture maya condividono. Il “lekil kuxljeal” è la vita buona per antonomasia, vita che è esistita e di cui, anche se degradata, ancora ci sono delle vestigia che possiamo riconoscere e godere”167 Per capire il contesto su cui la “Vita Buona/Buon Vivere” si costruisce, è necessario chiarire la portata del termine “Comunità”. Per i tseltal, come per tutti i Popoli Maya e dell’Abya Yala in generale, questo è un punto di riferimento importante168. “ I Tseltal da tempi remoti hanno cercato di vivere in piccole Comunità. Ogni piccola Comunità è formata da un insieme di famiglie che vivono in essa, in un territorio – non sempre perfettamente definito-(...)169” “La parola “Comunità”, così come si trova in gran parte dei pensatori degli ultimi due secoli, comprende tutte le forme di relazione caratterizzate da un alto grado di intimità personale, profondità emozionale, compromesso morale, coesione sociale e continuità nel tempo. La Comunità si fonda sull’uomo nella sua totalità, più che sui ruoli che può avere all’interno di un ordine sociale presi separatamente. La sua forza psicologica proviene da livelli di motivazione molto più profondi della volontà o dell’interesse, e la sua realizzazione avviene attraverso la sottomissione della volontà individuale, il che sarebbe impossibile in associazioni guidate dalla semplice convenienza o accondiscenza razionale. La Comunità è una fusione tra sentimenti e pensieri, tra tradizione e compromesso, tra appartenenza e volontà.”170 Alcuni degli elementi fondanti del “lekil Kuxljeal” sono, ancora con le parole di Paoli, La Pace e la sua relazione con il Silenzio. Nell’analisi di questi due “concetti” così importanti, 166 Paoli. A, op, cit, p.20 Ivi, p. 26 168 Cfr. II Capitolo di questo elaborato 169 Paoli, A, op. cit, p. 25 170 Nisbet Robert, la formaciòn del pensamiento sociologico, Tomo I, Amorrortu editores, Buenos Aires, 1990, pp.71-72. In Paoli, A, op. cit. p. 26 167 81 Paoli si avvale, approfondendo l’analisi linguistica delle parole, di una canzone: “slamalil K’inal”, attraverso la quale si narra la forma in cui la Pace viene vissuta nel mondo tseltal. “La Pace per i Tseltal viene concepita attraverso la dimensione sacra e perfetta del Silenzio. (...) Un fattore necessario, chiave, per il “lekil kuxlejal” è la pace “ slamalil kinal171” (…)“ K’inal è una parola che significa medio ambiente. Quando facciamo riferimento al medio esterno parliamo di ecosìstema, quando facciamo riferimento all’interiorità dell’individuo parliamo di mente.”(…) “sLamil K’inal”, la “s”, sta a indicare uno stato d’animo, è uno stato di silenzio della persona, della sua mente. È anche uno stato di armonia dell’ecosìstema. Realtà collettiva dove natura e società sono necessariamente integrate, dando forma al lekil kuxlejal. (...) I tseltal e i tsotsil parlano della pace come di una sperimentata dall’individuo” questione sociale e cosmica, anche se viene 172 Sull’importanza della Pace e dell’uso della Parola nelle decisioni Comunitarie, ci troviamo davanti alla figura del “Consenso”, anche questo uno dei punti fra i capisaldi comuni a tutti i Popoli in considerazione. “Nelle Comunità normalmente gli accordi vengono presi per Consenso. Il Consenso suppone che la Parola data in assemblea sia un compromesso di onore (…) In diverse Comunità è ancora consietidome serbare silenzio una volta che l’assemblea è iniziata. (...) Il Silenzio collettivo è come un atto che “santifica la riunione”(…) Il Consenso viene raggiunto quando tutti hanno dato la loro parola e coincidono in una soluzione o un accordo. Questa Parola della Comunità normalmente ha un certo carattere di Sacro” (...) Questi Accordi sono la chiave della strutturazione e della ristrutturazione della Comunità. Si potrebbe dire che le regole “giuridiche” fondamentali sono date dagli Accordi, così come la “procedura” per raggiungerli. Questo è quanto i tseltal chiamano: “ay ku’untik” (quello che è nostro) (...) Con gli Accordi si definiscono e ridefiniscono norme locali di cooperazione e integrazione sociale” “ I membri della Comunità hanno bisogno gli uni degli altri: ricevono e concedono servizi costantemente, servizi che sono orientati per le risoluzioni dell’Assemblea” 173 Sulla base del Consenso, si tesse tutta l’organizzazione Sociale e Politica della Comunità. Attraverso questa “risoluzione dell’Assemblea”, vengono nominate le “Autorità”, anche 171 Paoli, A. op. cit. p. 71 Ivi, p.74 173 Ivi, p. 143 172 82 questo un concetto comune a tutti i Popoli. Essere “Autorità” richiede una serie di Valori che fanno sì che la persona su cui ricade l’incarico possa rispondere ai principi cardine dell’organizzazione Comunitaria. Inoltre, questo incarico di “Autorità” viene connotato anche da una grande disposizione al “Servizio”, diventando questo un altro dei capisaldi dell’organizzazione sociale e politica dei movimenti indigeni, tradotta in castigliano come “Comandare Ubbidendo”. Ѐ questo che legittima l’esercizio dell’Autorità, come viene spiegato da Paoli. “ Chi comanda, deve farlo rispettando l’Accordo e deve essere “ p’ekel,ma’ stoy sba” ( umile, senza essere arrogante), deve essere il primo che comincia a lavorare con forte impegno per realizzare il lavoro concordato, entro la data concordata. Questo atteggiamento viene considerato un principio fondamentale dell’organizzazione sociale e si è tradotto come “comandare ubbidendo”174 (…) “Normalmente anche le piccole Comunità hanno un insieme di persone, “ja’teletik”, con “cargos” (incarichi). La parola “ja’teletik”, viene tradotta come “Autorità”, ma il vero senso in tseltal fa riferimento a quelle persone che hanno un compito, un servizio che danno gratuitamente alla Comunità.” “ I “ja’teletik” sono quindi persone che lavorano per organizzare la vita Comunitaria di tutti in tutti i suoi aspetti specifici: realizzare le Feste, prendersi cura della scuola, badare ai servizi di acqua potabile, mantenere l’ordine, mediare nei conflitti, lavorare per la Pace interna, organizzare l’orto scolastico, vegliare per la Salute dell’intera Comunità, riparare e mantener in ordine i cammini e tutte le altre opere pubbliche di cui si abbia bisogno” (…) “Per fare un buon lavoro, le “Autorità”, devono appropriarsi di quanto è stato deciso dall’Assemblea. In principio hanno il diritto di comandare soltanto ubbidendo al patto comunitario. In questo modo, l’Autorità ricade nella Comunità. La persona come individuo può comandare soltanto se rispetta gli accordi dell’intera collettività.”175 (..) L’integrazione alla Comunità, implica ubbidire e comandare, comandare ubbidendo e venerando la Parola Comune, ubbidendo per avere Autorità al momento di comandare”176 174 Ivi, p.30 Ivi, 160 176 Ivi, p.161 175 83 1.2.2.1 I Principi Pedagogici del Lekil Kuxlejal nel Popolo Tseltal. Ritengo particolarmente interessante ricavare ancora alcuni elementi dall’analisi di Paoli, riguardanti il modo in cui i Tseltal concepiscono i processi di apprendimento/insegnamento, il cui obiettivo principale è formare “esseri integrali” in grado di costruire e mantenere il “Lekil Kuxlejal”, da cui il ruolo fondamentale dei genitori come primi “trasmittenti.” “È importante sottolineare che la funzione principale dei genitori non è quella di “condurre” i figli, ma quella di propiziare gli spazi in modo che i piccoli possano contare su un buon ambiente per “germogliare” cosìcché quando saranno più grandi, lui o lei, abbiano gli elementi per avere una buona integrazione con la Comunità. (...) “ Il bambino o la bambina ha la capacità e la forza per incanalare in modo cosciente e adeguato il divenire se ha avuto un buon “kuxlejal”, e il “kuxlejal, richiede che ci siano un insieme di fattori integrati in un ecosìstema che permetta il buon “germogliare” e la crescita dei bambini.”177 (...) Si pensa che l’inizio del “kuxlejal” è un momento chiave del processo vitale degli essere umani. Per questo in quel momento è indispensabile avere cura del Corpo: alimentarlo e fargli sentire costantemente l’affetto e il calore della famiglia. Insieme a questa cura del Corpo, è necessario che il piccolo abbia vincoli con il mondo delle cose trascendenti, in modo che possa avere “lekil kuxlejal” (vita e spirito buono).”178 Questo vincolo Comunitario con il reale e il trascendente è alla base del processo educativo Tseltal, perché è attraverso questo legame iniziale che si trasmettono i valori della Cultura Tseltal. Gli ideali dell’educazione tseltal mirano alla formazione dei “batsil antsetik” e “batsil winiketik” (Donne Vere e Uomini Veri). “ In questo modo, l’individuo cresce con la coscienza di questi vincoli, con la sua famiglia, con la Comunità e con la “trascendenza”. Se qualcuno pensa da solo di potere avere un “lekil kuxlejal”, viene considerato un presuntuoso, uno che non ha “verità nel suo cuore”. Ma se riconosce alla società che gli fornisce il mezzo adeguato per formarsi e crescere, allora ha verità nel suo cuore. Con questa verità può avere fiducia in se stesso e negli altri. Può avere un cuore integro e felice e può arrivare ad essere un uomo saggio o una donna saggia”179 177 Ivi, p. 107 Ibidem 179 Ivi, 108 178 84 Il processo di formazione di queste “Donne Vere” e “Uomini Veri” dà molta importanza all’uso della Parola, alla coerenza fra il “detto” e il “fatto”, al rispetto, alla discrezione e all’umiltà come virtù molto apprezzate. (…)“I Tseltal pensano che l’educazione sia realmente buona se è orientata a generare i “batsil antsetik” e “batsil winiketik” (donne vere e uomini veri). L’educazione vera deve mettere al mondo uomini e donne vere. (...) Sono loro gli esseri che parlano con la verità, non dicono bugie, quello che dicono è quello che fanno e il loro cuore è buono, c’è nobiltà in tutto quello che fanno. Non “giocano con la Parola”. Il loro Cuore è integro in sé stesso, ha un solo Cuore.180” (...) “Ho chiesto a varie persone delle diverse Comunità e tutte mi hanno dato delle caratteristiche dei “Batsil winik”: sono persone moralmente perfette cioè compiono gli accordi della Comunità. Questo è fondamentale, ma sono persone in grado di essere Umili, di Amare, di essere gentili e che prendono in considerazione gli altri. Persone che “non giocano con le parole”. Persone che compiono quello che dicono.”181 (...) “Questo fatto di “non giocare con le parole” è una cosa molto importante nel mondo Tseltal e a quanto pare in tutto il mondo Maya. Le Parole possono essere agenti pericolosi, “parlano da sè”, quando vengono pronunciate da una persona sono già “soggetti in azione” anche se vincolate all’individuo che le ha proferite. In certe condizioni possono essere causa di malattia”.182 (...) “La discrezione è una virtù molto apprezzata. Parlare troppo (più del necessario) è considerata un’irresponsabilità. Il “basil winik” è un uomo che non parla molto, su di lui si è soliti ascoltare dei commenti: “ quando si sveglia ha imparato molto di più, tuttavia, moto più chiusa tiene la sua bocca”183 Su quest’analisi di Paoli, riguardante l’importanza del silenzio, vorrei soffermarmi ancora, considerando che nelle sue parole si ritrova quello che altri Popoli mi hanno riferito e che ho denominato la “Pedagogia del Silenzio”. “ I Tseltal e il Tsotsil quando parlano di pace, parlano di silenzio (lamal), ed è questa una questione sacra.” 180 Ibidem Ivi, p. 110 182 Ivi, 111 183 Ibidem 181 85 “Questo un aneddoto che può aiutare a capire l’importanza e la sacralità del silenzio: Una notte, prima di cena i promotori del Comitato seguivano con grande raccoglimento un “Pat o’tan” (saluto del cuore), che è un’invocazione in tseltal dove si ringrazia Dio o si chiede qualcosa (…) Manuel Hernàndez si coprì gli occhi con la mano destra (...) Una volta finito il “Pat o’tan” ho chiesto cosa potesse significare e mi ha risposto in castigliano: “ ad attirare il silenzio”.184 “Il silenzio è qualcosa di sacro. Si nomina “ch’ab” e quando i “principali” (le autorità tradizionali) di una Comunità vogliono risolvere un conflitto, fare la pace, fanno delle orazioni e digiunano, delle volte per diversi giorni. Questa cerimonia è chiamata “ch’abajel” e viene tradotta come “pacificazione”185 Vorrei ribadire l’importanza di ciò che ho denominato la “Pedagogia del Silenzio” perché in intima relazione con una delle preoccupazioni comuni a tutti i Popoli considerati: la soluzione dei conflitti come condizione fondamentale per mantenere la pace, concepita come l’equilibrio che sostiene il “Buon Vivere”, il Lekil Kuxlejal. “ Il Lekil Kuxlejal richiede che facciamo giustizia con rettitudine e questo è possibile soltanto se non abbiamo rancore nel nostro cuore verso altri fratelli e sentiamo di essere in armonia nell’ambiente186” (…) “ quando un problema ci trova, noi perdiamo il nostro apprendimento (...) “è necessario riconoscere che il problema ci ha fatto perdere la capacità di “conoscere” e ci ha fatto deviare la nostra conoscenza”187 Quindi, si fa riferimento anche alle forme di Giustizia Propria e ai modi attraverso i quali questo “processo” di riparazione, più che di punizione, viene eseguito. In tal senso l’analisi di Paoli è presentata prima in lingua originaria tseltal e, in seguito, da lui tradotta in castigliano, sottolineando il ruolo della Comunità e l’importanza del silenzio come segno risolutivo del conflitto. “ Ci sono elementi chiave per la comprensione di un conflitto nel mondo tseltal. Il primo è la ricerca dei meccanismi per la soluzione. Senza soluzione non si potrebbe dire che c’è Lekil 184 Ibidem Ivi, p. 75 186 Ivi, p. 82 187 Ibidem 185 86 Kuxlejal. Poi è rilevante il fatto, che loro sottolineano, che “ è il problema che “ci trova”, cioè il problema viene personalizzato, il problema è un soggetto. Per la soluzione è necessario che la Comunità venga riunita per affrontare e risolvere il problema che in quel momento agisce creando squilibrio e malessere all’intera Comunità” (…) “Altro aspetto da considerare è il fatto che il problema ci fa perdere il nostro apprendimento, l’individuo perde la sua capacità di riconoscere ( se ha sbagliato) e di trovare i modi per avvicinarsi in modo adeguato alla soluzione, questo perché nel mondo tseltal, la conoscenza entra nel cuore, per imparare correttamente c’è bisogno di un’affettività armonica.”188 (...)“Normalmente, per arrivare a una soluzione, ci vuole l’auto riconoscimento e accettare la decisione della Comunità. Quando il problema si risolve e il collettivo perdona si dichiara il “sujtesel o ‘tanil” e quindi nessuno può più parlare dei torti o dei delitti commessi. La persona che è stata perdonata non riceverà più recriminazioni e può tornare al suo lavoro all’interno della Comunità. Tutto è rimasto indietro perché la Comunità è “ritornata al suo cuore”.189 In questa “ Pedagogia del Silenzio” che si intreccia con il “Sistema di Giustizia propria”, la tradizione orale mantiene il suo valore e come tale viene anche esplicitato, vediamo ancora l’analisi di Paoli. “È importante che non rimanga niente per iscritto, perché allora sarebbe come se non si fosse perdonato il colpevole, come se il suo delitto venisse conservato in un pezzo di carta. È necessario restaurare la nostra fiducia, la grandezza del nostro cuore di nuovo190” (...)” – Dice Paoli- “Quando ho chiesto che mi raccontassero alcuni casi, la risposta è stata sempre il silenzio, anche da parte di persone che mi onorano con la loro fiducia. Mi hanno detto: “fratello, raccontarti sarebbe come un grande peccato, queste sono cose di cui non dobbiamo parlare, se parliamo, sarebbe come rivivere il delitto che è stato già perdonato. Parlare di questo sarebbe andare contro la giustizia della Comunità”.191 La Forza e il Potere della Parola come valore fondamentale e colonna portante della tradizione è un altro elemento comune ai diversi Popoli, perciò ritengo opportuno soffermarmi sull’importanza di questa per i Tseltal. 188 Ivi, p. 83 Ivi, p. 202 190 Ivi, p.202 191 Ivi, p.203 189 87 “Ci sono Parole che danno vita, parole che possono soltanto dare armonia, a partire da esse “la vita prende il cuore” del tuo compagno. La Parola tua che va con il cuore di tutto il tuo Popolo. Parole che cercano dove e perché inizia la vita dei nostri compagni. Non sono parole che scompongono la vita. Che feriscono il sentire di ognuno e di tutti, parole che non rallegrano. Non dobbiamo imparare le parole che ci distruggono, noi e la nostra Comunità. ” 192 1.2.3 Il Territorio nella Cosmovisione Tsotsil - Tseltal Come complemento di quanto accennato precedentemente nelle parole di Paoli, riguardo l’importanza del Territorio, riporto anche alcune considerazioni comuni ai due Popoli, Tseltal e Tsotsil, in parole di Miguel Sanchez, nel suo elaborato di tesi di dottorato:193 “Cosmovisione tsotsil-tseltal194: una forma di vedere la Terra, l’Universo e l’Uomo come totalità195: il mondo cosmico dei maya preispanici si trova presente nella lingua, nella cosmovisione, nel territorio, nella spiritualità, pratiche ancora vive in noi, i popoli originari contemporanei. In merito Holland196 , osserva che anche i tsotsiles, del municipio di Larràinzar, condividono la cosmovisione esistente nella zona alta dello Stato del Chiapas e vedono il cielo come una montagna con tredici gradini, sei a oriente, sei a occidente e un tredicesimo in mezzo per formare la punta rivolta al cielo. Da sotto assomiglia a una tazza predisposta sulla superficie della Terra. Una gigantesca ceiba197 sale dal centro del mondo verso i cieli. Immaginandolo da fuori dalla Terra, il cielo è un’enorme montagna o piramide. Come riportato nella figura sotto” 192 Ivi, p. 85 Sànchez, Miguel. Tesi di dottorato, op.cit. La traduzione è responsabilità di chi scrive 194 Due dei Popoli Originari dello Stato di Chiapas, entrambi appartenenti alla macrofamiglia Maya, per cui condividono la stessa cosmovisione. 195 Sànchez, M., op. cit, p. 185 196 In Sànchez, op, cit, p. 187 “Holland William R, 1978. Medicina maya en Los Altos de Chiapas”. 197 Grande albero, sacro ai Maya 193 88 Cosmologia Tsotsil: ch’ul osil vinajel, sacro Universo. Fonte: Holland, 1978198 “La cosmovisione tsotsil–tseltal considera che la terra si trova fra il cielo e l’“inframondo” e tutto è collegato sia con la vita che con la morte – creazione, distruzione-; ognuno dei quattro angoli del mondo, ha il loro proprio senso e connessione con l’universo. Attualmente i tsotsiltseltal, ritengono che questi quattro angoli siano sacri, per cui quando gli anziani huixtecos199 si fanno il segno della croce, pregano e invocano ognuno dei punti, cominciando dall’oriente e girando da destra a sinistra, punto per punto, e terminando di invocare i quattro angoli innalzando lo sguardo al cielo. In questo modo si forma la croce, simbolo dell’unione, asse principale fra il cielo e la terra, fra i diversi livelli e direzioni del cosmo.” All’interno della tradizione maya tsotsil-tseltal, si trova ancora la petizione della pioggia per la coltivazione del mais e dei fagioli, e la si fa nei luoghi sacri, dove la presenza della croce si 198 199 Traduzione alla lingua tsotsil responsabilità di Miguel Sànchez. Di Huixtan 89 conserva fino ad oggi, come si conservano ancora la tradizione di fare feste e portare delle candele in questi luoghi chiamati “santuari” – colline, caverne , “ojo de agua”- per chiedere la pioggia e l’abbondanza e per evitare i danni alle coltivazioni, causati da venti o da malattie. Un ulteriore aspetto, riguarda il fatto che il mais sia rappresentato nella croce e che i suoi colori : giallo —k’on—, bianco —sak—, nero —ik’— e rosso.—tsoj, corrispondano ai colori delle, chanib chikin balamil, i quattro angoli200 del mondo. Questi quattro colori del mais, si trovano nei colori del serpente me’ixim o “madre di mais”, che secondo la tradizione tsotsil hixteca è quella che custodisce sotto la terra i chicchi di mais, e secondo la tradizione così deve essere selezionato il tipo e il colore del mais che si va a seminare, d’accordo con il colore del serpente che si sia incontrato nel campo, perché questo è il segnale che sia il seme giusto 201 1.2.4 Gli Insegnamenti dei Maya Considerando che sia il Popolo Tsotsil che il Popolo Tseltal appartengono alla Cultura Maya, ritengo opportuno dedicare alcune pagine alla complessità del loro pensiero. Quanto riportato nelle pagine seguenti è frutto sia di ricerche bibliografiche, dove ho privilegiato quanto è stato scritto dagli stessi Maya K’ichè in Guatemala, sia delle conversazioni con Rosa Liberta Xiap202, insegnante alla “Escuela Normal Bilingue K’ichè Tijonelab”203 a Quetzaltengango Guatemala. Per transitare nei sentieri del conoscere della cultura Maya, mi sono documentata attraverso due libri in particolare. Il primo il “Popol Vuh”, uno dei libri che ha tradotto in parola scritta per la prima volta l’essenza della cosmovisione Maya. Ci sono molte versioni ma quella che ho in mano è una copia in spagnolo donatami da Mariano Reynaldo Vàzquez, originario del popolo Tstosil e membro del CELALI204, a San Cristobal de Las Casas, con cui ho avuto occasione di fare alcune lunghe conversazioni in merito. Il secondo libro “Cosmovisiòn Maya, Plenitud de la Vida” 205, mi è stato suggerito da Rosa Liberta Xiap e riporta tutto ciò che è stato scritto direttamente da nipote e nipoti di anziani In spagnolo il termine per indicare “i quattro angoli”, sarebbe “las cuatro esquinas”, al femminile. Sànchez Miguel, Tesi di dottorato, op. cit. p.189 202 Originaria Maya K’ichè laureata in Educazione Bilingue Interculturale, Master in Antropologia Sociale e dottoranda in Scienze Sociali al “Centro di Studi Superiori del Messico e Centro America a San Cristobal de las Casas – Messico 203 Le Scuole “Normal” in America Latina sono scuole superiori destinate a formare gli insegnanti delle scuole elementari. 204 Centri Statali delle lingue, arte e letteratura indigena. Versione in lingua Tsotsil - Spagnolo. Pagine totali 346 205 PNUD. GUATEMALA. RAXALAJ MAYAB’ K’ASLEMALIL Cosmovisión maya, plenitud de la vida.. Derechos Reservados:La sabiduría y conocimientos contenidos en este libro son del Pueblo Maya, expresados por sus nietas y nietos. version web : http://www.pnudguatemala.org/, p. 13 200 201 90 saggi Maya, in una edizione speciale finanziata dal PNUD206. Di seguito riporto il prologo di Rigoberta Menchù207 Prologo “ Della spiritualità dei nostri Avi non tutto si può scrivere, teorizzare, e tanto meno concettualizzare. Fondamentalmente è una forma di sentire, è una forma di essere, è un modo di vita che si costruisce nel camminare dei giorni, dei tempi e lungo tutta l’esistenza di un essere vivo, compreso anche l’essere umano. Da qui , nel cuore del Paxil- Kayala’ (nome Maya di quello che oggi si conosce come Guatemala), terra delle anziane ( abuelas) e anziani (abuelos) Mayas , ci uniamo per la costruzione di una nuova speranza , o piuttosto, di una nuova opportunità di Vita per l’Umanità, condividendo la nostra Cosmogonia e la nostra Cosmovisione con il mondo. Condividendo le nostre riflessioni e le nostre esperienze come Civiltà Millenaria. I nostri Avi visualizzarono questo tempo dell’umanità come “il non tempo”, tempo di grande decomposizione umana, causa di dolore e sofferenza alla Madre Natura e alle società umane. La fame, le diverse malattie e le guerre prefabbricate, le paure, le angosce e la solitudine, sono soltanto alcuni esempi di questo disequilibrio dell’umanità. Sorelle e fratelli, missione è contribuire a mondare le quattro pannocchie di Mais, la nostra cosìcché si possa illuminare un nuovo albeggiare per l’Umanità. Questo è l’obiettivo di Cosmovisión Maya, plenitud de la vida. Che Ajaw, Cuore del Cielo e Cuore della Terra vi illumini e vi dia molta saggezza. Che nessuno rimanga indietro.”208 Uno degli aspetti più rappresentativi della Cosmovisione Maya è il loro legame con il Mais come pianta sacra, per chiarezza riporto in partenza quanto presentato nel Popol Vuh dove vengono descritti i tre tentativi di creazione della creatura umana: prima la Gente di Terra, poi la Gente di Legno e, infine, la Gente di Maiz .209 “Questo meravigliarsi che porta al rispetto e alla solennità davanti alla Vita. Iniziano così l’esplorazione sull’origine dell’esistenza, fino ad arrivare a comprendere che la meraviglia della diversità era nata da un punto originario: Il Seme Cosmico. 206 Programa de las Naciones Unidas para el Desarrollo. Le traduzioni sono responsabilità di chi scrive. Premio Nobel per la Pace 1992. Appartenenti al popolo Maya - Quichè del Guatemala. 208 PNUD. GUATEMALA. Op, citata Pag. 13 – 15 209 RAXALAJ MAYAB’ K’ASLEMALIL, Cosmovisión maya. Plenitud de la vida, op, cit, pp. 33-37 207 91 Ogni parte, dal micro al macro, contiene la totalità. Uno è il punto della creazione, diversa è la manifestazione della formazione. Per questo, la nostra cosmogonia riconosce la stessa dignità a tutto quello che esiste, e per tanto, rispetta lo stesso diritto a esistere. La complementarità è il risultato della comunicazione e della mutua intesa, è la forma di condividere l’origine della vita e di tornare a essa permanentemente per continuare il suo evolversi. Questo è il senso della co-creazione. La formazione, ovvero, la materializzazione, ha il suo fondamento, nella creazione, nell’energia. Senza energia vibrazionale non esisterebbe la materia, perchè la formazione è espressione dell’energia. Per questo, il contatto di reciprocità permanente con l’energia costituisce la nostra Spiritualità esistenziale210. La narrazione poetica del Popol Vuh ci illustra il lungo sentiero percorso da Madre Natura per arrivare a creare e formare l’essere “esclarecido”. Questo cammino evolutivo corrisponde tanto alla materia quanto allo spirito, uniti inseparabilmente. La saggezza di Madre Natura, ha dotato la persona “esclarecida” di un organismo complesso che gli dà la possibilità di percepire l’Universo, riconoscere la fonte della vita ed essere in relazione attraverso la propria Coscienza. La sopravivenza della persona e la continuità dell’Umanità dipendono dalla sua coscienza, la quale nella sua capacità autoriflessiva si riconosce come frutto della Madre Natura e del Cosmo. La nostra Cosmogonia ci insegna che la vita della persona dipende dalla forza del suo pensiero e dalle sue azioni, perché il Creatore Formatore ci ha dotato di qualità e facoltà perfezionate per ricercare e realizzare la propria esistenza. L’esistenza, in questa dimensione della Madre Terra, è il nostro spazio per ritrovarci con l’Amore, la Felicità e la Tenerezza dell’Universo. Il riconoscimento e il rispetto della tridimensionalità (Cuore del Celo, Cuore della Terra e Umanità, nella sua espressione personale e collettiva), ci portano alla creazione e ricreazione di una vita in equilibrio e armonia permanente”. La Sacralità della Parola e l’Arte di Osservare. Riprendo dai due libri prima accennati, nonché delle preziose e sagge parole di Rosita, due argomenti trattati in questo capitolo e che sono in sintonia con il pensiero sia del popolo U’wa che del popolo Wayuu. Il primo riguarda la Sacralità della Parola, il secondo la “contemplazione del Mondo Vivente” , tradotto in queste pagine come “osservazione” . 210 il grassetto è mio 92 “ Llegó aquí entonces la palabra, vinieron juntos Tepeu y Gucumatz,en la oscuridad, en la noche, y hablaron entre sí Tepeu y Gucumatz. Hablaron, pues, consultando entre sí y meditando; se pusieron de acuerdo, juntaron sus palabras y su pensamiento.” Popol Vuh211 “Arrivò, dunque, la parola, giunsero insieme Tepeu e Gucumatz, nell’oscurità, nella notte e parlarono fra di loro, Tepeu e Gucumatz. Parlarono, quindi, consultandosi fra di loro e meditando; si misero d’accordo, unirono le loro parole e il loro pensiero”212 “Tutto parla. Il Creatore Formatore parla. Parla l’Universo, parla la Madre Terra. Parlano le piante, parlano gli animali. Parla il Vento, parla l’Acqua. La Vita è comunicazione, la sua parola è alito di vita, è sostentamento per la vita, è essenza del suo essere. La percezione e l’espressione della comunicazione sono momenti Sacri della connessione con il Cosmo. Sono meditazione contemplativa espressa in ogni spazio – movimento. Sono momenti della vita, della vita personale e collettiva. Si esprime l’intimità personale nei rapporti familiari, collettivi e sociali. Si esprime nel lavoro, nel riposo e nella meditazione. Si esprime nella coscienza dell’essere vivo e insieme a tutti gli esseri che rendono la vita possibile. Dobbiamo restituire il valore della Parola, riprendere “il consiglio”213 come spazio di creazione della nostra parola. Soltanto mediante la restituzione della trasparenza alla nostra parola e al nostro essere, possiamo costruire collettività in armonia ed equilibrio. Solo mediante “il consiglio” possiamo restituire giustizia alla nostra vita; soltanto attraverso la giustizia possiamo restituire la dignità violentata della Madre Terra, la nostra datrice di Vita.”214 È importante apprendere l’importanza dell’Arte di Osservare, ovvero, ciò che per i Maya, rappresenta l’essenza e “il raccolto dell’abbondanza”, nell’intenzione di avere un filo conduttore che permetta di capire che la dimensione della “Sacralità” è una dimensione comune a tutti i popoli a cui faccio riferimento, dal primo all’ultimo capitolo. “Osservare è più che guardare. Osservare è entrare in contatto con l’energia sostanziale, con l’essenza dell’Universo e a sua volta con l’essenza di tutti gli esseri che lo compongono. E’ sentire la maestosità dell’esistenza di ogni essere, è capire la sua ragione di esistere. Osservare il volo degli uccelli, osservare il movimento dell’acqua, osservare il passo degli animali, osservare il sussurro del vento, osservare il caldo delle pietre … Osservare l’Universo. 211 Sànchez Mariano, Pèrez V. Marcelina, Jasso F, Alfonso M, Popol Vuh. “Ts’ib-jaye”. Testi dei Popoli Originari, Versione Tsotsil – Spagnolo, Ed. Consiglio Statale per le Culture e le Arti. Chiapas. 2009, p. 34 212 La traduzione è responsabilità di chi scrive 213 Richiamo qui il collegamento con la “Pedagogia del Consiglio” del popolo Wayuu, considerata nella prima parte del presente capitolo. 214 PNUD. GUATEMALA, op, cit, pp. 119- 120 93 Osservare è sentire con la mente, con il cuore e con lo spirito. E’ aprire lo spirito per tornare a vivere l’origine della Vita, per tornare a vivere lo svolgersi dell’esistenza. Osservare è sentire, apprezzare e rispettare ognuno dei passi del Creatore Formatore, fino ad arrivare al presente, come una manifestazione dell’essenza dell’Universo. Coltivare la nostra capacità di osservare l’essenza e la dignità della Vita fa sì che tutto possa fruttificare in termini di pace, gioia e felicità . Quindi, rendiamo possibile l’unità della vita in ognuna delle diverse Vite. Convivenza è dialogo, dolce conversazione, tenerezza nell’agire e nel dire. La dolcezza della Parola e delle azioni esprimono fermezza di essenza e pace dello spirito” 215 La Reciprocità, la complementarità e i quattro cammini dell’esistenza216 Qui vorrei richiamare l’attenzione su due elementi essenziale della Cosmovisione dei popoli delle Ande, due dei principi base del “Sumak Kawsay”: la complementarità e la reciprocità, i quali sono in stretto collegamento con quanto segue. “L’Universo è movimento di reciprocità. I suoi stati e le sue manifestazioni sono sempre in condizioni di dualità e complementarità: buio – luce; formazione-disintegrazione; freddo – caldo; nascita – morte; umido – secco ; giorno – notte. E’ la costante sintonia dell’Universo fra le sue particolari manifestazioni. La Madre Terra è in sintonia perfetta con il Padre Sole e la Nonna Luna. La dualità è l’espressione di pari con qualità differenti ma complementare”. 217 Nella dimensione dei Maya, l’Universo Creatore Formatore ha quattro cammini fondamentali, quattro angoli. Ogni cammino ha la sua ragione di esistere. I quattro cammini sono quelli dell’armonia e dell’equilibrio del Padre Sole (l’energia), la Madre Terra ( il Ventre), il Padre Aria (l’alito) e la Madre Acqua ( il sostento). L’Universo Creatore Formatore ci dimostra con la sua completezza che ognuno dei cammini rispetta gli altri, con le proprie facoltà e le proprie qualità. Nessuno di questi usurpa l’essere dell’altro, nè ha la pretesa di soppiantare la sua missione particolare. La connessione con ognuno dei quattro cammini ci permette di coltivare la forza, la maturità e la saggezza. Scoprire questi quattro angoli dell’Universo con le loro qualità e le loro facoltà ci fa diventare “esseri illuminati”, “esclarecidos”. 215 Ivi . pag 60-61 RAXALAJ MAYAB’ K’ASLEMALIL Cosmovisión maya, plenitud de la vida. Op Cit Pag. 48- 49 217 Ivi pag 91 - 93 216 94 “La genialità dei nostri Avi è stata nella comprensione che tutta l’esistenza si sviluppa e si evolve in forma circolare, in modo da costutiure le grandi spirali del Tempo. È stata sicuramente la loro osservazione astronomica, specialmente le osservazione dei movimenti del Sole e della Luna, che ha permesso loro di scoprire i cicli adeguati per la semina e la raccolta, riuscendo a determinare con precisione i solstizi e gli equinozi . L’Universo ci insegna anche un cammino di serenità, riflessione, valutazione e restituzione, perché anche gli errori sono parte del cammino stesso e ci servono per recuperare l’etica della responsabilità, libertà e giustizia.” 218 Figura: Consejo Nacional de ducación Maya CNEM Nella cosmo-visione Maya ci sono i quattro colori che richiamano quelli delle pannocchie di Mais da cui fu creata l’umanità (La formazione degli uomini di Mais.)219 Questi quattro colori vengono usati nella ritualità Maya e corrispondono ognuno ad un punto cardinale: a Oriente il rosso, per indicare il risplendere del Sole. Il bianco, colore dello Spirito e dell’Aria per il Nord, poiché riconosce i venti che arrivano dal Mesoamerica. Il nero per l’Occidente come indicazione del recupero dell’energia e del riposo. Il giallo per il Sud, per fare riferimento al Mais, visto che è stato nel sud del Guatemala, dove è cominciata la coltivazione di questo grano Sacro. 218 219 RAXALAJ MAYAB’ K’ASLEMALIL Cosmovisión maya, plenitud de la vida. Pag. 29 - 30 Popol Vuh, op, cit, p.208. 95 “La nostra spiritualità e le nostre credenze sono la spiegazione dettagliata di questa cosmogonia. I nostri riti sacri, i nostri codici, le iscrizione in pietra, gli ideogrammi, la tecnologia, l’arte, il tessuto, la musica, la tradizione orale, il sistema di organizzazione e le norme di convivenza personale, familiare e sociale, sono l’insieme della conoscenza Maya, che noi, come discendenti millenari dei Maya, manteniamo vive tutt’oggi”220 Coscienza, Salute e Vita: Saggezza del Cosmo221 Richiamo quanto presentato nel capitolo primo, all’interno della cornice concettuale del “Lekil Kuxlejal” del popolo Tsotsil, in merito al Ch’ulel: la Coscienza. “L’Universo è una coscienza. La Coscienza vive, vibra, sente, apprende. La totalità delle coscienze si esprime in coscienze particolari, come l’albero attraverso i suoi fiori e i suoi frutti. Nonostante ciò, non tutte le coscienze si materializzano, non tutta la coscienza si rivela come organismo. Esiste un’immensità di coscienze nello stato perfetto, in stato puro, in energia. Per questo è necessario lasciare fluire le energie per riuscire a comprendere e imparare dalle cose piccole, dalla natura delle pietre, dalle piante, dagli animali, dall’acqua, dal vento. Tutte queste energie hanno qualcosa da cui ci possiamo nutrire e con cui possiamo comunicare. L’umanità deve imparare a capire il loro linguaggio”. Salute e Vita. Qui vorrei rimandare alle riflessioni di Berito Cubarubwa, nella presentazione del pensiero U’wa del Corpo come Territorio, e della malattia come disconnessione col Cosmo, la cui essenza ritrovo in queste stesse righe: “Noi siamo la concretezza dell’Universo, nelle sue particelle più minuscole e nelle forme del suo macro Corpo. Per questo la relazione con le fonti primarie di energie è Salute. La relazione Sacra e quotidiana con il Cuore del Cielo, Cuore della Terra, Cuore dell’Aria, Cuore dell’Acqua. Osservare e gioire dell’alba, del tramonto, della notte. Sentire e assorbire il vento in ognuno dei suoi movimenti, gioire delle stagioni, estasiarsi con la freschezza e il chiarore dell’acqua, gioire del freddo, del caldo, della pioggia e della grandine. Godere del dolce, l’amaro, e il salato della Vita. Questo è Felicità. E buona salute. L’eccesso o la limitazione generano malattia. Entrambi, l’eccesso e la limitazione agitano e inibiscono lo spirito. Le malattie sono squilibri e assenza di armonia. Quando esiste squilibrio esiste angoscia, frustrazione, amarezza, solitudine, disgusto, insoddisfazione, aggressione. 220 221 Parti delle conversazione con Rosa Liberta Xiap. Popol Vuh, op, cit, pp. 68-69 96 Tutti squilibri umani di oggi, dovuti alla disconnessione e all’assenza di relazioni rispettose con ogni essere della Natura; per l’agitazione che obbliga a correre tutto il tempo.”222 Il Canto, la poesia e l’amore alla Vita: La Sacralità del femminile223 “La donna è la concretizzazione organica e spirituale della qualità creatrice della vita Cosmica. Lei è la custode della tenerezza e dell’amore sublime della Vita. La donna nelle sue diverse tappe: nonna, madre, figlia, nipote. L’essenza e il ruolo della nonna sono fondamenti all’interno della famiglia e della comunità. La nonna è anche l’“ostetrica” ( comadrona). Donna la cui missione è preparare il cammino per un nuovo essere del Cosmo verso la dimensione della Madre Terra. La Parola della nonna comadrona è l’esperienza della vita millenaria. La melodia della sua voce è accompagnata dal suono del Caracol (Conchiglia cerimoniale molto grande) che annuncia al Cosmo la nascita di una nuova creatura, un nuovo essere integrante dell’umanità, un servitore, un guardiano. Il rituale dell’allattamento è un atto mistico e spirituale di abbandono. Nell’atto di alimentarsi con i seni della madre viene trasmesso il latte materno, essenza di amore, ma si trasmette anche l’interconnessione con l’Universo, la Cosmovisione, i principi e i valori. Dobbiamo restituire la dignità alla donna. Rispettare la sua essenza, per recuperare la spiritualità sublime dei suoi cicli lunari e del fatto propriamente suo di “alumbrar” ( partorire) la Vita. Questo è necessario per recuperare il rispetto e la continuità dell’Umanità”. Le Parole della Memoria Sottolineando quanto detto prima, il valore di questo documento ricade nel fatto che sia stato creato da coloro che attraverso la memoria, l’impegno e la resistenza hanno mantenuta viva fino ad oggi la cultura millenaria dei Maya. In particolare modo, però, ha un valore aggiunto di grande peso, che a mio avviso, è rappresentano dalla volontà di costruire assieme ad altre culture questa “Coscienza Cosmica” in un momento che loro stessi definiscono di “Crisi esistenziale” e che richiama alle riflessioni di Mariagrazia Contini sia sull’Educazione alla progettualità esistenziale, sia sulla “Felicità”, quella che è rappresentata dal mettersi in relazione con l’altro. Questo “altro”, che in molti scenari latinoamericani viene chiamato “otredad”, al femminile, per definire i mondi con cui entriamo in rapporto nella nostra esistenza. Inoltre, perché nelle loro parole ritroviamo anche le già accennate parole di Gregory Bateson, in merito alla “disconnessione e disintegrazione con la Vita stessa.” 222 Parole di coloro a cui è stato affidato il progetto di scrittura del libro. Ivi pag. 71 Ivi, p. 75 - 77 223 97 “ Noi nipoti dei Maya, abbiamo preso l’impegno di condividere parte della ricchezza cosmogonica e la ricchezza culturale creata durante millenni. Abbiamo accettato l’invito a lavorare su questo documento per diversi motivi, ma fondamentalmente perché l’umanità sta vivendo una crisi esistenziale come conseguenza della sua disconnessione e disintegrazione con la Vita stessa. Sentiamo spiritualmente questa sofferenza e vogliamo condividere il modo possibile per ritrovare la completezza della vita umana, nella pienezza della Natura e dell’Universo. Il sentiero percorso è costituito dai cammini spirituali ed energetici che abbiamo ereditato dai nostri Avi, rapportandoci con la Sacralità della Natura e con l’immensità del Cosmo, per nutrirci della loro saggezza e condividerla con l’umanità. In questa cornice abbiamo chiesto il permesso, due, tre volte, al Creatore Formatore, alle nostre nonne e ai nostri nonni, per condividere la profondità della loro conoscenza e la saggezza dei loro insegnamenti. Nella Danza Cosmica del Fuoco Sacro, nella visita ai “cerros” (colline), alle montagne, alle valli e ai fiumi, tutti luoghi energetici, cercando saggezza per questa trasmissione. Inoltre, ci siamo rimandati alla tradizione orale, pratiche culturali Maya, riti e al Calendario Sacro, come fonte di conoscenza cosmogonica. Infine, attraverso l’unità Mente - Corpo Cuore - Spirito - Persona - collettività spirituale - Madre Natura - Cosmo, abbiamo percorso un lungo cammino mistico per riuscire a tessere questo documento224”. Sib’alaj Maltyox. Chjonte Kyeya. Matyox Muchísimas gracias ( Molte grazie) 1.3 IL SUMAK KAWSAY E IL SUMAK KAMAÑA: POPOLI QUECHUA E AYMARA NELLO STATO PLURINAZIONALE DELLA BOLIVIA 225 Il Popolo Quechua è inserito nella macro regione delle Ande, per cui appartiene anche al grande gruppo dei “Popoli Andini”. In questa prospettiva bisogna fare presente che all’interno del termine “Andino” ci sono delle differenze che caratterizzano ognuna delle Culture che abitano questo enorme territorio. Non sarà possibile riportare in questa sede le specificità di ognuna, tuttavia, nell’intenzione di rendere comprensibili il contesto a cui fa riferimento il 224 Ivi, p. 78 Il numero di abitanti della Bolivia è di 10.426.160, con un 62% che supera i 15 anni, d’origine indigena. I Quechua (49,5%) e gli Aymara (40,6%), ubicati nelle Ande Occidentali, sono i popoli con il maggior numero e percentuale di popolazione. www.pueblosoriginariosenamerica.org 225 98 termine “Andino”, riprendo le parole di Josef Estermann226, uno studioso non indigeno, che ha convissuto otto anni con il “runa” andino, come ci spiegano queste sue parole. “Il termine “andino” contiene un concetto polisemico. In primo luogo “andino” si riferisce a una categoria spaziale, a un ambito geografico e topografico. La radice quechua ‘anti’ ( o antikuna al plurale) è stata usata all’epoca incaica per fare riferimento agli abitanti di uno dei quattro regni o ‘suyu’ dell’imperò del Tawantinsuyu, diviso dall’ Inka Tùpac Yupanqui. (...) Quindi, “andino” in senso geografico fa riferimento allo spazio della montagna dell’America del Sud. Attualmente, le Ande, ( o la regione Andina) si estendono dal Venezuela, Colombia, Ecuador, Perù e Bolivia, fino al nord dell’Argentina e il Cile”.227 Nel suo lavoro Estermann fa attenzione a non usare il termine “indio”, attribuito al “grande sbaglio epocale di Cristoforo Colombo”, o il termine “indigeno”, questo proveniente dall’espessione latina ‘indius geniuts’, cioè “di origine indio”, oppure, il termine “America” o “Americano” o “latinoamericano”228, proponendo in merito di usare una terminologia non Occidentale, ‘endogena’ nel senso di “equivalenti omeomorfici linguistici 229”, con uno sfondo concettuale proprio. “A questo proposito, possiamo sostituire il termine “America” con il termine autoctono di Abya Yala, il quale, più che un riferimento geografico, sarebbe una categoria storico-culturale. Per sostituire il termine “indigeno” nell’ambito andino si potrebbe usare “runa”, “qheswa runa”, “qheswa”, “aymara”. (…) “Runa” è la parola quechua per “uomo” o “essere umano” e viene usata per i quechua-parlanti (endogenamente) per riferirsi alla gente autoctona di origine preispanica (...) 230 “In questo lavoro useremo il termine ”runa” per diversi motivi, il primo perché ci limitiamo innanzitutto alla manifestazione filosofica della popolazione quechua-parlante, anche se quella Josef Estermann (Svizzera, 1956), è dottore in Filosofia e laureato in teologia. Docente e ricercatore all’Istituto Superiore Ecumenico di Teologia a La Paz e docente all’Università Catolica Boliviana”San Pablo”. Il libro presentato è il frutto di otto anni di convivenza con il “runa”(uomo) andino. 227 Estermann, Josef, Filosofia Andina. Estudio intercultural de la Sabidurìa Autòctona Andina, Abya Yala, Quito Ecuador 1998, p. 51 228 Cfr. Esterman, op.cit. p. 54. Tutta la traduzione è responsabilità di chi scrive. 229 Panikar Raimon, “Gli equivalenti omeomorfici sono “equivalenze funzionali” o corrispondenze profonde che si possono stabilire tra parole-concetti che appartengono a religioni o culture diverse, andando oltre la semplice analogia. E’ quello che Panikar definisce “analogia funzionale di terzo grado” in cui né il significato né la funzione, anche se simili, sono le stesse. Per esempio. Dio e Brahaman, o il Cristo dei cristiani e l’Ishvara dell’induismo. “Per omeomorfismo intendiamo la funzione ‘topologica’ o analoga corrispondente (un equivalente funzionale) all’interno di un altro sistema” (Il Cristo sconosciuto dell’induismo, Milano 2007). L’equivalenza omeomorfica sembra essere uno strumento concettuale molto adeguato perché, da un lato, rende possibile rispettare la specificità di ogni forma religiosa e, dall’altro, consente di gettare dei ponti tra loro senza cadere in confronti equivoci” www.raimon-panikkar.org. 230 Estermann, op. cit. p.55 226 99 degli Aymara non è molto diversa. Il pensiero Quechua e il pensiero Aymara condividono i principi basici, ma ci sono alcune sfumature specifiche.”231 1.3.1 Principi Epistemologici del Buen Vivir Un altro degli aspetti importanti dell’analisi di Estermann, è l’esercizio di accostamento che nelle sue pagine opera tra la filosofia Occidentale e la Sapienza autoctona andina, che lui definisce appunto “Filosofia Andina232”, in una proposta di filosofia Interculturale233, alla quale ritengo opportuno fare riferimento, considerando il modo in cui riesce a sintetizzare i quattro principi cardine del “ConoSCentire” dei popoli della Ande, e che, a mio avviso, costituiscono le fondamenta epistemologiche del Buen Vivir. Il Principio di relazionalità: “La relazionalità del tutto è la caratteristica fondamentale (arjè) della razionalità andina. Questo principio afferma che tutto, in un modo o nell’altro, è in relazione (vincolato, connesso) con tutto. L’entità basica non è ‘l’ente’, ma la relazione. (...) Il tipo di relazionalità andina è lontana dall’essere soltanto ‘logica’ o ‘inferenziale’ o ‘ontologica’. Si tratta di una relazionalità ‘sui generis’ che implica una varietà di forme “extra – logiche”: reciprocità, complementarità e corrispondenza con gli aspetti affettivi, ecologici, etici, estetici e produttivi. (...) Per il runa, anche Dio è un ‘ente’ in relazione. Un Dio assolutamente trascendente, cioè non in relazione, è per la filosofia andina, un filosofema inesistente e incompressibile. (...) La proposizione cartesiana del “cogito ergo sum” è per la filosofia andina un assurdo; nessun ‘ente’ è ‘arje’ o principio del suo proprio essere. L’Essere è l’Essere-in-relazione; l’‘ontologia’ andina è sempre un’ “inter-ontologia234”. (...) La relazionalità del tutto, come l’assioma , principio base, della filosofia andina, si disgrega e si manifesta in una serie di principi derivati: Il Principio di corrispondenza: “Questo principio dice che i diversi aspetti, regioni o campi della ‘realtà’ si corrispondono in maniera armoniosa. “Corrispondenza” non è la stessa cosa di “equivalenza”(...) Corrispondenza (con + rispondere) etimologicamente implica una correlazione, una relazione mutua e bidirezionale fra due campi della ‘realtà’.235 (...) I pitagorici, ad esempio, affermarono questo principio in riferimento alla relazione fra il piccolo (mikrom) e il grande (makrom). L’espressione pitagorica di questa relazionalità è 231 Ivi, p.56 Ivi, p. 5 “la Filosofia Andina, è innanzitutto un’ “epifania sapienziale” dell’ “Altro” nella sua condizione di povero, emarginato, alienato, spogliato e dimenticato, ma a partire dalla “gloria” della sua ricchezza umana,culturale e filosofica. 233 “La filosofia Interculturale, lungo dall’essere una corrente con contenuti predeterminati, è un modo di vedere, un’attitudine d’impegno, un certo atteggiamento intellettuale che penetra tutti gli sforzi filosofici”, Ivi, quarto di copertina. 234 Ivi, 116 235 Ivi, 123-125 232 100 come segue: “ Tale nel grande, tale nel piccolo” (isomorfismo cosmico). (...) Nella filosofia andina, il principio di corrispondenza, include nessi relazionali di tipo qualitativo - simbolico, celebrativo, rituale e affettivo, è una correlazione simbolico-(ra-ppresentativa). (...) Il principio di corrispondenza si manifesta nella filosofia andina a tutti i livelli e in tutte le categorie. In primo luogo descrive il tipo di relazione che esiste fra il macro e il micro cosmo: “Tale nel grande tale nel piccolo”. La ‘realtà’ cosmica delle sfere celesti (hanaq pacha) corrisponde alla ‘realtà’terrena (kay pacha) fino agli spazi infra-terreni (ukhu pacha). Ma esiste corrispondenza anche fra il cosmico e l’umano, l’umano e l’extra umano, l’organico e inorganico, ecc”236 Il principio di complementarità: “Questo principio rappresenta la specificità dei principi di corrispondenza e relazionalità. Nessun ‘ente’ e nessuna azione esiste ‘monadicamente’ se non sempre in coesistenza col suo complemento specifico. Tale ‘complemento’ (con + plenus) è l’elemento che ‘fa pieno’ o ‘completo’ l’elemento corrispondente 237 (...) Nel principio di complementarità, la ‘controparte’ (Gegen-Teil) di un ‘ente’ non è il suo ‘opposto’ ( Gegen-Satz), ma il suo ‘complemento’ corrispondente e imprescindibile (...) Il principio di complementarità sottolinea l’inclusione degli ‘opposti’ complementari in un ‘ente’ completo e integrale. (Tertium datur: Esiste una terza possibilità oltre a quella della relazione contraddittoria, cioè, la relazione complementare) (...) “si tratta più di una ‘mediazione celebrativa’: le posizioni complementari arrivano realmente a integrarsi in e attraverso il rituale celebrativo, mediante un processo ‘pragmatico’ (azione) d’integrazione simbolica”238 Il principio di reciprocità: “Il principio di corrispondenza si esprime a livello pragmatico ed etico come principio di reciprocità: ad ogni atto corrisponde come restituzione complementare un atto reciproco. Questo principio non solo è di competenza delle interrelazioni umane (fra persone o gruppi), ma anche di ogni tipo di interazione, sia questa intra-umana, o fra uomo e natura, cioè fra l’umano e il divino. (...) Questo principio rivela una caratteristica importante della filosofia andina: l’Etica non è una questione limitata all’essere umano e alle sue azioni, ma ha anche dimensioni cosmiche. Si potrebbe parlare di un’ “etica cosmica”. (...) La reciprocità andina non presuppone una relazione d’interazione libera e volontaria, si tratta piuttosto di un ‘dovere cosmico’ che riflette l’ordine universale del quale l’essere umano fa parte. (...) In fondo, si tratta di una ‘giustizia’ (meta – etica) dello sentimenti, persone e anche valori religiosi ” 239 236 Ibidem Ivi, p. 126 238 Ivi, 128 239 Ivi, pp. 131 e 132 237 101 ‘scambio’ di beni, (...) La reciprocità, come una normatività relazionale è una categoria cosmica, non un concetto economico (...) attraverso la reciprocità, gli attori (umani, naturali, divini) stabiliscono una ‘giustizia cosmica’ come normatività soggiacente alle molteplici relazioni esistenti. Per questo, la base del principio di reciprocità è l’ordine cosmico (e la sua relazionalità fondamentale) come un sistema armonioso ed equilibrato delle relazioni. (...) L’equilibrio cosmico (armonia) richiede la reciprocità delle azioni e la complementarità degli attori. (...) il principio di reciprocità è, in fondo, incompatibile con alcune nozioni trascendentali della filosofia occidentale. La relazione gnoseologica in Occidente è concepita come una relazione unidirezionale e obliqua: Il soggetto conoscitivo ‘conosce’, attivamente (intenzionalmente), l’oggetto conoscitivo, come qualcosa di meramente passivo. La stessa cosa succede con la relazione fra l’essere umano e la natura extra – umana: l’uomo ‘sfrutta’ mediante il lavoro la terra e la ‘trasforma’ in un prodotto con un volto umano. La ‘materia’ è un contenitore meramente passivo ( mater significa ‘utero’, considerato fino al secolo XVIII come ‘recettore’ dell’elemento attivo maschile), l’ “oggetto” dell’informazione per l’elemento attivo ( la ‘forma’.)”240 1.3.2 I Capisaldi della Sapienza Andina e il Buen Vivir L’analisi degli elementi che danno forma al “Sumak Kawsay” (Quechua), “Sumak Kamaña”(Aymara) nello Stato Plurinazionale della Bolivia, ha occupato parte importante della mia ricerca dovuto al fatto che la Bolivia di oggi porta avanti un processo sui generis nell’ Abya Yala il cui obiettivo principale è quello di riprendere in mano il proprio destino come nazione e come società, dando luogo, da un lato, ad un processo politico importante attraverso la riforma costituzionale del 2009, dove i diritti della Natura vengono a fare parte del quadro giuridico nazionale; dall’altro prendendo in considerazione l’Educazione come punto fondamentale per avviare qualsiasi processo di cambiamento, così che nel 2010 è stata approvata la legge “Avelino Signani ed Elizardo Pèrez”. Tuttavia, avvicinarsi al pensiero Andino nella sua complessità, come sottolineato prima, è un compito assai difficile, per cui in questa sede mi limiterò ad accennare alcuni aspetti particolarmente importanti nel processo di costruzione e trasmissione della conoscenza. Altro non sono in grado di fare, sia perché non possiedo la padronanza delle lingue andine per capire le particolarità linguistiche con cui una stessa parola sarebbe tradotta in castigliano, sia perché diventa complicato fare una selezione bibliografica di tutto ciò che è stato scritto sul pensiero Andino, dovuto al fatto che ci sono alcune trascrizioni contrastanti fra loro. 240 Ivi, p. 134 102 Tuttavia, ci sono degli elementi comuni a tutti i Popoli del Abya Yala, che emergeranno nel proseguimento di queste pagine, ed è in questo orizzonte che presento quanto segue, cercando di considerare le fonti provenienti dagli studiosi degli stessi Popoli. In partenza vorrei riprendere alcune delle considerazioni fatte da Fernando Huanacuni,241 attraverso le quali potersi avvicinare alla complessità del pensiero dei popoli delle Ande, contesto in cui si inseriscono le riflessioni qui presentate. “I nostri Avi sapevano dell’esistenza di due forze: la forza cosmica che viene dal cielo e la forza tellurica che viene dalla terra ( la Pachamama). Queste due forze convergono nel processo della vita, generando tutte le forme di esistenza e queste diverse forme di esistenza si relazionano attraverso l’ “AYNI”, (la complementarità).”242 Huanacuni, procede nella sua spiegazione, esplicitando il significato del termine “Pacha” “ Il termine “Pacha”, comprende tutte le forme dell’esistenza, è la sintesi di entrambe le energie, il ponte, il centro delle forze cosmiche e telluriche. La parola Pacha, ha nel suo concepimento, l’unione delle due forze. “PA” che viene da “PAYA”: due; e “CHA” che viene da “CHAMA”: Forza. Due forze che interagiscono per riuscire ad esprimere quello che noi chiamamo vita, come una totalità del visibile: Pachamama, e dell’invisibile: Pachakama243” “ Il termine “Pacha” è una parola molto importante nell’Essere Andino per capire il mondo. E’ un termine con molteplici significati. Le traduzioni dei linguisti fanno riferimento soltanto alle nozioni di spazio e di tempo, ma per l’Essere Andino, questa parola va oltre il tempo e oltre lo spazio, implica un modo di vita, un modo di capire l’universo che supera le dimensioni Tempo-Spazio, è la capacità di partecipare attivamente nell’universo, immergersi in esso, essere-stando in Lui (l’Universo). “Pacha” significa anche il convergere delle forze: chachawarmi (maschile e femminile). Quando facciamo riferimento alla complementarità di queste due forze, è un riferimento anche all’equilibrio della coppia: uomo-donna”.244 . . . La Pacha come dimensione Spazio/Tempo Nella spiegazione della “Pacha” Come dimensione Spazio/Tempo, anche Huanacuni fa riferimento alla Chakana per rendere comprensibile la sua spiegazione. 241 Storico Aymara , teorico della Cosmovisione Andina. Huanacuni Fernando, Buen Vivir / Vivir Bien, op. cit. Tutta la traduzione è responsabilità di chi scrive. 243 Ibidem. 244 Ibidem 242 103 Pacha come Spazio Alax Pacha Aka Pacha Wiñay Pacha Kawki Pacha Manqha Pacha “Formano le forze cosmiche: il “Alaxpacha” e il “kawkipacha” e le forze telluriche il “manqhapacha” y el “akapacha” Akapacha: Corrisponde a questo mondo, dove si svolge ogni forma di vita visibile: umana, animale, vegetale e minerale. Nell’essere umano, “akapacha” corrisponde al corpo fisico e nello spazio di percezione umana, corrisponde al “conscio Manqhapacha: Si rifierisce al mondo di sotto, dove ci sono le forze della Madre Terra. Il mondo Andino concepisce la Vita all’interno della Terra. In relazione all’essere umano, “manqhapacha” è il mondo interiore, e nello spazio della percezione umana rappresenta l”inconscio”. Alaxpacha: Comprende il piano superiore tangibile, visibile, dove si trovano le stelle, il sole, la luna, il lampo. Nell’essere umano ,”Alaxpacha” comprende il corpo invisibile, emozionale, etereo. Kawkipacha: È il mondo dello sconosciuto, indefinito, il mondo oltre il visibile. Il mondo Andino considera che esiste vita oltre l’universo visibile (l’invisibile). In relazione all’essere umano, “kawkipacha”, è quello che sta oltre il corpo tangibile, si potebbre chiamare “l’essenza della Vita”. Wiñsypacha: è lo spazio eterno”245 Le spiegazioni di Huanacuni continuano prendendo in considerazione la dimensione “Tempo”, in relazione con la “Pacha”. 245 Ibidem 104 “È importante fare differenza fra la forma in cui il tempo viene concepito in Occidente e la forma in cui viene concepito nelle Ande. Per l’Occidente, il tempo è lineare, viene da un passato, passa per un presente e va verso il futuro. Nel mondo Andino, invece, il tempo è circolare; si concepisce un presente che è però un continuum dove passato e futuro alla fine si fondono. Nel mondo Andino, non si concepisce niente di statico, tutto è in movimento. Nel modo di concepire la vita, è importante, dicono gli anziani, saper vivere, cioè, entrare dentro al tempo intenso: “Sinti Pacha”, che significa dare più lucentezza alla vita. Vivere pienamente. Vivere Bene” Pacha come Tempo Nayra Pacha Jicha Pacha Wiñay Pacha Jutir Pacha Sinti Pacha “Nayra Pacha”: Tempo passato. “Jicha pacha”: Tempo presente. “Jutir Pacha”: Tempo che viene. “Sinti Pacha”: Tempo intenso. “Wiñay Pacha”. Tempo eterno.”246 1.3.2.2 La Scuola del Pensiero Andino e la Geografia Sacra Nel tentativo di allargare il più possibile lo sguardo sulla complessità del Mondo Andino, e considerando le costanti controversie fra i diversi studiosi Andini e non, riporto di seguito gli studi di Javier Lajo Lazo247 appartenente al Popolo Puqina del Perù, in modo da rendere una cornice variegata dalle diverse prospettive in cui la “Filosofia Andina” di Estermann viene presentata da un intellettuale Originario quanto lo è Lajo. C’è da sottolineare che la lingua del Popolo Puqina, è considerata dagli studiosi la “Madre” lingua, antenata, delle altre lingue 246 Ibidem. Javier Lajo Lazo, è un’intellettuale amerindio ( economista e dottore i filosofia), “comunero” della Comunità d Pocsi, del Popolo Puqina, nella Regione di Arequipa ( Perù-Tawantinsuyu). 247 105 Andine come il Quechua, l’Aymara, e il “Kallawaya”, come lo stesso Lajo ci tiene a chiarire248. Di seguito i diversi aspetti riportati da Lajo, attraverso la “ QHAPAQ KUNA o LA SCUOLA ANDINA”, le cui ampie spiegazioni presenta nel suo libro.249 “Mio padre mi ha spiegato, o meglio mi ha fatto vedere – per essere più espliciti – che il Cosmo (non dico “universo” perchè sarebbe un condizionamento all’unità “creatrice”) è chiaro e cristallino come l’acqua in una sorgente originaria, traslucido e trasparente, dove si può osservare tutto quello che costituisce quella trasparenza ….(..) Se vogliamo capire come funziona tutto, specialmente il Tempo, allora dobbiamo osservare quello che succede quando si butta una pietra nelle acque cristalline dell’esistenza. Così funziona tutto, mi ha detto, svelandomi il segreto del culto andino all’acqua.” Legge generale del movimento e del Tempo250 “Il bambino che ero in quel tempo è rimasto meravigliato dalle onde e dai cerchi concentrici perfetti, che come magici mandala si disegnavano sull’acqua. Questo è stato il poderoso segnale o simbolo di una saggezza globale. Attraverso questo simbolo dinamico e naturale che esprime la “Legge generale del movimento e del Tempo”, sono riuscito ad apprendere molto di più che in tutto il tempo che ho frequentano la scuola e l’università”251 Il Popolo Puqina usava la lingua del Capac Simi, conosciuto anche come il Popolo dei Sacerdoti “kallahuayos”, o “portatori del potere dell’Inka. 249 Lajo, L. Javier, Qhapaq Ñan. La Ruta Inka de la Sabiduría, Amaro Runa –CENES, Lima 2005. 250 Lajo, J. , Qhapaq Ñan, op, cit. 251 Lajo Lazo Javier. Mas allà de la civilizaciòn. Reflexiones sobre la Filosofia Occidental y la Sabidurìa Indigena. Versione on line . www.qhapaqkuna.org. Tutta la traduzione è responsabilità di chi scrive. 248 106 Las tres Pachas: ( le tre dimensioni della Pacha – Terra) Lajo, prosegue con le sue spiegazioni in merito ai modi in cui le dimensioni spazio/tempo vengono capite e vissute nel mondo Andino. “La magia di quella lezione è indelebile e ogni giorno mi insegna di più. Possiamo interpretare questo simbolo dinamico anche in questo modo: I molteplici cerchi possono semplificarsi in tre: Kay Pacha: Captado por nuestra consciencia Tiempo oscilatorio, fluye del epicentro pero regresa aél en ciclos permanentes Uku Pacha HananPacha - “Il Hanan Pacha, che è il cerchio o sfera esteriore, esprime il mondo potenziale o “di fuori” che sempre “va esistendo” o “può essere”. Noi usiamo il linguaggio in forma potenziale, cioè sempre, “noi stiamo andando” o “stiamo venendo”, in questo senso “l’essere” esprime un “essere esistendo”, nella nostra cultura non esiste un “essere” statico, non può esistere un qualcosa senza movimento e senza tempo. E il Tempo fluisce da dentro verso fuori, ma ritorna secondo cicli permanenti. In termini semplici, il Hanan Pacha, è il tempo futuro, è la sfera attraverso la quale “andiamo trascorrendo”, ma che esiste già, o meglio “sta esistendo”, il mondo che “ sta fuori” del qui e dell’ ora”. - Il circolo interiore o Uku Pacha, rappresenta il “dentro” come ciò che “fluisce dall’interno del tempo e dallo spazio”, in termini semplici, significa quel mondo che “non si può vedere”, quel mondo soggiacente che i sacerdoti cristiani l’hanno identificato con “l’inferno”. - “Kay Pacha” o il mondo del qui e ora, in realtà è un “punku” o “chakana”, porta e ponte come transito percepibile fra le altre due sfere, è quello che “occupa o percepisce” la nostra coscienza. Il “Kay Pacha” “ricorda” con la nostra coscienza il “Uku Pacha” da dove proviene, ma può “vedere” anche il “Hanan Pacha” o sfera esteriore dove sta andando”. 107 Lajo approfondisce le complessità delle dimensioni Spazio/tempo attraverso i concetti di “dentro” e “fuori” che sono una costante nella la maniera di concettualizzare il tempo o “Wiñay”, vocabolo Puquina252 che significa “eternità”, e la forma in cui questo intreccio si relaziona con le fonti di squilibrio del Cosmo e in conseguenza con la malattia. “Il Tempo nella nostra cultura è rappresentato dai serpenti sacri “Yacumama” e “Sachamama”, “Amarus” o “Chocoras”253, che sono due serpenti intrecciati, uno con la testa impiantata nell’ “Uku Pacha” (passato) a una grande sfera massima o “Hanan Pacha” (futuro) e che ha l’ombelico o “stomaco” nella sfera che rappresenta quello che percepisce la nostra coscienza o “Kay Pacha”, coscienza che eventualmente può anche allargarsi o stringersi; ricordandoci che non dobbiamo “allontanare lo stomaco” del qui e dell’ora, perchè questo errore è la principale fonte di squilibrio e in conseguenza di malattia. Quindi, il Tempo nella cultura Andina ha un “dentro” e un “fuori”, che oscillano ogni volta con maggiore forza, come la “Chocora” che fa dei giri in spirale, ampliando la sua dimensione254” Il Tempo/Spazio nella Cultura Andina ( dentro e fuori) Lajo continua nella sua analisi applicando questo sistema di conoscenza sul piano dove abita l’essere umano, mostrando come quello che nello spazio è tridimensionale e vistro attraverso tre sfere concentriche, nel piano si vede come tre cerchi tangenti. In questa prospettiva, spiega Lajo, gli “Amaru Runa” sono gli umani che riescono a coltivare la perfezione nelle tre dimensioni della Pacha e transitano liberamente fra di esse usando il “Qhapaq Ñan”, sono gli “hamawtas”, i saggi della scuola andina o “Qhapaq Cuna”. 252 P. Federico Aguiló, S.I. El Idioma del Pueblo Puquina. Edit. Colección Amauta Runacunapac, 2000. Quito .Cit. P. 51. Cuyo significado dice; Chocora: Vívora. Idolo y Waca puquina, espiral, ondulante o que da vueltas. 254 Lajo, J, Mas allà de la civilizaciòn, op. cit 253 108 “I Sacerdoti “Altomisayoc” fanno riferimento a tre principi valutativi e a tre parti dell’organismo umano, che sono in corrispondenza con il “Munay”,principio del “volere” dell’ “Amare” o della volontà cosciente. Questa parte è in corrispondenza con al cerchio della zona pubica o apparato sessuale o riproduttore, le persone che coltivano molto questa parte che corrisponde all’“Uku Pacha”, diventa un “munayniyoq”, in grado di fare magia con la sua capacità e potenza per sentire e progettare la forza del “Munay”, riuscendo a “volare fra le ali della passione” che procrea la nostra cultura” “Il Secondo principio è il “Llankay” o “Ruay” , che è il “fare” il “Lavorare” el “hacer” che è la sfera del “Kay Pacha”, che nell’organismo umano occupa la zona dello stomaco “ombelico” e del cuore, che sono gli organi che non smettono mai di lavorare. La persona che coltiva questa zona sarà un “Llankayniyoq”, un eterno equilibrato e equilibratore del mondo; ma “molto equilibrio fa male” perchè immobilizza” “L’ultimo cerchio, quello della testa o “Yachay”, che significa il principio del “Sapere” o la “Sapienza”, zona dell ‘ “Hanan Pacha”. Le persone che coltivano questa zona sarano un “Yachayniyoq”, un essere pensante, grande teorico, grande decifratore di ragioni e parole, ma “niente di più”. Sul principio di Parità, o Complementarità già riportato da Stermann, lo studioso non indigeno, MillenaVillena255, ha portato avanti diverse richerche i cui risultati si trovano completamente nel primo dei suo libri. 256 255 Milla Villena è architetto peruviano. Le sue pubblicazioni sono il frutto di più di quaranta anni di esperienze condivise con i popoli delle Ande. 256 Milla Villena, Carlos. Genesis de la Cultura Andina. Peru, 1983. “AYNI”, Cochabamba-Bolivia 2002 109 “Nel mondo andino ci sono due elementi diversi, due essenze. Esiste il PAR primogenito, che fra le sue caratteristiche ha quella di essere complementare e proporzionale. Tutto è PARI. Nel nostro Mondo Austral, la “ Cruz del Sur” , forata da quattro punti, determina per contrapposizione, la forma del pensiero collettivista e la capacità di sintesi dell’uomo andino”257 L’importanza dei tre cerchi tangenti come simboli e la loro relazione interattiva come metodo di conoscenza si è manifestata anche attraverso l’architettura dei templi andini antichi, la quale è stata studiata ampiamente da Milla Villena. “Metodo per ottenere la “Tawa-Chakana” o Croce ordinatrice dei “tawanakus”, che nasce dal cerchio interiore o “Uku Pacha” e che essemdo circoscritto fra un cerchio e un quadrato esteriore ha lo stesso perimetro. Questa è la Forza del “Ponte”, la soluzione all’“impossibile problema di quadrare il circolo”, è la proporzionalità delle due “Pachas” estreme258” Attraverso lo studio approfondito di questa “Geografia Sacra”, o in parole di Lajo, “Il Cammino dei “Qhapaq”, dei giusti, dei nobili”, si sono elaborate diverse teorie sulla conoscenza, di cui “La Chakana” rappresenta una delle massime espressioni del pensiero Andino e attraverso la quale si completano e si tesse tutto il telaio della Cosmovisone Andina, come ci fanno capire ancora le parole di Lajo. 257 258 Ivi, p. 32 Milla Villena, Carlos, Ayni, Kawsay Cochabambas 2002, p.220 110 “In questo gioco binario del tempio “quadrato-solare” e tempio “circolare-stellare”, si possono scoprire le relazioni ci complementarità e proporzionalità. Uno degli elementi di relazione dei due sistemi è indubbiamente la diagonale del quadrato circoscritto nel circolo, considerando che quella diagonale è la linea di proporzionalità fra i lati di un quadrato è allo stesso tempo il perimetro del circolo. …(..) Precisamente quando vogliamo incontrare il quadrato e il circolo che abbiano lo stesso perimetro, in realtà vogliamo trovare la “coppia perfetta” o “il Pari Primordiale”, che nel “Qhapaq Simi” o lingua Puqina è rappresentato dalla coppia “illa wi” o “Idolo” Puquina di Chiave”. Questo “Pari Primordiale” rappresenta un maschio che guarda l’est e una donna che guardan l’ovest, entrambi avvolti da serpenti “coas” e “asirus”. “Nel trovare questa relazione di proporzionalità della “Coppia Primordiale”, sorge l’operazione geometrica che da origine alla “Croce quadrata” o “Cruz de Tiawanacu”. Questa croce è la “Tawa-chakana” che significa precisametne “Croce-Ponte” de comunicazione fra l’uno e l’altro cosmo, considerando che viviamo in un cosmo PARI, cioè, “duoverso”.259” Quindi, questa “rotta” o “Scuola” o “Cammino della perfezione”,è tale perchè soltanto chi riesce a capirla e a viverla, cioè, a trovare la relazione e il riconoscimento con il suo “Pari”, può trovare il cammino della giustizia, della correttezza e dell’esattezza, ovvero, il Cammino della Sapienza e della Pace: Il Cammino dei “Qhapaq”, dei giusti, dei nobili, degli uomini consacrati alla cura della Vita e della Natura, che è il metodo cosmogonico, nonché Scuola Vitale della Scienza Andina. 259 Nel senso del discorso, venne creato dall’autore questo termine per indicare “due versi” 111 “Quindi al mio intendere, questa è la base o il supporto della trave maestra del sistema di pensiero e della saggezza fondamentale della Cultura Andina, la dualità che si complementa e si “proporziona” in un “Duo-Verso parallelo e combinato”. Questi principi e sistema di pensiero non è una scoperta ne una creazione soltanto mia. Ci sono diversi autori andini e non andini che hanno fatto questo stesso ragionamento. Il problema ora è come fornire un’interpretazione sistematica completa e renderlo comprensibile agli Occidentali. La “dualità complementare” è il principio concettuale del pensiero Andino, ma è anche l’idea di due essenze complementari, cioè, il confronto proporzionale, che è il secondo principio importante del nostro pensiero. Questa “rotta”, scuola o cammino della perfezione, diventa tale, perché soltanto chi riesce a capirla o viverla, cioè chi trova il suo “PAR”, riesce a trovare il cammino di quel che è giusto, corretto, esatto. Vuol dire,il cammino della saggezza e della pace. È il camino dei “Qhapaq260!, Questo è il sacro metodo cosmogonico della scienza andina”261 . KAJKRASA RUY)NA: POPOLO U’WA )N COLOMB)A 262 La parola “U’wa” nella loro lingua significa gente Intelligente che sa parlare. La loro lingua appartiene alla macro famiglia linguistica “Chibcha”. Vivono nel nord-est della Colombia e sono stati capaci di mantenere intatta la loro cultura ancestrale. La loro lingua u’wajka (anima della gente) ha tre differenti dialetti: Cobaria, Barro Negro e Agua Blanca. Il Territorio è il fondamento sul quale nasce la vita degli U’wa, Cuore del mondo. É uno spazio biogeografico delimitato. Il Territorio che figura nella mitologia dei canti (la geografia cantata) degli U’wa va dalla Sierra Nevada di Mèrida nel Venezuela e comprende le attuali popolazioni di Chinacota, Malaga, Oiba, Chima, Bucaramanga, Chiscas, Chita, Salinas di Chita, Guican e Piedemonte llaneros. Include la regione denominata del Sarare (Dipartimenti di Arauca, Nord di Santander, Santander, Boyacà e Casanare) che va dalla Sierra Nevada del Cocuy e dal Piedimonte Llanero (dal sud), fino alla valle di Pamplona nel nord.263 260 I saggi Lajo, Javier, Màs allà de la civilizaciòn op. Cit. 262 La Colombia è un paese Plurale. Nel loro territorio sono presenti I Popoli Indigeni, gli Afrodiscendenti, i Raizales e I Rom. La grande diversità culturale dei Popoli Indigeni è rappresentata dall’esistenza di più di cento idiomi e più o meno 300 forme dialettali. Da uno studio del Dipartimento Nazionale di Statistica, dopo il censimento del 1993 aggiornato al 1997, risulta che la popolazione indigena ammonta a 701.860 persone presenti in 32 regioni del paese. www.etniasdecolombia.org Copyright © Fundación Hemera. La traduzione è responsabilità di chi scrive. 263 Testo da me curato in occasione mostra fotografica “Popoli, Semi e Saperi” realizzata nella città di Ferrara – Italia - nel 2007, in collaborazione con la Provincia e l’Associazione culturale “Hermanos Latinos”. Tratto da interviste con Daris Cristancho e Berito Cubarwa, durante la realizzazione del progetto” Popoli, Semi e Saperi” finanziato dalla regione Emilia Romagna, fra il 2003 e il 2006. 261 112 Nei miti della “geografia cantata” degli U’wa, come parte del loro Territorio Ancestrale, vengono nominati i territori oggi conosciuti come Merida, in Venezuela (su questo punto ci sono alcuni importanti reperti ritrovati da Ann Osborn).264 “ fra le tradizioni di molti gruppi della “Sierra di Mèrida” ( Sierra del Mucuy265) in Venezuela, considerati dagli U’wa come loro Avi, o “gente maggiore”, conservano la credenza che l’arcobaleno è una divinità acquatica in relazione con “las lagunas” (grandi laghi), i quali incidono direttamente sulla fertilità della terra e delle donne. Nelle caverne, siti rocciosi e brughiere della Sierra di Mèrida si sono trovate antiche offerte indigene. In questa regione, i gruppi descritti dalle cronache come “Cuicas”, avevano delle capanne (boios) che erano dei santuari dove collocavano “tunjos” (statuette) di cotone, di legno o di ceramica così come offerte di pietre di colori e grani (semi ) di cacao, oltre a rotolini di cotone e sale. Le pietre piccole hanno mantenuto la loro importanza simbolica fra i contadini indigeni della regione. Vengono interpretate simbolicamente come”Semi” che rappresentano la forza vitale, per questo vengono piantate sul terreno in modo da fertilizzare la terra. Clarac de Briceño 1981)”266 Tutto ciò che è riportato in queste pagine riguardante il Popolo U’wa ha come fonte diretta le lunghe ore di “pensatorios” condivisi con persone principalmente della Comunità di Cobaruwa, una delle diciassette Comunità che formano l’Associazione di Autorità U’wa di Cubarà Boyacà. Altra fonte, sono stati gli studi realizzati dall’antropologa nordamericana Ann Osborn durante gli anni Ottanta in territorio U’wa, ma soprattutto la condivisione con docenti indigeni e non del documento “Kajkrasa Ruyina, che è il risultato di un progetto portato avanti dal Ministerio di Educazione Nazionale della Colombia, con la partecipazione di docenti e ricercatori dell’Università Pedagogica e Tecnologica di Colombia – UPTC, nonché con docenti U’wa e autorità tradizionali delle diverse Comunità. Questo progetto riguarda un processo di autovalutazione delle condizioni attraverso le quali è stato impostata storicamente l’educazione ufficiale, specificamente nel Popolo U’wa, così come la formulazione degli elementi costitutivi del modello “Etnoeducativo del Pueblo Indigena U’wa del Resguardo Unido.”267 Questo processo è particolarmente importante, perchè risponde per la prima volta, dopo la riforma costituzionale del 1991 che prevede in Colombia il diritto ad una educazione propria 264 Osborn, Ann, Las Cuatro Estaciones, op. Cit. NdT 266 Ibidem. 267 Ministerio de Educaciòn Nacional de Colombia. Kajkrasa Ruyina: Guardianes de la Madre Tierra – El Planeta Azul. Proyecto Etnoeducativo del Pueblo Indìgena U’wa del Resguardo Unido, MEN, Bogotà 2010 265 113 dei popoli originari, alle continue esigenze e alle diverse lotte portate avanti per la rivendicazione di una educazione propria. Con questa premessa voglio sottolineare che le testimonianze riportate sono traduzioni letterali di quanto riportato nei documenti sopra indicati, nonché delle interviste da me realizzate. . . Cosmovisione e )nsegnamenti degli U’wa Gli U’wa convivono con la selva e la montagna, e si tramandano le loro conoscenze attraverso la tradizione orale dei riti e dei canti; in questo modo mantengono la comunicazione con i differenti livelli dell’Universo e dell’equilibrio, in una società molto flessibile, senza stratificazioni sociali, che riconosce, rispetta ed accetta il sapere ancestrale dei loro Werjayà (guide spirituali). La loro missione è custodire e conservare il Cuore del mondo, mantenendo in armonia la selva, l’orto, gli uomini e gli spiriti, senza arroganza, con amore ed in permanente armonia con le forze della Natura. “Essere U’wa in rapporto con la natura significa avere un’idioma e una struttura del proprio pensiero, con una grande ricchezza di espressione simbolica, con un alto senso di solidarietà e di reciprocità. Non si concepisce un U’wa da solo, ma soltanto in relazione con gli altri. Por questo quando l’ U’wa parla non fa riferimento soltanto al proprio territorio se non all’intera umanità, è in questo senso que parliamo del Pianeta Azzurro ( PLANETA AZUL)”268 Tutte le attività sviluppate nell’arco della vita sono intrecciate formando così un pensiero integrale, che è stato il punto di partenza della loro proposta educativa, inglobando tutti i campi del sapere e della conoscenza, facendo uso di quegli “elementi propri della natura” che fanno riferimento alle loro piante sacre con cui si connettono con gli Dei, per mantenere l’equilibrio. “Noi U’wa studiamo ed impariammo con gli elementi propri della natura come il hayo(asa)Coca-, el yopo (akwa) y el tabaco verde (baka). Tutti questi sono elementi vivi che ci sono stati consegnati a noi dagli Dei. Questi ci permettono la comunicazione con loro. Sono per noi 268 Conversatorio con Josè Cobarìa, Insegnante U’wa, parlante della lingua U’wa, variante linguistica Cobarìa, laureato in Scienze Sociali. Cubarà – Boyacà - Giugno 2012. L’intervista è consultabile al link: www.youtube.com/YolandaAbyaYala /Kajkrasa Ruyina/Josè Cobarìa/ Casa del Saber de Fàtima. 114 come il quaderno dove si descrive e si racconta quello che succede nella natura per mantenere così l’equilibrio fra le società.”269 Nella cosmovisione U’wa si trovano tutti gli elementi fondanti della loro cultura: la spiritualità, le scienze della natura, la storia, i sistemi numerici e di scambio. Attraverso i canti si narra la creazione del mondo, si narra la geografia attraverso un viaggio spirituale in tutto il territorio ancestrale e il cosmo. Le pratiche rituali sono un processo di conoscenza attraverso il quale ricreano e aggiornano l’insieme della loro conoscenza, in pratiche collettive, dove il senso più importante di ogni pratica educativa è rafforzare la Comunità, come parte dell’universo senza frontiere fra tutti gli esseri viventi e gli altri considerati “inerti”. “La creazione del mondo per gli U’wa inizia quando il mondo stava diviso in due sfere: una sopra e un’altra sotto. Erano due mondi diversi. Il mondo di sopra era bianco, secco, luminoso e con fuoco. Quello di sotto, era rosso, scuro, umido e vuoto. Quei due mondi statici si sono uniti un giorno e da lì nacquero i mondi azzurro e giallo, che sono rimasti nel centro, fra gli altri due mondi”270 “L’organizzazione sociale degli U’wa sta nella Ley de Origen (la legge cosmica) e si materializza nel Territorio. L’identità U’wa si manifesta appropriandosi della norma cosmica e umanizzandola, è così che si diventa U’wa nel senso pieno della parola. Nella “Ley di Origen” si manifestano le norme del comportamento sociale che danno origine e distinguono l’identità U’wa” . ..(..) “I mondi o sfere che compongono l’universo, non sono luoghi escludenti o auto-contenuti , inoltre tutti hanno caratteristiche sia femminili che maschili. Dalla mescolanza fra il mondo di sopra e quello di sotto è uscito il mondo del mezzo, il quale può esistere soltanto sempre che gli altri due rimangano separati. Le celebrazioni dei riti e le cerimonie dei miti cantati sono disegnati e realizzati per mantenere questa separazione. Questo, perché mentre i mondi di sopra e di sotto vengono considerati indistruttibili, la durata del mondo del mezzo (il mondo della gente) è sconosciuta. Durante il ciclo annuale, il mondo del mezzo è ricreato attraverso il canto dei miti.”271 269 Conversatorio ( colloquio ) con Yuro Cobarìa. Guida spirituale e insegnante della tradizione alla Casa del Saber (scuola) di Fatima-Cubarà-Boyacà, giugno 2012. L’intervista è consultabile al link: www.youtube.com /YolandaAbyaYala /KajkrasaRuyina/Yuro Cobarìa/ Autoridad Tradicional. 270 Conversatorio consultabile al link: www.youtube.com /YolandaAbyaYala/Kajkrasa Ruyina/ Berito Cubarubwa Autoridad Espiritual del Pueblo U’wa. 271 Kajkrasa Ruyina, op. cit . p.51 115 . . . La Vita e la Morte nella Cosmovisione U’wa La struttura cosmologica dei mondi degli U’wa, così come il modo in cui la morte viene concepita fra gli U’wa sono stati punti di particolare interesse per diversi antropologi che si sono occupati della loro cultura, fra cui anche Ann Osborn. “All’inizio, l’universo U’wa comprendeva due sfere: un mondo di sopra, asciutto, luminoso. Un mondo di sotto, scuro, umido e vuoto. Questi due mondi erano statici e stavano divisi. Dopo c’è stato un movimento e i mondi di sopra e quello di sotto si sono incontrati; da questo incontro è nato il mondo del mezzo. Questi due mondi, o sfere, sono identificati e associati a dei colori. Il mondo di sopra si conosce con il nome di mondo Bianco e quello di sotto viene chiamato mondo Rosso. Dal loro incontro sorgono i mondi Azzurro e Giallo, ma il loro universo è rimasto formato principalmente da un mondo di sopra e uno di sotto. Rosso e Azzurro costituiscono il mondo di sotto e Bianco e Giallo quello di sopra.272” Nel mondo U’wa esiste una scala gerarchica di ascendenti attraverso i loro Avi e i loro Dei. Loro (gli U’wa) o Urina (la gente del mezzo) costituiscono la categoria dei “figli” di Thira. Gli U’wa si considerano discendenti o reincarnazione degli abitanti delle altre sfere (di sopra e di sotto) . Quando muoiono ripetono questo percorso, l’anima mascolina va al mondo bianco, dove diventa un “Thirina” e l’anima femminile va al mondo rosso dove diventa una “Kabina-Yaina”. A partire da questo ciclo, riniziano di nuovo il ciclo di trasformazione e rinascita. Questo ciclo di rinascita implica quattro fasi, concepite anche come quattro case, come per il ciclo matrimoniale all’interno delle singole Comunità. Nelle discussioni sulle ascendenze si presenta l’opposizione “oka”(Fuoco) / “bita” (materia originale). Il “Fuoco” è prevalentemente maschile e la “materia basica u originale” è femminile. Il Fuoco è fortemente relazionato con le cause di mortalità e con il Rosso, mentre la materia originaria è relazionata con il Bianco. Secondo gli U’wa quando questo universo arriva alla sua fine, la materia originaria immagazzinata potrà “mescolarsi” di nuovo nella costruzione del prossimo universo.” “ La coppia Fuoco/ materia originale sembra fare riferimento al Corpo e alle qualità ereditate. Mentre l’anima, che allo stesso tempo ha due componenti, “aka” (anima-voce) e “kambra” (anima-alito), fa riferimento anche a una componente femminile e un’altra maschile. Però c’è un elemento fondamentale da considerare: mentre il “Fuoco” e la “materia originaria” sono componenti inalterabili che vengono ereditati, l’ “anima-voce” e l’ “anima –alito” sono qualità 272 Osborn Ann, Las Cuatro Estaciones ( traducción Fabricio Cabrera ). Documento digitalizado por Biblioteca Virtual del Banco de la República 2004. www.banrepcultural.org/blaavirtual/ 116 che devono essere esercitate e rafforzate lungo la vita. La morte è concepita come il risultato dell’esaurimento della forza dell’ “Aka-Kambra” ( l’anima voce e l’anima alito).”273 Foto di Ann Osborn “Una delle forme di funerale tradizionale degli U’wa, consiste nel coprire la salma per collocarla in una grande “mochila” (borsa tessuta) coperta con foglie di “bijao”. La mummificazione e il costume di coprire e proteggere la salma, possono essere relazionati con certi aspetti fondamentali del pensiero U’wa, ad esempio la rappresentazone delle persone con i semi, la “preservazone delle sementi”, come la continuità dei “semi base” attraverso la conservazione degli alimenti attraverso le stagioni e dei “semi della gente” attraverso il matrimonio interclanico,un sistema tradizionale di alleanza matrimoniale con l’intenzione di perpetuare l’unione perfetta fra le caratteristiche dei diversi clan. Questa auto-perpetuazione umana, che viene comparata con l’immortalità delle divinità, viene relazionata con la rinascita e la continuità della vita dopo la morte. Per gli U’wa, con la morte la forza vitale svanisce e “l’anima” torna al luogo da dove è venuta, in altre dimensioni dell’Universo. I luoghi dove vanno le anime vengono identificati come “case” o “caverne” che rappresentano i cammini e i passaggi ad altri mondi. In qui luoghi, le “anime” si nutrono di fumo e di notte dormono appese alle pareti delle rocce, così si ristabiliscono le forze per rinascere di nuovo attraverso un processo graduale di trasformazioni.”274 273 274 Ibidem. Ibidem 117 1.4.1.2 Calendari e dimensione Spazio/Tempo “Per gli U'wa lo spazio non ha senso o significato senza movimento. Dall’inizio narrato in ogni mito cantato, quando tutto era asciutto e buio, la situazione evolve grazie all’azione di due Esseri Luminosi o Stelle. Il primo insieme delle stelle riesce ad illuminare una metà dell’universo, quella del mondo di sotto. Sono quelle che si vedono nel movimento che va da ovest verso est, passando prima dall’umido mondo di sotto. Il secondo insieme delle stelle illumina l’altra metà del mondo, sono le stelle che si muovono dall’est verso l’ovest, passando prima dall’asciutto mondo di sopra.”275 Ann Osborn (1985) “I nostri calendari e orari sono flessibili d’accordo con il ciclo di digiuni e feste celebrative delle comunità. I bambini, le bambine e i giovani vivono nelle “Case dei Saperi” riconosciute all’interno di promozione dell’educazione propria dal Ministero della Pubblica Educazione. (Scuole comunitarie –collegi- gestiti direttamente dagli U’wa senza l’intervento religioso, come succedeva 30 anni fa). Dipendendo dai cicli annuali sia cerimoniali che della natura – periodi di semina o raccolta – gli studenti ritornano alle loro comunità. Fra le nostre principali cerimonie abbiammo: “ 275 Ibidem 118 Akubasha” o digiuno del “yopo”276, “Karbasha” o digiuno del “cuesco”277, “Ay basha” o digiuno del ballo, infine, il rito di Shiy Kakaro, imposizione e levata della “Kókora278 -” che si realizza in qualsiasi epoca dell’ anno, “ Rijskina” che riguarda la preparazione del terreno e la semina”279 1.4.1.3 I Canti e la Parola U’wajka: (La Palabra) La Parola “Letteralmente significa “ Anima della gente”, per cui , è Lei, che ci permette di mantenere la comunicazione fra l’ordine materiale e l’ordine spirituale, fra gli uomini e gli Dei e così sostenere l’universo280” Si los U’wa no cantaran se derrumbarìa el cosmos” ( Se gli U’wa non cantassero, crollerebbe il cosmo) “Chiamata rituale del Caracol” – Giugno 2006 Pianta sacra rituale per il popolo U’wa Osborn, op. cit. 278 Riguarda il rito di passaggio delle bambine, in occasione della loro prima mestruazione. Rappresenta una cerimonia molto importante in rapporto con la fertilità della Madre Terra. 279 Conversatorio con Josè Cobarìa. Giugno 2012 280 Conversatorio (Colloquio) con Daris Cristancho. Docente U’wa. Parlante della variante cobarìa della lingua U’wa. Con titolo universitario in Scienze Sociali. Attualmente insegnante della Scuola Pablo VI (di stampo ufficiale) nel municipio di Cubarà – Boyacà. Intervista disponibile al link: www.youtube.com /YolandaAbyaYala /Mujeres /TerritorioCuerpoMemoria. 276 277 119 “La nozione del funzionamento alternante di ogni metà dell’universo e del Sole che gira intorno ad esso, spiega il perchè gli U’wa celebrano i loro miti cantati durante la notte. Loro considerano che queste celebrazioni giocano un ruolo fondamentale nel mantenere il movimento periodico del Sole e nel regolarizzare altri processi dell’Universo. “Per i Kubaruwa la celebrazione dei miti cantati assicura la continuità dell’universo. Cantare mantiene le divinità in movimento e in azione. Dal punto di vista sociale, il mito cantato è il linguaggio delle divinità e in esse si esprimono tutte le leggi U’wa ( raiya: ricchezza). La loro celebrazione è il modo per mantenere l’equilibrio fra le diverse leggi e fra i diversi mondi. I kubaruwa credono di occupare una posizione centrale nell’universo, questo comporta un potere di fronte alle divinità e le loro azioni. Allo steso modo si auto concepiscono come centrali in confronto ad altri popoli. In alcuni momenti, per manifestare la loro delusione o punizione verso altri popoli, hanno smesso di celebrare i miti cantati. La meticolosa esaustività con cui i kubaruwa prodigano i loro canti a tutti gli angoli del loro universo, rende l’idea di quanto siano importanti i canti all’interno del loro concerto cosmico, nonché la coscienza della posizione centrale che loro stessi occupano dentro di esso. ”281 I miti cantati sono una delle fondamenta della spiritualità, della Cosmovisione e dei processi di apprendimento/insegnamento del popolo U’wa. La loro importanza riguarda due aspetti fondamentali: uno è il loro ruolo educativo, considerando che attraverso di essi vengono trasmessi la loro storia, attraverso la “geografia cantata”. L’altro riguarda la componente spirituale dell’equilibrio. Attraverso i miti cantati si regolano le forze che causano malattia e che recano squilibrio fra le persone o nel Territorio. “I miti cantati sono di due grandi tipi: Reowa e Aya. rituale del “soplo” I miti di tipo Reowa corrispondono al e riguardano principalmente processi di purificazione Questi miti si riferiscono principalmente a argomenti come la morte e la malattia. I miti di tipo “Aya” sono miti di “ordinamento” che vengono celebrati dopo i miti del “Reowa” e hanno a che fare con l’apparizione di esseri e cose nel mondo del mezzo. I due miti: “soplar”(Reowa) e “ordinare”(Aya) vanno realizzati insieme tanto nell’azione quanto nel pensiero, cioè, sia nel rituale in sé che nel mito.” “Le cerimonie del “soplo” possono essere individuali, per persone in stato transitorio di malattia, ma possono essere anche collettive, per esempio nel caso della morte di un adulto importante. “La cerimonia del “soplo” si celebra sia su persone che su cose, in entrambi i casi per lo stesso motivo: per estrarre corpi, sostanze o influenze estranee e portarle fuori del Territorio, evitando che la “mortalità” possa arrecare danno alle persone. Questo rito si utilizza, per esempio, sulle 281 Osborn, op.cit 120 persone che ritornano al Territorio dopo un viaggio, o sui prodotti introdotti nelle Comunità, ad esempio: coltelli da caccia, attrezzi o alimenti. Quegli elementi che si considera possano portare più “mortalità o malattia”, o quanto più lontana sia stata la persona che ritorna, più bisogna “soplar” (soffiarla)282. Più grave sia la malattia, si ritiene che più lontano ci sarà l’oggetto che la causa. Quindi, esiste una marcata correlazione, fra distanza del Territorio kubaruwa, e il pericolo o “quatità” di mortalità che contengono le cose”.283 1.4.1.4 Il Territorio e il Corpo Quando ho avuto occasione di essere presente nei primi “pensatorios” in territorio U’wa, verso l’anno 2000, non capivo bene le metafore con cui parlavano delle malattie sociali della comunità facendo riferimento agli organi del Territorio, anche essi malati, spiegavano, per mancanza dei lunghi digiuni con cui si preparano alle grandi cerimonie di ringraziamento nel Popolo U’wa, indicate nel primo capitolo. Sei anni dopo, nel 2006, in seguito a giornate di assemblee comunitarie e momenti rituali condivisi, erano quasi le tre di notte, quando vedo con grande sorpresa che Rubico, il Maestro spirituale “Werjayà”, della “Casa del Sapere”284 di Fatima, prende da sotto il materasso di un umile letto due grandi pezzi di carta stropicciati. Sdraiato nella sua amaca, dove impartisce le sue “lezione” visto che ha dei limiti motori nelle sue gambe, ha parlato in lingua u’wa e mi ha fatto vedere i due disegni, fra cui uno di un corpo umano dove ad ogni organo umano corrispondeva un organo del loro Territorio ancestrale. Sono rimasta meravigliata e ho chiesto a Josè, insegnante della scuola, se poteva chiedere permesso di fotografarlo – considerando che non parlo la lingua U’wa-. Rubico ha risposto con una lunga spiegazione che sembrava un cantico di “ninna nanna”, di cui io naturalmente non capivo nulla. Dopo un momento di silenzio, tutto quanto mi è stato tradotto da Josè era che non era ancora il momento, che mi sarebbe stato permesso di fotografarlo più avanti. Sono dovuta arrivare a maggio 2012 dopo un lungo cammino di apprendimento , ma soprattutto diopo avere imparato a sentire, quello che secondo loro dovevo riuscire a sentire per avere a mia disposizione non soltanto il disegno a lungo desiderato, ma soprattutto gli insegnamenti che attraverso quella “mappa” venivano trasmessi. In questa occasione mi è stato concesso di fotografare anche il disegno che sei anni prima non mi avevano neanche fatto vedere. 282 Ndt Osborn, op. cit. 284 Come esplicitato nel primo capitolo, uno spazio pedagogico del popolo U’wa dove avviene la trasmissione della conoscenza tradizionale ( canti, riti, tessuto, lingua, medicina) 283 121 Manifestazione del Territorio nella Cosmovisione U’wa. TerritorioU’wa – giugno 2012 Sull’importante intreccio Territorio/Corpo, e Salute/malattie, troviamo importanti riferimenti anche nello studio della Osborn. “ I cammini e i sentieri dell’universo sono le vie su cui transitano le divinità nelle loro diverse manifestazioni. I cammini di sopra, compresa la parte inferiore del mondo di sopra, sono le rotte degli esseri Solari e le altre stelle del mondo U’wa. I cammini di sotto, compresi quelli della parte inferiore del mondo del mezzo, sono le rotte acquatiche o fiumi. Questi diversi tipi di cammini fanno si chè Stelle e Acqua convergano nei “atoba” o “lagunas” (grandi laghi)285 Nell’intersezione dei cammini e nei luoghi dove penetrano le sfere (i Mondi) ci sono delle porte o “kerata”. In questi “cammini” e attraverso quelle porte passano poteri benefici e malefici che appartengono ai diversi mondi. All’aprirsi delle porte, la materia scappa verso il mondo del Mezzo. È per questi cammini che, con l’aiuto degli allucinogeni il “Bita Wedhaiya U’wa”286 viaggiano per trovare la materia che sta causando malessere , ritornandola, aprendo o chiudendo le porte.”287 La connessione TeritorioCorpoTerritorio è una manifestazione molto pregnante del ConoSCentire U’wa, è una connessione che è presente durante le attività de vita quotidiana, ma 285 NdT I saggi spirituali ( sciamani) NdT 287 Osborn, op. cit 286 122 innanzitutto attraverso le celebrazioni rituali con cui guariscono ed equilibrano sia gli esseri umani che il proprio Territorio. TerritorioCorpo – Disegno U’wa – Giugno 2012 “Il mondo è visto come un Corpo: la testa sta nelle terre alte, la bocca è una caverna che conduce ai labirinti, la colonna vertebrale sono le catene montuose che scendono dalle terre alte verso le pianure e il bosco corrisponde ai peli pubici delle deità del mondo di sotto”.288 288 Osborn, op. cit. (Foto: Ann Osborn) 123 La Copulazione e la Semina nella Spiritualità U’wa Foto di Ann Osborn “Nella mitologia cantata, una pezza di cotone copre e protegge il cesto dove simbolicamente si custodiscono gli elementi per la fase di trasformazione. Nel rituale che accompagna i miti cantati, la pezza non solo viene usata per simboleggiare gli atti delle divinità, ma perché rappresenta protezione per la germinazione e la procreazione. Nella vita reale, la quarta fase del rito, è un atto collettivo realizzato da uomini e donne. L’atto della semina è analogo alla copulazione. Questo momento è importante perché è un momento propizio per il “kwika” (incantesimo), molti semi possono non germogliare, o alcuni bambini possono nascere con delle malformazioni. Quindi, sotto la pezza di cotone, metaforicamente parlando, avvengono i processi di trasformazione radicale: la semina e la copulazione.289” “Tagliare i capelli come offerta . Un altro rito che viene realizzato alla fine delle cerimonie del “soplo” (rito di guarigione) dei miti cantati, consiste nello strappare ciocche di capelli al cerimoniere principale, “padre” o “principale” della cerimonia. Questo è fatto dal “Bita Wedhaiya” che ha realizzato la cerimonia del “soplo”. Le ciocche si seminano nella terra insieme ad un germoglio di zenzero e un sorso di chicha (bibita di mais), 289 Ibidem 124 miscuglio che rappresenta una combinazione di “kanoba” (saliva) maschile e femminile. Nel rito di passaggio giovanile del primo menarca si usa un rito simile, ma lì sono i capelli della giovane iniziata a essere tagliati. Per gli U’wa, come per altre culture, i capelli sono simbolo di salute, lunga vita e sessualità. Gli U’wa portano i capelli molto corti prima di tutte le celebrazioni principali e delle cerimonie di “soplo” realizzate per guarire malattie, in modo che la crescita sia più forte e salutare dopo di esse. D’altra parte, si cerca di fare in modo che i capelli non vengano contaminati dalla “mortalità” o malattie espulse durante la cerimonia. Anche i partecipanti si strappano dei ciuffi alla fine della cerimonia. In entrambi i casi, l’obiettivo è quello della ricrescita salutare . Il fatto di seminare i ciuffi strappati durante una cerimonia sotto il germoglio di zenzero, ha particolare importanza perché si tratta di una pianta medicinale, la cui linfa è l’equivalente del sangue dei mammiferi. Si pensa che questa linfa abbia doni di longevità ed è l’equivalente del “kanoba” (saliva). Al combinare Kanoba e capelli sotto la pianta, essa si nutrirà, restituendo alle persone forza, simbolizzata nella ricrescita dei capelli.”290 Questo collegamento del Territorio/Corpo/Semina, lo ritroviamo anche nelle pagine di Teresa291, nelle sue riflessioni sull’importanza del Mais per il Popolo tseltal. Il tutto intrecciato con quelle dimensioni di salute e malattia che non riguardano soltanto il Corpo ma anche lo Spirito in Relazione con lo Spazio che abita. Un approccio molto interessante che negli scenari educativi deve fare riflettere sulle malattie “sociali” che abbondano nelle nostre società . “Awal ixim o ts’unel ixim”; queste due espressioni fanno riferimento alla semina, ma hanno due significati. “Awal”, da una parte l’atto della semina, ma anche il seme. Mentre “ ts’unel” è più complesso, fa riferimento anche alla dimensione del sacro. In primo luogo si riferisce all’atto sacro di presentazione davanti alle Divinità, nel momento della nascita o quando una persona è malata, per la sua guarigione.” “Fra i Tseltal; quando una persona si ammala con frequenza, vuol dire che il suo “ch’ulel” (spirito) non è forte. Questo può avvenire, perché hanno rubato il suo “Ch’ulel” o perchè nella casa dove vive non è accettato. In questi casi, per guarire, il malato deve cercare uno specialista o “ts’unujel” . La cerimonia di guarigione si conosce con il nome di “ts’unel” che vuol dire “seminare”. Questa semina è l’atto rituale simbolico di seminare la vita o la salute 290 Ibidem. Gòmez Sànchez Teresa. “Significato del Mais nella cultura Tseltal. Comunità di Ch’ajkoma, municipio di Tenejapa. Chiapas”. Tesi di laurea in Lingua e Cultura dell’UNICH. Gennaio 2011 . 291 125 del malato, attraverso offerte e petizioni che si fanno alla Madre Terra per far sì ché possa avere un “tulan ch’ulel (spirito forte )”292 . . . Lettera del Popolo U’wa al Mondo 293 “ Noi nasciamo figli della terra...Questo non lo possiamo cambiare noi indigeni e neanche l’uomo bianco( Riowa)” “Più di mille volte ed in mille forme diverse abbiamo detto che la terra è nostra madre, che non possiamo né vogliamo venderla, ma l’uomo bianco sembra non capire. Noi non domandiamo se è abitudine dell’uomo bianco vendere sua madre. Non lo sappiamo. Però, noi U’WA sappiamo che il bianco usa la menzogna, sa ingannare, uccide le sue creature senza permettere ai loro occhi di vedere il sole né alle loro narici di odorare l’erba. Tutto questo è ripugnante ed abominevole anche per un “selvaggio”. Sappiamo che il Riowa (uomo bianco) dà un prezzo a tutti i viventi e perfino alla stessa pietra. Commercia con il suo proprio sangue e vuole che noi facciamo lo stesso nel nostro territorio sacro con la “Ruiria”, il sangue della terra, quello che loro chiamano petrolio…tutto questo è estraneo ai nostri costumi…tutto quello che è vivo possiede sangue: tutti gli alberi, tutti i vegetali, tutti gli animali, anche la terra. Questo sangue della terra (Ruiria, il petrolio) è quello che dà forza a tutti, a piante, animali ed uomini. Il Riowa (bianco) insisterà affinché noi vendiamo la terra e ci dirà “Che importa la vergogna ad un selvaggio?”… se questo accadrà, non solo la vergogna paralizzerà gli U’WA ma accadrà anche che il giaguaro, la volpe, il mais, la coca, e tutti i nostri fratelli animali e le nostre sorelle piante, che da sempre hanno dato compagnia e alimento al nostro popolo, moriranno di “kueken awriar (tristezza) . Se ciò dovesse accadere, la Terra piangerebbe tanto che l'ultimo picco coperto di neve del Sacro Nevado (ghiacciao) del Cocuy si scioglierebbe e scenderebbe e la deità, custode delle acque maligne, guiderebbe le lacrime della terra fino ad unirsi con Kuiya (il padrone e signore della terra) e dalla loro unione sorgerebbe dall’oscurità del mondo di sotto Iyara, il terremoto che porta dolore. Iyara, dunque, come un gigantesco serpente di fango prodotto dall’unione della deità custode delle acque maligne con il signore della terra, si calerebbe fra le montagne cercando le valli ed al suo passaggio inghiottirebbe sia indigeni che bianchi, sia ferro che alberi, sia case che accampamenti. Quando questo succederà i canti degli 292 Ibidi La Carta Sacra – manifesto - del popolo U’wa, si è fatta pubblica dalle sue autorità in occasione della lotta contro la multinazionale del petrolio negli anni ottanta. Quest’è una sintesi di una versione complementare. La traduzione è responsabilità di chi scrive. 293 126 U’wa non ci saranno più per mantenere l’equilibrio del mondo di su e di giù che è lo stesso equilibrio dell’universo. Il riowa non deve ingannare ne mentire ai suoi figli: deve insegnare loro che anche per costruire un mondo artificiale l’essere umano ha bisogno della Madre Terra. Perciò dobbiamo amarla e curarla. L’essere umano continua a cercare a Ruiria ( petrolio) e con ogni scoppio nelle montagne, ascoltiamo i passi mostruosi della morte. ! questo è il nostro testamento ! Per come va il mondo, un giorno accadrà che l’essere umano sostituirà le montagne del Condor con montagne di denaro. In quel momento, però, le persone non troveranno a chi comprare, e se qualcuno ci fosse ancora, non avrebbe nulla da vendere. Quando questo giorno arriverà, sarà molto tardi per far sicché gli esseri umani possano meditare sulla loro pazzia. Tutte le loro offerte economiche su quello che per noi è sacro, come la Terra o il suo Sangue, sono insulti al nostro udito o ricatto per le nostre credenze. Questo mondo non l’ha creato il riowa ne nessun altro governo. ! proprio per quello bisogna rispettarlo”. L’Universo è di Sira (Dio) e noi U’wa ne siamo soltanto gli amministratori. Siamo soltanto una corda nel rotondo tessuto dell’ Ukua ( la mochila – borsa sacra dove si porta la Cocca), ma quello che in verità tesse è Lui.” 1.5 IL MONDO IN SFERE: SPIRITUALITÀ E CONOSCENZA NEL POPOLO WAYUU “ Visione Del Mondo o Il Mondo In Sfere. La visione del mondo wayuu è conformata da un insieme di elementi appartenenti a diverse sfere: percezioni, saperi e conoscenza. Queste si riferiscono ad una interconnessione di cerchi in continuo movimento, dove niente finisce totalmente. Ogni cosa si ferma per ricominciare la ricerca ordinata e armonica della conoscenza. Un processo nutrito sopratutto dalla libertà di pensare e creare con una visione del mondo rappresentata dal connubio tra esseri umani e natura, la cosmovisione è fondata sugli elementi che questa unione rappresenta.”294 Non è facile capire la complessità del pensiero del popolo wayuu e tanto meno i processi attraverso i qual viene costruita la conoscenza. Sono state necessarie molte letture del documento elaborato da Margarita nonché dialoghi profondi per riuscire ad elaborare una sintesi che possa contenere anche se in forma molto sintetica una cornice concettuale. I paragrafi che presento a continuazione, sono una sintesi del documento – da me tradotta – e che in una revisione insieme a Margarita abbiamo considerato necessari per cercare di Colloquio con Margarita Pimenta, docente Wayuu all’Università della Guajira. Parlante lingua Wayunaiki e dottoranda in educazione all’Università di Cartagena de Indias. 294 127 trasmettere i pilastri culturali ed spirituali su cui si fonda il sistema “insegnamento / apprendimento” del popolo Wayuu. Quando parlo del sistema “insegnamento / apprendimento” voglio sottolineare che così come per il popolo wayuu, anche per gli altri popoli presi in considerazione lungo le pagine di questo scritto, l’insegnamento è intimamente collegato all’apprendimento, quindi questa dimensione dell’apprendere ad apprendere è sempre considerata nella relazione che l’atto stesso della trasmissione implica. Non è mai percepito che chi insegna non abbia niente da imparare. Questo il senso per cui le due parole vanno in stretto collegamento. “ Il pensiero wayuu, è costituito dalle cose che formano l’esperienza(o’ulakaa), elemento fondante della conoscenza. L’esperienze si processano attraverso modi propri di elaborare la conoscenza, in questo processo, inizialmente le immagini estrapolate dalla contemplazione e l’osservazione (e’rajaa sa’u) si portano alla mente (Wekiru’u) per essere elaborate. In un secondo passaggio, queste esperienze sono rimandate al cuore (Waa’inru, dove vengono valutate e da lì passano alle viscere del nostro essere (wale’eru) per essere esaminate e così finalmente escono fatte essenza, che è la parte che comprende (Waa’in) l’anima, lo spirito, l’intelligenza, infine, l’essenza e la affermazione dell’essere wayuu.” EL PENSAMIENTO WAYUU: ENTRE LAS PERCEPCIONES Y EL CONOCIMIENTO O’ULAKAA (el pensamiento wayuu): o’ulakaa Entre las percepciones y el conocimiento Wale’eru Waa’inru Wekiru’u e’rajaa sa’u Maniera Wayuu d’Insegnare e di Apprendere295 295 L’immagine è cortesìa di Margaria Pimienta. 128 L’esperienza (o’ulakaa) è il veicolo dell’apprendimento riflessivo, come processo intenzionale di dialogo per la trasformazione dell’individuo en soggetti attivi, in relazione tra loro e aperti al cambiamento. Soggetti che riconoscono la propria esperienza legata al contesto in cui interagiscono.” L’osservazione (e’rajaa so’u) nasce della percezione, è sopratutto visuale e auditiva. È la prima condizione per la costruzione della conoscenza che dopo si custodisce nella memoria.296” 1.5.1 Spiritualità e Cura del Corpo della Donna Yonna Danza rituale Wayuu- Guajira Colombia 2006 “La Yonna, è inseparabile del “pioi”, l’organizzazione spaziale dove si realizza. Spazio e Corpo, dimensioni e movimento, si articolano in modo dinamico per configurare una visione del mondo in cui si equilibrano reciprocamente le relazioni fra uomo e donna, fra umani e animali, fra la Terra e il Cosmo”.297 296 Pimienta, Maria Margarita, Manera Wayuu de aprender y enseñar, relazione presentata al XIII convengo di SOLAR a Cartagena de Indias Colombia – settembre 2012, disponibile al link www.youtube.com /YolandaAbyaYala/ PensamientoTerritorioMemoria/Margarita Pimienta: Manera Wayuu de aprender y enseñar/ 297 Conversatorio con Josefina Epiayù Epiayù. Riohacha agosto 2012. 129 I wayuu nominano nelle loro narrazioni diversi esseri sopranaturali, fra cui Maleiwa, come creatore dei primi wayuu. Alcune entità sono associate alle stagioni: “Juya”, la pioggia, è un essere maschile ultramascolino, unico e mobile. Rappresenta l’immagine ideale del maschio errante e poligamico wayuu. Iiwa sua sorella, rappresenta le piogge leggere di primavera. Le Pulowi, son esseri ultrafemminili che abitano in alcuni luoghi specifici della “Guajira,”298 possono essere pericolose per i cacciatori o i pescatori che si avventurano nei loro territori. Loro, le Pulowi, sono le moglie di Juya, e così come le donne wayuu sono in tante e in un intimo rapporto con il loro territorio familiare. Altri essere sopranaturali si possono incontrare nelle colline, nelle miniere di sale e in sentieri solitari: wanülü’ü, spirito maligno che trasmette le malattie. Luis è un cacciatore che non caccia i cervi ma essere umani. Altri sono, i Keeralia, esseri luminosi con forma di lucertola che compare all’inizio della notte e può aggredire sessualmente i viandanti notturni. Molti aspetti del conoscere della spiritualità wayuu rimangono nel segreto che custodiscono le menti e i cuori degli anziani e delle anziane sagge. In merito, quanto appreso dai lunghi colloqui con Margarita.299 “La spiritualità wayuu è collegata a una visione del mondo che risponde a interrogativi come: “da dove veniamo? Verso dove stiamo andando? Chi siamo noi wayuu?”. È collegata anche all’organizzazione sociale e familiare; alle forme di transumanza territoriale dei wayuu; ma sopratutto al wayuunaiki, la lingua, che agisce come veicolo di trasmissione dei simboli e rappresentazioni sia della vita quotidiana che della vita spirituale” “Nascere, alla “nostra maniera”, è un processo che comincia con a’imalaa (la cura), componente affettiva, accompagnata dalla componente dell’oralità, le cui fondamenta sono: aapajaa (l’ascolto), kache’ewaa (essere attenti), che vuol dire assumere in modo consapevole i contenuti della nostra cultura per modellare il nostro comportamento attraverso akujaa (la narrazione).300” Questi elementi contenuti nei miti, le narrazioni e le leggende sono vissuti tra realtà e fantasia, vengono interiorizzati come il continuum della Vita stessa. Le narrazioni hanno particolare importanza nella cultura Wayuu, sono storie che rappresentano regole e norme di comportamento. Sono lezioni di Vita. 298 Regione al Nord della Colombia, limitrofe col Venezuela. I wayuu vivono sia nella Guajira Colombiana sia nella Guajira Venezuelana. 299 Colloquio con Margarita Pimienta. Maggio 2011. 300 Ibidem. 130 Per quanto riguarda le donne, uno dei Riti più importanti è costituito dall’ “encierro”, un rito di passaggio che, nel preparare la bambina per acquisire l’essenza e “l’essere donna wayuu”, fa da veicolo di trasmissione della tradizione e dei “segreti” con cui le donne wayuu hanno custodito la loro femminità e la loro saggezza. Di seguito riporto i passaggi più importanti riguardanti questo rito di passaggio, attingendo sempre alle informazioni avute attraverso colloqui con diverse donne wayuu durante il mio lavoro nella Guajira. . . . El Encierro : Rituale Femminile del Popolo Wayuu Nella società wayuu la donna ha un alto livello di prestigio sociale, per questo ha la responsabilità di tramandare la cultura e l’identità sociale del gruppo familiare. Le persone si identificano mediante il clan della madre e non quello del padre come avviene nella società colombiana. Per accedere al matrimonio si richiede la dote da parte dello sposo, consistente in elementi materiali come bestiame, gioielli e in alcune occasioni anche denaro. Questo non significa una “vendita”, nel senso occidentale della parola, è piuttosto il riconoscimento del prestigio e dello status sociale della donna, rappresentato anche dalle eredità avute dalla madre e dai parenti uterini. Questo prestigio della donna è collegato anche al tempo in cui dura “la chiusura” (El encierro) durante il menarca (prima mestruazione) Durante questo periodo chiamato ‘encierro’, la ragazza è isolata e curata da una zia o/e nonna, che ha il dovere di trasmetterle gli insegnamenti. Così una volta finito il periodo dell’ “encierro” la ragazza sarà diventata una donna wayuu. Durante questo periodo si protegge da una parte l’estetica fisica, mediante la somministrazione di medicine naturali, per la conservazione di una pelle delicata, d’altra parte anche l’integrità spirituale, attraverso bagni con diverse piante che li trasmetteranno l’energia necessaria per allontanare le cattive energie. Ognuno degli eventi rituali realizzati in questa tappa della vita della donna wayuu ha per obiettivo quello di coltivare i valori per il suo sviluppo individuale e anche per comportamento all’interno del gruppo. 131 il - La Cura del Corpo della donna durante il periodo del “encierro” Si protegge il corpo mediante il (jawaapi), pozioni elaborate con piante medicinali che hanno diverse prescrizioni all’interno della medicina propria Wayuu. Ad esempio la (pali’ise) serve per mantenere l’emoglobina e una pelle vellutata. Deve prendere anche il (kasuwo’ulu), una specie di polvere calcarea per rafforzare le ossa, la quale si estrae in alcuni punti specifici del territorio wayuu, e può essere estraibile soltanto dagli uomini. Inoltre, è importante in questo periodo disintossicare il corpo, con una dieta priva di alimenti d’origine animale, questo per evitare l’invecchiamento prematuro. Durante “el encierro” non è concesso grattarsi la pelle con le unghie per evitare smagliature nella pelle. Non si debbono sollevare cose pesanti per evitare che le vene delle mani si gonfino. El “chinchorro301” dove dorme la ragazza deve essere appeso molto in alto, per evitare la contaminazione con l’energia negativa che circola sotto. Il bagno si fa all’alba su una pietra del focolare acceso (kaliki) per ricevere la forza della roccia. L’acqua per il bagno è conservata durante il giorno in una “múcura”302 (amüchi) per darle la capacità del silenzio necessario all’ascolto, ma anche necessario alla prudenza per parlare quando sia necessario. La “totuma”303 (iita), con la quale si getta l’acqua sul corpo, sarà responsabile di trasmetterle la saggezza degli elementi della natura. Oltre alla cura fisica e spirituale, in questo periodo del menarca, le donne wayuu sono preparate ad affrontare la vita, attraverso l’accumulazione del conoscere pratico, attraverso la metodologia del “aprender haciendo”, (imparare facendo) fra cui una delle più importanti: tessere. Tessere non soltanto “las mochilas304”, el “chinchorro” con la loro simbologia e rappresentazioni culturali, ma innanzitutto, tessere la Vita. Tessere la Vita guidate dalla saggezza delle anziane, che forniscono i punti di sostegno per nutrire dentro di sé l’autostima come donna, per far sì ché possa apprezzare se stessa ma possa apprezzare anche gli altri, con i principi e i valori di una cosmovisione propria che ha come punto di riferimento essere una vera donna wayuu, alla quale viene affidata la responsabilità della trasmissione e continuità culturale. El Chinchorro “Süi , in wayunaiki, è un’amaca molto grande tessuta a mano e rappresenta la relazione spirituale con la madre Wayuu. 302 Pentola di terra cotta 303 Contenitore in forma di tazza, fatto con una specie di zucca proveniente dall’albero del totumo. 304 Borse tessute a mano, altro dei simboli della cosmovisione wayuu. 301 132 1.5.2 La Formazione Spirituale dei Maschi: La Cura Del Corpo e L’uso Della Parola Il processo di formazione dei maschi è affidata agli zii materni responsabili di orientare i bambini, i quali cominciano a fare attività appropriate alla loro età e alle loro abilità. In accordo con lo sviluppo vengono assegnate responsabilità concordate con i familiari, la Comunità e il Clan. Il processo educativo (insegnamento e apprendimento) si svolge sotto il principio di “imparare facendo”. Per esempio nel processo formativo per diventare “palabrero305” i giovani, sotto la guida e orientamento dei “palabreros” adulti, esercitano le abilità comunicative: la parola e l’ascolto, partendo dall’argomentazione, meccanismo necessario per rasserenare il cuore dei contendenti più agguerriti. Il prestigio per i palabreros è più importante del contributo economico, perchè è proprio attraverso il prestigio che si guadagna riconoscimento sociale e rispetto. Il suo nome e la sua parola rimangono nella memoria collettiva per essere narrata come base per risolvere altri conflitti a futuro. Ad esempio: quando un palabrero wayuu nella sua retorica, fa riferimento alla vita, la libertà, la pace e la ricchezza, dice a un giovane infuriato che non vuole conciliare per la offesa ricevuta: “La guapeza no es buena, es mejor pagar, los animales pueden ser reemplazados, los animales saben parir, así te queden dos vacas o dos caballos; ellos tendrán hijos algún día. En cambio el estar bravo como tú quieres, no es bueno: el camino por donde andamos se hace más angosto y no nos permite alejarnos mucho, si nos alejamos y nos encontramos con nuestro enemigo allí enseguida pagamos nuestra cuenta. Por eso es bueno pagar siempre, porque pagar es igual a ser libre, para el guerrero la tierra se angosta a sus pies mientras que para el hombre mansa la tierra se abre a sus pies306” “Essere arrabbiato non va bene, è meglio pagare, gli animali possono essere sostituiti, loro sanno partorire, anche se te rimangono soltanto due mucche e due cavalli, loro faranno figli un giorno. Invece, essere arrabbiato come vuoi tu, non va bene: i sentieri dove camminiamo si faranno più stretti e non ci permeteranno di allontanarci troppo, se ci allontaniamo è possibile trovare uno dei nostri nemici, e lì dobbiamo pagare i nostri conti. Per questo è meglio Figura importante all’interno dell’organizzazione sociale e il sistema di giustizia propria wayuu, responsabile di risolvere i conflitti sia a livello delle famiglie che dei clan. 306 Guerra Curvelo, Weildler. “La Disputa y la Palabra. La Ley en la sociedad Wayuu”. Ministerio de Cultura. Colombia, 2005, p. 172 305 133 risolvere sempre, perchè risolvere significa essere liberi. Per il guerriero la terra si fa stretta ai suoi piedi, mentre per l’uomo in pace la terra mansueta si apre ai suoi piedi”307 La formazione spirituale dei maschi ha le fondamenta nei seguenti valori: suno’ula wayuu (l’insieme di credenze nella tradizione ), “lapü” (la componente onirica), “ sunu’uya wayuu” (la componente magica)308 .  “Suno’ula wayuu” (l’insieme di credenze nella tradizione) è lo sviluppo della capacità di sostenersi nel sistema di valori della tradizione, e allo stesso tempo arrivare al sincretismo di questo sistema di valori con i valori della cultura “alijuna”309 , kanüiki , ha un ruolo molto  importante nell’ancoraggio di questo valore. “Lapü” ( la componente onirica), è intimamente collegato all’essere wayuu, e riguarda sopratutto “i sogni” , non soltanto i sogni che diventano una pratica narrativa quotidiana, ma  che si costituiscono in motore propulsore dell’azione preventiva. “Sunu’uya wayuu” (la componente magica), smette di essere una pratica dei pochi conoscitori dei segreti delle entità sopranaturali, diventando un sistema di comunicazione specializzato con queste entità. Per arrivare a questo livello è necessario lo sviluppo di capacità mentali specifiche. Nella tradizione wayuu la conoscenza riguardante la medicina, si ottiene nel nucleo familiare. Acquisire il potere “chamanico” è diventare pülasü, la faccia occulta e potente di questo mondo, dove tutti gli infortuni hanno una sua origine dalla quale dipendono molte decisioni e poteri, fra cui il potere chamanico. La predisposizione della persona portata per diventare uno “chamano” vene riconosciuta dalla fobia verso certi alimenti, specialmente quelli d’origine animale, condizione imprescindibile per riuscire a comunicare con l’aldilà attraverso gli spiriti “aseyuu”, esseri che si trovano in un’altra dimensione e si comunicano con i mortali attraverso i sogni. 1.5.3 Le Autorità Tradizionali e il Sistema di Giustizia Propria L’autorità fra i wayuu, è a carico delle “personalità”( personalidades) che hanno la responsabilità di mantenere l’ordine sociale e spirituale del gruppo. Sono loro, i “alaülayuu” o zii materni, i “pütchipü’ü” o palabreros e le ouutsü o donne responsabili della medicina 307 La traduzione è responsabilità di chi scrive Colloquio con Margarita. Maggio 2011 309 Questo termine è riferito alle persone non indigene, appartenenti alla cultura occidentale. 308 134 tradizionale. Per ognuno di loro esistono dei parametri che devono essere rispettati nel loro processo formativo. Gli alaülayuu, ad esempio, specifica che non sono tutti gli zii materni ad esercitare l’autorità, ma soltanto quello in cui si riconoscano certi valori come: ‘kojutaa amünii’ (rispetto), ‘ee a’inchi’ (ricorsività), ‘yalayalaa’ (coraggio) ‘ma’ujanaa’ (giustizia), ‘kachekala’ (tolleranza) ‘laülawaa a’in’ (responsabilità). Gli zii riconosciuti per questi valori vengono orientati molto giovani per la loro partecipazione e osservazione nella gestione delle questioni familiari. “Los pütchipü’ü, palabreros tradicionales aprendemos a través de la observación y la experiencia de la palabra. Es algo que se transmite de generación en generación. No se requiere de escuela, como tienen los alijuna. La palabra se aprende escuchando a los mayores, a los palabreros, a las personas que saben hablar e interpretar un mensaje. Esta se lleva a la mente y al corazón para luego transmitirla a las futuras generaciones, que de esta manera conservan nuestras costumbres y mantienen el poder de la palabra. Cuando una persona siente que tiene aptitudes para ser palabrero puede comenzar ya sea por insinuación de una persona mayor, por coraje, o porque quiere comprobar si verdaderamente es capaz”310 “Noi pütchipü’ü, palabreros tradizionali, impariamo attraverso l’osservazione e l’esperienza della Parola. È una conoscenza che si trasmette di generazione a generazione. Non c’è bisogno di una scuola, come hanno gli alijuna. La Parola si impara ascoltando ai maggiori ( gli anziani saggi) ai palabreros, alle persone che sanno parlare e interpretare un messaggio. Questa si porta le parole alla mente e al cuore per dopo trasmetterli alle future generazioni. In questo modo si conservano i nostri costumi e si mantiene il potere della Parola. Quando una persona sente che ha delle attitudini per diventare palabrero, puo cominciare, sia per iniziazione da una persona maggiore, per coraggio, o perchè vuole verificare se veramente è capace”311. Il Sistema Di Giustizia Propria. “el universo de los palabreros wayuu, es un universo estético donde tienen cabida altas normas ideales que deben orientar la conducta del hombre y las mujeres, es un mundo en el cual la estética va ligada a una concepción también de la ética”312. ( L’universo dei palabreros wayuu, è un universo estetico dove trovano posto alte norme ideali che devono orientare il Guerra Curvelo. W, “La disputa y la Palabra. Op, cit, Intervista a Isidro Epinayuu , p. 137 La traduzione è responsabilità di chi scrive. 312 Guerra Curvelo, W, op. cit, p. 129 310 311 135 comportamento degli uomini e le donne, è un mondo nel quale la estetica è in relazione ad una concezione anche dell’etica.)313 I popoli indigeni hanno istituzioni che hanno servito, non soltanto per mantenere la coesione sociale all’interno delle loro società, ma che possono diventare anche ispirazione per altre società. Per esempio il sistema normativo wayuu, è un sistema basato nella giustizia riparatrice, non sulla giustizia punitiva. La giustizia punitiva che si pratica in occidente getta la creatura umana in un abisso. Nella società wayuu se l’uomo trasgredisce una norma, viene portato davanti alla società stessa in modo che possa riparare (pagare) davanti ad essa il danno e vivere in armonia con il gruppo, anche parchè non viene visto come un individuo, ma come una persona che fa parte di un gruppo sociale più allargato, dove tutta la famiglia è coinvolta nella riparazione del danno. Questo fa la differenza con la giustizia occidentale, perché non viene giudicato l’individuo, ma la persona in relazione con i diversi contesti sociali di cui fa parte. 1.6 PEDAGOGIA DELLA VITA: LE DIMENSIONI DELLA SACRALITÀ Non posso cominciare questo argomento senza fare riferimento agli scritti di Gregory Bateson, in cui ho trovato una guida per rivolgermi a quelle dimensioni che ho voluto chiamare, appunto, “gli spazi e le dimensioni della sacralità”. Per cui, per entrare con autorevolezza scientifica in questo spazio, voglio chiedere aiuto a tutti gli studiosi che hanno riflettuto a lungo sulle importanti considerazioni che in merito ci ha lasciato questo studioso attraverso le sue memorie e i suoi insegnamenti, come concepito nel pensiero dei popoli nativi, dove la saggezza dei loro Avi venne trasmessa attraverso la tradizione orale e i sogni. A tale proposito mi soffermerò per apprezzare la profondità di quanto riportato in uno dei paragrafi iniziali, del capitolo quarto: “La Salute, L’Etica, L’Estetica e il Sacro” parte della discussione tenuta da Bateson nell’ottobre 1979 a Dartington Hall, in Inghilterra.314 “D. Che cos’è l’estetica? Che cosa è il Sacro? Che cos’è la coscienza? Che relazione c’è tra essi? Secondo Lei la coscienza sarebbe molto importante, ma allo stesso tempo piuttosto infida perché compromette i nostri tentativi più validi di giungere all’estetica e al sacro. 313 314 La traduzione è responsabilità di chi scrive Bateson, G. “In cerca del Sacro. Seminario di Dartington” In Una Sacra Unità,op,cit, pp. 444 - 448 136 GB: Secondo Lei io avrei affermato che la coscienza diviene distruttiva. Di sicuro non ho detto questo. Quello che ho detto, invece, è che la finalità cosciente diventa rapidamente distruttiva. La “finalità” è un concetto molto pericoloso. La coscienza non so. Sono stato attento a parlare della coscienza il meno possibile. Il problema della coscienza è che per sua natura essa si concentra. C’è quella cosa che viene chiamata “Schermo della coscienza” e per me questa è un’analogia quasi meccanica. Noi riceviamo i prodotti delle nostre attività mentali, le immagini, ma la creazione di queste immagini sta al di là di noi” (….) “D: Sarebbe corretto dire che l’estetica è questo rapido sguardo unificante che ci rende consapevoli di quell’unità delle cose che non è la coscienza ? GB: Giusto. È qui che voglio arrivare. Quel lampo che appare nella coscienza come un disturbo della coscienza, questa è la cosa di cui sto parlando” (…) D: Che cosa è il Sacro? GB: (…) I cattolici dicevano che il pane è il corpo e il vino è il sangue, e i protestanti sostenevano che il pane rappresenta il corpo e il vino rappresenta il sangue. A loro pareva che per questa differenza fosse ragionevole bruciare la gente e ragionevole farsi bruciare. Ma qual è il punto, insomma? Il punto è questo: Che per una parte della mente non c’è distinzione tra le due cose: “ rappresenta” ed “è” sono la stessa cosa. Ma la parte protestante, logica e lineare del cervello non può accettare questo. La parte del cervello che sogna, quella che nel complesso gli artisti usano di più, è perfettamente disposta ad accettare l’affermazione che “il pane è il corpo” e questa naturalmente è la parte della mente che appartiene davvero alla Chiesa. Ciò che il protestantesimo fece, in un certo senso, fu di escludere dalla Chiesa proprio la parte della mente che appartiene alla Chiesa a favore di una logica del buon senso e di un appassionato desiderio che tutto avesse un senso logico” (….) “D: Vuol dire che rendendo tutto chiaro e logico e collegando tutto in modo lineare, abbiamo perduto la parte sacramentale del nostro essere? GB: Non proprio. Abbiamo perduto una globalità dell’essere che comprenderebbe “questa” e insieme l’”altra” parte. Non voglio dire che il cervello della fantasia, il cervello del processo primario, sia quello sacramentale. Penso che il sacramentale venga danneggiato continuamente. Il danno è la separazione. La sacralità è l’unione. Il sacro è la connessione, la connessione totale, e non il prodotto della spaccatura” Ritenendo quindi Sacra la relazione, è attraverso essa che possiamo capire il mondo e le forme in cui vengono organizzate le conoscenze dei popoli nativi, dove i Mondi delle 137 percezioni si manifestano nell’insieme delle credenze inserite nel mondo del “reale”, supportate da un metalinguaggio che fa riferimento sia a la dimensione del tangibile che dell’intangibile. Quindi, è attraverso le percezioni che la realtà viene percepita, per trasmetterla posteriormente, attraverso l’oralità, da cui la dimensione di Sacralità è un aspetto centrale. Ad esempio, già accennato nel capitolo primo il significato attribuito dal popolo U’wa alla Parola, dove essa venne considerata come un essere vivo con movimento proprio e alto potere, concepita nella loro lingua originale come “anima della gente”. E’ comune in tutti i Popoli presi in considerazione, la consapevolezza che la realtà muti in base al tipo di recettore che venga usato in tale percezione : visuale, uditivo, tattile olfattivo o gustativo; dipendendo anche dalle forme della materia: dalla percezione dello spazio, del tempo e del movimento; tali percezioni necessario possono essere volontarie o involontarie: capire le interconnessioni fra di esse, perché è è proprio attraverso la loro connessione che ci ritroviamo nella dimensione del Sacro. La forma superiore di percezione volontaria è l’osservazione, costituita da una percezione sistematica, premeditata e pianificata, attraverso la quale si ottiene l’informazione più ricca e precisa del mondo che ci circonda. L’educazione dei sensi è sopratutto rivolta ad imparare a decidere bene attraverso di essi. Attraverso il suo sviluppo si costruiscono “aprendizajes” (modelli di apprendimento ) che segnano tutta la Vita. Nel gravoso compito di “riportare ad occidente” tutto quanto ho trovato di profondo nell’intrecciare il pensiero dei popoli che mi hanno guidato in questo percorso faccio appello di nuovo al pensiero di Bateson. “Ci sono moltissime cose che non capiamo a proposito dei danni che si accompagnano all’attacco contro il sacro; e ancor meno ne sappiamo su come riparare tali danni. Era più o meno questo l’oggetto del nostro lavoro sulla schizofrenia negli anni Cinquanta e Sessanta: la nozione di relazione315 tra la parte destra e la mente, la più astratta e inconscia e la parte sinistra, la più prosaica. Scoprimmo che il punto vulnerabile era la relazione e che quando veniva danneggiata, la relazione esigeva che il terapeuta capisse la natura del danno. Perciò se il terapeuta cerca di prendere un paziente, di assegnarli degli esercizi, di sottoporlo a propaganda, di farlo ritornare nel nostro mondo per i motivi sbagliati, insomma se cerca di manipolarlo, allora sorge un problema: la tentazione di confondere l’idea di manipolazione con l’idea di cura. Orbene, io non sono in grado di darvi le risposte giuste, anzi non so ve le darei 315 Il grassetto è mio 138 neppure se le avessi, perché, vedete, darvi le risposte vere, conoscere le riposte vere, vuol sempre dire trasferirle al cervello sinistro, al lato manipolativo. E una volta che siano state trasferite, per quanto valore poetico ed estetico avessero prima, esse muoiono e diventano tecniche manipolative316” Ho voluto riprendere questo paragrafo di Bateson perché è di quelli che mi hanno colpito. Da queste righe mi voglio spingere oltre. Cerco di fare collegamento con alcuni dei passaggi ricavati dai “pensatorios” degli anziani saggi con cui ho parlato, fra cui Berito Cubaruwa, autorità spirituale e guida del popolo U’wa in Colombia. Con questo collegamento tento di ritrovare, nelle parole di Berito, risposte ad un interrogativo che mi assale da qualche tempo: “Cosa può, cosa deve, fare la pedagogia per prevenire questa “pazzia” planetaria che ha portato il mondo alle condizioni di barbarie, egoismo, e distruzione odierne ?” A continuazione uno dei passaggi a mio avviso più significativi di questo anziano Maestro, ritenuto “analfabeta” nonostante la sua saggezza millenaria, in quanto non parla correttamente, non scrive e non legge la lingua castigliana: “ La” problema del riowa317 è che pensa una cosa, sente una diversa di quella che ha pensato, ne dice un’altra ancora diversa e ne fa un’altra ancora più diversa di quanto ha detto prima. Questa è “la” problema della malattia. L’unica guarigione sta nella grande medicina dell’Universo, della Natura. Nel Territorio in qui viviamo che è tutt’uno insieme con il nostro Corpo. Il nostro Corpo è il Territorio e il Territorio è il nostro Corpo. È tutto un’insieme, l’uno dentro l’altro. Questa è la via della salute. Abbiamo bisogno di leggere la Costituzione Politica della Natura. Una legge naturale che sta scritta negli Alberi, nelle Montagne, nei Fiumi, nelle Pietre, nella Pioggia, nel Fuoco, nell’Aria, nella Terra, nel canto degli Uccelli e nell’anima degli Animali. Tutti loro parlano. Abbiamo bisogno del loro passaporto cosmico, del loro permesso per capire quali sono i punti dove sono segnati i limiti delle azioni umane”.318 Quando faccio riferimento alla parola “pensatorios”, l’ho già esplicitato precedentemente, voglio fare riferimento ad un processo di meta-riflessività usato dal popolo U’wa, durante i periodi di lungo digiuno e ringraziamenti alla Madre Terra, attraverso i quali si trasmettono nei canti la genesi del popolo U’wa e si riflette intorno alle problematiche politiche, 316 Bateson, G. Una Sacra Unità, op, cit, pp. 403-404 In lingua U’wa: uomo bianco, non indigena. (Traduzione letterale) 318 Passaggi dei lunghi “pensatorios” in territorio U’wa fra gli anni 2000 e 2006, nonché delle ultime riflessioni durante la mia ultima visita al territorio, nel giugno 2012. 317 139 economiche, sociali e culturali a cui devono dare risposte nel contesto sia nazionale che internazionale. Attraverso la “lettera del popolo U’wa al mondo”, si può intravedere la profondità del pensiero di questo popolo, dove la Parola, ribadisco, com’essere vivente, ha una Forza a sé. Per quello i Riti e i processi di costruzione della conoscenza e le fase del apprendimento sono mediati dai canti. Quindi è attraverso la Forza della Parola U’wa, che Berito, con le sue metafore in questo castigliano da “analfabeta”, intende farci capire che questa “disconnessione” fra il pensiero, il sentimento, le azioni e la Parola, sono la causa della malattia del mondo, della schizofrenia planetaria e dei vuoti esistenziali, di mancanza di felicità. Di quella felicità di cui ci parla Mariagrazia Contini in uno dei mie libri preferiti:319 “ L’esigenza di trascendere il perimetro della propria soggettività per incontrarsi intenzionalmente con l’altro da noi, è il filo conduttore di questo lavoro: può prefigurarsi senso o felicità nella chiusura solipsistica se essa impoverisce l’essere umano sottraendogli i connotati e le potenzialità più originari? (….) Ma ora riprendo questo motivo per ricordare un personaggio che, sottolineandone l’importanza ai fini della felicità, nel Settecento, ha incoraggiato la mia ipotesi di studiare e riflettere sulla felicità eludendo i suoi più abituali e banali connotati edonistici e collocandola nel quadro della disponibilità all’incontro e alla relazione con l’altro.”320 Questo “altro” a cui fa riferimento il paragrafo sopra, nel pensiero dei Popoli nativi, include non soltanto i rapporti umani, ma anche i rapporti con gli altri esseri viventi e le entità spirituali che condividono lo stesso territorio. In questo senso, le parole di Berito ci indicano inoltre, che la “via della salute”, “la via della felicità” è nella connessione del nostro Corpo, la nostra Mente e il nostro Spirito, con il Territorio. Il Territorio nel pensiero dei popoli indigeni fa riferimento all’insieme di esseri viventi ed entità spirituali con le quali conviviamo in uno Spazio /Tempo, dove i Mondi: Quello di sopra, quello di sotto, quello del mezzo e quello di dietro, già indicati nel primo capitolo, si connettono per creare con la loro relazione l’armonia o quello che nel loro pensiero hanno chiamato il “Kajkrasa Ruyina” o il “Sumak Kawsay” del popolo Quechwa in Bolivia o il “Lekil Kuxlejal” del popolo tsotsli, ovvero: “Il Buen Vivir”, nel senso di quella pienezza, di quella “felicità” che si persegue come orizzonte di senso. 319 320 Contini, M.G., “Figure di felicità Orizzonti di senso. Nuova Italia. Milano 2004. Ivi. P. 6 140 “Lo scenario culturale del nostre tempo registra una pluralità di proposte esistenziali. Alcune, improntate a diversi tipi di conformismo, permettono di eludere la “fatica” della progettualità e del costruire, indicando un percorso scandito da passività e adeguamento; altre, all’insegna del consumismo, promettono piacere, agio, successo: il tutto “offerto in vendita” come bene di consumo. Non si parla, invece, della felicità, decretandone così l’azzeramento e la rimozione da una cultura che nel contempo esprime i sintomi del suo disagio, per tale mancanza, nell’angoscia di tanti – giovani e giovanissimi in particolare – e nell’abissale “vuoto di senso” che incombe sulla loro esistenza. Dunque, c’è un nesso tra felicità e senso: e se si manifesta nello spazio della loro assenza, può accentuarsi in quello della tensione, progettuale e costruttiva, al loro realizzarsi. Educare a questa tensione equivale a proporre un impegno esistenziale - nel mondo, nel tempo, con gli altri – che, grazie alla sua ricerca di significato possa condurre a scoprire il valore più autentico della felicità.”321 Municipio di Oxchuc- Chiapas-Messico- 2011322 321 322 Ivi. Quarto di copertina Foto dell’autrice. Febbraio 2011 141 Per proseguire, o meglio per ritornare da dove non mi sono ancora spostata, riprendo di nuovo il pensiero di Bateson: “D: Fra tutte le parole che sono state dette mi sono completamente smarrito. Mi sembra quasi che abbiamo perduto di vista ciò di cui stavamo parlando. GB: Bisogna parlarne con molta cautela. Sono convinto che parlandone malamente si possa perdere di vista qualsiasi cosa. Non è facile parlare bene delle cose. In genere ci hanno insegnato a parlar molto male. L’educazione scolastica che tutti abbiamo ricevuto è proprio mostruosa. In effetti risale a Locke e a Newton e a Cartesio e al dualismo. Non è un caso, ed è un accostamento molto curioso, che intorno al 1630 lo stesso Cartesio abbia creato tre degli strumenti importanti del pensiero contemporaneo. Primo, la separazione tra mente e materia. Secondo, le coordinate cartesiana, il diagramma: si mette il tempo in basso e si rappresenta una variabile. Terzo, il cogito: “penso dunque sono”. Queste tre cose procedono insieme e hanno semplicemente mandato in frantumi il concetto dell’universo in cui viviamo.”323 323 Bateson, G. Verso Un’Ecologia della Mente, op. cit. pp. 542 e 453 142 Donna Kogui con la grande “Mochila” della Vita324 “Tutto nella Vita dei Kogui è in funzione del sapere. Questo sapere consta di una detagliata conoscenza della religione, dei miti, delle tradizioni e genealogia. Tutti sono tenuti ad acquisire queste conoscenze.”325 324 325 Foto dell’autrice G.Reichel-Dolmatoff, Los Kogui, in Cucchiella P. Emilio, I Custodi del Sapere mitico, EMI, Bologna 2004, p.323 143 CAPITOLO SECONDO LA SCUOLA NELLA VITA: TERRITORIO E COMUNITÀ LA GRANDE “ MOCHILA” DELLA SAGGEZZA ANCESTRALE “La saggezza rende i Kogui i responsabili del divenire storico del cosmo. Èquesto il pensiero che muove ed anima un uomo o una donna ad imprimere nel manufatto artiginale il valore spiritule-culturale del sapere”.326 Premessa Nei capitoli precedenti mi sono occupata di trasmettere la cosmovisione, i modi e le dimensioni attraverso le quali costruiscono la conoscenza alcuni dei Popoli incontrati attraverso questo lungo camminare nei territorio dell’Abya Yala, specificamente nei paesi oggi conosciuti come: Messico, Guatemala, Colombia, Ecuador, Perù, Bolivia, Argentina e Uruguay. Questo camminare mi ha permesso di cogliere la profondità dei loro insegnamenti, affrontando con grande responsabilità la scrittura di queste pagine, nel tentativo di individuare alcune delle dimensioni comuni come i punti fermi di un ricamo. Questi punti comuni come accennato nel capitolo secondo, si concretizzano in uno Spazio specifico: il “Territorio”, dove la “Comunità” svolge il suo ruolo di mantenere, trasmettere e tessere la grande “Mochila” della saggezza ancestrale. La prima parte di questo capitolo rimanda ad alcune definizioni su i “concetti” di “Territorio” e “Comunità”, negli orizzonti di senso che essi rappresentano per i Popoli Originari. La seconda parte si occupa di mettere in relazione, attraverso la “metodologia della Chakana” queste dimensioni prima esplicitate con i quattro “assi” fondanti della conoscenza dei Popoli delle Ande, in questo Territorio - “Aula Magna”-, dove la Scuola nella Vita come sapere naturale, familiare e comunitario ha la sua genesi e la sua concretezza. Infine, un avvicinamento all’elaborazione di una epistemologia “chakanistica”, considerando alcuni punti rilevanti nel processo di insegnamento/apprendimento, sia del Popolo Tseltal, attraverso lo studio di Antonio Paoli, che attraverso le esperienze condivise con il popolo 326 Cucchiella, E,op.cit. p. 324 144 U’wa e il popolo Wayuu durante le mie visite nei loro territori fra l’anno 2003 e 2006, nonché della relazione presentata da Margarita Pimienta, durante il XIII seminario internazionale della SOLAR a Cartagena de Indias Colombia.327 2.1 IL TERRITORIO: ORIZZONTI DI SENSO Capire il “Territorio” come lo Spazio in cui si comprende la totalità delle cosmovisioni e lo svolgersi della Vita quotidiana Comunitaria è fondamentale per spiegare i vincoli attraverso i quali s’intrecciano i saperi e l’insieme di pratiche pedagogiche che in esse si costruiscono, ovvero lo Spazio dove la “Scuola nella Vita” si materializza. Il Territorio come “contenitore” in cui vengono interconnessi un insieme di saperi che oggi riporto in queste pagine, nell’intenzione di riuscire a tessere questa grande “mochila”328 della Saggezza Ancestrale. In questa grande “mochila” ci sono alcuni elementi condivisi, ma per fare chiarezza è necessario precisare che i diversi Popoli hanno una loro specificità, per cui non è possibile “uniformare”, “raggruppare” o stabilire delle “categorie” per spiegare il loro impianto teoretico su cui la conoscenza è fondata. Tuttavia, nell’interesse di chiarire quello che altrimenti sarebbe molto difficile da apprendere, ho individuato certe dimensioni di Vita, come ho preferito chiamarle, attraverso le quali riuscire ad esplicitare alcune “procedure” nella trasmissione della conoscenza, prendendo in considerazione alcune esperienze dei Popoli: Maya (Tseltal e Tsotsil), Andini ( Quechua, Kichwa e Aymara), Wayuu e U’wa. Nel capitolo zero ho presentato alcuni autori che riprendo qui, per esplicitare le relazioni: Territorio – Comunità - Scuola nella Vita. - Guillermo Bonfil Batalla329 ci rimanda al concetto di “territorio comune”, sottolineando il valore della terra, come la terra dei “maggiori”330 dove riposano gli antenati, i defunti. Lì in quello spazio concreto, si manifestano in diverse forme le forze superiori. .(…).per questo le relazioni con essa non sono puramente meccaniche ma si stabiliscono simbolicamente 327 XIII Congreso de la Sociedad Latinoamericana de Estudios Sobre America Latina Y el Caribe (SOLAR). Organizado por la Red Universitaria de Doctorados de Colombia (RUDECOLOMBIA). Tema central: "Educación y Cultura en la Integración Latinoamericana: Retos del siglo XXI". Realizado en Cartagena de Indias del 12 al 14 septiembre 2012. 328 La “mochila” è una borsa che rappresenta la forma con cui le donne hanno tessuto la loro storia e i loro simboli, tramandati da generazione in generazione attraverso l’arte del tessere. 329 Famoso etnologo e antropologo messicano, è stato direttore dell’Istituto Nazionale d’Antropologia e Storia e cofondatore del Centro di Ricerca e di Studi superiori in Antropologia Sociale della Scuola Nazionale di Antropologia e Storia in Messico. 330 Il termine “maggiore” è usato all’interno dei Popoli, per far riferimento alle persone più anziane, come custodi della memoria collettiva. 145 attraverso innumerevoli riti espressi in miti e leggende. Spesso, l’immagine che si ha del mondo è organizzata a partire da quel territorio, che occupa il centro dell’Universo.”331 - Lo sguardo di Esteban Ticona Alejo332 ci spiega come la relazione “terra e territorio” venga vissuta dai Popoli Andini sottolineando l’importanza del “Ayllu” come organizzazione culturale, spirituale e socio-politica delle Comunità in Bolivia. “ Nella concezione giuridica ed economica occidentale, c’è una chiara differenza fra la terra come un mezzo di produzione e il territorio, come uno spazio pieno di risorse sul quale si ha piena giurisdizione. …(…).. Nonostante, nella concezione dei Popoli Andini esista un’evidente relazione fra terra e territorio. Entrambe hanno forti connotazioni “sacre” e nello stesso tempo sono realtà sociali ed economiche fondamentali. …(….) Nel Ayllu e le Comunità, una delle prime manifestazioni di appartenenza al proprio territorio è il rapporto spirituale con la terra, nonché per il lavoro realizzato in essa..(..) Per esempio, il ciclo produttivo inizia con riti in cui si rafforza sia la relazione sacra con la “Pacha Mama” (Madre Terra) produttiva, che i rapporti con tutto l’Ayllu, con il proprio territorio. Questo ultimo in rapporto con diversi Esseri protettori come i “wywiris” o i “cerros” (colline), che rappresentano gli antenati o gli “achachilas” (considerati i nonni, gli anziani), i quali legittimano i rapporti di unità socio – territoriale con quello spazio – territorio che occupano, dando all’insieme un carattere sacro d’integralità”333 L’importanza di capire il pensiero dei Popoli Originari attraverso le relazioni che si tessono attraverso quello spazio più largo considerato come “Universo localizzato” viene considerata anche da Luis Alberto Reyes334 nel suo importante studio sugli antichi popoli Andini, Mayas e Nahuas335. “La possibilità di comprendere va ricercata attraverso un cammino più affidabile che quello di assimilare il nostro oggetto a tradizioni estranee ad esso. La comprensione è possibile perchè il pensiero indigeno è basato su esperienze primarie dell’essere umano: il movimento degli astri, i cicli delle piante e degli animali e la sessualità. …(…) A differenza dell’intenzione di allontanare dalla terra quest’esperienze, modalità che ha orientato le culture europee, l’antico pensiero de Nahuas, Mayas e Andini, trova il senso dell’esistenza non nel aldilà, ma 331 Bonfil Batalla Guillermo, op. cit, p. 64 (la traduzione è responsabilità di chi scrive) Aymara-boliviano. Sociologo e antropologo. Dottorando in Studi Culturali Latinoamericani della UASB-Ecuador (Universidad Andina Simon Bolivar). Docente all’UMSA (Universidad Mayor de San Andrès) La Paz. 333 Ticona Alejo, Esteban , op, cit, pp. 63 e 64 334 Dottore in Filosofia dell’Università Nazionale di Cordoba - Argentina. Professore ordinario di Storia della Filosofia Contemporanea all’Università di Catamarca – Argentina, dove dirigge l’Istituto di Studi Indigeni. 335 Reyes, Luis A. “El pensamiento indigena en Amèrica. Los antiguos andinos, mayas y nahuas.” Biblos Buenos Aires 2008. 332 146 nell’universo localizzato336 in cui si svolge la vita. Per quello gli studi di questo libro progrediscono a partire dal riferimento mitico più originale: la Madre Terra. ”337 In merito riprendo alcune testimonianze, che possono aiutare a connettere questo “concetto” di Territorio a quello che dall’inizio di questo elaborato viene presentato come “Buen Vivir”, “Kajkrasa Ruyina” del popolo U’wa; “Sumak Kawsay” del popolo Quechua in Bolivia; “Lekil Kuxlejal” (Vida Buena) dei popoli Tsotsil e Tseltal, orientamento guida della Scuola nella Vita di questi Popoli. “Il Territorio fa riferimento all’insieme di esseri viventi ed entità spirituali con le quali noi U’wa conviviamo in uno Spazio /Tempo, dove i Mondi: Quello di sopra, quello di sotto, quello del mezzo e quello di dietro si incontrano.” 338 Come esplicitato nei capitoli precedenti per il “Sumak Kawsay”, la cui traduzione più vicina in lingua castigliana sarebbe “sviluppo” o “benessere”, sorge un problema non soltanto linguistico, ma soprattutto di significati, perchè questi “concetti” non riescono ad esprimere né gli orizzonti di senso nè la profondità con cui ogni parola, “Sumak” e “Kawsay”, dovrebbe essere intesa per esplicitare le dimensioni di Mondi in cui la loro Vita si svolge. Con l’insieme chiamato in lingua castigliana “Territorio” succede la stessa cosa. Per spiegare un caso concreto riguardante il popolo Tseltal dello Stato del Chiapas, voglio riportare alcuni paragrafi pressi da Antonio Paoli, che grazie alla sua padronanza della lingua dei Tseltal, presenta nel suo libro un’analisi dettagliata di alcuni “concetti” fondamentali che è riuscito ad elaborare. “K’INAL” vuol dire medio ambiente e in alcune occasioni anche terreno, ma vuol dire anche mente, e la mente si configura in gran parte per l’esperienza del medio ambiente e allo stesso tempo anche il medio ambiente si riconfigura secondo le azioni degli umani nel eseguire i dittami della mente.”339 336 Il grassetto è mio Ivi. Pag 31 338 Passaggi dei lunghi “pensatorios” in territorio U’wa fra gli anni 2000 e 2006, nonché delle ultime riflessioni durante la mia ultima visita al territorio, nel giugno 2012. 339 Paoli, J.A, Educaciòn, autonomia y Lekil Kuxlejal, op. cit, p. 43 ( La traduzione è letterale ed è responsabilità di chi scrive) 337 147 . . )ntreccio Spazio-Tempo-Territorio A questo argomento ho dedicato particolare attenzione nel capitolo due, approfondendo i modi in cui queste due dimensioni vengono interconnesse e vissute, soprattutto nella cosmovisione del popolo Maya. Data la rilevanza che queste “categorie” rappresentano in queste pagine, riprendo ancora quanto esplicitato in merito da Luis Alberto Reyes, per la capacità che ha avuto di analizzare nelle pagine del suo libro, il groviglio del “Pensiero indigeno in America”, portando alla luce aspetti importanti dei popoli Andini, Mayas e Nahuas. “L’argomento del tempo – o più esattamente dei “tempi” – è il contenitore in cui ci stano tutte le questioni del cosmo, degli dei e degli uomini”340 Reyes procede con questa complessa analisi, nel suo capitolo intitolato “Il pensiero indigeno sui tempi.” “Tempo cosmico e tempo umano: Le società si sono sempre sforzate per oggettivare il tempo cronico , per dare un riferimento sociale che gli permetta di classificarlo, riconoscerlo in un modo comune a tutti gli uomini. I calendari sono il migliore esempio di questi sforzi. Nel mondo moderno questi non riescono, tuttavia, a connettere profondamente il tempo degli individui con quello della società e questi due tempi con i cicli della natura terrestre e i movimenti astrali” …(…) “Questo mondo è erede della frattura fra universalità e singolarità che come concepiti in Europa introducono la metafisica ebreo - cristiana e l’storicismo, allontanandosi dall’ordine cosmico che veniva attribuito dai greci. …(…) .. “Invece, i tempi configurati dai calendari indigeni sono, nei suoi “volti” complessi e significativi, comuni a tutti gli uomini e cose dell’universo. La vita umana va visitando i tempi del calendario e questi la impregnano del suo “tonalli” (giorno-destino), fasto o nefasto, del nord o del ovest”… (…) “E’ una singolarità della filosofia indigena, e particolarmente della mesoamericana, questa concezione dei tempi, da quelli più piccoli a quelli più grandi, come destino. Il calendario è un itinerario analitico di ogni esistenza …. (….) Di questo incontro tra il divenire dell’esistenza umana e le cicliche alternanze sacre rendeva conto, allo specializzato interprete che lo consultava, il “tonalpohualli” (nome dato al libro sacro) … (…) 340 Il “tonalpohualli” indica anche un’altra cosa importante: i riti che devono Reyes, Luis A., op cit, p. 32 148 aiutare i passaggi e mobilitare il susseguirsi degli opposti. Nel calendario indigeno i riti non sono segnati soltanto a modo di un richiamo di memoria. L’universo richiede i riti per far sì che i tempi proseguano il suo percorso” ..(…) “Inoltre, l’idea del tempo continuo non informa globalmente il pensiero degli antichi indigeni di America. La stessa parola “tempo” si rivela imprecisa per tradurre le loro idee, che non alludono all’omogeneità di un indifferente movimento cosmico al modo aristotelico ne ad una distensione interiore segnata dagli eventi dell’anima, al modo agostiniano”. Nella tradizione occidentale, il tempo è stato capito come una misura, in se stessa neutra, o è stata considerata un contenitore che deve essere riempito e significato attraverso gli eventi che in esso potessero succedere. In questi termini non ci sarebbe il tempo nel pensiero indigeno, ma ben si luoghi temporali che costituiscono agli uomini che li abitano”. “Non sono gli eventi particolari, storici o mitici quelli che diano significato ai momenti, ma piuttosto al contrario, gli eventi sono segnati dal significato dei tempi in cui essi (gli eventi) abitano. Non è un ciclo di storie di cose che succedono nel mondo, è invece, un ciclo di tempi che modellano storie del mondo.”341 Sulla complessa dimensione Spazio/Tempo, in rapporto con il Territorio, riprendo di nuovo le parole di Paoli, , nel tentativo di aiutare a comprendere il modo come ancora oggi queste dimensioni vengano vissute nel mondo dei Tseltal. “Il “K’inal” no è soltanto il Territorio, già che “Ch’ul Chan” ( “la” sacra serpente342, che si traduce come cielo) fa parte anche essa del “K’inal”, che a sua volta è tutta la vita che fluisce sia nella terra che nell’aria. Il “K’inal” è anche la dimensione dove si incarna o si lascia il “Ch’ulel343” ( l’anima). Il “K’inal” è in connessione con altri mondi e altri livelli del “Ch’ul Chan”; è anche lo spazio-tempo344 che può essere definito come amore o come odio, come felicità o dolore, così la settimana santa viene chiamata “K’uxul K’inal” ( lo spazio-tempo dell’amore e del dolore …..( …) Il K’inal è l’habitat multiple del “Kuxlejal”, è uno scenario che si configura secondo l’attuazione della vita e gli attori di questo e di altri mondi e dimensioni celesti.” 345 341 Ivi, pp. 137 a 142 In spagnolo e in Maya è “la” Serpente, al femminile. 343 Questo termine qui presenta un diverso significato all’esplicitano nel capitolo primo in cui per il popolo Tsotsil viene concepito come “Coscienza” 344 Il grassetto è mio 345 Paoli,A, op. cit, p. 44 342 149 2.1.1.1 La Dimensione Spazio/Tempo nel calendario Maya Come accennato nel capitolo primo, sia il Popolo Tsotsil che il Popolo Tseltal appartengono alla Cultura Maya, dedico alcune pagine per approfondire sulla complessità della dimensione Spazio/Tempo nella loro architettura cosmica. Parlare della cultura dei Maya è tanto affascinante quanto complesso. Soprattutto oggi – 2012 - la data su cui tanto si è detto, dal cinema ai milioni di libri venduti sulla famosa “fine del mondo”. Quindi, dare serietà a questo argomento è anche una responsabilità dell’informazione, considerando tutta la paura che le famose interpretazioni sono riuscite a suscitare. Mi soffermo su questo argomento, perché al mio rientro in Italia, dopo i quasi due anni di ricerca nel Centro e Sudamerica, mi son trovata ad affrontare le domande di tante persone, ma soprattutto di tante mamme interessate a rasserenare i loro piccoli figli. In particolare mi ha colpito una docente universitaria che mi ha chiesto esattamente: “ Ma sono vere quelle profezie Maya sulla fine del mondo ? Mio figlio è molto preoccupato e mi ha detto che quel giorno – 21 dicembre2012- lui vuole essere vicino a me.” Come si fa a rispondere a una domanda del genere? Bene, io non so se riesco a rispondere, ma voglio condividere con voi alcune delle informazioni, elaborate dagli stessi studiosi Maya: anziani Savi delle loro comunità e alcuni studiosi Maya che sono arrivati anche negli scenari della conoscenza occidentale: le Università. Innanzitutto, anticipo che ho voluto fare lo sforzo di tradurre documenti da loro stessi prodotti per non fare affidamento ad altri documenti che corrispondono ad interpretazioni, come detto prima, anche molto speculative. Per cui spero di riuscire nell’intenzione, ovvero a combattere quella disinformazione mediatica che purtroppo è diventato un grosso business, “il business della paura” che ha portato al moltiplicarsi di chiese e religioni di tutti i tipi. Inizio, quindi, condividendo la profondità del Calendario Sacro di venti giorni, chiamato Cholq'ij , ancora in uso da tante persone in Guatemala, il quale è reperibile sia nelle librerie più specializzate che nei piccoli mercati. Io ho avuto la fortuna di averne uno in dono da parte di Rosita, ed ho approfittato per discuterne assieme. Inoltre, la discussione in merito a questa famosa data “21 dicembre 2012” è stata arricchita durante la mia visita alla città di Chichicastengango – Guatemala, nel maggio 2011, sede 150 della “Fondazione Centro Culturale e Assistenza Maya –C.C.A.M” dove ho avuto occasione di avere un colloquio informale con alcune delle persone appartenenti all’associazione. Con alcune riflessioni riguardanti il loro modo di concepire il Tempo ci siamo salutati, e adesso l’informazione da me tradotta, e sotto registrata, vuol mettere a disposizione anche della conoscenza accademica queste dimensioni dei Mondi Maya. Da questo luogo sono uscita senza essere riuscita a registrare un’intervista. Le persone che lì ho incontrato, hanno evitato le interviste formali argomentando che erano stanche di tutte le interviste concesse fino a quel momento, ribadendo che il loro calendario 2012 è stato arricchito, proprio in questo anno, per cercare di smentire le false profezie, impegnandosi nell’ approfondire alcuni argomenti, fra cui: “Cosa succederà nell’anno 2012 ?. Finalizzazione dei cicli. Informazioni e rumori falsi sull’anno 2012. Rovesciamento del campo magnetico. L’immensità dell’Universo. La Terra e la sua relazione al cambiamento climatico. Palpitazione del Cuore della Madre Terra. Desiderio di un mondo migliore e di un’umanità armonica e in fratellanza.” La nuova era: Speranza dei Maya attuali 2012 Cosa è “la cuenta larga” – il conto lungo: Oxlajub B’aqtun?.346 Il Calendario Maya “Cholq’ij – la cuenta Kich’è”347 346 Cuma Chàvez, Baldomero, Calendario Maya, Guatemala 2012. Ediciòn No. 25 . Fundaciòn Cemtro Asistencia Maya ( C.C.A.M) . Chichicastengango – Guatemala 2012 (Textos a cura de) 347 Ibidem. 151 Cultural y Il sistema di calendario che guida il conto del Tempo secondo il pensiero Maya, si organizza in tre calendari perfettamente sincronizzati, di cui il Chol Qij, anno del ciclo umano, ha tredici mesi e ogni mese ha venti giorni, quindi, un anno è formato da 260 giorni, ovvero il tempo della gestazione dell’essere umano nel ventre materno. Il Calendario Sacro di venti giorni, chiamato Cholq'ij (Cholq'ij i n Maya Yucateco), è in connessione diretta con il corpo umano: i venti giorni nascono in relazione alle dieci dita delle mani e le dieci dita dei piedi. Questi venti giorni, e la loro relazione con l’Universo, forniscono una serie di elementi chiamati “ legge naturale” che controlla la vita dell’essere Umano, dal momento in cui è stato concepito fino alla morte. Un altro calendario è quello dell’anno Solare o Habb, il quale ha diciotto mesi di venti giorni ogni mese, per un totale di 360 giorni, a questo si aggiungono cinque giorni chiamati Wayeb, che rappresentano i giorni dedicati alla riflessione, il ringraziamento, le offerte e la purificazione per ricevere l’anno successivo. Così ci sono i 365 giorni, che rappresentano il tempo che impiega la Madre Terra nel suo giro intorno al Sole. Dalla combinazione dei calendari Spirituale “Chol Qij” e Fisico ( Habb) ha origine il computo della “cuenta larga”. Il Calendario “Choltun,” in cui vengono considerati mille e mille anni verso il passato e mille e mille anni verso il divenire . La “Cuenta larga” consiste nel registrare prolungati periodi di tempo, raggruppando cicli che vanno da uno a quattrocento anni di 360 giorni l’uno. Ogni unità di quattrocento anni venne conosciuta come “B’ak tun”. Attualmente stiamo finendo un’Era e arriviamo al tredicesimo “B’ak tun. Prendendo come base il sistema di conteggio a base venti, il registro del tempo del Sistema Calendarico Maya si rappresenta nel modo seguente: Un “Kin” equivale ad un giorno di ventiquattro ore. Un “Unial” è un periodo di venti giorni. Un “Tun” è un ciclo di venti anni di 360 giorni l’uno. Un “B’ak tun” corrisponde ad una durata di quattrocento anni di 360 giorni l’uno. È proprio nel trascorso di questo 13° “B’ak tun” che avverrà il cambiamento di polarità del Sole, della Madre Terra e degli esseri umani. Il 21 Dicembre 2012 rappresenta un percorso di 5.125 anni, dove avremmo davanti a noi un “fenomeno astronomico bellissimo: un poema celeste”. Il significato profondo dell’ “Oxlajuju B’ak tun” è la culminazione di un ciclo speciale, il tredicesimo. Il Tredici, infatti, è alla base della filosofia della civiltà Maya, dei nostri Avi. Il Tredici ha un grande valore e per questo motivo il 2012 è la coincidenza del Tempo “Oxlajuj B’ak tun” e rappresenta l’inizio di un nuovo ciclo in tutto il sistema planetario; una nuova era che porta con sé la possibilità di una nuova Coscienza Cosmica e di transizione spirituale verso una nuova civiltà. 152 Le conversazioni durante i cinque mesi condivisi con Rosita, così chiamata nel cerchio più stretto delle sue amicizie, sono diventati vere lezioni sul pensiero e la cosmovisione Maya. Lei ci teneva a farmi capire come vengono intrecciate le dimensioni di Mondo, per elaborare quelli che in occidente vengono conosciuti come “oroscopi”, anche se ribadiva continuamente che lei non era ancora arrivata alla cuspide della Saggezza come considerata nella sua cultura, per cui non era autorizzata a parlare di certe cose. Tutte le riflessioni che presento in questa forma di narrazione hanno l’obiettivo di spiegare l’importanza che questi intrecci cosmici hanno, precisamente quando parliamo delle forme in cui s’insegna e si apprende in questi popoli. Proprio perché nella loro essenza si traduce la saggezza della “Scuola nella Vita e la Vita nella Scuola”. Non trovo un’altra forma per riuscire a spiegarlo che fare ricorso ad un caso specifico sul calcolo dell’energia con cui una persona viene indirizzata nel suo percorso “formativo” nella “Scuola della Vita”, vediamo quindi un esempio riguardante l’importanza del “glifo” e del “Nawal”. L’energia del giorno: Nawal e glifo348 Il Nawal è lo Spirito o l’Energia, la Forza che anima i diversi giorni del calendario Cholq'ij . Il Nawal è collegato ad un animale il cui spirito guida ogni segno (glifo) . Per conoscere il significato di ogni Nawal e necessario rapportarlo con la sua corrispondente “Cruz Maya” (Croce Maya): La Croce Maya del Cholq’ij. La Croce Maya è quadrata ed indica le energie che reggono il momento del concepimento, il destino e i lati, destro e sinistro, della persona. "Il Simbolo (glifo) maya , è basato sul ritmo cosmico – tellurico, indiretto rapporto con le correnti cosmiche. L’incontro delle energie dei quattro angoli dell’Universo sostengono le quattro dimensioni della Cruz Maya, come i quattro elementi primigeni (Fuoco, Terra, Aria, Acqua). Tutti questi elementi forniscono informazioni sugli aspetti che reggono la nostra vita, dal momento del concepimento al momento dalla nascita, dato che entrambi sono importanti e hanno speciale trascendenza per l’essere umano, prendendo in considerazione la relazione fra l’influenza delle energie emisferiche delle correnti telluriche e la conformazione geografica del luogo di nascita.”349 348 349 Conversatorio da me sostenuto con Rosa Liberta Xiap. San Cristobal de las Casas. Febbraio – Marzo 2011 Preso dal Calendario Maya CCAM 2012 (Ch'umilal Wuj, El Libro del Destino). 153 Ogni giorno è rappresentato da un’immagine chiamata “glifo” . Questo è in connessione diretta con l’animale “Nawal” che lo rappresenta, e si ripete ciclicamente ogni venti giorni durante l’intera durata dell’anno, cominciando da B’atz e finendo in Tz’i. . Vediamo la “Cruz Maya” di B’atz’. AQ'AB'AL(concepimento) KAN B'ATZ' NO'J KAWOQ(Destino) La persona nata in questo giorno è stata concepita Aq'ab'al, il suo destino è guidato dal giorno di Kawoq. Il suo nawal è il “Mono” ( la Scimmia). “Nel Popol Vuh,350 Jun B'atz' y Jun Chowen, grandi saggi, sono diventate Scimmie, per essere stati superbi, per aver maltrattato i loro fratelli minori " Junajpu e Ixb'alamke”. Così vediamo che nei venti giorni del Calendario Sacro si esprimono tutte le forze basiche della creazione e della distruzione, del positivo e del negativo, del bene e del male, le polarità che esistono nel mondo, nella società, nella famiglia e nel cuore dell’essere umano. Dalla relazione fra tutte queste forze nella vita individuale dipendono il trascorso dell’esistere e del destino. E’ importante sapere che tutto quello che la persona fa incide in maniera diretta su noi stessi, sulla famiglia e sulla comunità.”351 “B’atz’: è un giorno ideale per chiedere per tutta l’umanità, per chiedere per i raccolti, per la semina, per l’inizio di un lavoro, di un progetto, di una vita. Giorno per intraprendere qualsiasi attività con successo; giorno ideale per l’unione di un uomo e una donna in matrimonio. Giorno per mettere in ordine le cose. Giorno di protezione per gli artisti, per risolvere problemi familiari.”352 350 Libro dove sono state registrate in castigliano la Genesi, la Conoscenza e la Sacralità del popolo Maya Spiegazioni di Rosa Liberta Xiap - Maggio 2011 352 Calendario Maya 2012 C.C.A:M 351 154 Allo stesso modo ognuno dei venti giorni ha un significato specifico e all’energia di ogni giorno vengono affidate le nostre azioni. Per esempio: per lo studio e l’impegno verso la nostra vita intellettuale, mi ha insegnato Rosita, è importante realizzare riti a “Noj”. “ Noj – Caban” La Saggezza, cuore della Spiritualità è stata la prima petizione dei primi anziani per capire il mondo e l’Universo. Petizione che è stata concessa dal Creatore e Formatore, esprimendo la Saggezza attraverso la Madre Natura che tutto sostiene”353 Infine, alcune delle riflessioni riguardanti la concezione Territorio- Tempo/Spazio nella cosmovisione della Nazione Quechua, alcune apprese durante il seminario354 realizzato a Cochabamba nel febbraio 2012, altre, attraverso la partecipazione con il gruppo di lavoro di Kawsay a Cochabamba. “ Nella visione cosmica del mondo Quechua – Aymara, la vita è un permanente ciclo “Kutiy” (ritorno permanente). Quest’è la visione della vita in senso inverso, la forma ciclica di capire il Tempo e lo Spazio come un insieme simultaneo. Per riuscire ad andare in avanti, dobbiamo andare indietro, questa è per esempio la categoria linguistica quechua “ñaupaq”, tradotta come “di fronte, davanti” e allo stesso tempo “antico, passato” (nella visione quechua il passato sta davanti). Qusto termine “ñaupaq” è composto da due parti: la radice “ñaupa” che si traduce come “antico”, “vecchio” e il suffisso “q”, che dà il significato “davanti”. In questo stesso modo la parola quechua “qhepaq”: “dietro” “indietro”, viene ad indicare il futuro,cioè, quello che viene dopo di noi. Così nella visione quechua il futuro sta dietro, non è facile vederlo proprio perché dietro di noi.355” “Il nostro atteggiamento è basato sulle petizione e sul ringraziamento alla madre terra (Pachamama), alle montagne, alle sorgente e a tutto quanto ci sta intorno, attraverso i riti come la “ch’alla356”o la “wilancha”.357 353 Ibidem Seminario: Taller plurinacional de definiciòn de estrategias de construcciòn de curriculos regionalizados, bajo la direcciòn del Ministerio de Educaciòn Nacional. Cochabamba, febrero 2012. 355 Cerruto Leoneol, Metodologia Propia, op. cit. p.16 356 La “Ch’alla” è un rito molto importante fra i Popoli delle Ande. Quello a cui ho partecipato consiste nell’offrire alla Terra una bibita scura e una bibita chiara come complemento del maschile e del femminile nei quattro punti cardinali, iniziando dal sorgere del Sole. È un atto che si realizza nella quotidianità prima di bere, ma anche in occasioni speciali, per esempio prima della semina o prima di un’assemblea comunitaria o durante le visite ai luoghi sacri: montagne, fiumi, boschi, sentieri, grotte, casi nei quali la cerimonia comprende anche la preparazione di una “mesa” (tavolo rituale) dove si offrono: dolci, cibo, foglie di coca, tabacco, incenso, fiori, bibite rituali a basi di mais e altri cibi sia di origine vegetale che animale; inoltre, alcuni simboli chiamati “misteri”, che rappresentano le diverse manifestazioni della natura, dipendendo dai colori. 357 Concejo Educativo de la Naciòn Quechua ( Quichwa Suyu Yachachiymanta Umalliq) C.E.NA.Q.Manual del Curriculo Regionalizado de la Naciòn Quechua. p.11. 354 155 Da quanto riportato spero di essere riuscita a trasmettere il livello di complessità della dimensione “Territorio”. In questo Spazio/Tempo, tradotto come “Territorio”, convergono le quattro dimensioni del pensiero Andino esplicitate nella Chakana. Dimensioni abbastanza problematiche da mantenere in armonia se si considerano gli interessi che questi “Territori” suscitano sia negli scenari politici che in quelli economici, nonché la problematicità del quotidiano fra i sistemi viventi che lo abitano. Su questo argomento abbiamo parlato con Margarita Pimienta. “Le Comunità wayuu di oggi si trovano immerse in un universo sociale complesso, sottoposte all’influenza di molteplici flussi culturali che interagiscono nel loro territorio, attraverso organizzazioni economiche e politiche: imprese multinazionali, lo Stato nazionale, imprese di pesca a livello industriale, società portuarie e complessi turistici. La “endoculturaciòn” (educazione endogena) ha dei fondamenti pedagogici collegati alla vita quotidiana e anche all’assiologia wayuu. Il processo formativo nella vita considera importante la visione che il gruppo etnico ha del Tempo e lo Spazio, nonché della forma come viene vissuto il loro “Territorio”358 2.1.2 Connessione Comunità Territorio Come per il termine “Territorio”, esplicitare il significato con cui il “concetto” di Comunità scorre in queste pagine è un passaggio obbligato prima di arrivare a la consolidazione degli Spazi dove la trasmissione della conoscenza avviene, appunto, gli spazi della “Scuola nella Vita”. In merito, riporto di nuovo le parole di Antonio Paoli, in questo caso per quanto riguarda il popolo Tseltal: “ La parola Comunità, comprende tutte le forme di relazioni caratterizzate da un alto grado di intimità personale, profondità emozionale, impegno morale, coesione sociale e continuità nel tempo. La sua forza psicologica procede da livelli di motivazione che vanno oltre la propria volontà o l’interesse personale comuni ad altre forme di associazione nate dalla convenienza o consenso meramente razionale. La Comunità è una fusione di sentimento e pensiero, di tradizione e impegno, di appartenenza e volontà.”359 358 359 Colloquio con Margarita Pimienta. Maggio 2012. Paoli, A, op. cit, p. 25 ( il grassetto è mio) 156 Per quanto riguarda il popolo U’wa, la Comunità è il centro di coesione sociale attraverso la spiritualità e il lavoro comunitario. “ La spiritualità viene vissuta soprattutto a livello comunitario, mantenendo la coesione sociale attraverso il “Werjayà” ( autorità spirituale). Loro hanno la responsabilità della trasmissione di cerimonie fondamentali nella tradizione U’wa: “ànbaya” (canto alle Ape), “suru’wa” (rito per togliere la kòkora360), “ubasha tuwina” ( lavoro collettivo per la costruzione della casa) “ibita tuwina” ( Costruzione del camino, “ banakin shia” (“preparazione del campo e colture comunitarie)361 Sulla visione dei popoli delle Ande, riporto alcune riflessioni di Fernando Huanacuni Mamani che a mio avviso possono aiutare a esplicitare il “concetto” di Comunità. “Noi, i Popoli originari, nelle loro diverse espressioni, dall’Alaska alla Patagonia, abbiamo un paradigma unico: la Vita Comunitaria. Una vita di relazione e di rispetto a tutto quanto esiste, perché si concepisce che tutto è connesso e che il danno causato ad una parte, ad una specie, significa il danno alla Comunità nel suo insieme, un’azione che danneggia la vita. Per cui, per concretizzare il “Vivir Bien”, non guardiamo soltanto quello che è umano, è una visione che riguarda l’integralità della Comunità, è necessario ricostituire la vita alle sue origini. In Quechua “Ayllu” in Guaranì “Tenta”, termini che significano Comunità. …(…) Per capire la Comunità dai precetti che conformano la cosmovisione dei Popoli originari, è importante comprendere la loro struttura ancestrale.”362 In questo orizzonte, sono significative anche la parole di Luis Macas363, avvocato appartenenti alla Nazione Kichwa del Ecuador. “Il sistema comunitario si fonda sui principi del “randi-randi” la concezione e pratica della vita in reciprocità, nella redistribuzione dei principi che reggono le nostre Comunità. Si basa sulla visione collettiva dei mezzi di produzione, non esiste l’appropriazione individuale, la proprietà è comunitaria. Il ruray, maki-maki, è l’organizzazione del lavoro comunitario, che è applicato in tutti i Popoli. In Bolivia si dice la minka o el ayni. Quindi, l’organizzazione del lavoro La “kòkora” riguarda il rito di passaggio, durante il primo menarca. Kajkrasa ruyina, op. cit. p, 31 362 Huanacuni M., F., Buen Vivir / Vivir Bien. Op. Cit, p.53. 363 Ex-presidente de la Confederación de Nacionalidades Indígenas del Ecuador (CONAIE) y ex–candidato presidencial por el Pachakutik. 360 361 157 è una cosa totalmente diversa a quella che ci hanno insegnato alla scuola ufficiale o ancora peggio all’università. Il ushay, è l’organizzazione sociale e politica comunitaria, che rappresenta il potere, il sistema d’organizzazione comunitario. Il yachay, sono i saperi e la conoscenza collettiva che ancora si pratica oggi nelle nostre Comunità. I Saperi non sono soltanto individuali, sono soprattutto collettivi. La trasmissione di queste conoscenze si tramanda di generazione in generazione attraverso l’oralità.”364 Questo senso di Scuola nella Vita, attraverso l’intreccio Territorio/Comunità è presente in tutte le culture, come vediamo ancora dalle testimonianze del Popolo U’wa. “ La Scuola è la Comunità, cioè, l’insieme di relazioni esistenti fra gli U’wa, la Natura e il Cosmo. La nostra pedagogia si centra nella essenza della persona in rapporto permanente con la Comunità e il Territorio. Così il processo di apprendimento non è frazionato, è integrale e permanente. Questo processo fa sì che la persona impari attraverso i ruoli sociali e comunitari attraverso l’oralità e l’esperienza. Essere U’wa significa avere una relazione intima con la Natura, avere una struttura di conoscenza propria, con grande ricchezza nell’espressione simbolica, con grande senso di reciprocità. L’U’wa non si concepisce mai da solo, esiste in quanto essere in relazione con l’Universo. Per questo motivo quando l’U’wa parla fa riferimento a tutto l’Universo, al Pianeta Azzurro, all’intera umanità.”365 2.2 LA SCUOLA NELLA VITA Parlare della Scuola nella Vita ha implicato necessariamente il passaggio attraverso i “concetti” di Territorio e Comunità (dimensioni di Vita), percorso a cui sono stata portata, nel tentativo di spiegare non soltanto i significati con cui questi “termini” vengono considerati in questo elaborato, ma soprattutto il loro intreccio di complessità. La Scuola nella vita vuole incorporare le diverse dinamiche pedagogiche nonché i diversi spazi dove i processi di insegnamento/apprendimento avvengono, a partire dell’esperienza come elemento fondamentale nella costruzione della conoscenza. La scelta di considerare in questo elaborato un capitolo alla “Scuola nella Vita” è stata pensata per offrire uno scenario delle forme come la conoscenza viene costruita e trasmessa 364 Macas Luis, Buen Vivir / Vivir Bien. Filosofía, políticas, estrategias y experiencias regionales andinas. Coordinadora Andina de Organizaciones Indígenas – CAOI. Lima 2010, p. 16 365 Kajkrasa Ruyina, op, cit, p. 33 158 nei diversi popoli del Abya Yala, prendendo in questo modo distanza dal concetto di “educazione”, così come viene capito dal sistema educativo istituzionalizzato. Su questo punto concordano la gran maggioranza dei Popoli qui presi in considerazione, riflessione che riprendo ancora del gruppo di lavoro Kawsay a Cochabamba, in un’analisi particolarmente interessante che relaziona il concetto di “Cura” con il processo “educativo” nella forma come viene concepita dalle Comunità. “ Il concetto di educazione come viene capito dal sistema formale di educazione, non esiste nelle culture originarie andine. Questo non vuol dire che non abbia esistito o non esistano processi di apprendimento/insegnamento o che non esista scienza nelle nostre culture. Il fatto è che l’educazione per noi è direttamente relazionata con la “cura”, il processo del “Uyway” – crianza366 in quechua –, ma non soltanto dell’essere umano, ma di tutto l’insieme degli esseri vivi della Pacha: gli animali, le montagne, i vegetali, l’aria, l’acqua, le stelle, anche perchè questi esseri alla sua volta si prendono cura di noi, gli umani. Questo è un punto interessante che fa la differenza fra la forma come noi vediamo l’educazione e la forma come viene portata avanti dal sistema educativo formale, vale a dire, un’educazione antropocentrica, incentrata soltanto a livello degli umani.”367 Quindi un tentativo di definizione della “Scuola nella Vita” dovrebbe comprendere la complessità di questo intreccio TerritorioCorpoMemoria, di cui mi occuperò nei prossimi capitoli, ma che potrebbe essere molto vicino a quanto segue: Uno Spazio pedagogico Vitale, un Aula Magna generatrice di conoscenza dove la spiritualità, l’esperienza e l’osservazione costituiscono gli elementi di quel grande laboratorio che è l’esistenza. Proprio per la sua dimensione complessa, ho individuato la dimensione “Territorio”, come quella “struttura che connette”, quello Spazio/Tempo, dove il “Sumak Kawsay” ( Buen Vivir) si concretizza, dove le quattro dimensioni della Chakana, “ la Spiritualità, la Conoscenza, l’Economia ed Organizzazione sociale”, s’intrecciano, dando vita a quella metodologia di cui la “Scuola nella Vita” si nutre. È, quindi, in questa direzione che la “Scuola nella Vita”, come pratica di Vita Quotidiana dei Popoli viene qui presentata. 366 Ndt. La parola “crianza” in castigliano vuole significare il processo di cura lungo il percorso della vita, es. “crianza dei figli”. 367 Cerruto Leonel, Metodologia propia, op. cit, p. 47 159 Una Scuola in costruzione permanente, che fornisce gli elementi per aprirsi all’esterno senza rinunciare, negare o mimetizzare le proprie origini. Una Scuola che rafforza attraverso il “ConoSCentire” la dimensione pedagogica delle emozioni insieme ai principi di “complementarità e reciprocità”, puntando ad annullare la grande tensione fra lo spirituale e il materiale. Una Scuola, dove la Comunità ha un ruolo fondamentale, come ci indicano ancora le parole di Antonio Paoli, da quanto appreso dalle sue esperienze con il popolo Tseltal. “La Comunità è l’ambito naturale d’incontro e interazione fra le famiglie. Nel campo dell’educazione, la Comunità è l’orizzonte che permette al bambino di andare fuori dello spazio familiare e tuttavia essere sempre in un terreno conosciuto. La Famiglia è l’ambito per la socializzazione del “bebè” (neonato). Il bambino, invece, richiede già un’altra dimensione nella quale possa trovare compagni della sua età e altre famiglia con cui si possa identificare, ma che siano diverse della sua. La Comunità è come una casa grande; di fatto fra i tre o quattro anni di età, i bambini vivono sia negli spazi della Comunità (altre famiglie) che nella propria. In questo modo, vivendo anche fuori delle mura di casa allargano il loro orizzonte di esperienze. Anche le bambine lo fanno, ma la loro mobilità è un po’ più ristretta.368” Una Scuola che potrebbe essere in sintonia con quella Scuola che, con le parole di Morin, si occupa della “condizione umana” . Una Scuola che non dipende soltanto dalla “riflessione filosofica e dalle descrizione letteraria” ma che dipende anche da “ quelle scienze naturali riaggregate e rifondate quali sono la cosmologia, le scienze della Terra e l’ecologia”, in grado di portarci verso quella meravigliosa “ epopea cosmica.”369 “ Portiamo all’interno di noi stessi, il mondo fisico, il mondo chimico, il mondo vivente, e nello stesso tempo ne siamo separati dal nostro pensiero, dalla nostra coscienza, dalla nostra cultura. Così, cosmologia, scienze della Terra, biologia, ecologia permettono di situare la doppia condizione umana, naturale e meta-naturale” ….(…) “In seno all’avventura cosmica, all’apice dello sviluppo eccezionale di un singolo ramo dell’auto-organizzazione vivente, noi proseguiamo, a modo nostro, l’avventura dell’organizzazione. Questa epopea cosmica dell’organizzazione, soggetta continuamente alle forze di disorganizzazione e di dispersione, è anche l’epopea dell’interconnessione, che sola, impedisce al cosmo di disperdersi o di svanire appena nato. Noi, viventi, e solo di conseguenza 368 369 Paoli, A., op. cit, p. 25 Morin, E., La Testa ben fatta, op, cit, p. 33 160 umani, figli delle acque, della Terra e del Sole, siamo un bruscolo della diaspora cosmica, qualche briciola dell’esistenza solare, un minuto germoglio della germogliazione dell’esistenza terrena. Siamo esseri allo stesso tempo cosmici, fisici, biologici, culturali, cerebrali, spirituali. .. Siamo figli del cosmo, ma a causa della nostra stessa umanità, della nostra cultura, della nostra mente, della nostra coscienza, siamo divenuti stranieri a questo cosmo dal quale siamo nati e che, nello stesso tempo, resta per noi segretamente intimo”370. 2.2.1 La Scuola Nella Vita e la Metodologia della Chakana Riprendo di nuovo i preziosi insegnamenti di Leonel Cerruto, già presentati nei capitoli precedenti, per spiegare come attraverso la “metodologia della Chakana” si organizza e pianifica l’educazione Comunitaria, ovvero le dimensioni attraverso le quali la “Scuola nella Vita” si concretizza, in questa’Aula Magna che è il Territorio. “La Chakana è il simbolo della cosmovisione Andina. Ci fa vedere quattro dimensioni vitali: Munay, Yachay, Ruway, Atiy. La Chakana è uno strumento metodologico importante nell’ organizzazione e pianificazione educativa comunitaria grazie alla possibilità di disegnare contenuti curriculari pluridimensionali. I contenuti sono costituiti da quattro assi: vitali, trasversali, differenziali e locali, che a loro volta interagiscono con le quattro dimensioni della Chakana, generando quella struttura che connette con il centro e che conduce alla costruzione del “Sumak Kawsay”. L’inter-relazione delle quattro dimensioni della Chakana con i quatto assi sopra individuati sono l’essenza di questa pedagogia.”371 Una Scuola che, considerata in chiave “chakanistica”, ho voluto mettere in relazione con quei principi che Jacques Delors ha considerato nel 1996 come i “quattro pilastri” dell’educazione del secolo XXI: “imparare a conoscere, imparare a fare, imparare a vivere insieme, imparare ad essere”372. Questo confronto ha per obiettivo, da una parte, il riuscire a cogliere le somiglianze con questa proposta, nel senso che questi “quattro pilastri” potrebbero essere paragonabili a quelli che vengono considerati nella “Scuola Nella Vita”; dall’altra parte, individuare le differenze che possono esistere. 370 Ivi, p. 34 Cerruto A., Leonel (2009) La experiencia de la Universidad Indígena Intercultural Kawsay (UNIK). En Daniel Mato (coord.), Instituciones Interculturales de Educación Superior en América Latina, op, cit, pp. 123-154. 372 Delors, J. Los cuatro pilares de la educación, op. Cit, pp. 91-103 371 161 Munay Essere Yachay Conoscere Buen Vivir Atiy Vivere Insieme Ruway Fare Vediamo quindi questo esempio comparativo, con cui cerco di spiegare la forma di organizzazione e trasmissione della conoscenza in questo processo. Munay (affetto, energia, spirito). orientata alle scienze della cosmovisione nelle sue dimensioni di energia, spiritualità, idioma proprio , identità e cultura. Questa dimensione ci dà le basi dei principi e valori sui quali agire nelle altre dimensioni. Yachay (saggezza, estetica, scienza, arte) orientata alle arti e alle scienze originarie, la saggezza ancestrale, le metodologie comunitarie, la ricerca e le tecnologie. In questa dimensione si cerca l’innovazione permanente, in armonia con i principi e valori della Pacha”. Imparare ad essere: l’educazione deve contribuire allo sviluppo di ogni persona: corpo, mente, intelligenza, sensibilità, senso estetico, responsabilità individuale, spiritualità. Tutti gli esseri umani devono essere in condizione, di sviluppare un pensiero critico, che permetta di sapere agire con autonomia e capacità di giudizio, in ogni circostanza della vita. Imparare a conoscere: Questo tipo d’apprendimento implica non tanto l’acquisizione d’informazioni, quanto il venire in possesso degli strumenti stessi della conoscenza che può essere considerata sia un mezzo che un fine della vita umana. In quanto mezzo consiste per ogni persona nell’imparare ad imparare, nel imparare a comprendere il mondo che gli sta intorno in maniera sufficiente per vivere con dignità. Per sviluppare le sue capacità professionali e comunicare con gli altri. Come fine, giustifica la gioia di comprendere, di conoscere e di scoprire. Ruway (lavoro, azione, produzione) orientata alle scienze della produzione e riproduzione comunitaria, il lavoro, l’economia comunitaria, lo scambio, l’autosufficienza del “Ayllu” per il buon vivere. Imparare a fare: imparare a conoscere e imparare a fare sono inscindibili,ma in questo caso il “fare” è strettamente vincolato alla questione di formazione professionale. Come insegnare a mettere in pratica le conoscenze, e allo stesso tempo come adeguare l’insegnamento del futuro al mercato del lavoro la cui evoluzione no è totalmente prevedibile. Atiy (organizzazione, autorità, capacità, governo dell’ Ayllu) orientata alla scienze dell’organizzazione e la gestione territoriale comunitaria e le sue normative, l’amministrazione comunitaria e l’autogoverno, per il Buon Vivere. Imparare a vivere insieme: (la scoperta dell’altro): Sarebbe adeguato che l’educazione potesse fornire due orientamenti complementari: Nel primo livello, la scoperta graduale dell’altro. Nel secondo, e durante tutta la vita, la partecipazione a progetti comuni. Quindi, l’educazione ha una doppia missione: insegnare la diversità della specie umana e contribuire ad una presa di coscienza delle somiglianze e l’interdipendenza fra tutti gli esseri umani. 162 Fin qui ho trovato alcuni collegamenti, ma c’è una connessione mancante, ed è proprio lì dove la “struttura che connette” viene spezzata. Mettere in relazione queste due forme di “organizzare” l’educazione: da una parte “La Scuola nella Vita”, dall’altra le fondamenta dei “quattro pilastri” enunciati da Delors, permette di mettere in evidenza come in quest’ultima manchi quel “centro connettore”; nonché l’enfasi sullo “sviluppo personale”, così come l’interesse sul “come adeguare l’insegnamento del futuro al mercato del lavoro” D’altra parte ci permette di evidenziare come teoretico basato sui la “Scuola nella Vita” abbia un impianto principi di “reciprocità e complementarità”, degli “spazi pedagogici” che si manifestano nella dimensione “Spazio-Tempo-Territorio”, dove i “contenuti” vengono elaborati e capiti in chiave “Comunitaria”. Quindi, l’obiettivo prefissato in questo capitolo: rendere esplicita una pedagogia del “Buen Vivir” attraverso la “Scuola nella Vita”, risiede proprio lì, nel tentativo di ricucire quella struttura che è stata spezzata, trovando quella “struttura” dove le quattro dimensioni della Pacha (Spazio,Tempo,Contesto/situazione, Esseri Viventi) si possano interconnettere con i quattro principi vitali sopra accennati: Munay, Yachay, Ruway, Atiy. Quella “struttura che connette”, sia nella cosmovisione Andina che in quella Maya, è rappresentata da quel “centro” ciclico, circolare, complementare e “pariverso”373 nel quale si incontrano le energie cosmiche e telluriche nelle sue due manifestazioni: “negative” e “positive”. Immagine d Javier Lajo374 “La Chakana fa anche riferimento alle quattro dimensioni della Pacha (Terra): spazio, tempo, situazione/contesto, esseri viventi. Tutti connessi da una quinta dimensione , che è il Centro connettore della complementarità, attraverso il quale si concretizza il “Sumak Kawsay” 375 Nella cultura Andina, tutto l’esistente ha imprescindibilmente il suo “PARI”. L’origine non è l’unità, ma la “Parità”, come ampiamente spiegato nel primo capitolo di questo elaborato 374 Lajo Lazo Jaiver, Màs allà de la civilizaciòn, op. Cit. 375 Cerruto A., Leonel (2009) La experiencia de la Universidad Indígena Intercultural Kawsay, op, cit, pp. 123-154 373 163 Una Metodologia “naturale” della pedagogia “Comunitaria”, come la definisce anche Huanacuni. “Una metodologia che non punta soltanto alla “ragione”, ma che considera anche quell’Altro mondo, il mondo non logico, per coinvolgerci e sensibilizzarci, per riuscire a passare dall’individualismo al Comunitario. Questo significa tornare a percepire la vita principalmente attraverso l’affetto, ma non soltanto affetto verso gli esseri umani, ma a tutto questo “multiverso” che ci sta intorno, in una relazione che non va da soggetto ad oggetto, ma da soggetto a soggetto, perché anche gli Animali, le Piante, le Montagne, il Fiume, la Pietra, la Casa, hanno un’energia, per cui hanno Vita e come tale formano parte dell’equilibrio della Comunità. …(…).. “Una “metodologia naturale” della pedagogia Comunitaria: a Noi Popoli Originari, la metodologia ce la dà la Natura. L’aspetto oggettivo non ha valore, perché l’oggettività permette soltanto un’approssimazione ma non un’interazione con l’insieme. Assumere che ci sono eventi o parti che sono “fuori di”, è affermare una forma di evasione della relazione con il tutto. Con questa metodologia è possibile generare, attraverso l’educazione, esseri armonici, non soltanto risorse come “forza lavoro”. Dobbiamo educare per il rispetto verso tutto quello che ci sta intorno, ridare la sensibilità oltre la ragione, per avere quello che soltanto è possibile attraverso la pratica comunitaria”376 Una Scuola che in dialogo con il pensiero Occidentale potrebbe contribuire attraverso quell’insieme che ho voluto chiamare “ConoSCentire”, ampiamente esplicitato nelle pagine precedenti, a trovare punti d’incontro dove “il sentire della natura” così manifesto nella cosmovisione dei popoli, possa essere compresso anche dentro a quell’insegnamento che Morin ha chiamato: “ la condizione umana.” “L’umano dell’umano /Unidualità. L’umano è un essere nel contempo pienamente biologico e pienamente culturale, che porta in sé questa unidualità originaria. …(..) “L’anello cervello ↔ mente ↔ cultura. L’uomo si realizza come essere pienamente umano solo attraverso la cultura e nella cultura …(…) La mente umana è un’emergenza che nasce e si afferma nella relazione cervello-cultura. Una volta emersa, la mente interviene nel funzionamento cerebrale e retroagisce su di esso. ..(…) 376 Huanacuni,F.,op. cit, p.45 164 “ L’anello ragione ↔affetto ↔ pulsione. Nello stesso tempo, troviamo una triade bioantropologica oltre a quella cervello ↔ mente ↔ cultura: questa triade è definita dalla concezione del cervello triunico di Mac Lean.Il cervello umano integra in sé: a) il ‘paleoencefalo’, eredità del cervello dei rettili, fonte dell’aggressività, della fregola, delle pulsione primarie; b) il mesencefalo, eredità del cervello degli antichi mammiferi, nei quali l’ippocampo sembra legare lo sviluppo dell’affettività a quello della memoria a lungo termine, c) la corteccia che, già molto sviluppata nei mammiferi fino ad avvolgere tutte le strutture dell’encefalo e formare i due emisferi cerebrali, si ipertrofizza negli esseri umani un una neocorteccia che è la sede delle capacità analitiche, logiche, strategiche che la cultura consente di attuare pienamente. Così ci appare un’altra faccia della complessità umana, che integra l’animalità ( mammiferi e rettili) nell’umanità e l’umanità nell’animalità. Le relazione fra le tre istanze sono non solo complementari ma anche antagoniste, e comportano i ben noti conflitti tra pulsione, cuore e ragione; correlativamente, la relazione triunica non obbedisce a una gerarchia ragione ↔ affettività ↔ pulsione; vi è una relazione instabile, permutante, rotativa tra queste tre istanze …. (..) “L’anello individuo ↔ società ↔ specie. Gli individui sono i prodotti del processo riproduttivo della specie umana, ma questo processo deve a sua volta essere prodotto da due individui. Le interazioni fra individui producono la società, e questa, sede dell’emergenza della cultura, retroagisce sugli individui. …(…) La complessità umana non potrebbe essere compresa se dissociata da questi elementi che la costituiscono: ‘ogni sviluppo veramente umano significa sviluppo congiunto delle autonomie individuali, delle partecipazioni comunitarie e del sentimento di appartenenza alla specie umana”.377 . . La Scuola Nella Vita: epistemologia chakanistica Cerco ora di avvicinarmi alla struttura presentata da Frabboni e Pinto Minerva378, nell’intenzione di dare “organicità” a quelle “idee stellari 379” della pedagogia del “Buen Vivir” di cui la Scuola nella Vita si fa responsabile. “L’alfabeto empirico” di questa pedagogia poggia sulla complessità di una dimensione accennata lungo queste pagine, la quale si nutre di due principi cardine di questo “ConoSCentire”: la reciprocità e la complementarità. Riprendendo, quindi, il percorso per continuare a tessere la grande “mochila” della Saggezza Ancestrale, bisogna sottolineare che l’orizzonte ermeneutico di questa Scuola va cercato nelle interconnessioni di cui abbiamo parlato fin’ora. Morin, E. I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Raffaello Cortina, Milano 2001, pp. 52 a 55 Frabboni, F, Pinto Minerva, Manuale di Pedagogia generale, Laterza. Roma 1994 379 Ivi, p. 59 377 378 165 - Dimensione Comunità/Territorio La Scuola nella Vita, fa riferimento ad una Comunità intesa come “Unità oltre il sociale”, come ci spiegano ancora le parole dello studioso Aymara Fernando Huanacuni. “Dalla nostra Cosmovisione si concepisce che tutto è parte della Comunità e la Comunità viene concepita come un’unità oltre il sociale, per cui i processi di insegnamento non possono essere soltanto individuali o isolati dall’intorno ( il Territorio), perché la natura ci indica che tutto è interconnesso. L’ educazione Comunitaria si fonda nei principi comunitari di “reciprocità e complementarità” …(…) questo implica, uscire dal processo di disconnessione dell’essere umano con la natura a cui ci hanno portato dall’epoca dalla colonia, per ritornare ai nostri origini: una Coscienza integrata, interconnessa con la natura. Uscire da un insegnamento orientato a produrre soltanto “forza di lavoro”, per passare ad un insegnamento che ci permetta di esprimere le nostre capacità naturali. Uscire dalla teoria portata soltanto alla ragione del “capire”, per arrivare ad un insegnamento che ci permetta di comprendere con sapienza. Un insegnamento che non alimenti lo spirito di “competitività” ma che nutra un processo di insegnamento/apprendimento per far sì ché tutti possiamo vivere pienamente (en plenitud) nel “Buen Vivir”.380 Una Comunità, in intima relazione con un “Altro” di cui la stessa creatura umana fa parte. Un “Altro” compreso in quell’insieme di quelle “Ecologie”: della Mente e dello Spirito, di cui mi sono occupata in questi capitoli. Un “Altro” che nella visione dei popoli delle Ande diventa un “Noi” , come ci spiega ancora Huanacuni. “In aymara, per esempio, la prima parola che si insegna è Jiwasa, che significa “Noi”381. La prima persona non è “io” ( come insegna occidente). Il primo è il “Noi” ( Jiwasa), e “Noi” sono anche le Montagne, le Piante, gli Insetti, le Pietre, i Fiumi. Tutto è “Noi”. “Jiwasa” letteralmente significa “Noi”, e in un significato più profondo significa “muoio io per unificarmi con l’intorno” . E’ interessante vedere come della radice “jiwa” abbiano origine anche i termini come “jiwaña” che significa morte o trasformazione; jiwasa che significa “Noi” e jiwaqi che significa bello ( bonito y hermoso). Nel capire questi termini e altri simili in altri idiomi 380 381 Huanacuni, F, op. cit. p. 42 Il grassetto è mio 166 ancestrali, vediamo che per riuscire ad essere un “Noi”, dobbiamo svegliare una Coscienza Comunitaria. Questo implica una trasformazione strutturale, un cambio di visione”382 In questa dimensione, considerando l’importanza di Huanacuni, questo “Noi” a cui fa riferimento faccio collegamento anche alle parole di Teresa383, capendo ora quando nel momento del nostro colloquio, ha voluto insistere sul fatto che per capire il significato della cultura del Mais nella cultura Tseltal, era prima necessario capire la profonda relazione fra l’uomo e il Mais, quest’ultimo infatti viene addirittura considerato superiore all’uomo, per le origini degli uomini di Mais a cui ci rimanda di nuovo il Popol Vuh. “Relazione Uomo-Mais: L’uomo e la donna sanno che sono stati creati tre volte, secondo il Popol Vuh, il libro dei consigli: prima di fango, poi di legno e per ultimo di Mais. Questo ci dice che la perfezione è riuscita grazie al Mais. Questo spiega la relazione del corpo con le parti della natura, dell’Universo e della cultura in generale. Quando si parla per esempio degli alberi, anche loro hanno gli stessi nomi per quanto riguarda le parti che lo conformano, uguali alle parte fisiche umane, esempio : occhi, naso, piedi. È per questo che molti nomi di luoghi o spazi dove ha origine la vita, i tseltali li denominano con parole che indicano anche qualche parte del corpo umano. Per esempio dove nasce l’acqua si riconosce come “sit ja”, cioè (ojo de Agua) o anche “ jol ja’ (testa)384” Mi piace lasciarmi sedurre dal pensiero che queste righe siano in perfetta sintonia di nuovo con Bateson attraverso una delle sue metafore preferite, ripresa anche da Mariagrazia Contini385: “ Si consideri un individuo che stia abbattendo un albero con un’ascia; ogni colpo di ascia è modificato e corretto secondo la forza dell’intaccatura lasciata nell’albero dal colpo precedente. Questo procedimento auto correttivo è attuato da un sistema totale, albero- occhi-cervello-muscoli-ascia-corpo-albero; ed è questo sistema totale che ha caratteristiche di mente immanente386” In merito, è opportuno presentare anche quanto riportato da Manghi nel suo libro387, specificamente nelle sue riflessioni riguardanti il “Penso dunque siamo.” 382 383 384 Huanacuini, op. cit. p. 43 Donna Tseltal, neolaureata alla Facoltà di Lingua e Cultura all’UNICH. Ibidem 385 Contini Mariagrazia, Sconfinamenti, in Demozzi Silvia, La struttura che connette, op, cit, p.11 386 Bateson, G, Verso un’ecologia della Mente, op, cit, , p.366 387 Manghi, Sergio, La conoscenza ecologica. Attualità di Gregory Bateson, Raffaello Cortina, Milano 2004 167 “Ma non è questo il modo in cui l’occidentale medio vede la sequenza degli eventi che caratterizzano l’abbattimento dell’albero; egli dice: “Io taglio l’albero”, e addirittura crede che esista un agente delimitato, l’ “Io”, che ha compiuto un’azione “finalistica” ben delimitata su un oggetto ben delimitato.”388 …(…) “Nel rapporto tra individuo e relazione postulato da queste immagini dell’ “io”, è evidente che è la prima di queste due categorie, l’ “individuo”, a mantenere il primato epistemologico. Un primato ribadito anche, fra l’altro dall’uso corrente della parola “soggettivo””. Ma nel momento in cui ci siamo lasciati alle spalle la superstizione oggettivista, anche la superstizione gemella del soggettivismo dev’essere riveduta: riveduta nel suo automatico confinare “me” nella mia pelle”.389 “la parola “oggettivo” si dilegua in silenzio; allo stesso tempo anche la parola “soggettivo”, che di solito confina “me” nella mia pelle, scompare. Credo che il cambiamento importante sia la riduzione dell’oggettivo. Il mondon non è più “la fuori”, come sembrava essere prima.”390 “Né “io”, né “tu”, né qualunque altra creatura vivente, in chiave relazionale, rimane confinata nella pelle dell’individuo, auto contornata da un cartesiano “penso dunque sono” o da una qualche sua inversione “romantica”, dove il “penso” universale e oggettivante lasci il posto a un ineffabile “penso” soggettivo. La riflessione batesoniana sui “filtri creativi” appare piuttosto coerente con il relazionale “penso dunque siamo di Heinz Von Foerster (1981). Dove ogni mio pensiero, senza cessare di essere “mio”, scaturisce dal mio essere parte di un processo mentale più ampio.”391 ..(…) 2.2.3 I luoghi, i modi e i contenuti della trasmissione Una Scuola dove gli “spazi pedagogici”, ovvero i “luoghi della trasmissione” favoriscono il contatto con la Vita: la Famiglia, la Comunità, il Territorio, la Milpa, il Focolare, il gioco, come possiamo vedere nelle due testimonianze sotto riportate, una del Popolo U’wa, un’altra ancora nelle parole di Antonio Paoli. “ I giochi tradizionali “ibita” ( in lingua U’wa) sono processi di apprendimento socioculturali dove la persona impara cose pratiche che gli serviranno nel percorso della vita. Sono attività dove si manifesta la spiritualità verso la natura. 388 Bateson, G. op. cit, p. 366 Manghi, op. cit, p.61 390 Bateson, G, Una Sacra Unità, Adelphi, Milano 2010, p. 347 391 Manghi, op. cit, p.61 389 168 Questi giochi si realizzano nella vita quotidiana e rimangono di dominio delle Comunità, come parti importanti del processo pedagogico proprio.”392 La Milpa, oltre ad essere un luogo Sacro dove si semina la Vita è “l’aula Magna” dei Popoli, un moltiplicatore di “buone prassi” riguardanti la conservazione e la trasmissione della saggezza ancestrale, dove piccoli e adulti, attraverso due principi cardine della loro trasmissione, Il gioco e l’“imparare facendo”, insegnano ed imparano quotidianamente in una dinamica familiare, comunitaria di “lavoro-gioco – autonomia” che perdura fino ad oggi, come testimonia Antonio Paoli.393 “ Il lavoro-gioco nella Milpa. L’educazione per diventare “p’ij yo’tan” o avere “unico il suo cuore394”. …(…) “Quando si educa un bambino nella comunità Tseltal, gli viene concessa un’ampia libertà. … (…) É frequente che suo padre lo inviti a lavorare nella Milpa e il bambino risponda: “ma’jk’an”. ( non voglio). Questo viene rispettato, perchè si considera che il bambino ha un diritto culturale a dire di no. In questo contesto, il padre deve attrarre l’attenzione dei suoi figli per riuscire a consigliarli e fargli capire che è un invito interessante ed attraente”. “Per fare attrattivo il lavoro della Milpa, il padre deve sedurre il bambino. Inventare cose, divertirlo, considerarlo. Non è questione di una giornata di lavoro pesante, è tutto una didattica che si prepara. …(…)… Il bambino non va alla Milpa come un bracciante di suo padre, lo scopo principale e imparare e condividere con suo padre, o più esattamente con “jMej Tatik” ( nuestras Madres-Padres395) e quindi implica che sia divertente, che abbia gioco, affetto e novità. Queste le parole di un bambino: “Quando stiamo con i nostri genitori nel lavoro della Milpa, sempre c’ il dialogo, le spiegazioni (“ k’optayel”), spiega Silvestre, l’insegnante ”396 - Il Cibo e la Semina Un altro aspetto importante da considerare è la connessione fra Spiritualità e Corpo attraverso il Cibo, una tradizione perpetuata dai Popoli che da sempre l’hanno ricevuto come un regalo della Madre Terra e l’hanno coltivato invocando gli spiriti della Luna, del Sole, della Pioggia, dei Venti. 392 Kajkrasa Ruyina., op. cit, p. 29 Paoli, A, Educaciòn, autonomia y lekil kuxlejal, op. cit, (la traduzione è letterale nella forma di parlare lo spagnolo di alcuni Popoli ed è responsabilità di chi scrive) 394 È un’espressione Tsotsil e Tseltal che fa riferimento al fatto che l’educazione è un processo che riguarda anche il Cuore. 395 Quest’espressione fa riferimento alle Forze creatrici sia da “ Padre-Cielo che della Madre-Terra” 396 Paoli, Antonio, op, cit, pp. 129 – 134 393 169 “Per questo motivo consumare il “pozol397” o qualsiasi altro alimento derivato dal mais è ritenuto importante affinché la persona abbia forza nel suo spirito. Come dicono in lingua: “ il mais ci riempi lo stomaco e da forza al nostro cuore”…(….) “Il Mais è concepito come simbolo del latte materno e sangue della Terra. Dal momento della nascita, il bambino è allattato dalla sua madre durante alcuni mesi, ma la Madre Terra ci allatta sempre. Da Lei prendiamo il liquido vitale fatto di acqua e Mais. Quella bibita bianca conosciuta come “pozol”. Si dice che il latte e il “pozol” siano sinonimi del sangue della Terra, così lo sentono i tseltales, come il sangue che dà vita. “Ancora oggi , nella cultura tseltal gli anziani hanno un ruolo speciale. Attraverso loro troviamo un significato speciale della Vita e dell’importanza del Cibo. Per loro non consiste soltanto in consumare gli alimenti, ma è importante capire e soprattutto rispettare la spiritualità della fonte da cui proviene l’alimento, affinché l’uomo e la donna abbiano una vita sana. ..(…) ..Per i tseltales, avere vita significa avere Mais, perché il Mais viene considerato superiore all’Uomo. Le ragioni per cui esiste questo pensiero sono diverse, ma la principale è che il Mais ha il suo proprio ch’ulel,398 (spirito in tseltal) perché quando le persone lo mangiano acquisiscono forza, sangue, corpo.” “Tortillas” preparate con i quattro colori naturali del mais (nero,bianco,giallo,rosso)399 397 Bibita tradizionale a base di mais, usata in molti riti e base della dieta alimentare dei Popoli Originari in Mesoamerica. Rimando al significato di Ch’ulel, esplicitato nel primo capitolo per esserci una differenza del significato in lingua tsotsil che viene tradotto come “Coscienza”. 399 Cortesia della Mensa Comunitaria “LaMilpa”, progetto di Economia Solidale gestito da donne di diverse Comunità a San Cristobal de las Casas, dicembre 2011 398 170 É da notare che questa è una visione condivisa anche con il popolo tsotsil di Huixtàn, la cui somiglianza ho ritrovato nella tesi di dottorato di Miguel Sànchez: “ nel mangiare il mais sia in forma di “tortilla”, “pozol” o “atole”, l’uomo si appropria dell’anima del mais, che in tsotsil vene detto: chich’be xch’ulel o chich’be yip. Si appropria anche dell’energia per avere forza, per cui non si può prescindere del Sacro Mais, perché da lui dipendono la Forza, la Salute e la Vita Umana.400” Infine, l’atto della semina come simbolo di Vita e dell’Alimento come rituale sociale che coesiona, tesse e unisce. Una dimensione che aiuta a ricordare le proprie origini, a rafforzare la propria identità, a riconoscersi in altri esseri umani e a condividere con loro la gioiosa condizione di reciprocità per mettersi in contatto con la propria memoria. “L’organizzazione dei primi lavori per la milpa è importante che ci sia la pace e l’unione in famiglia. Quando sta arrivando la data per la semina, le persone cominciano a preparare i semi, lavoro che deve essere fatto in luna piena (yij u) per assicurare un buon raccolto, altrimenti, le piante crezcono molto e diventano vulnerabili al vento e le pannocchie rimangono piccole. Ogni famiglia si ritrova per sgranare le pannocchie. Tutti i partecipanti devono farlo con molta tranquillità per avere cura del “ch’ulel” o spirito del mais, in modo che questo non si allontani dalla loro milpa, nella prossima semina, la cui data è già molto vicina….(…) È importante che i collaboratori alla semina, ma principalmente i padroni di casa, siano a digiuno , “xach’el k’al”, che letteralmente vuol dire “sollevare il giorno”. Questo digiuno è importante per avere un buon raccolto, considerando che il significato profondo e quello di “iniziare il giorno in pace con tutti”401 - I Riti Le ricorrenze in cui ogni Popolo celebra i sui riti sono innumerevoli e variegate. Nonostante ciò, mi soffermerò su una che reputo particolarmente importante per essere legata in modo molto profondo a quella dimensione “Territorio” di cui parlavo prima e che può essere un “comun denominatore” lungo questo percorso. Considero una cerimonia particolare legata all’intero ciclo agricolo, scandito nelle festività pre-coloniali in stretta sintonia fra il calendario agricolo e il calendario sacro. Faccio riferimento a uno degli elementi vitali, simbolo di Fertilità e Vita, diventato anche un 400 401 Sànchez Miguel. Tesi di dottorato, op.cit. Ivi, pag. 246 171 argomento che occupa grandi spazi in giornali e scenari politici, ma purtroppo, un poco meno nel nostro agire quotidiano: l’Acqua. Cerimonie al “OJO DE AGUA”402 In Messico Con questo nome è conosciuta la festa che con la colonia è diventata la festa “della croce”, celebrata il tre di maggio. In questa data ero all’UNICH, a San Cristobal de las Casas, e lì ho avuto opportunità di co-partecipare e promuovere la celebrazione. La cerimonia è stata anche uno esercizio pedagogico, in cui sia i “ceremonianti” che i docenti hanno dato alcune spiegazioni.403 “ Il “manantial” (la sorgente) , è sacra, i nostri nonni ci dicono sempre: non dobbiamo orinare dentro dell’acqua. Non dobbiamo fare l’amore dentro dell’acqua. L’Acqua è come il sangue della Terra, è anche sangue del nostro corpo. L’Acqua ha Vita, questo dicono i nostri Antenati, per quello si dice “L’occhi o d’Acqua”. Anche Lei, ha occhi, ha mani, ha piedi molto grandi, per quello va camminando nei sentieri dove scorre l’Acqua. L’Acqua è come un essere umano. Tutta questa filosofia, questa cosmovisione si sta perdendo fra i giovani. Vediamo per esempio che i fratelli Maya, facevano il rituali simile a questo, dove i quattro colori sono presenti: Il rosso dove sorge il sole. Il nero, in questo caso viola dove si occulta . Il bianco al nord e il giallo al Sud. Questo ha a che vedere con la Vita, con i quattro colori del mais: rosso, nero, bianco giallo. Il centro si concepisce come il Cuore della Terra e il Cuore del Cielo. Ma i riti che facciamo oggi in Chamula e altri popoli tsotsil del Chiapas, sono un po’ diversi, con la conquista si è tutto modificato e oggi c’è un miscuglio fra la cultura spagnola e la cultura Maya, a cui apparteniamo anche noi. Ma io Volevo soltanto spiegare questo perché non sarò io chi faccia la cerimonia. Come musicista della mia comunità accompagnerò con un poco di musica tradizionale.”404 Quanto spiegato da Andres, ci fa vedere un modo molto diverso di concepire l’Acqua. L’Acqua con uno Spirito proprio, una entità Viva, che ci può fare riflettere sulla categoria dell’Acqua “merce” o acqua “servizio”, per arricchire le lotte portate avanti in scenari diversi sulle rivendicazioni dell’acqua bene comune, e in un orizzonte allargato, quello di cui ho iniziato a parlare nel primo capitolo: “El Buen vivir”. Fa riferimento alla celebrazione alle sorgenti d’acqua. I registri video sono disponibili al link: www.youtube.com / YolandaAbyaYala / Tejiendo el Huipil /Ceremonia Ojo de Agua UNICH/ 404 Parole di Andres, studente tsotsil del municipio di Chamula, durante la celebrazione. 402 403 172 In merito il professor Miguel Sànchez, arricchisce le spiegazioni di “don405 Manuel”, el “rezador” che ha condotto la celebrazione: “Dobbiamo guardare che nel simbolismo è presente anche le quattro direzioni dell’Universo, nella cosmovisione Maya. La croce in un modo o nell’altro continua ad essere la rappresentazione dell’Universo, di questi quattro destini, a prescindere, tutti sappiamo che ci sia immerso in questo simbolo la questione cattolica. Quello che stiamo celebrando non è una questione di religione, è un ringraziamento alla Madre Terra, perchè senza di Lei, senza l’Universo non esisterebbero gli umani. E’ questa l’importanza e il senso di tutto quanto abbiamo fatto” La cerimonia prosegue, accompagnata dalla musica tradizionale che incorpora l’arpa come strumento. In questo senso, Andres, come musicista cerimoniale spiega che l’arpa è stata introdotta con la colonia, ma è stata modificata ed è diventata un’arpa che non si trova in altri Stati del Messico, ma che ha delle caratteristiche proprie del Chiapas. Don Manuel, celebra la cerimonia inginocchiato davanti alla croce, accompagnato di elementi rituali propri della tradizione Maya: l’incenso e il copal,406 e procede con gli atti classici della liturgia cattolica, con il segno della croce sulla fronte, mentre i fuochi di artificio fanno sentire la loro voce nel cielo e Lui, offre ai partecipanti il fumo dell’incenso come simbolo di purificazione. Finalizzata la cerimonia, Lucia, un’insegnante di lingua tseltal spiega prima in lingua madre e dopo in spagnolo, come viene realizzata la celebrazione nel suo Territorio: “noi abbiamo celebrato sabato scorso. La cerimonia è iniziata alle sei del pomeriggio, con una visita al “manantial”, dove sorge l’Acqua. Si visitano anche le grotte dove ci sono le cascate, luoghi che consideriamo hanno Anima. Si va visitando, camminando e questo camminare è accompagnato di musica con tamburi e flauti che è un modo di avvertire il luogo della nostra visita. Questo è molto importante. Come dicevo prima in tseltal, ai giovani qui presenti, magari riuscissero ad essere presenti nei loro Territori per imparare e valorizzare la tradizione, perchè lì risiede la nostra memoria.” Per chiudere la celebrazione, il professor Miguel Sanchez, traduce al spagnolo le spiegazioni date da don Manuel, precisando che tutto quanto è stato fatto riprende tutto quanto è stato detto durante le lezioni sul “Buen Vivir”, il Lekil Kuxlejal, in lingua tsotsil. Cioè sulle 405 406 Il termine “don”, è usato in segno di rispetto per le persone maggiori, non come in Italia per riferirsi al sacerdote. Resina di albero, color ambar, utilizzata dall’antichità nella ritualità Maya. 173 condizioni necessarie per vivere in armonia con la Terra, con l’Universo, per farsichè non abbia malatia, ne tristezza, ne invidia, ne egoismo. In somma, per stare bene con la Madre Terra e con noi stessi. “quello che ha detto don Manuel nella sua preghiera, è la petizione del “benessere”, inteso come “Buen Vivir”. Certamente Lui ha fatto una cerimonia mista con la religione cattolica e ha parlato anche di Cristo, ma noi sappiamo che è una celebrazione che facevano anche i nostri Antenati ed è in questo senso che oggi abbiamo fatto anche nella nostra lingua le proprie petizioni. Voglio dirvi che oggi sono felice di stare qui con voi, tutti insieme” Risulta evidente che abbiamo davanti una filosofia diversa di rapporto con la Natura, della quale prende forza la rivolta popolare che in Bolivia ha nutrito la rinomata “Guerra dell’Acqua di Cochabamba” quando nell’aprile del 2000 il governo legislazione sulla privatizzazione dell’Acqua, interrompendo il ha revocato la contratto con la multinazionale Bechtel. Riprendo le parole di Margherita Ciervo, per lasciare alle nostre riflessione, la responsabilità dell’agire quotidiano: È un caso che i conflitti idrici aumentino in maniera esponenziale e che il nuovo millennio si sia aperto con la guerra dell'acqua di Cochabamba.” 407 2.2.3.1 I Linguaggi della Trasmissione Uno degli aspetti più complessi del linguaggio dei Popoli Originari è la sua natura “proteiforme”, come visto attraverso i continui richiami per spiegare una singola “parola”. In merito riporto alcune delle caratteristiche del Popolo U’wa, da quanto mi viene spiegato da Josè Cobarìa, nonché da quanto riportato nel loro documento “Kajkrasa Ruyina.” “Noi, gli U’wa abbiamo diversi livelli di profondità del linguaggio, uno, usato d’accordo alla cerimonia o pratica spirituale. Per esempio nelle cerimonie del “Aya” ( il ballo in onore al Mais), il “reu’wa” (soffio di purificazione), proprio dell’igiene spirituale e corporale; il “basha” (digiuno del cuesco408), cerimonia per cominciare un nuovo ciclo di vita. L’altro, quel linguaggio per rapportarci con altri gruppi non U’wa e con le istituzioni dello Stato, dove viene usato il linguaggio comune: il “rioku”.409 Ciervo, Margherita, Geopolitica dell’acqua, Carocci. Roma 2010. Il Cuesco è una delle piante rituali del Polo U’wa, insieme al tabbaco e le foglie di Coca. 409 Kajkrasa Ruyina, op. cit, p. 31 407 408 174 Un altro esempio della complessità del linguaggio viene fornito dalla lingua Tseltal. Nel leggere l’elaborato di Teresa410, è importante riscattare il valore della parola nella sua integralità, ciò nel insieme di relazioni che coinvolgono Parola, Corpo, Mente, Spirito, Universo. Ho letto con grande attenzione la forma accurata con cui ha intrecciato ogni termine. Lei, avendo la padronanza della lingua, ci è riuscita molto bene e durante tutta la sua riflessione è stata attenta ad esplicitare le relazioni permanenti che si intrecciano e si concretizzano attraverso la parola in quella dimensione: Territorio “Il mais, nel pensiero Tseltal è l’alimento che più somiglia all’esistenza umana. Questa somiglianza va vista in due sensi: una, dal punto di vista della base alimentare, che in lingua tseltal è“we’el uch’balil bak’etalil” (cibo e bibita del corpo), dall’altro è considerata come parte dell’uomo, visto che il grano di Mais è sacro, per cui da forza alla Vita. In lingua tseltal, “yip k’inal o yip bak’et”. “ yip” significa “forza”, k’inal è “Terra o Territorio” e “bak’et” la “carne o il “corpo”, letteralmente: “ la forza della Terra o del Territorio. Quindi, se k’inal è territorio, mente e hábitat del kuxlejal o il vivire, allora il Mais è la forza, il complemento della Vita o Kuxlejal, per il mondo dei Tseltales”. - Il Silenzio, l’Ascolto e il Consiglio Altre forme di linguaggio importanti sono rappresentate da Consiglio . Linguaggi che danno origine alla : Il Silenzio, l’Ascolto, il “ Pedagogia del Consiglio” , un altro dei punti comuni a diversi Popoli, in questo caso cito di nuovo Antonio Paoli per fare riferimento al popolo Tseltal, ma lo ritroviamo più avanti anche come un punto cardine del Popolo Wayuu, attraverso la figura del “Palabrero”. “Quando un genitore riesce a far sicchè il figlio gli sia vicino e gli ubbidisca con piacere è considerato “p’ij yo’tan yu’u” , vuol dire che sa consigliare adeguatamente e compie il suo ruolo di educatore. Questo è un complimento molto importante, si dirà in questo caso all’interno della comunità: “te stat la stsits la lek te snich’an” ( Questo è un padre che sa consigliare molto bene suo figlio) Qualcuno che picchia frequentemente i figli sarà mal visto. La norma più comune è che quando il bambino sta abusando o facendo qualche danno la cosa migliore sia consigliarlo prima. (Se Teresa è Tseltal, neolaureata alla Facoltà di Lingua e Cultura dell’UNICH, con chi ho avuto l’opportunità di avere diversi colloqui, nonché avere acceso alla sua tesi di laurea. 410 175 un uomo conosce, sa spiegare e condurre adeguatamente i suoi, consiglierà bene suo figlio). Gli spiegherà col cuore sincero, con buon cuore, in un ambiente piacevole, in questo modo entrerà nel cuore di suoi figlio. Per tanto l’imposizione è contraria all’ideale dell’educazione Tseltal.”411 ..(…) Una Scuola che valorizza all’interno delle pratiche pedagogiche quello che in questo elaborato viene presentato come: la “Pedagogia del Silenzio”, la “Pedagogia del Consiglio”, alla luce di quelle forme di costruire e trasmettere la conoscenza già presentate nel capitolo due: “Imparare facendo” e “comandare ubbidendo” ma che scorrono lungo queste pagine, attraverso la narrazione di alcune esperienze specifiche. 2.2.3.2 Le età della Formazione “La Vita si caratterizza come un continuo processo di apprendimento. Vivere e apprendere sono tra loro così intrecciati e interconnessi da proporsi come termini costitutivi dell’esistenza. L’acquisizione della conoscenza e delle abilità di natura mentale e culturale è fondamentalmente per la sopravvivenza biologica dell’uomo: per vivere occorre “imparare a Vivere”.412 Questo “imparare a vivere” nella cosmovisione dei Popoli, come abbiamo visto, è un insieme di reciprocità e complementarità con l’Universo, dove le pratiche rituali sono la prima “lettera” di questo “alfabeto epistemologico”. Per questo ogni tappa di apprendimento è ben segnata di pratiche rituali specifiche, dove il Cibo ha un suo ruolo importante, come possiamo vedere attraverso le pratiche U’wa. Il processo di apprendimento negli U’wa, ma anche in altri popoli, inizia prima della nascita e non ha una fine ben precisa. Secondo gli insegnamenti del popolo U’wa i processi di apprendimento sono intimamente collegati con i periodi di digiuno, dove il Cibo ha una particolare importanza, perché deve essere rispettato il Cibo adatto ad ogni momento formativo.  “Il processo di apprendimento inizia dal momento della gestazione, tappa in cui la futura mamma inizia a consumare degli alimenti speciali per la sua cura e protezione. Al nascere questo piccolo essere ha la cura e protezione non soltanto di sua madre e la 411 412 Paoli, A. op. cit, pag. 129 Frabboni F. Pinto M., op. cit, p.63 176 sua famiglia, ma dell’intera Comunità di cui già  faceva parte dal momento del concepimento. “Al momento della nascita, si celebra la cerimonia del ajk shakina. ( purificazone/(protezione), la quale deve essere realizzata nei primi 15 giorni posteriore alla nascita o prima di compiere un mese. Il bambino si alimenta col latte materno fino ai quattro anni, con l’aggiunta di alcuni alimenti, sottoposti ad un rito  speciale di purificazione e senza sale”413 “Il processo di apprendimento delle autorità tradizionali, il “Werjayà” è molto lungo, sarebbe come l’equivalente di una specie di “Università” Occidentale, è un periodo di quattro anni. In questo periodo loro vivono isolati fra le montagne ed entrano in contatto soltanto con le autorità più anziane. Durante questi quattro anni non si tagliano i capelli e non possono consumare nessun alimento né salato nè cotto, mangiano prevalentemente Alimenti naturali trovati nelle montagne e Alimenti Rituali: “ tabacco, yopo, foglie di coca” e fanno anche un digiuno della vita sessuale ” 414  “Non saprei dire quando finisce il processo di apprendimento del Popolo U’wa. Perché noi riceviamo degli insegnamenti attraverso i sogni, e le persone che li trasmettono possono anche essere già morte. Per cui i nostri saggi, le nostre autorità continuano a guidare la nostra crescita spirituali anche dopo morti415” Per gli U’wa non è rilevante il numero di anni o l’età cronologica. Non è un fattore che genera dei limiti nello sviluppo della persona, le categorizzazioni che si rapportano nel documento del KajKrasa Ruyina, sono dei lineamenti presentati in modo di riuscire a spiegare il processo U’wa di crescita e il processo di insegnamento / apprendimento, secondo quanto mi conferma Josè Cobarìa.    “A partire dai tre anni, il bambino comincia a parlare (nel senso che riesce a comporre delle frasi e mantenere una conversazione)”. “Il bambino impara attraverso l’osservazione e l’imitazione, lo spazio in cui si svolge questo processo è la natura, il Territorio”. “Fra i 4 e i 7 anni, iniziano ad indagare attraverso l’osserva zone e la curiosità, condivisa fra gli stessi bambini. Successivamente iniziano a fare delle domande ai zii e ai nonni su quello che hanno osservato. Gli zii sono i portatori della conoscenza, sono i responsabili degli insegnamenti basici, fondamentali alla cultura U’wa. Questa è una 413 Kajkrasa Ruyina, op. cit, p. 34 Colloquio con Josè cobarìa. Docente U’wa, consultabile al link: www.youtube.com /YolandaAbyaYala/Pensamiento TerritorioMemoria/ Kajkrasa Ruyina/Pueblo U’wa/Josè Cobarìa Centro del Saber de Fàtima/. 415 Colloquio con Daris Marìa Cristancho, docente U’wa alla Scuola pubblica del municipio di Cubarà, consultabile al link: www.youtube.com/YolandaAbyaYala/Mujeres TerritorioCuerpoMemoria/ Pueblo U’wa/. 414 177 tappa di esplorazione da parte degli adulti per vedere sia le attitudini del bambino o la bambina, sia il loro comportamento con particolare riguardo ai rapporti sociali e ai  rapporti con la Natura”. “Fra i 7 e i 10 anni, è la tappa della “concretezza della realtà”, apprendono nella pratica delle cerimonie e i canti i concetti che hanno acquisito attraverso l’ascolto. In questo periodo sono molto importanti i rapporti con la Natura, i Sogni e gli Spiriti Sacri del Territorio, principali collaboratori in questo processo di sviluppo -  apprendimento” “A partire dei 10 anni, i bambini (ragazzi) condividono lo spazio con gli altri adulti della Comunità. Sono considerati già autonomi e hanno imparato i ruoli sociali  U’wa”. “ Un uomo si considera adulto quando sa lavorare nella chagra ( l’orto), sa costruire una casa, mantenere una famiglia e seguire le direttrici socioculturali. Una donna è adulta quando è pronta per contrarre matrimonio, dopo la cerimonia della “kòkora416”, cerimonia attraverso la quale è preparata per coltivare un campo, fare le pentole in terra cotta, preparare gli alimenti, curare i bambini e conoscere e seguire le norme della propria cultura”417 In merito alla forza della spiritualità U’wa, riporto di seguito l’intervista realizzata a una giovane U’wa418 che riconosce con profonda umiltà gli insegnamenti appresi da sua nonna, morta a 120 anni. La sua vita di studentessa universitaria in città, non è stato un motivo per nascondere o negare la sua identità o abbandonare le pratiche spirituali che li sono state trasmesse, nonostante alcuni membri della sua stessa Comunità li facciano pesare il fatto di essere “meticcia”. “Io sono U’wa, non importa che mia madre sia meticcia, ma mio padre è originario U’wa e sia come sia io sono U’wa e sento forte la mia identità U’wa. Questa forza c’è stata da sempre, anche se sono andata all’università, perché sono rimasta comunque molto vicina a mia madre e a mia nonna che è morta a 120 anni. Mia nonna ci ha lascito un legato matriarcale della sua saggezza. Lei era “Baukarinà”, cioè, una donna “Cacique” con molta forza spirituale. Lei custodisce il legame fra le divinità, è portatrice del messaggio divino che noi dobbiamo mettere in pratica. Da molto piccola ho sempre frequentato la nostra Comunità, ho ricevuto gli insegnamenti dagli anziani e 416 Fa riferimento al rito di passaggio durante il primo menarca Kajkrasa Ruyina, Op. cit, pp.34 a 36. 418 Aura Benilda Tegrìa Cristancho,giovane U’wa laureata in giurisprudenza. Intervista disponibile al link: www.youtube.com / YolandaAbyaYala / Jòvenes identidades de AbyaYala/Pueblo U’wa. 417 178 sia mia nonna che mia madre ci hanno inculcato sempre questo impegno per la diffesa dei nostri principi, dei nostri valori come popolo, per non lasciare perdere l’identità culturale. Io ho seguito i passi di mia nonna e sento molto forte questa responsabilità nel confronto del mio popolo e vorrei se ho dei figli che anche loro abbiano questo pensiero U’wa. I valori U’wa sono incorporati in quello che viviamo, nel come viviamo, in quello che siamo e quello che a futuro saremmo.”419 Aura ribadisce l’importanza della spiritualità attraverso le pratiche culturali di ogni cultura, sottolineando l’importanza di essa nel processo di trasmissione dei saperi tradizionali. “gli insegnamenti che ho ricevuti sono stati tramandati attraverso la spiritualità, per esempio il masticare “l’Ayo”, ci permette la connessione fra il nostro pensiero e il nostro cuore, e allo stesso tempo sentire questa connessione con la Madre Terra e in questo modo con tutte le divinità e il Tutto che ci sta intorno. È una forza spirituale, che si nutre anche con il digiuno e con le nostre piante rituali, ad esempio anche l’ “Orocobà”, che chiamano “tabacco”, per noi è molto sacro, noi lo mastichiamo, come l’Ayo. Un’altra pianta sacra è il Yopo, che si trova soltanto nelle comunità di pianura. Tutta questa forza spirituale, insieme agli insegnamenti dei miei nonni e l’esempio di mia madre mi sostengono in questa responsabilità che no nel confronto del mio popolo. Io ho sempre accompagnata mia madre negli spazi di lotta e di resistenza. Per esempio non so si sia stata una fortuna o meno, ma ero insieme a mia madre durante la nostra mobilitazione contro la “oxy” ( Occidental Petroleum Corporation). È stato alla fine degli anni ’90, quasi il 2000 quando più di 5.000 persone indigene e non abbiamo protestato contro la “oxy” in diffesa del nostro territorio e dei nostri diritti come popolo. In quella occasione ho vissuto da vicino la violenza contro il nostro Territorio. È stato un brutto momento perchè abbiamo perso delle vite umane. Ma in quel momento vedendo la forza de mia madre mi sono resa conto che le donne siamo importanti, siamo forti per la diffesa del nostro Territorio, è il Territorio che ci permette di identificarci come indigeni. Gli U’wa diciamo che per essere indigena sono imprescindibili due cose: il legato dei nostri Avi e il Territorio. Un indigeno senza Territorio non è un indigeno. Se non abbiamo il nostro Territorio, non abbiamo nulla. Questa convinzione, questi principi e questi valori li ho mantenuti non ostante i miei studi urbani. Non è stato facile come ragazza indigena socializzare sempre con compagni Occidentali, sia alla scuola che all’ università . All’università per esempio, l’unica ragazza indigena sono io. Ma io ho avuto sempre presente chi sono e dove voglio arrivare. È questo il punto in cui la connessione spirituale diventa importante. Non importa dove io sia a studiare, 419 Intervista realizzata in Territorio U’wa. Centro del Saber de Fàtima. Giugno 2012. – Traduzione letterale. 179 ho sempre mantenuta la connessione con la mia nonna che si prende cura di me, dovunque lei sia. Mantengo anche la connessione con le autorità tradizionali della mia Comunità che si prendono cura di me, mi mandano sempre “l’Orocobà soplado”420, fanno digiuno per me, per chiedere che non perda mai questo pensiero d’impegno verso il mio popolo, la mia Comunità” Sul fatto di avere scelto come studi giurisprudenza, Aura ci spiega le sue motivazioni. “Questo desiderio di studiare giurisprudenza c’è stato da quando avevo sei anni. In una delle grande assemblee della Comunità a Tamara , nella “Casa del Saber del Chuscal”, e in quel momento l’avvocato della Comunità, che aveva fatto l’università, è passato davanti a tutta l’assemblea spiegando come avvocato i problemi della Comunità. Io ho ascoltato con molta attenzione ed ero affascinata di ascoltarlo e l’ho ammirato molto e in quel momento ho pensato: “Così voglio essere io quando sia grande”. È sempre anche soci piccola ho accompagnato sempre mia madre in tutti i congressi a tutti gli eventi di decisioni comunitarie e questo mi ha dato molti elementi oggi per portare avanti la lotta e la diffesa per il territorio e per la nostra cultura.” Considerando la giovane età di Aura e la convinzione con cui porta avanti il suo lavoro professionale e Comunitario, ho chiesto un messaggio sia per i giovani dell’Abya Yala, sia per i giovani del mondo che hanno attraversato momenti di rotture identitarie, negando le loro origini. “Innanzitutto alle giovane e ai giovani indigeni direi che non si può negare quello che si è. Essere indigeni è un motivo di orgoglio, perché lo portiamo nel nostro sangue. Dobbiamo essere orgogliosi di avere un territorio, una cultura. Queste cose non si possono negare, sarebbe come negare di avere nonni o madre. Questo si chiama Identità, ed essere cosciente di quello che si è, diventa un motivo per sentirsi orgoglioso della propria cultura” Invece ai giovani Occidentali u Occidentalizzati “consumati” dal consumo, vi voglio raccontare soltanto che all’università dove vado, essendo l’unica ragazza indigena che va in quest’università privata dove ci sono ragazzi di famiglie con molti soldi, la differenza è evidente, anche perché io non ho mai negato di essere indigena. Loro, si meravigliano di vedermi sempre sorridente e felice. Non si lo possono spiegare e hanno finito per dirmi che ammirano molto la mia caparbietà. Ma loro, comunque non si spiegano come io possa essere cosi felice senza avere i soldi e le comodità che hanno loro. Io non so se mi possono capire, ma sempre ho detto a loro che io vado all’università a prendere 420 Il “soplo” (soffio” è una pratica rituale e di guarigione del Popolo U’wa 180 degli strumenti per lavorare con e per il mio Popolo. Ma che non per questo ho bisogno di negare chi sono. Che non tutto è soldi, che la spiritualità è importante, e che questa si porta dentro, nel cuore, che attraverso di essa possiamo esseri in connessione con la Madre Terra, e andare oltre l’ambito della materialità, che ci son ben altre cose importanti per lo spirito e che questo è il segreto della mia felicità” Aura Benilda mi ha autorizzato a rendere disponibile la sua intervista nelle rete sociali di internet, perchè reputa che sia un’informazione da fare conoscere al mondo, soprattutto ai giovani. Ma prima di salutarci mi chiede ancora di volere lasciare testimonianza di ringraziamento a due persone: “Voglio ringraziare due persone molto importanti per me. La prima mia nonna Vana, come detto prima Lei è stata “Baukarinà” e ci ha lasciato un gran compito prima di morire, ci ha detto che dovevamo impegnarci in questo grande compito della diffesa della cultura, e che così come Lei era stata “Baukarinà”, anche noi potevamo diventare delle donne sapienti. È questo per me è un messaggio importante. L’altra persona che voglio ringraziare è mia madre Daris Maria Cristancho, per essere la donna coraggiosa, guerriera che tanto ammiro; una donna che mi ha permesso di esserle vicino, accompagnandola in tutto il suo processo di diffesa. Lei mi ha insegnato che noi donne possiamo e dobbiamo affrontare la lotta perchè i nostri diritti non siano più vulnerati.”421 La testimonianza di Aura sottolinea uno dei punti comuni a tutti i Popoli: la valorizzazione delle persone anziane, ritenute le “biblioteche” dell’intera comunità, le quali vengono coinvolte con molta considerazione e rispetto nelle quattro dimensioni della Vita Comunitaria: Spiritualità, Educazione, Economia e Autogoverno, come ci confermano ancora le parole di David Choquehuanca Céspedes.422 “Dobbiamo approfittare ancora per leggere nelle rughe dei nostri “maggiori” , perché in esse riposano le nostre biblioteche viandanti, lì si custodiscono le esperienze e la sapienza per recuperare la Cultura della Vita.”423 421 Ibidem. Intervista consultabile al link: www.youtube/com /YolandaAbyaYala/Jòvenes Identidades de AbyaYala/ Aura BenildaTegrìa Cristancho/Pueblo U’wa. 422 Ministro de Relaciones Exteriores del Estado Plurinacional de Bolivia Parte de la ponencia presentada durante el Encuentro Latinoamericano “Pachamama, Pueblos, Liberaciòn y Sumak Kawsay. Quito 27 de enero 2010 423 181 2.3 MANIERA WAYUU DI APPRENDERE AD APPRENDERE “La scuola sta nella Vita e la Vita è la scuola, parte dall’osservare la quotidianità e il mondo dello trascendente per astrarre i processi che conformano l’educazione nella vita. Esiste un laboratorio prezioso e permanente: La Vita424 Autorità Wayuu425 con la “manta” y las “Waireñas”, vestito e sandali tradizionali. 424 425 Colloquio con Margarita Pimienta. Maggio 2012 Josefina Epiayù Epiayù. Riohacha Guajira – giugno 2005. 182 Nel concludere questo capitolo ho voluto portare come esempio concreto, l’esperienza del popolo Wayuu, nel processo di apprendimento/insegnamento. In questo senso, l’approssimazione per formulare un impianto teoretico dell’educazione nella vita, nel popolo Wayuu, ha come punto di partenza la connessione con l’esperienza, ovvero, la “Pedagogia della quotidianità.” “ L’essere wayuu si costruisce e ricostruisce attraverso la promozione dell’autonomia nella dimensione individuale e la libertà nella dimensione sociale; in un gioco di responsabilità indicate come processi endogeni di rafforzamento educativo e culturale, d’incontro della persona con se stessa, con il suo Io, che si sostiene in un sistema di valori che va indicando i limiti dell’autonomia e della libertà. I limiti dell’autonomia individuale e della libertà collettiva si riflettono nell’educazione nella Vita”.426 I punti analizzati fanno parte di quei sentieri del conoscere del popolo Wayuu, che Margarita ha voluto sintetizzare nella sua presentazione “L’Educazione nella vita: modi di insegnare e di apprendere nel popolo Wayuu”427 e riguardano i cicli di apprendimento iniziati dal momento del concepimento e che vanno oltre la morte, tenendo conto che anche i morti continuano a trasmettere la loro conoscenza, per esempio, attraverso i sogni. “Le sensazioni dirette e i concetti astratti che costituiscono parte della mia “realtà personale”, sono condivisi per molte altre persone appartenenti alla cultura wayuu. Per cui la dinamica di condividere quest’esperienze, fanno sì che la mia “soggettività” apparentemente personale, sia un fenomeno sociale, perché fra molti wayuu, immersi nella cultura si generano molte riflessioni riguardanti i modi propri di fare le cose e anche di educare ai bambini attraverso il fare. De lo stesso modo altrettanti wayuu, siamo negli scenari accademici impegnati in processi di ricerca riguardanti gli aspetti complessi dell’educazione propria428” La “metodologia” delle forme di apprendimento wayuu, si sintetizza nel “imparare facendo”. Una filosofia di lavoro che parte dalla consapevolezza che fra i modi più efficienti d’apprendimento c’è l’esperienza, l’azione, la vita, i fatti empirici, la vita quotidiana, il contesto, la sperimentazione, la prova e l’errore. Nell’ imparare facendo si mettono in 426 Colloqui con Margarita Pimienta. Maggio 2012. Margarita Pimienta Prieto, Tratto dalla sua relazione “Come s’insegna e come s’impara nel popolo Wayuu”, presentata al XIII Congresso della SOLAR. Cartagena, 12-14 settembre 2012, consultabile al link: www.youtube.com /YolandaAbyaYala/PensamientoTerritorioMemoria/ Margarita Pimienta: Manera Wayuu de Enseñar y Aprender/ 428 Intervista con Margarita Pimienta, maggio 2012 427 183 relazione azione e teoria, esperienza e saperi accumulati, ma la priorità ricade sull’azione e sull’esperienza. Segnata per la sua interdipendenza con l’ambiente, gli elementi materiali, gli esseri spirituali e la spiegazioni risultanti della relazione fra di loro si nutrono d’informazioni proveniente dalla mitologia e costituiscono i parametri per l’organizzazione sociopolitica e culturale del popolo Wayuu. In merito Margarita fa le seguenti precisioni:  “Credenze (anoujaa), sono importanti per la preservazione dell’equilibrio, sono state cimentate in riti la cui pratica sociale va oltre la percezione del mondo reale e si costituisce in una proposta di ordinamento dell’universo che mete in evidenza le rappresentazioni  custoditi nella memoria dei membri di questo popolo. “Organización sociopolítica. (wakua’ipa). Il popolo Wayuu è una società matrilineare, organizzata in 23 clan approssimativamente: Epieyuu, Uliana, Iipüana, Püshaina, Epinayuu, Apüshana, Juusayuu, Siijona, Ja’yaliyuu, I clan, funzionano come gruppi non coordinati di persone che condividono un ancestro mitico comune e una condizione sociale, ma non agiscono però come una collettività organizzata”.  “Relazione Mitologica. (jukua’ipa aküjuushi), ad ogni Clan, corrisponde uno o più animali che danno loro origine. Questi animali possono essere mammiferi, uccelli, rettili o insetti. Ad esempio, i membri del clan Uliana, sono associati al giaguaro e al coniglio. I simboli dei clan vengono utilizzati anche come marchio per il bestiame, per tatuaggi o  come disegni negli oggetti dell’artigianato tradizionale”. “Norme culturali del popolo wayuu. (jüchikua jukua’ipapala wayuu), tutti i popoli del mondo possiedono meccanismi di controllo sociale, ovvero un insieme di pratiche, attitudini e valori che tendono a mantenere l’ordine stabilito. Questo tipo di meccanismo viene esercitato dai popoli indigeni attraverso il diritto consuetudinario, il quale considera le norme tradizionali con valore culturale, non scritte, non codificate, ma mantenute nel tempo e trasmesse oralmente ai membri della comunità, per essere condivise e applicate al gruppo sociale”429. 2.3.1 Modi e momenti della trasmissione “Nascere, alla “nostra maniera” è un processo che comincia con “ a’imalaa” (la cura), componente affettiva, accompagnata dalla componente dell’oralità, le cui fondamenta sono: 429 Pimienta, Margarita, XIII Convengo della SOLAR a Cartagena, settembre 2012 184 “aapajaa” (l’ascolto), “kache’ewaa” (essere attenti), che vuol dire assumere in modo consapevole i contenuti della nostra cultura per modellare il nostro comportamento attraverso “akujaa” (la narrazione).”430 L’educazione nella vita è centrata sulla persona del bambino. Privilegia anche i ritmi di apprendimento del bambino, promuovendo già da bambini il “kiraa’injana tepichi’iwa’aya” ( l’abito di imparare a fare le cose) in stretta collaborazione con gli altri, bambini e adulti, cioè la predisposizione al “yanama” (il lavoro in gruppo). Con questo processo si spacca il rigore delle gerarchie, creando un contesto di formazione che riconosce le singole abilità, sviluppando così la capacità di fare effettiva la libertà del bambino in modo che possa privilegiare quelle abilità più note, orientando quello che in futuro può diventare la sua professione nella vita. Infine, l’educazione nella vita non è un metodo attivo, è una proposta educativa con le sue dinamiche proprie di riflessione e orientamento. Per quanto riguarda la lingua materna, il Wayunaiki, per i wayuu non è semplicemente la prima lingua o l’idioma con cui s’impara. È innanzitutto la lingua della conciliazione, quella con cui si possono esprimere meglio i pensieri, la conoscenza del Mondo, i saperi e i sentimenti, è quella che viene usata in scenari importanti come quelli della conciliazione “anajirawaa”, il “yanama” o lavoro comunitario, le “aküjaa” o narrazioni di miti, lo “achiawaa” o i consigli. In questi usi si racchiude tutto il contenuto della saggezza wayuu che esce dall’anima in forma di Parola. L’altra lingua ( in questo caso il castigliano), riesce soltanto a fare una “caricatura” del pensiero. “I wayuu impariamo il wayunaiki ascoltando giorno dopo giorno e ripetendo le parole che i nostri genitori ci insegnano finchè diventa un processo inconscio attraverso il quale si compie la trasmissione della lingua”431 Molti aspetti del conoscere della spiritualità wayuu rimangono nel segreto che custodiscono le menti e i cuori degli anziani e delle anziane sagge.432 “La spiritualità wayuu è collegata a una visione del mondo che risponde a interrogativi come: “da dove veniamo? Verso dove stiamo andando? Chi siamo Noi, i wayuu”. È collegata anche 430 Colloquio con Margarita nel Maggio 2012 Colloquio con Oscar de Luque, indigena Wayuu. Riohacha, giugno 2012 432 Colloquio con Margarita Pimienta, maggio 2012. 431 185 all’organizzazione sociale e familiare; alle forme di transumanza territoriale dei wayuu; ma sopratutto al wayuunaiki, la lingua, che agisce come veicolo di trasmissione dei simboli e delle rappresentazioni sia della vita quotidiana che della vita spirituale” 2.3.2 Processo di elaborazione della conoscenza Questa cornice concettuale genera una visione del Mondo del wayuu che permette di esserci intellettualmente qui e ora, nonostante manchi l’esercizio individuale in relazione con la vita materiale collettiva e con la vita trascendente. Per raggiungere questo obiettivo, la stessa cultura ha a disposizione delle azione pedagogiche che agiscono come dinamo dell’essere sociale wayuu, che vanno dagli atti meccanici o inconsci di qualsiasi attività della vita quotidiana, alle elaborazioni intellettuali più complesse. L’apprendimento è rappresentato da tutte le conoscenze che si acquisiscono a partire delle cose che avvengono nella nostra vita quotidiana. Questo apprendimento, avviene in tre forme diverse: “l’osservazione, l’esperienza, e l’istruzione” Tutte e tre conducono verso la preservazione e il prolungamento dell’espressione culturale propria, mostrando la relazione stretta ed essenziale fra i cicli di vita o tappe dello sviluppo wayuu. In questo punto gli approfondimenti con Margarita si riassumono in una sua elaborazione, sempre parte del documento presentato al convegno prima accennato: “La conoscenza nasce dall’osservazione (e’rajaa so’u), viene validata sul segmento della realtà dove sia necessario provare la sua autenticità, ma è con l’esperienza (o’ulakaa) dove si realizzano le pratiche di questa conoscenza sensibile, acquisita attraverso i sensi del udito e la vista. Le azioni pedagogico culturali attraverso le quali questa conoscenza viene mediata  sono: “Ashataa” (l’imitazione) che permette ai bambini di formare “immagini” della realtà, attraverso gli adulti. In questo processo, imita le azioni degli adulti, le trasforma in modelli di autoapprendimento che fanno possibile la creazione e ricreazione dell’universo che lo circonda. In questo modo inizia ad imparare le categorie concettuali, formate a partire da un  insieme di rappresentazioni definite come invisibili, immateriali, universali e essenziali. “Aapajaa” (l’ascolto), orienta il bambino nei cicli del dialogo. Nella cultura wayuu, ascoltare e sapere ascoltare è una capacità che si sviluppa dall’infanzia. È attraverso l’ascolto che s’interpretano le lezioni che nella quotidianità offre la natura. In questo modo si impara la  direzione dei Venti, il suono dell’Acqua, il linguaggio della Terra e la forza del Fuoco. “Koutaa” ( il silenzio), è un elemento importante della comunicazione, perchè “astuta”, ( il dire) ha i suoi limite per il Buon Vivere. In questo senso si tratta di capire il linguaggio del 186 silenzio attraverso modi e modelli di comunicazione che soltanto possono esseri ascoltati da coloro in grado di manifestare, senza bisogno della parola, i sentimenti che vogliono trasmettere.” Esiste una conoscenza inserita nell’essenza dell’essere wayuu, che permette di sentire quello che danneggia alle persone, alla natura e a tutto ciò che è vivente. Questa stessa conoscenza porta il wayuu ad avere una relazione forte e costante con l’Universo. Fra i valori della Natura, ce ne sono due che si completano a vicenda: kayaawasee (distinguere, differenziare, conoscere i segnali della Natura); oonowaa (fare attenzione ai segnali della Natura); quest’ultimo in intima relazione con a’imajaa (avere cura dell’ambiente). Per arrivare a questi stadi di coscienza, precisa Margarita, ci sono dei valori sia individuali che collettivi che la persona deve non soltanto rispettare ma soprattutto coltivare: “I valori individuali, sorgono dall’immaginario comunitario Wayuu e se mantengono a partire della pratica che ogni integrante del gruppo fa nella sua quotidianità. importanti sono: “kanüiki” (credibilità), Alcuni dei più “loto atuma sukua’ipa kasa” (responsabilità), “kojutaa amüin kasa” (lealtà), “laülawaa aa’in” (prudenza), “kachekalaa” (tolleranza), “yalayalaa” (coraggio) e “kaapüliraa” (decenza) . I valori colletivi, sono l’insieme delle pratiche individuali. Fra i più importanti abbiamo:“paa’inwaajirawaa”(solidarietà),“aleewajirawaa”(amicizia), kottajirawaa (socievolezza) kaliijirawaa (cooperazione ) e anajirawaa (essere pacati )”. . . L’Ascolto e la Pedagogia del Consiglio Quest’azione pedagogico culturale è per eccellenza uno dei metodi della trasmissione wayuu. Attraverso il consiglio s’insegnano e s’imparano i fondamenti dell’essere wayuu. Riguarda specificamente l’uso della Parola e le origini delle argomentazioni che serviranno per l’orientamento del comportamento dei membri della società wayuu. Le donne più anziane hanno il ruolo di fare “entrare in ragione” i loro maschi433. Un’anziana wayuu, presente in una conciliazione di una disputa, all’osservare che il palabrero inviato dal gruppo che richiedeva il risarcimento rifiutava di ricevere gli elementi consegnati dalla famiglia, pretendendo un risarcimento maggiore, si è tolta la collana tramandata da diverse generazioni e che custodiva gelosamente, aggiungendola agli oggetti, dicendo: 433 Ci si riferisce al marito, figli, fratelli, nipoti e tutti i maschi appartenenti alla sua cerchia famigliare. 187 “per la tranquillità di tutti i miei maschi, consegno questa collana. Come potete vedere – ha detto al palabrero - non rimangono più ornamenti sul mio collo che le vene della mia gola”434 Voglio riportare una delle prime conversazioni che ho avuto con Margarita, quando le ho chiesto se mi poteva parlare un po’ sulla sua ricerca di dottorato, visto che l’argomento della sua tesi riguardava proprio una delle domande della mia ricerca: “Come s’insegna e come si apprende nel popolo wayuu?”. Con voce molto delicata e con parole scandite, Margarita mi ha risposto pacatamente: “È un argomento lungo e assai difficile, lo sai bene anche tu. Per cui penso che la forma migliore per risponderti è attraverso una metafora. Ti sto dicendo esattamente quello che ha detto a me un anziano “palabrero”, quando ho rivolto a Lui, la domanda che mi fai tu adesso. Cioè come si insegna e come si fa ad imparare per diventare “palabrero”? L’anziano allora mi ha risposto: Vede, una volta mio figlio mi ha detto che voleva diventare “palabrero”, e che voleva che io gl’insegnassi. Ho chiesto diverse volte al ragazzo se fosse convinto di questo proposito e se fosse consapevole di quanta responsabilità implicava la sua richiesta. Lui ha risposto di sì diverse volte, per cui ho proceduto ad indicare la prima cosa da fare: Gli ho consigliato di andare a vivere da solo in un piccolo luogo del deserto e gli ho regalato alcuni animali cui badare, poi gli ho detto che poteva tornare da me dopo sei mesi. Così è stato. Il ragazzo è tornato dopo sei mesi e la prima domanda che gli ho fatto quando ci siamo salutati è stata: “Che cose hai ascoltato nella terra dove eri”? Lui, assai disgustato, mi guarda e risponde: “Ma che cosa vuoi che abbia sentito se tu stesso mi hai detto di stare da solo. Sono da solo con quegli animali che mi hai dato. Non ho sentito nulla. Non ho parlato con nessuno, per cui non ho nulla da raccontarti” Io lo guardai fisso negli occhi dicendogli di andare via di nuovo e ritornare dopo altri sei mesi. Così sono passati altri due incontri. Stessa domanda. Stessa risposta. Il ragazzo non mostrava però di essere disgustato davanti alla mia domanda e sembrava piuttosto preoccupato o incuriosito. Così, una volta tornato al suo pezzo di deserto, ha iniziato a riflettere sul senso di quella domanda e come mai io ancora dopo due anni continuavo a fare la stessa domanda. Così, dopo tre anni, alla mia domanda su cosa aveva ascoltato, e su cosa aveva da raccontarmi, ha risposto: “Soltanto ora ho capito la tua domanda. Adesso ho molte cose da raccontarti: ho imparato ad ascoltare il Silenzio. Ascoltando il Silenzio ho imparato ad ascoltare la musica del vento. La musica del Mare. Ho imparato a riconoscere i mie animali, dai loro passi, anche a occhi chiusi. Ho imparato ad ascoltare il mio silenzio interiore”. In quel momento il mio cuore era contento e gli ho 434 Colloquio con Margarita Pimienta, settembre 2012 188 risposto: “Adesso puoi diventare un “palabrero”, hai fatto la prima scuola. Anche se ci sono voluti tre anni per arrivarci, ma ci sei arrivato. Sarai un anziano saggio.435” 2.3.4 Il Ruolo della Donna nella trasmissione La persona wayuu è formata per realizzare il proprio progetto di vita, in questo modo viene preparata anche per vivere in società, per assumere delle responsabilità, per “maa akasaa’in sükua’ipa wayuu”, essere alla maniera wayuu, vuol dire affermare la propria appartenenza al gruppo e dare il proprio contributo nei processi di costruzione e de-costruzione dell’identità culturale. Inoltre orienta e direziona il processo all’interno del quale si costruisce un’identità di genere, riconoscendo l’individualità. Ci sono momenti per acquisire le abilità e le destrezze in relazione con lo sviluppo mentale della persona wayuu e ci sono i cicli di apprendimento, disegnati come processi con intervallo di tempo nei quali vengono sviluppate le abilità e le attitudini d’accordo con il ruolo, l’età o il genere. “Nella società wayuu la donna ha un alto livello di prestigio sociale, per questo ha la responsabilità di tramandare la cultura e l’identità sociale del gruppo familiare. Le persone si identificano mediante il clan della madre e non quello del padre come avviene nella società colombiana.”436 Oltre alla cura fisica e spirituale, nel periodo del menarca, le donne wayuu sono preparate per affrontare la vita, attraverso l’accumulazione del conoscere pratico, attraverso la metodologia del “aprender haciendo”, (imparare facendo) fra cui una delle più importanti: tessere. Tessere non soltanto “las mochilas” e il “chinchorro”, ma innanzitutto, tessere la Vita con la loro simbologia e rappresentazioni cosmologiche. “ Tessere la Vita guidate dalla saggezza delle anziane, che forniscono i punti di sostegno per nutrire dentro di sé l’autostima come donna, per far sì ché possa apprezzare se stessa ma possa apprezzare anche gli altri, con i principi e i valori di una cosmovisione propria che ha come punto di riferimento essere una vera donna wayuu, alla quale viene affidata la responsabilità della trasmissione e continuità culturale.”437 435 Colloquio con Margarita Pimienta. Gennaio 2012 Ibidem. 437 Colloqui con Margarita Pimienta. Gennaio 2012 436 189 Fin qui, tutto l’insieme che ho voluto chiamare la “Scuola Nella Vita”, il quale prende vita nella “Pedagogia del Silenzio”, la “Pedagogia del Consiglio” la Sacralità della parola. Tutti aspetti ampiamente illustrati nei capitoli precedenti, ma i quali, ci tengo ancora a sottolineare, sono insegnamenti che abitano la memoria collettiva e risiedono nel loro Territori, custoditi con cura dalle anziane e dagli anziani Savi, i quali costituiscono le “biblioteche” dell’intera umanità. Nel tentativo di rendere più comprensibile questo intreccio, TerritorioCorpoMemoria, come scenario dove la conoscenza si costruisce in questo Spazio pedagogico: la Scuola nella Vita, riporto di seguito uno schema rappresentativo, realizzato dal gruppo di studio dell’Università Intercultural Indigena del Fondo Indigena.”438 Vita Quotidiana – Modello di costruzione della conoscenza439 “Questo studio presenta il tipo di educazione endogena fra i popoli indigeni Centroamericani , dove si trova che il processo di apprendimento si dà attraverso l’esempio, i consigli, le leggende, le cerimonie e la metodologia dell “imparare facendo”.440 438 Fondo Indigena, Programa de Formación de Líderes Indígenas. Mòdulo de Espiritualidad, Conocimientos e Historia de los Pueblos Indìgenas de Abya Yala. Manual de las y los participantes, EIGPP, Escuela Intercultural de Gobierno y Políticas Públicas. Ediciones Plural, La Paz, 2008. 439 Ibidem. 440 Ibidem 190 “Il quadro sopra riportato di presenta diverse forme di apprendimento attraverso un sistema che comprende tutto il contesto come modello di conoscenza locale. La struttura e gli elementi del Corpo umano, la composizione famigliare, la vivienda (le case), la Comunità e l’Universo, queste sono le componenti della conoscenza locale. Attraverso i sensi – ascoltare, vedere, udire, sentire, odorare, toccare e assaporare –i principi della conoscenza vengono trasformati in realtà. Per esempio il concetto di bosco è soltanto un’idea fino a quando non si ascolta, si guarda, si tocca, si sente con il cuore, si percepisce attraverso i sensi o si assapora. Questo processo di conoscenza attraverso i sensi è già un sistema scientifico ( Saway:2004).”441 Ci troviamo, quindi, di fronte a una Scuola nella Vita che riconosce i processi educativi endogeni e le “pedagogie autotrofe” come ponte che possa unire la Cultura e la Scuola, armonizzando e riconoscendo i processi di Vita Quotidiana come elementi chiave nella costruzione della conoscenza dei Popoli. Di seguito il quadro , presentato nel modulo “Espiritualidad, conocimientos, e historia de los pueblos indigena de Abya.”442 Di queste “Pedagogie autotrofe” , proprie della Scuola nella Vita, ci parla Emilce Sànchez, attraverso la sua esperienza all’interno del corso di laurea in etnoeducazione dell’ Università della Guajira.443 “La visione e la nozione diversa di tempo e di spazio, proprio di ogni cultura, portano ad avere modi diversi di percepire il mondo e di conseguenza a realizzare pratiche quotidiane diverse. La diversità e la vita fanno vedere che le Culture sono organismi viventi che possiedono dinamiche complesse. La diversità Culturale si concretizza in lingue e in gruppi culturali, che, per quanto riguarda il caso della Guajira, sono stati inseriti in un solo modello educativo, imponendo linee di pensiero e di lavoro esterne che non riconoscono le dinamiche e la logica interna di ogni gruppo umano che abita questo territorio.” Quindi, si fa necessaria un’educazione che riconosca i processi educativi endogeni e le pedagogie autotrofe su cui essi poggiano. In questo orizzonte, l’etnoeducazione, come ponte che unisce la cultura e la scuola, armonizzando i processi di una e l’altra, ha definito l’etnopedagogia come la sua disciplina fondante.”444 441 Ivi, p. 33 Ibidem. 443 Emilce Sànchez Castellòn, docente dell’Università della Guajira e dottoranda in educazione all’Università di Cartagena. 444 Sànchez Castellòn Emilce, “Educación endógena y pedagogía autótrofa:acercamiento a un marco conceptual. Relazione presentata al XIII Congreso della SOLAR a Cartagena - Colombia, settembre 2012. 442 191 A modo di conclusione di questo capitolo e come richiamo ad una necessaria riflessione su quanto riportato nelle pagine precedenti, riprendo ancora un riferimento importante del pensiero batesoniano in merito all’apprendimento. “L’Apprendimento 3 sarà probabilmente difficile e raro perfino negli esseri umani. C’è anche da attendersi che sarà difficile per gli studiosi, che sono solo esseri umani, immaginare o descrivere questo processo. Tuttavia si pretende che di quando in quando qualcosa del genere accada in psicoterapia, nelle conversioni religiose e in altre sequenze in cui avviene una profonda riorganizzazione del carattere.”445 Su questa strada, e nel tentativo di intrecciare i fili attraverso i quali tessere questa grande “mochila” della saggezza dei Popoli dell’Abya Ayala, proseguo con l’invito rivolto da Manghi ai suoi lettori: “ Continuo infatti a sentire l’incontro con l’ecologia della mente come un incontro denso e laborioso. Da non tradire –da gustare, se possibile- nella sua laboriosa densità. Un incontro che non chiede soltanto l’usuale disposizione a conoscere per ‘analisi’, con il testo di fronte sé. Ma anche, insieme, una meno usuale disposizione a conoscere per ‘meditazone’, mettendo in gioco qualcosa di sé, come ha scritto Alberto Melucci “ la meditazione..(.) richiede precisamente questa disposizione a mettere in gioco qualche cosa di sé, della propria mente e delle proprie emozioni per riuscire a vedere ciò che è gia presente, ma che ci sfugge proprio perché e così visibile da abbagliare il nostro sguardo” ( Melucci, 2000, p.154.)”446 Infine, chiudo queste riflessioni intorno alla Scuola nella Vita, riportando le parole di Josè447, uno studioso non indigeno che ha dedicato gran parte della sua vita all’educazione ritrovando nelle sue riflessioni alcuni punti importanti che si collegano con il pensiero e il modo di costruire la conoscenza nei Popoli Originari. “Nell’educazione ho cominciato a lavorare da molto giovane, in alcune scuole del Sud di Bogotà. Diciamo che ho cominciato, più che per vocazione, obbligato dalle circostanze perché alle superiori ho dovuto assumere la responsabilità di seguire il programma di educazione per Bateson G., Verso Un’ecologia della Mente, op, cit, p. 348 Manghi, S. .La Conoscenza Ecologica, op, cit, Prefazione, p. X 447 Jose Santos è laureato in Filosofia all’Università “Santo Tomàs a Bogotà”. Studi di Filologia Classica a Roma e attualmente dottorando in Educazione. Docente all’Università Externado de Colombia a Bogotà. 445 446 192 adulti che allora cominciava nelle trasmissioni alla radio. Quindi, sono 25 anni che mi dedico all’educazione. In questo momento faccio il dottorato in Educazione, più con l’obiettivo di sistematizzare tutta la formazione che ho avuto in tema pedagogico ed educativo in generale. L’argomento della mia tesi è la “Competenza Comunicativa”, il mio interesse riguarda particolarmente il tema generale dell’argomentazione, le strutture argomentative dei discorsi. L’idea è trovare i modi di applicare queste competenze comunicative nell’ambito della cultura cittadina, in modo che le persone possano attraverso il dialogo arrivare a realizzare accordi negli spazi politici, economici, sociali.448” Per quanto riguarda la propria esperienza di lavoro con i Popoli Originari del Ecuador, Santos fa riferimento alla forma in cui viene eseguito il processo dell’argomentazione nelle dinamiche comunitarie e la gestione del consenso all’interno di questi popoli. “Dalla mia esperienza in Ecuador, sono rimasto particolarmente colpito dal modo in cui viene gestito l’uso della parola, degli spazi di dialogo a livello comunitario. Diciamo che non riesco a comprendere in profondità le loro dinamiche, ma dalle esperienze condivise con alcuni Popoli in Ecuador, vedo che sono molto efficienti perché riescono ad attivare la partecipazione di tutte le persone. In latino esiste un principio che viene usato anche dal diritto, che tradotto allo spagnolo sarebbe: “le persone devono dare la loro opinione quando qualcosa le riguarda”, più o meno, “quello che a tutti riguarda”. Questa è stata per me l’esperienza più interessante ma diciamo che non mi sono mai occupato di comprendere come siano le loro strutture di “gestione del consenso”. In ogni modo sono strutture che ancora oggi sono vive e di solito sono anche molto efficienti, nel senso che le persone partecipano, innanzitutto senza essere costrette a partecipare, ma allo stesso tempo senza essere escluse da questa partecipazione.” Sulle dinamiche riguardanti la partecipazione negli spazi di decisione, Santos esprime una sua valutazione. “Io penso che la maggior parte delle culture ha il problema dell’incapacità di capire le strutture dialogiche della Società. Oggi le persone tendono a partecipare molto poco alla vita comune e quindi - strutture accademiche comprese – l’Auditorium diventa un invitato di pietra. Ad esempio, molte volte invitano a riunioni per discutere su un argomento, ma le decisioni sono state preventivamente elaborate. Diciamo che questo sicuramente va bene sul 448 Intervista realizzata a Bogotà, 12 luglio 2012 193 piano dell’efficienza istituzionale, ma non per quanto riguarda l’implicazione e la partecipazione reale delle persone”. Per quanto riguarda la spiritualità, Santos fa riferimento a una specie di “religione popolare”, in questi termini: “C’è una cosa che mi ha colpito molto ed è la “religione popolare” che sarebbe un misto fra il discorso religioso e la spiritualità. Diciamo che nella città, la religione popolare integra una serie di elementi di altre culture, principalmente, nei casi che io conosco, delle culture orientali, tutto in una mescolanza armoniosa. Tuttavia, cercare di capire queste dinamiche diventa una questione abbastanza complessa per la maggior parte della gente anche se la maggior parte della struttura è cristiana. È una questione sulla quale ancora non ci sono studi o istituzioni che si dedichino a cercare di conoscere, ma soprattutto a capire, queste dinamiche. Per quanto mi riguarda attirano la mia attenzione per la loro complessità, le conosco, so che esistono, ma non le ho mai studiate perché mi rendo conto che non avrei gli elementi per farlo da solo, ci sarebbe bisogno di un gruppo interdisciplinare, con persone che abbiano delle competenze negli ambiti sociali e culturali più ampie delle mie. In termini d’identità, Santos definisce la situazione colombiana come principalmente meticcia. “Noi colombiani, nella grande maggioranza, difficilmente siamo di una cultura che non sia meticcia, di cultura pura forse possono parlare ancora alcuni popoli indigeni e alcune culture afro. L’altra parte, siamo meticci, non soltanto a livello culturale ma anche a livello razziale abbiamo delle mescolanze abbastanza profonde ed eterogenee. Nel mio caso personale, io sono originario della regione del Cocuy, e lì il processo di meticciato è cominciato prima che in altre regioni del paese. Per esempio già verso il 1600 esisteva un territorio completamente meticcio. Perché Guicàn è stata fondata nel 1542 quindi in 50 anni c’era stata già una grande fusione. In altre regioni le popolazione indigene sono riuscite a mantenere una certa distanza, e pian piano col trascorrere di uno o due secoli si sono mischiati, anche se come nel caso degli U’wa sono riusciti a mantenere la propria distanza e i propri spazi” Sulle diverse forme di costruzione della conoscenza e diversi linguaggi di comunicazione, Santos ci parla del linguaggio visuale e della scarsa importanza di questo come strumento didattico pedagogico nell’educazione formale. 194 “In questi ultimi studi comunicazione, di dottorato, mi sono occupato di indagare altre forme di perché le nostre comunicazioni sono, per la maggior parte, discorsive, concettuali e lineari, quindi nella mia ricerca ho studiato altre forme di comunicazione, ad esempio: il linguaggio cinetico corporale, il linguaggio della danza, della mimesi, ma anche il linguaggio visuale, e su questo argomento c’è un’autrice nordamericana, Linda Darly Williams, che è pioniera in questo tema. Ci sono altri autori che hanno scritto sull’argomento, ma sempre seguendo la linea della Williams, per esempio l’autore di “Il mondo in un tovagliolo”, che spiega le strategie del linguaggio visuale. Diciamo che è un campo ancora poco sviluppato e poco conosciuto dal punto di vista della didattica e della pedagogia, anche se grazie ad alcuni autori dedicati alla teoria di “Apprendere ad apprendere”, teorici del costruttivismo, la cultura visuale ha cominciato a prendere importanza, ma rimane ancora un aspetto marginale dell’educazione, quasi come un elemento esotico per la maggioranza degli educatori che non considerano che l’educazione visuale debba essere una parte integrante delle strategie del processo di apprendimento ma lo considerano soltanto una risorsa didattica. Contrariamente, dice Santos, il linguaggio visuale è uno degli elementi fondamentali nella costruzione della conoscenza dei Popoli Originari, aspetto invece non considerato, come spiegato prima, dall’educazione “ufficiale”. “Io penso che nella loro conoscenza ci sia un elemento forte : visuale e simbolico. Il loro pensiero è visuale e simbolico. Il problema del pensiero simbolico, a mio avviso, è che rappresenta un intreccio armonioso fra il livello “pre-concettuale” e il livello “concettuale”. Il pre-concettuale ha a che fare con l’esperienza, con il vissuto delle persone e l’esperienza del vissuto si esprime attraverso l’arte, l’architettura, cose che richiedono una elaborazione manuale e un livello di visualizzazione alto. Per esempio, las mochilas, (le borse indigene) sono una elaborazione che le artiste che le tessono hanno già introiettata in modo completo, hanno già un disegno nella mente, non è un’elaborazione per prove ed errori, come in un laboratorio, non funziona così. Quindi il loro pensiero è fortemente simbolico, è visuale. In questa prospettiva, forse, l’educazione che noi offriamo attraverso le istituzioni scolarizzate, tende a intrappolare in un pensiero lineare e concettuale che è estraneo alla loro mentalità, al loro modo di apprendere.” 195 Sulla possibile “struttura “ in grado di connettere i due pensieri, Santos ci parla dalla sua lunga esperienza come educatore negli scenari dell’educazione popolare, ma anche come accademico di una delle più prestigiose università della Colombia. “Per me, la struttura che connette i due pensieri è fondamentalmente mitica. Perché uno dei problemi delle società moderne è che non riconoscono che sono terribilmente mitiche. Esiste il mito del progresso, il mito della bellezza, il mito dell’informatica, il mito della tecnica. Non si rendono conto che tutto questo è un mito. Un mito, nel senso che è una struttura che spiega tutte le altre strutture, ma non spiega se stessa. Un mito è una parola che spiega le altre realtà della vita. Spiega altre forme di conoscenza, ma non spiega se stessa, non è soggetta al principio di verificabilità. Quindi il “ponte” è riconoscere l’importanza del mito, anche perché poche culture non sono mitiche.”449 Tessitura della Grande “Mochila” della Saggezza U’wa al “Centro del Saber”. Giugno 2012 449 Ibidem. 196 “Chipire”450 450 Per la maggioranza dei Popoli la tessitura della Vita è rappresentata dalla tessitura della “Mochila ed è attraverso quesa tessitura che le donne hanno tramandato da generazione in generazione la loro Memoria., così il “Chipire” rappresenta l’inizio della trama della Vita. 197 CAPITOLO TERZO LA SCUOLA UFFICIALE IN AMERICA LATINA FRA STRUTTURE COLONIALI E AUTONOMIE INDIGENE “F. _ Papà, perché non usi gli altri tre quarti del tuo cervello”? “P._ Ah, sì ..già .. vedi, il punto è che anch’io ho avuto degli insegnanti a scuola. E loro hanno riempito circa un quarto del mio cervello di fumo. Poi ho letto i giornali e ho ascoltato quello che dicevano gli altri, e così mi son riempito di fumo un altro quarto.” “F._ E l’altro quarto, papà”? 451 P._ Oh .. quello è il fumo che ho fatto da me quando ho cercato di pensare da solo ” Premessa Parlare della Scuola Ufficiale in America Latina implica un percorso obbligato attraverso la memoria dei Popoli e degli Stati che la compongono. Cercherò quindi di rintracciare alcuni dei passaggi storici in cui la scuola ha avuto un ruolo importante nel processo di dominazione, diventando punto comune a molti dei Popoli che ancora oggi riempiono questo “contenitore” chiamato “America Latina”. Questo passaggio implica anche il prendere in considerazione alcune delle strutture di potere coloniale che hanno anticipato il ruolo della scuola e attraverso le quali si sono consolidati i presupposti culturali del pensiero dominante. Riportare in queste pagine 520 anni di storia è un obiettivo improponibile, perciò il mio tentativo, da una parte, è quello di riprendere alcune testimonianze che possano aiutare a capire il ruolo che la scuola ufficiale ha avuto nelle strategie di dominazione nei confronti dei Popoli Originari; dall’altra fare un passaggio attraverso le dinamiche di “globalizzazionemodernità” nel contesto latinoamericano, attraversando in questo modo le proposte che a livello educativo si sono attivate nei diversi Stati Nazione dell’America Latina. Considero, quindi, in una prima parte certe caratteristiche che ritengo fondamentali per spiegare il riferimento all’America Latina, come “Contenitore”. In seguito mi occupo di quelle strutture che prima della scuola sono riuscite a sgretolare le strutture precoloniali 451 Bateson, Gregory, Verso Un’ecologia della Mente, Metalogo “Quante cose sai?”, op, cit, p.57. 198 esistenti in lungo e in largo nel continente: in primis, la dominazione attraverso la religione cattolica, seguita dallo sfruttamento dei Territori, due degli elementi che fanno da filo conduttore per analizzare le condizioni in cui nasce la scuola ufficiale nel contesto coloniale. Infine, traccerò un breve percorso attraverso le strategie politiche che i diversi governi hanno avviato con la scuola per promuovere quello che Bonfil Batalla ha chiamato la “desindianizaciòn”452, fino ad arrivare alle proposte della famigerata “Educazione Interculturale Bilingue”. . )L CONTEN)TORE C()AMATO AMER)CA LAT)NA Fonte: Unicef – FUNPROEIB-Andes453 452 453 Parola usata dall’antropologo Bonfil Batalla. Documento Unicef-PROEIB-Andes. www.proeibandes.org/atlas. 199 Quando mi riferisco all’America Latina come “contenitore”, voglio indicare l’impossibilità di parlare di una “identità” o di una “cultura latinoamericana”, se si considera la complessità culturale e linguistica che la compongono. “In America esistono attualmente 522 popoli indigeni che vanno dalla Patagonia e l’Isola di “Pascua”, fino a “oasisamerica” nel Nord del Messico, passando per diverse aree geografiche come il Chaco, l’Amazzonia, l’Orinoquia, le Ande, la Pianura della Costa Pacifica, i Caraibi continentali, la Bassa Centroamerica e Mesoamerica. A livello dei diversi paesi, il Brasile è quello con la più alta diversità di popoli indigeni, con 241, che rappresentano una popolazione di 734.127 persone. La Colombia è il secondo con 83 popoli (1.392.623 persone, seguito dal Messico con 67 popoli e 9.504.184 persone e il Perù con 43 popoli e 3.919.314 persone indigeni. Nell’altro estremo si trovano il Salvador, con 3 popoli indigeni (13.310 persone), Belize con 4 popoli (38.562 persone) e y Suriname con 5 (6.601 persone) Nel caso del Caraibi insulari, come sono le isole di Antigua e Barbuda, Trinidad y Tobago, Dominica y Santa Lucía, ci sono pochi dati sulla sopravvivenza dei popoli nativi. Dall’altra parte, Bolivia, Guatemala e Belize si caratterizzano per essere i paesi in cui la popolazione indigena rappresenta la percentuale più alta fra il totale di popolazione dell’intero paese con il 66,2%, il 39,9% e il 16,6% rispettivamente. Invece, paesi come Il Salvador, Brasile, Argentina, Costa Rica, Paraguay e il Venezuela, registrano una bassa percentuale di popolazione indigena (fra il 0,2% e 2,3%). Nonostante nella maggioranza dei paesi lationamericani la popolazione indigena vada dal 3% al 10% del totale dei cittadini. Il Messico, la Bolivia, Il Guatemala, Il Perú e la Colombia riuniscono l’87% degli indigeni dell’America Latina e dei Caraibi, con una popolazione intorno ai 9.500.000 (in Messico) e un minimo di 1.300.000 in Colombia. Il rimanente 13% di popolazione indigena risiede in 20 Stti diversi. Ci sono cinque popoli con diverse migliaia di persone come i Quechua, Nahua, Aymara, Maya yucateco y Ki’che’, così come altri sei, i Mapuche, Maya qeqchí, Kaqchikel, Mam, Mixteco y Otomí,con popolazioni fra 500.000 e un milione di abitanti. Secondo i censimenti elaborati tra il 2000 e il 2008, il totale della popolazione indigena in America latina è di 28.858.580, di fronte a un totale di popolazione di 479.824.248 persone. Ciò significa una percentuale di popolazione indigena identificata, del 6,01%.”454 Le testimonianza e le citazioni qui riferite non seguono un criterio strettamente cronologico o di maggioranza numerica, ma sono state scelte per cercare di avvicinarmi ad alcune situazioni che ritengo significative, e che penso possano servire come chiave di lettura 454 Ibidem 200 sull’argomento delle politiche educative e del ruolo della scuola ufficiale nel contesto latinoamericano. Tuttavia, mi rammarica non riuscire in questo elaborato a prendere in considerazione la storia delle dittature, delle democrazie tanto contestate in alcuni paesi, delle resistenze, dei conflitti armati all’interno dei singoli Stati, delle situazioni di violazione dei diritti umani a livello della popolazione in generale, ma che secondo i rapporti di tutte le agenzie internazionali, colpiscono in maniera molto particolare i Popoli Originari, nonostante molti di questi paesi abbiano ratificato strumenti del diritto internazionale, fra cui la Convenzione 169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), del 27 giugno 1989. “ Per quanto riguarda il riconoscimento legale dei diritti ai popoli indigeni in America Latina, ci sono stati alcuni cambiamenti significativi. Una dozzina degli Stati latinoamericani hanno ratificato la convenzione 169 della OIT455 (Argentina, Bolivia, Brasil, Colombia, Costa Rica, Ecuador, Guatemala, Honduras, Messico, Paraguay, Perú e Venezuela). Inoltre quasi tutti gli Stati parte hanno realizzato riforme costituzionali e legislative, che incorporano disposizioni relative ai popoli indigeni. Tuttavia, la regione deve ancora affrontare grandi sfide nell’adempimento della convenzione, in modo che possa assicurare la partecipazione dei popoli indigeni e l’accesso reale ai diritti lì riconosciuti”456 Riporto ancora alcuni dati orientativi nel tentativo di dare una panoramica generale, scusandomi di nuovo, se nell’insieme possono sembrare superficiali, non avendo lo spazio per soffermarmi su un’analisi accurata della situazione dei diritti umani in ogni singolo paese. Dibadisco,però, l’intenzione di aprire uno scenario che possa permettere di capire la ricchezza culturale e linguistica e culturale sulla quale si sostengono i pilastri della conoscenza dei Popoli originari di questo continente, che per 520 anni hanno resistito da una parte alle politiche scolastiche di stampo coloniale, dall’altra alle politiche economiche neoliberiste attraverso i programmi di “sviluppo” come risulta da alcune testimonianze. Per rigore metodologico devo esplicitare che i dati riportati possono divergere dalle cifre di altre fonti, questo è dovuto al fatto che non sempre i singoli governi hanno aggiornato le statistiche ufficiali, oppure sono informazioni che vengono manipolate secondo le convenienze politiche, in genere le informazioni delle ONG, delle stesse organizzazioni indigene o quelle degli organismi internazionali di tutela alle popolazioni indigene non coincidono quasi mai con quelle dei governi. 455 456 In spagnolo ( Organizaciòn Internacional del Trabajo - OIT) OIT / Amèrica Latina. www.ilo.org 201 È evidente che in questo elaborato risulta impossibile dare conto di tutte le dinamiche degli scenari dell’intero continente. In tale prospettiva, nel tentativo di rendere un’idea di questa complessità, riporto alcune considerazioni, anche se, come indicato nel capitolo iniziale, non mi soffermerò su dati statistici o analisi quantitative. “In America Latina convivono una grande diversità di popoli indigeni. Secondo la CEPAL 457 (2006), nella regione esistono approssimativamente 642 popoli indigeni, con una popolazione fra 30 e 50 milioni di persone. In paesi come la Bolivia e Guatemala, gli indigeni costituiscono la maggioranza della popolazione. In Messico, anche se non sono la maggioranza, sono intorno agli 11 milioni di persone. I popoli indigeni preesistono agli Sati in cui vivono e, nonostante le politiche di sottomissione che hanno sofferto, mantengono e ricreano ancora la loro identità, i loro idiomi, le loro culture e i sistemi di organizzazione sociale, giuridica e politica, o almeno gran parte di essi. La storia del continente ha le proprie radici nella base culturale e sociale dei popoli indigeni. Nella maggioranza dei casi, per il passato coloniale e le politiche di assimilazione e d’integrazione (nonostante le differenze fra ogni Stato) i popoli indigeni condividono gli stessi problemi strutturali: esclusione, spoliazione dei loro territori, sfruttamento nel lavoro, l’annientamento dei loro idiomi, norme e istituzioni, nonché la discriminazione. Tutti questi problemi rappresentano pericoli imminenti per i loro sistemi culturali e per le loro forme di vita e in alcuni casi, anche per la propria esistenza.”458 Anche lo studio realizzato dal PROEIB-ANDES459 dà conto della complessa realtà “latinoamericana.” “La presenza indigena viene riconosciuta nella regione, a eccezione dell’Uruguay, dal Sud del Rio Bravo fino alla Terra del Fuoco, con una popolazione superiore al 10% del totale della popolazione latinoamericana, intorno a 40 o 50 milioni di persone. Per cui il discorso della “hispanidad” e della lingua comune, deve quindi essere considerato alla luce della realtà politica, economica, sociale e linguistica dell’attuale America Latina. Questo è un dato di fatto anche se la presenza indigena non è uniforme in tutte le sub regioni o Stati latinoamericani. Alcuni paesi come Argentina, Brasile, Colombia, Costa Rica, Guyana Francese, Venezuela e Paraguay, la popolazione indigena non supera il 5% della popolazione totale di ognuno di questi paesi. Malgrado in altri, come il caso del Guatemala, Bolivia, Perù Comisión Económica para América Latina y el Caribe (CEPAL), organismo dipendente dall’ONU, responsabile di promuovere lo sviluppo economico della regione. 458 OIT. Organizaciòn internacional del trabajo / America Latina. www.ilo.org . La traduzione è responsabilità di chi scrive. 459 El Programa de Formación en Educación Intercultural Bilingüe (PROEIB Andes) es un proyecto regional andino que, con el apoyo de la Cooperación Técnica Alemana (GTZ), inicio sus actividades oficialmente en 1996. 457 202 ed Ecuador, in questo ordine, la popolazione indigena costituisca vere maggioranze nazionali, dal punto di vista politico e sociale sono definite: “minoranze etniche”, cosa veramente paradossale se si considera che in Guatemala e in Bolivia, la popolazione indigena rappresenta quasi il 60% del totale della popolazione. A questo elenco potrebbe aggiungersi il Messico, considerando, da una parte la preponderanza quantomeno ideologica e discorsiva che la “questione indigena” ha avuto nella costruzione dell’identità nazionale messicana, dall’altra la vitalità e la presenza indigena in alcune regioni del paese. Questo panorama così ampio nonché complesso, presenta alcuni interrogativi dal punto di vista educativo, considerato fino ad oggi come “nazionale”, senza prendere in considerazione il fatto che uno stesso Popolo indigeno può abitare in due Stati differenti.”460 . . Uruguay: Paìs sin )ndios Vorrei dedicare alcune righe per approfondire il caso dell’Uruguay, uno degli Sati del continente che non ha ratificato la convenzione 169 della OIT (Organizzazione Internazionale del lavoro) e nessun altro Strumento del diritto internazionale riguardante le popolazioni indigene. Questo fatto mi ha incuriosito, dal momento in cui durante il mio periodo di ricerca in Messico, in occasione del II corso di “ Fortalecimiento del liderazgo de mujeres indigena”, realizzato dall’Università Indigena Interculturale del “Fondo Indigeno” e dal Centro de Investigaciones y Estudios Superiores en Antropologìa Social(CIESAS), fra novembre e dicembre del 2011, ho avuto l’opportunità di conoscere Monica Michelena, appartenente al Popolo Charrùa dell’Uruguay. Nel seguire le tracce di questa situazione, in Uruguay, ho avuto l’opportunità di intervistare in Uruguay alcune persone, anche se, tranne i diretti protagonisti, in pochi conoscono o hanno voglia di parlare dell’argomento, (al limite i tifosi di calcio che parlano della “garra charrùa” (grinta charrùa), ampiamente diffusa anche in televisione, ma i più giovani non mi hanno saputo spiegare da dove potesse provenire quest’espressione). Il primo luogo dove mi è venuto in mente di andare a cercare qualcosa in merito, visto l’argomento di cui mi occupavo, è stato la “Facultad de Humanidades y Ciencias de la Educaciòn de la Universidad de la Repùblica de Uruguay” ( UDELAR). Lì ho avuto la 460 Organización de Estados Iberoamericanos (OEI), La educación intercultural bilingüe en América Latina: balance y perspectivas, Revista Iberoamericana de Educación, publicación monográfica cuatrimestral, No. 20 Mayo –Agosto 1999 www.rieoei.org/. 203 possibilità di parlare con il professore Luis E. Behares461, a cui ho chiesto notizie sulla presenza indigena in Uruguay, e nello specifico, se potevo trovare studi sul popolo Charrua. Lui, davanti a Monica Michelena che a sua volta era interessata a parlare con lui, in quanto Dottore in linguistica, mi ha detto quanto segue: “In Uruguay non esiste popolazione indigena. Siamo un paese senza indigeni. Abbiamo popolazioni “transumanti” che è diverso. Qui non esistono indigeni perchè sono stati eliminati. Prima le persone, poi le culture. Prima dagli spagnoli, poi dai successivi governi nazionali. Ci sono alcuni Guaranì che si trovano nella provincia di Paysandù, ma non hanno un territorio fisso, sono “transumanti” fra l’Argentina e l’Uruguay, non sono uruguayani. Non esistono popolazioni indigene perché non le abbiamo conosciute. Non esistono ricerche a livello accademico e non esiste un riconoscimento da parte dello Stato Nazione. Non sappiamo niente perché le ricerche scientifiche arrivano fino a dove la realtà lo permette. Quello che potrebbe esistere potrebbe essere una costruzione simbolica e mitologica, e di queste l’America Latina ne è piena. Non esiste una comunità Charrùa organizzata, non esiste la lingua Charrùa, non esiste un territorio Charrùa. Quello che esiste sono discendenti di quarta o quinta generazione che vorrebbero essere Charrùa, ma vivono nella città e non hanno né il territorio né la lingua. Parlare di recupero della lingua è un discorso, è una cosa quasi impossibile, perché le lingue esistono se esistono, non è una questione di riconoscimento. Quindi non ci sono dati, ci sono sentimenti, desideri di essere, e questo è una cosa diversa. Esistono invece altre comunità organizzate, che fanno comunità, ad esempio i “gallegos”, i negri brasiliani, i tedeschi, gli italiani. Qui si può parlare di comunità. Vi potrei anche dire che quando si sente parlare dell’ “Unione Europea” e andiamo in Europa, ci rendiamo conto che quest’unità non esiste. Vivere in Uruguay è sentirsi più europeo che vivere in Europa. Qui c’è l’Europa. Per cui la vera frontiera culturale dell’Uruguay è il Brasile, lì esistono i gruppi etnici, ma sulla frontiera ci troviamo con chi parla il portoghese che è una lingua viva. Il discorso è lungo, si dovrebbe entrare in un discorso sulla cultura materiale e la cultura immaginaria. Per parlare di cultura ci sono due elementi scindibili: Alimentazione e lingua. Due aspetti fondamentali nella vita di una cultura: Cosa mangio e cosa parlo”462 461 Doctor en Ciencias por la Universidade Estadual de Campinas (UNICAMP), Licenciado en Letras con Especialización en Lingüística por la Facultad de Humanidades y Ciencias (UdelaR, Uruguay). Actualmente se desempeña como Director del Departamento de Psicología de la Educación y Didáctica, en la Universidad de la República y como Profesor Adjunto del Instituto de Lingüística. 462 Colloquio con Luis E. Behares. Montevideo, 29 marzo del 2012. 204 Dopo questa dichiarazione ho chiesto anche alle persone comuni cosa pensassero sull’inesistenza del popolo Charrùa e fra qualche risposta razzista e qualche altra con certo rammarico, preferisco riportare una testimonianza che mi ha particolarmente colpito: “Noi, uruguayani siamo un popolo originario delle barche. Siamo un popolo senza una cultura propria. Quando alcuni si sentono orgogliosi nel dire che l’Uruguay è un paese senza “indios”, io provo vergogna. Provo vergogna perché è stato un genocidio. Io sono figlio del popolo delle barche, di immigrati europei arrivati in queste terre.463” Sono stati pochi i giorni in Uruguay, ma sono stati sufficienti a confermare con qualche sguardo di tristezza, questa realtà. “Fructuoso Rivera464 e il genocidio charrùa: Nel 1831, l’11 aprile, cinquecento Charrùas sono andati all’appuntamento, sul ruscello “Salsipuedes”, limite attuale fra i dipartimenti di Paysandù e Tacuarembò, a cui li aveva convocati il presidente Rivera con il pretesto di andare a recuperare il bestiame che era rimasto in territorio brasiliano dopo la guerra. Lì lo stesso presidente, dopo averli invitati a smontare dai loro cavalli e a lasciare le loro armi, successivamente ordino l’attacco contro i Charrùa disarmati.”465 Tuttavia, avere avuto opportunità di condividere con Monica la propria storia e avere le sue testimonianze, vedere i giovani che con impegno e convinzione cercano fra le ceneri le tracce della loro identità e condividere con le donne dell’UMPCHA ( Union de Mujeres el Pueblo Charrùa) i riti di quella luna piena di aprile 2012, pratiche attraverso le quali richiamo la loro memoria ( OYENDAU), mi ha veramente rincuorato. A continuazione riporto alcune testimonianze avute nei colloqui con Monica, nonché alcuni paragrafi del lavoro di ricerca da lei eseguito e presentato come borsista nel corso: “Diplomado para el fortalecimiento de liderazgo de mujeres indìgenas de la Univesidad Intercultural Indigena del Fondo Indigena”, nonché a New York, nella XI sessione del Foro Permanente dei popoli indigeni466, altre testimonianze riguardanti altre persone a cui ho avuto l’opportunità di intervistare possono essere viste al link sotto riportato.467 Colloquio con “Pancho”, Cabo Polonio Uruguay. Marzo 2012 Rivera, è stato il primo presidente della Repubblica del Uruguay. 465 Antòn, Danilo, Amerrique. Los huèrfanos del paraìso. Piriguazù, Montevideo 1998, pp. 172 e 173 466 Michelena, Monica. Per guardare il video dell’intervista realizzata a New York, in maggio 2012, consultare http://www.youtube.com/ (Entrevista a Monica Michelena, representante del CONACHA (Consejo de la Naciòn Charrùa). 467 www.youtube.com / YolandaAbyaYala / Mujeres TerritorioCuerpoMemoria./Monica Michelena/Pueblo Charrùa. 463 464 205 “L’Uruguay percepisce se stesso come un “pais sin indios”, a causa del massacro del Popolo Charrùa a ( Salsipuedes), perpetrato dallo Stato uruguayano nel 1831; fatto che ha quasi eliminato totalmente la popolazione e la cultura Charrùa; la quale è rimasta nella clandestinità, indebolita e praticamente resa invisibile. In seguito a questo genocidio, la storia nazionale, delle elite, ha voluto occultare l’esistenza del Popolo Charrùa negando il pluralismo culturale del paese e istaurando un immaginario omogeneizzante . Tuttavia, oggi, si vive un processo di risorgimento del Popolo Charrùa, dove la donna ha avuto un ruolo importante nella fase di recupero della cultura e la lotta dei diritti indigeni.” “questo lavoro di ricerca è il tentativo di riportare tutto ciò che noi donne Charrùa abbiamo fatto per recuperare la nostra cultura e la nostra identità. Una specie di memoria “Oyendau468”, del percorso che abbiamo fatto e sul quale potranno poggiare le future generazioni per continuare con questo processo. È come un grande “quillapí” 469 della memoria. Il “quillapí” è un’espressione della cultura Charrùa, una mantella di pelle che viene elaborata con piccoli pezzi che si dipingono e dopo si uniscono. È fatto dalle donne in forma collettiva. Inoltre è anche un’espressione della Cosmovisione, perchè ogni simbolo che viene dipinto, ha un senso, non è soltanto un elemento decorativo. Chi porta il “quillapì” è protetto col mantello della Cosmovisione, questo è il suo potere.”470 La ricerca presentata da Monica, è stata scelta fra le esperienze pubblicate dal Fondo Indigeno nel libro, in merito alcune riflessioni della coordinatrice del corso, Aracely Burguete Cal y Mayor.471 “ La metodologia usata in questo lavoro è stata chiamata “tessere il grande Quillapì”, di cui è stato preso il titolo del saggio finale. L’informazione riportata nella ricerca è stata tessuta “incollando” una a una le parti integranti di una narrazione che ha raccolto i pezzi di memoria di uomini e donne Charrùa con cui hanno conversato. La memoria orale ha fatto la sua parte: una resistenza silenziosa e sotterranea, repressa dallo stigma e dalla negazione nazionale del riconoscimento. La ricerca presenta da Monica è stata realizzata all’interno di questo corso, ed è la prima volta che un’ esperienza viene presentata in voce, parola, lettera e pensiero dalle proprie 468 Memoria en lengua chaná. El pueblo chaná es un pueblo perteneciente a la macroetnia charrúa Quillapí es una capa de cuero pintada, confeccionada con pedazos de cuero que eran cosidos entre sí y pintados por las mujeres colectivamente. En verano se lo ponían con el pelo hacia afuera y en invierno se lo ponían con el pelo hacia adentro, exhibiendo los dibujos geométricos pintados con diferentes colores en el lado externo. Quillango y quillapí son la misma prenda. Quillangos les decían los tehuelches, un pueblo muy emparentado con el pueblo charrúa, incluso se sabe que los charrúas fueron parte de los tehuelches que emigraron desde el sur de la Patagonia a la zona de la Cuenca del Río de la Plata. 470 Michelena, Monica. “Mujeres charrùas. Rearmando el ran Quillapì de la memoria en uruguay” Trabajo de investigaciòn presentado al Diplomado para el fortalecimiento de liderazgo de mujeres indìgenas de la Univesidad Intercultural Indigena del Fondo Indigena. 471 Profesora-Investigadora del Centro de Investigaciones y Estudios Superiores de Antropología Social (CIESAS), sede Unidad Sureste- San Cristóbal de Las Casas, Chiapas, México. Coordinadora Académica del Diplomado para el Fortalecimiento del Liderazgo de la Mujer Indígena, UII-Fondo Indígena. 469 206 protagoniste; questo riconosce il senso della ricerca come risorsa politica per la resistenza e per il rafforzamento dell’identità dei Popoli. Ha un senso politico, considerando che dalle voci delle donne che parlano attraverso la ricerca si costruisce il proprio sguardo e si ricostruisce la memoria collettiva. Con la ricerca vengono alla luce pratiche e saperi che sono sopravvissuti al genocidio, sconosciuti alla maggioranza della popolazione dello Stato, perchè sono state rese invisibili.” 472 3.1.2 Contesto linguistico Continentale Per quanto riguarda il discorso delle lingue, il panorama si fa più complesso, anche perché uno stesso Popolo può avere diverse varianti linguistiche, come riferito nello studio sotto riportato. “ La situazione attuale degli idiomi indigeni è molto varia e dipende dai criteri demografici e dei criteri di vitalità linguistica. Alcuni idiomi, fra cui il quechua, contano quasi da 10 a 12 milioni di parlanti in sei o sette Stati diversi (Colombia, Ecuador, Perù,Bolivia, Chile, Argentina e forse anche il Brasile); altri hanno dai mille ai cento o anche soltanto alcune decine, come i casi dei “guaranì chiriguano” in Bolivia, che ha fra 60 e 70 mille parlanti, il “Wichi” in Argentina con quasi 6.000 parlatin, il “bororo” e il “tapirapè” in Brasile con meno di 700 parlanti ognuno e i “guarasugwe” della Bolivia con soltanto 46. ( cifre al 1996) Altro dato importante da considerare è la condizione di plurilingue o poliglotta di molti indigeni come prodotto della conoscenza e dell’ uso di due o più lingue, oltre alla lingua egemonica della regione in cui vivono. I casi di trilinguismo e plurilinguismo sono più frequente di quello che si riesce ad immaginare, specialmente nelle pianure e nelle selve dell’ Amazzonia e Orinoquia Colombiane, come per esempio nella regione del Vaupès in Colombia. Lì i bambini o le bambine arrivano a scuola che parlano fra 5 o 6 idiomi fra di loro e si trovano con insegnanti che anziché valorizzare questa grande ricchezza, insistono sull’apprendimento e sull’ uso di una sola: il castigliano.” 473 Tale aspetto è importante da considerare perché all’interno delle politiche educative dei singoli Stati, anziché rappresentare una ricchezza, queste differenze linguistiche sono state da sempre considerate un fattore negativo, a danno dell’Unità Nazionale, portando anche le stesse popolazioni a rifiutare l’insegnamento della lingua materna ai propri figli. 472 Burguete Cal y Mayor, Aracely, a cura de, Miradas crìticas desde el Abya Yala. Volumen I. Primera promociòn del Diplomado para el Fortalecimiento del Liderazgo para la Mujer Indìgena. Resultados resumidos de los trabajos de Investigaciòn. Fondo Indigena. Julio 2012, pp, 152 e 153. 473 Organización de Estados Iberoamericanos (OEI) No. 20 , op, cit 207 “Oltre alla relativa ibridazione linguistica, il bilinguismo così come si è presentato nella regione, insieme alla negazione di tutto ciò che è indigeno, ha portato sentimenti contro le lingue e le culture indigene, spesso anche da parte delle stesse società indigene. Ciò comporta delle resistenze a tutto il programma educativo che proponga l’utilizzo degli idiomi “subalterni” nell’educazione dei loro figli, considerando che questo insegnamento è un ostacolo all’apprendimento dell’idioma egemonico, il quale vanta un prestigio sociale e permette l’accesso ai diritti e ai benefici che offre “l’altro mondo”, quello bianco. Anche se non in tutti i paesi le lingue indigene sono considerate come ufficiale, nella maggioranza dei paesi della regione viene riconosciuto alle popolazione indigene il dritto a ricevere l’educazione nelle loro lingue ancestrali. Questo accade in paesi come l’Argentina, la Bolivia, il Brasile, il Cile, il Guatemala, il Messico, Panama, il Venezuela e la Colombia. Tuttavia, il percorso fatto è ancora stretto e manca molto per adempire a tutto cioè che è stato stipulato nella nuova legislazione”.474 3.2 LE STRUTTURE COLONIALI Dal percorso fatto fin qui è evidente che sarebbe impossibile abbracciare in queste pagine la storia di un intero continente, ma le dinamiche di dominazione possono essere un filo conduttore per individuare alcuni degli elementi principali dell’intera politica coloniale, tramandata attraverso le diverse strutture di potere a partire dalle quali la scuola si è nutrita fino ad oggi. Poteri che si sono consolidati con la nascita prima delle Repubbliche, poi degli Stati-Nazione e in tutti i casi legittimati dalle politiche educative, mediante l’imposizione di un unico Dio, un’unica lingua e un’unica storia: quella “ufficiale”. 3.2.1 Scuola e religione come strumenti di dominazione Prendo in questo caso, alcuni esempi del “Messico profondo” illustrati da Bonfil Batalla475. Secondo questo antropologo messicano, la genesi delle problematiche attuali della cultura in Messico risponde ancora ai presupposti dell’ordine coloniale e va considerata nelle caratteristiche specifiche del sistema di dominazione innescato attraverso il pensiero della cultura dominante dell’epoca. 474 475 Ibidem. Bonfil Battalla, Guillermo, Mèxico profundo, op. cit 208 “ Il sistema coloniale impiantato dagli spagnoli è di natura completamente diversa dalle forme di dominazione conosciute all’epoca in Mesoamerica. Nell’ideologia occidentale dominante, accentuata nel caso della Spagna per l’esperienza ancora fresca della guerra di riconquista contro i mori, la sottomissione di popoli con culture diverse a quella europea era vista come un diritto indiscutibile derivato dall’obbligo di spargere da tutte le parti la fede cristiana. ..(….).. La chiesa promuoveva allora, in modi diversi, le imprese della conquista, concepite come crociate redentrici . In questo contesto, “l’altro” era necessariamente concepito come un essere inferiore, al punto di mettere in dubbio o addirittura negare la sua condizione umana, ovvero la negazione di un’anima trascendente.”476 “Se la forza era stata il primo modo di assicurare la dominazione, la religione è stata la sua compagna inseparabile, tanto per la giustificazione ideologica quanto per il ruolo giocato dal clero e dalla gerarchia ecclesiastica nel controllo della popolazione india. La chiesa ha avuto un ruolo colonizzante molto più importante dell’esercito almeno fino all’ultima decade del secolo XVIII.”477 In merito anche le testimonianze del Popolo U’wa in Colombia - Scuola Ufficiale e dominazione religiosa “Si deve riconoscere anche che nella scuola ufficiale influisce ancora il peso dei processi storici, come per esempio il caso dell’educazione imposta nelle comunità durante le generazioni U’wa degli anni ‘60, ‘70 e parte degli ‘80 del secolo scorso. In questo periodo i bambini sono stati separati dal loro nucleo familiare e dal loro contesto culturale, costretti a studiare nei collegi dei missionari cattolici nei quali venivano evangelizzati, negando in questo modo l’accesso alla propria conoscenza culturale, all’uso del loro idioma, nonché la condanna di vedere attribuita la categoria di “satanismo” ai loro miti, credenze e cerimoniali. Gli attuali promotori di salute, insegnanti, autorità politiche e genitori sono eredi di questo processo d’imposizione culturale ed educativa, riproducendo, in modo implicito, sia nella famiglia che nella vita comunitaria queste forme di colonizzazione” “L’introduzione della religione cristiana, con la sua carica missionaria, respinse tutti i principi della spiritualità U’wa sia nelle comunità che nelle aule imponendo una cosmovisione diversa. La costruzione di infrastrutture dentro il territorio U’wa, senza il consenso delle Comunità, generò un’alta migrazione delle famiglie che non volevano iscrivere i loro figli per la paura che il sistema di questi internati (collegi) suscitava fra i genitori e gli stessi studenti, dovuto alle sue caratteristiche di obbligatorietà, nonché per le punizione lì adoperate. Per tutto questo la 476 477 Ivi, pp. 120 a 123 Ivi, p. 130 209 Comunità nel 2002 decise di chiudere gli internati, rompendo in maniera definitiva i rapporti con le suore e i missionari e dando vita all’esperienza delle Case del Sapere, come una forma di riappropriazione delle proprie metodologie.”478 Riporto di seguito un’altra testimonianza abbastanza significativa, nelle parole di Carlos, giovane di 28 anni intervistato a Jujuy (Argentina), partecipante al corso di formazione (Tecnicatura en Desarrollo Indigena) portato avanti dal COAJ. 479 “Da “Gaucho” a Originario del Popolo Oclolla: Il cattolicesimo è servito non soltanto a toglierci l’identità. È servito anche a toglierci il Territorio. Quindi quello che dico oggi allo Stato e al Vaticano è: In nome di Dio ci avete tolto le Terre. In nome di Dio ce le dovete dare indietro. Io capisco, come capiamo tutti, che con la colonia i nostri nonni si sono convertiti al cattolicesimo per non morire. Era una strategia di sopravvivenza.”480 3.2.2 Sfruttamento della Terra / Sgretolamento del Territorio Considerato il Territorio lo Spazio Vitale, non solo di costruzione e trasmissione della conoscenza, ma dell’intera organizzazione sociale, politica, economica ed esistenziale dei Popoli Originari, come ampiamente documentato nel capitolo precedente; l’annientamento dei Popoli attraverso la spoliazione materiale e simbolica dei loro Territori, è stato un processo sostenuto lungo la storia. In un primo momento con l’espropriazione violenta della terra, successivamente dal peso schiacciante del latifondismo e del sistema delle “haciendas481” impiantato ovunque nel territorio delle nuove colonie. “ I gesuiti, arrivati nel 1572, hanno portato lo spirito della controriforma e hanno concentrato la loro attenzione sulla popolazione “criolla”482. ..(…).. La chiesa diventa presto il principale latifondista della Nuova Spagna, particolarmente per quanto riguarda i gesuiti, fino al momento della loro espulsione. La perdita delle terre è stato un limite fondamentale per la riorganizzazione dei popoli del Messico occupato, il Messico utile allo sfruttamento coloniale. Le “haciendas” sono state lo strumento principale per il loro sfruttamento. Sono state prima destinate per i prodotti introdotti dai colonizzatori: grano, canna da zucchero e bestiame. La 478 Ivi, p. 15 Consejo de Organizaciones Aborigenes de Jujuy. 480 Intervista consultabile al link: www.youtube.com/YolandaAbyaYala/Jòvenes Identidades de AbyaYala/ Carlos, Pueblo Ocloya, Jujuy Argentina 481 Grandi tenute di terra all’epoca della colonia, ancora oggi vive per esempio nella provincia di Jujuy, nel Nord dell’Argentina. 482 Termine per indicare i figli degli spagnoli nati in territorio americano. 479 210 terra cambia di proprietari, nonché di destinazione. Il grano sostituisce il mais e i prodotti della milpa nelle migliori terre. L’acqua è stata usata per l’irrigazione delle estese colture spagnole e non per l’agricoltura india.”483 - Negazione del Territorio come memoria collettiva e spazio pedagogico Comunitario Come riportato nel capitolo precedente, il Territorio custodisce la memoria collettiva e proprio per questo diventa il luogo dove i primi processi di socializzazione del bambino costituiscono le basi della propria conoscenza. Inoltre è sul Territorio che si nutre la vita quotidiana, permettendo attraverso l’esperienza lo sviluppo cognitivo, spirituale, sociale e culturale del bambino. Il popolo U’wa ha sottolineato l’importanza del Territorio in ambito educativo, aspetto cardine, ampiamente considerato nel loro documento “Kajkrasa Ruyina”. “I rapporti che intrattengono i bambini U’wa nei diversi spazi di socializzazione del Territorio: la famiglia in senso allargato, i settori rappresentativi del macrogruppo di appartenenza, come sono le autorità tradizionali, all’interno dell’ambiente scolastico si rompono e si limitano al rapporto insegnante-studente e studenti-studenti. Questa limitazione nei livelli d’interazione ha origine nel fatto che la struttura scolastica separa l’agire educativo delle altre attività sociali comunitarie, restringendo il processo di insegnamento/apprendimento ai programmi cartacei e all’ambito scolastico. “Questo senza considerar que noi, gli U’wa, abbiamo bisogno di tempi speciali per realizzare il digiuno, il ballo, il canto, i riti, le cerimonie tipiche della nostra cultura che sono molto importanti perché sono la forza della nostra esistenza, delle nostre vite. Tutto ciò dimostra che le limitazioni nei livelli di interazione del bimbo, all’interno dello spazio scolastico, hanno a che vedere col fatto che la scuola si trova isolata e disarticolata dalla comunità, come rappresentata dalla sua stessa struttura fisica.”484 Di seguito, anche le testimonianze di Monica Michelena, del Popolo Charrùa. “La memoria dei popoli originari, implica una costruzione collettiva della stessa e implica il concepire, insieme, uno spazio-tempo, un territorio proprio dove (riviverla?). Il verbo “recorrer” contiene, nella sua semantica, la connessione con il passato, con il ritorno: ritornare per andare e riconoscere una volta di più. Memoria e territorio vanno sempre insieme. Evocare questa connessione di luogo e passato è ciò che illustra le radici speciali di 483 484 Ivi. Op. cit, pp. 141 e 142 Kajkrasa Ruyiina, op. Cit. p. 17 211 tutta la nostra storia. I luoghi, i modi di nominarli e il ricordo di quel che lì è accaduto, hanno un'importanza centrale nella ricostruzione della memoria. La nostra memoria comprende la cosmovisione, la cultura, la storia, la territorialità di forma integrata e amalgamata, senza perdere nessun pezzo del rebus. La territorializzazione della memoria si vede anche qui, quando le donne propongono di passare per luoghi di spiritualità per il nostro popolo. Per esempio, i monti erano luoghi molto importanti. Secondo il Codice Viladerbó485 i Charruas si ritiravano su un monte e lì, in una specie di torretta fatta di pietre, digiunavano e stavano svegli vari giorni finché non si presentava a loro lo spirito di un essere vivente, il quale li aiutava nei momenti di pericolo durante la vita.(Vilardebó, 1966)”486 3.2.3 )l Pensiero dominante e gli spazi dell’ )ndio “ uno degli aspetti che più attira l’attenzione dei visitatori stranieri, soprattutto latinoamericani, è la presenza ostentata dell’ “indio” nella cultura messicana. Alla rivoluzione del 1910, senza dubbio, si deve l’avere privilegiato l’immagine india come uno dei principali simboli del nazionalismo ufficiale. …(..) l’altra faccia della medaglia, ci fa vedere la politica governativa nel confronto dell’indio vivo: la politica indigenista. …(…) Nella musica, nella danza, nella letteratura e nelle arti plastiche, la tematica dell’ “indio” fornì gli elementi per configurare una vasta corrente nazionalista sotto il patrocinio governativo. ”487 Uno di questi spazi, di cui dà testimonianza anche Bonfil, sono i musei. Richiamo quanto accennato nel “Capitolo zero”, riguardo la mia visita al Museo Nazionale di Antropologia a Chapultepec, così come al museo Tojolab’al nell’antica “hacienda” “Napité” del municipio de las Margaritas, nello Stato del Chiapa, dove tutti i pannelli esplicativi, così come la guida del museo, usavano i verbi al tempo passato, per fare riferimento ai Maya o ai Tojolabales, come “loro” che “esistevano”, “vivevano”, “vestivano”. Sembra, quindi, che la funzione pedagogica del museo sia convincere i propri protagonisti della loro funesta scomparsa. …(…) Un altro strumento per sottolineare la radice india del Messico, sono stati i musei, i quali esistono in quasi tutte le capitali dello Stato. L’esempio più rappresentativo è il Museo Nazionale di Antropologia, a Chapultepec, luogo privilegiato a Città del Messico. La sua 485 El Códice Vilardebó es un documento importante que fue hallado en el siglo XX. En él se registran varias costumbres y la lengua , en crònicas tomadas de un sargento que convivió con los charrúas y de una sobreviviente de Salsipuedes. 486 Michelena, Monica, op, cit. p. 36 487 Ivi, p. 89 212 ispirazione architettonica, in tutti i suoi dettagli, riflette l’ideologia di esaltazione del passato precoloniale, e simultamente e contraddittoriamente, la sua rottura col presente”488. 3.2.4 La Scuola Ufficiale: negazione della lingua, della storia e lacerazione identitaria Per indicare ancora il peso della Scuola Ufficiale nei diversi scenari della vita comunitaria, riporto anche alcune delle esperienze del Popolo U’wa in Colombia poiché è uno dei popoli con cui sono stata a contatto più tempo, come viene testimoniato dai diversi passaggi riportati nei capitoli precedenti, ma anche per la forza con cui hanno difeso il loro diritto ad una educazione propria, partecipando attivamente con le loro autorità tradizionali al dibattito portato avanti con il Ministero della Pubblica Educazione, per l’elaborazione dell’autovalutazione riportata nel documento sotto nominato. Le informazioni seguenti sono state apprese grazie ai lunghi colloqui sostenuti con Josè Cobarìa, docente indigena U’wa con formazione universitaria, nonché dalle interviste con il professore Elfar Eduardo Vega Caicedo, direttore della Scuola superiore a Cubarà e Maria Eugenia Plata Santos dottoressa in educazione e docente all’Università Pedagogica y Tecnologica di Colombia (UPTC), entrambi parte del gruppo di lavoro per la costruzione del progetto etnoeducativo U’wa489. - Scuola ufficiale e rottura identitaria “Indiscutibilmente la scuola ufficiale deforma mentalmente il bambino U’wa. Frammenta la sua identità e lo mette davanti al conflitto: essere indigeno ma desiderare di essere bianco. Lo fa diventare all’interno della sua cultura un “indigeno occidentalizzato” e all’interno della società nazionale in un “indigeno civilizzato”. Eredita quindi questa instabilità emozionale e sociale, diventando un mediocre in tutti i sensi visto che ha una conoscenza molto limitata della propria cultura e un precario dominio del mondo “bianco.”490 Un altro dei modi con cui la scuola ufficiale ha lacerato l’identità dei Popoli, è negando loro la possibilità di esprimersi e di crescere con la lingua materna. 488 Ivi, p. 90 MEN- Ministerio de Educaciòn Nacional de Colombia. Proyecto Etnoeducativo U’wa Kajkrasa Ruyina, op, cit. 490 Ivi . Pag. 14 489 213 “Lo spagnolo è stato imposto nei processi di evangelizzazione dai missionari mediante sistemi repressivi, attraverso i quali hanno imparato i docenti che a loro volta, riproducono anche in maniera inconscia la stessa metodologia.”491 “I contenuti considerano come prima lingua obbligatoria lo spagnolo, vietando l’idioma U’wa ( Uku’wa) e l’insegnamento della storia comprende soltanto quella nazionale. Il piano di studi che si orienta ancora oggi nei centri etnoeducativi U’wa, è basata sui lineamenti ufficiali del Ministero della Pubblica Educazione, senza che siano adeguati al proprio contesto, cosicchè i bambini sono costretti a studiare le stesse materie (castigliano, matematica, scienze naturali, scienze sociali e religione), come in tutte le scuole a livello nazionale senza considerare l’insieme della cultura U’wa.”492 “Uno dei gravi problemi è la difficoltà di adattamento ai processi educativi scolarizzati dovuta alla mancanza di pertinenza e relazione con il contesto, con il territorio. Questo genera un alto livello di abbandono scolastico o di rinvii che prolunga l’intero periodo dell’educazione basica primaria. …(..) “L’“Uku’wa” (la lingua U’wa) ha cominciato ad essere insegnata nei centri etnoeducativi del Territorio U’wa, grazie alla pressione della Comunità per impedire che i bambini dimenticassero la loro lingua. Così nella decade del 1990 la scuola ufficiale è stata costretta ad inserire l’insegnamento della lingua materna. Per quanto riguarda le decisioni rispetto alla scrittura dell’Uku’wa ( visto che abbiamo mantenuto fino ad oggi la tradizione orale), ci è stato un processo lungo di analisi da parte delle nostre autorità spirituali, i Werjayà, e abbiamo deciso di scrivere il livello di uso quotidiano, conservando oralmente all’interno della Comunità, gli altri quattro livelli, il cui uso è ristretto alle attività 493 spirituali.” Anche le testimonianze di Monica Michelena, riguardante il Popolo Charrùa in Uruguay, sono pertinenti da riportare in questo punto. “Muchas de nosotras nos enteramos que éramos charrúas ya de grandes. Nuestros padres o madres lo ocultaban a veces por vergüenza, otras por miedo a la persecución o a la discriminación y exclusión. Somos una generación creció casi sin memoria familiar o ninguna, ni tampoco con memoria histórica. En la educación que recibimos nuestra se invisibilizó a los charrúas y se ocultó el genocidio. Somos una generación a la cual nos robaron nuestra verdadera identidad. Por eso en este proceso de reidentificación primero fuimos a los libros a leer las crónicas y los documentos escritos por aquellos que un día convivieron con los charrúas en épocas anteriores al genocidio.“La historia oficial oculta los hechos que no le 491 Kajkrasa Ruyina, op. cit. p.32 492 Ivi. Pag . 27 493 Ivi, p.28 214 conviene contar, invisibilizándolos en la educación. Para el pueblo charrúa es muy importante poder contar su historia a través de la memoria histórica y la memoria oral. El genocidio de Salsipuedes que hace poco tiempo figuraba como una batalla en los libros de historia, hoy es un hecho probado y fundamentado a través de documentos históricos hallados recientemente, sólo hubo la voluntad de algunos investigadores e historiadores unido al trabajo continuo de las organizaciones para que se reconozcan los hechos (Picerno, 2009). Hoy en los programas de primaria Salsipuedes figura como genocidio.”494 3.2.5 Scuola Ufficiale: struttura gerarchica e saperi frammentati Questo, ancora un punto importante che allontana i presupposti epistemologici della Scuola nella Vita, dove la costruzione e trasmissione della conoscenza concepita in maniera integrale e trasversale, viene spaccata da strutture gerarchiche rigide e saperi suddivisi. “L’insegnante è la figura centrale, il processo è soltanto d’insegnamento, si suppone che lui non ha niente da imparare, non risponde ad una relazione di reciprocità di tipo armonico come si lo sono le relazioni all’interno del nostro processo educativo. Nella relazione docentestudente. I docenti sono i Savi e i bambini sono gli ignoranti, un trattamento abbastanza sfavorevole, considerando che i bambini U’wa quando arrivano al periodo di scolarizzazione hanno già un certo livello di conoscenze pratiche, tecniche, storiche e cosmologiche che permettono loro di partecipare attivamente alla vita adulta, hanno un ruolo sociale importante dentro l’ambiente comunitario che condividono con gli anziani e gli adulti, interagendo in un rapporto di mutua reciprocità”. “Il risultato di questo tipo di rapporto, è che i bambini hanno una regressione nella loro età psicologia e sociale. I docenti assumono questa dinamica di rapporto oppressivo e in condizioni di diseguaglianza, trattandoli come se fossero bambini della società “bianca” che a quest’età ( fra i 7 o gli 8 anni) sono ancora considerati molto piccoli.” 495 - La Scuola Ufficiale come rappresentazione di saperi frammentati e divisi “La conoscenza U’wa è religiosa, mitica, scientifica e poetica, vive immersa nel mondo, perchè non si è separata dagli spiriti che la costituiscono e l’orientano. In essa non viene considerato l’individuo da solo, ma come membro di una grande collettività universale, gli atti degli antenati e degli Dei si ricreano in ogni momento con la pratica quotidiana, nei tempi 494 Intervista con Monica Michelena, marzo 2012, consultabile al link: www.youtube.com / YolandaAbyaYala/ Mujeres TerritorioCuerpoMemoria/ Pueblo Charrùa. 495 Kajkrasa Ruyina, op, cit, p. 19 215 speciali durante le celebrazione delle principali cerimonie. L’equilibrio del mondo si mantiene nelle sfere spirituali e materiali, dalle sue origini e viene aggiornato e nutrito permanentemente. Contrariamente al processo di educazione scolarizzata, tutte le nostre attività sviluppate durante la vita sono intrecciate formando un pensiero integrale, il quale rappresenta il punto di partenza di una educazione propria che comprende tutti i campi dei saperi in equilibrio. La conoscenza non viene frammentata, perchè a partire della cosmologia e della cosmovisione U’wa si acquisisce la capacità di mantenere rotte di andata e ritorno attraverso tutte le dimensioni della Vita.”496 “Attualmente l’organizzazione dell’insegnamento è divisa in ore di lezioni a sua volta divise in materie ufficiale. (dalle 08:00 alle 13:00), Questa è la struttura dell’insegnamento nella scuola Tuttavia i bambini chiedono il perché di tutto ciò, manifestando che sarebbe preferibile per loro trattare degli argomenti completi, senza interruzioni o divisioni orarie per dovere passare ad un’altra materia, richiamando i Canti tradizionali U’wa del (ànbaya, beskura, basha) che vengono cantati senza interruzioni, che compongono “la geografia cantata” U’wa, attraverso la quale si trasmettono conoscenze riguardanti il Territorio, la biologia, la medicina e la loro Storia, come avviene nelle loro pratiche educative alla “Casa del Saber.”497 Casa del Saber de Fàtima – Junio 2006 496 497 Ivi, p. 43 Ivi, p. 29 216 3.3 AMERICA LATINA FRA GLOBALIZZAZIONE, SVILUPPO E MODERNITÀ Appadurai nel suo libro Modernità in polvere498 sottolinea come la globalizzazione abbia prodotto una frattura tra il luogo di produzione di una cultura e quello o quelli della sua fruizione. L'immaginazione, anche ad opera della onnipresenza dei mass-media, è divenuta così un fatto collettivo e si è trasformata in un campo organizzato di pratiche sociali. Ne consegue una frammentazione degli universi culturali, che peraltro interroga i paradigmi tradizionali delle scienze sociali. Municipio di Tenejapa-Chiapas – Messico – Maggio 2011 Il termine “globalizzazione” significa per tanta gente: un’omogeneizzazione globale in cui certe idee e certe pratiche dilagano in tutto il mondo, soprattutto dalle zone più ricche dell’occidente, impedendo alle altre di esistere. Per altri è la marcia trionfante della modernità; altri ancora ritengono che sia la sopraffazione dei colossi culturali mercantili, i quali impongono di bere coca-cola, mangiare hamburger o di vedere Dallas ovunque, nel secondo e nel terzo mondo, così come nel primo, dove tutte queste cose hanno avuto origine. 498 Appadurai A. Modernità in polvere, Meltemi, Roma, 2001 217 Parlare quindi della “Scuola Ufficiale” nel contesto delle esperienze qui riportate, mi obbliga a dedicare uno spazio alla realtà odierna dell’America Latina. Sarebbe impossibile parlare di cultura latinoamericana senza cercare di avvicinarsi alla complessità che questa “cultura” a mio avviso, oggi più che mai in discussione, venga considerata. Tuttavia, siccome a nuotare si impara solo entrando nell’acqua, bisognerebbe fare come saggiamente ribadisce il mio Maestro U’wa: per conoscere “i mondi” (le culture) bisogna viverle. Per avvicinarmi a questa famosa “cultura latinoamericana”, voglio considerare le tesi esposte da Garcìa Canclini: “un’America Latina dove le tradizioni non sono ancora scomparse e la modernità tarda ad arrivare.” “Quali sono, negli anni novanta, le strategie per entrare e uscire dalla modernità..? poniamo la domanda in questo modo perché in America Latina, dove le tradizioni non sono ancora scomparse e la modernità tarda ad arrivare, non sappiamo se modernizzarsi debba essere davvero il principale obiettivo, come predicano i politici, gli economisti e la pubblicità delle nuove tecnologie. La prima ipotesi, riguarda l’incertezza sul senso e il valore della modernità, che deriva non solo da ciò che separa le nazioni, le etnie e le classi, ma anche dagli incroci socioculturali in cui si mescolano il tradizionale e il moderno. Ci sono quindi tre questioni da discutere. Come studiare le culture ibride che costituiscono la modernità, conferendole un suo profilo specifico, in America Latina. Riunire i saperi parziali delle discipline che si occupano della cultura per vedere se è possibile elaborare un’interpretazione più plausibile delle contraddizioni e dei fallimenti della nostra modernizzazione. E infine, che fare – quando la modernità- diviene un progetto polemico o inaffidabile – con questo miscuglio di memoria eterogenea e innovazione dimezzate.” 499 Nella tesi di Garcia Canclini, particolare attenzione merita l’argomento del patrimonio culturale, della cultura e del folklore, dove il concetto di “cultura” ha una connotazione di elite che ha caratterizzato la dominazione del pensiero occidentale in America Latina e il concetto di folklore è lasciato alla “cultura popolare” nonché, come dice lui, all’organizzazione del significato sociale attraverso la produzione e circolazione delle idee: l’industria dei beni culturali. “Perché i paesi latino-americani realizzano male e tardi il modello occidentale di modernizzazione?: solo per la dipendenza strutturale dobbiamo verificare se la visione di una 499 Garcìa Canclini N. Culture Ibride. Strategie per entrare e uscire dalla modernità.Guerini Studio. 1998, 13-15. 218 modernità repressa e differita, meccanicamente dipendente dall’Europa, è così vera e così disfunzionale come sono soliti dichiarare gli studi sull’arretratezza latino-americana. …(…) Bisogna mettere in questione prima di tutto un’abitudine ormai quasi in disuso nei paesi del terzo mondo. Quella cioè di parlare del terzo mondo facendo un solo fascio di Colombia, India e Turchia. Il secondo elemento consiste nel considerare Cent’anni di solitudine – gioco ammirevole con il presunto realismo magico – come sintomatico del moderno latinoamericano. Se il moderno non è l’espressione della modernizzazione socioeconomica, bensì il modo in cui le élite si fanno carico dell’intersezione fra differenti temporalità storiche e cercano da qui di elaborare un progetto globale, quali sono queste temporalità in America Latina, e che contraddizioni genera il loro incrociarsi.? In che senso queste contraddizioni rallentarono la realizzazione dei progetti di emancipazione, espansione, rinnovamento e democratizzazione della modernità..? In America Latina, dove l’analfabetismo ha cominciato a essere minoritario soltanto da pochi anni , e non in tutti i paesi, non è strano che la cultura sia stata prevalentemente visuale. Essere colti significa quindi imparare un insieme di conoscenze, in grande misura iconiche, sulla propria storia, e anche essere presenti in quegli scenari dove i gruppi egemonici fanno sì che la società offra a se stessa lo spettacolo delle proprie origini. A differenza delle analisi abituali sull’ideologia, che spiegano le organizzazioni del significato sociale attraverso la produzione e circolazione delle idee, mi soffermerò soprattutto sulla costruzione visuale e scenica del SIGNIFICATO.500 Un altro argomento a cui Garcia Canclini dedica un grande spazio nel suo libro è l’educazione e il ruolo della scuola e dei musei come luogo di trasmissione e insegnamento della memoria e della storia. Tutto senza trascurare i processi di “meticciato” che hanno segnato la storia dell’America Latina, dove le relazioni di “dipendenza” fra le diverse classi sociali hanno fatto sì che la parola “indio” sia stata sempre usata in termini dispregiativi, legittimando lo stigma che ancora oggi si portano dietro i popoli non solo nella storia collettiva, ma anche a livello individuale. Come testimoniano le diverse esperienze riportate in questo elaborato. “La colonizzazione produsse tre figure sociali: Il latifondista, lo schiavo e l’uomo libero”… Fra i primi due il rapporto era chiaro. Ma la moltitudine degli altri, né proprietari né proletari, dipendeva materialmente dal favore di un potente. 500 Garcìa Canclini, op cit, pp. 57-59 219 Il favore è tanto antimoderno come la schiavitù, però è “Più simpatico”. E’ suscettibile di unirsi al liberalismo per il suo carattere arbitrario, per il gioco fluido di stima e autostima cui sottomette l’interesse materiale. E’ vero che, mentre la modernizzazione europea si basa sull’autonomia della persona, l’universalità della legge, la cultura disinteressata, la remunerazione oggettiva e l’etica del lavoro, il favore implica la dipendenza della persona. La scuola501 è uno scenario chiave per la teatralizzazione del patrimonio. Trasmette in corsi sistematici il sapere sui beni che costituiscono il bagaglio culturale e storico. Pochi lo hanno scritto con la chiarezza di Domingo F. Sarmento, fondatore del sistema scolastico laico in argentina e uno degli organizzatori della società moderna in quel paese. Il suo motto “civiltà o barbarie” separa nettamente il polo indigeno-meticcio, incolto, dallo sviluppo in senso progressista. Questi significati non si “inculcano” solo mediante i contenuti concettuali dell’insegnamento. Sono motivo di celebrazioni, festeggiamenti, esposizioni e visite ai luoghi mitici, tutto un sistema di rituali in cui si ordina, si commemora e si consolida periodicamente la “naturalità” della demarcazione che fissa il patrimonio originario e “legittimo”. La ritualità quotidiana, la disciplina scolastica e il suo particolare linguaggio cooperano per raggiungere l’obiettivo: quando si trasgredisce l’ordine, i maestri sono soliti dire che nella scuola “non bisogna comportarsi come selvaggi”; nel passare dal cortile della ricreazione all’aula si dice che è finita “l’ora degli indios.”502 Da parte sua Hannerz richiama anche lui l’attenzione sulla globalizzazione, sottolineando che anche se essa viene riconosciuta come un’importante parte della modernità, sarebbe necessario che coloro che trattano della modernità in generale – o di certi concetti astratti correlati come “società della conoscenza” o “società dell’informazione” – prestassero attenzione alle implicazioni di quanto vanno dicendo alle popolazioni ai margini dell’ “ecumene globale” non solo verificando la stabilità delle loro tesi, ma anche valutando le conseguenze di modalità inique di distribuzione. “L’ecumene globale come passaggio della modernità prende le mosse da una diffusa prospettiva teorica sulla modernità come tipo di civiltà diffusa a livello planetario. Illustra l’irregolarità di questo processo di diffusione, ma indica che per descriverlo è necessario relativizzare le entità culturali e sociali in quanto dimensioni circoscritte” … (…) “Negli spazi interstiziali fra ciò che è moderno e ciò che non lo è, possono ancora verificarsi tentativi spontanei di crescita su basi culturali autoctone, con scarsa attenzione per modelli metropolitani.”503 501 Il grassetto usato nelle diverse espressioni è mio Garcìa Canclini. Op. Cit. P. 119-120 503 Ulf, Hannerz. La diversità culturale. Il Mulino – Intersezioni – 1996, p. 25. 502 220 Sappiamo che sono due i principali aspetti della globalizzazione. Da un lato, le popolazioni e le strutture sociali che precedentemente erano piuttosto separate oggi premono materialmente e fisicamente le une sulle condizioni di vita delle altre. Dall’altro, c’è anche un flusso diretto sempre più pronunciato di cultura, significati e modi di espressione. Riguardo al primo di questi aspetti, cresce l’interesse nell’ambito dell’interazione fra ecologia ed economia, per l’idea di “beni trasnazionali”: risorse che in qualche modo sono patrimonio dell’umanità, non direttamente sotto il controllo di qualche governo, in primis la biodiversità, di cui i popoli indigeni del cosiddetto “quarto mondo” sono guardiani gelosi, richiamando l’urgente necessità di rispettare e garantire il valore della diversità culturale come patrimonio dei popoli. Su questo versante di difesa della diversità culturale è pertinente prendere in considerazione le sette ipotesi esposte da Hannerz. “Sette ipotesi sulla diversità: Uno di questi ragionamenti prende le parti della diversità culturale in quanto tale, cioè come una sorta di monumento alla creatività dell’umanità. Un altro argomento è basato sui principi di equità e autodeterminazione. Un’altra ipotesi ancora è volta a dimostrare che la differenza culturale è benefica nell’adattamento dell’umanità alle limitate risorse ambientali del globo. Quarto, si può dire che la diversità culturale serve a mitigare i rapporti di dipendenza economica e politica. Quinto, si può anche assumere una posizione essenzialmente estetica nei confronti dei piaceri della diversità culturale; o sesto, vederla come un’utile provocazione per il nostro torpore intellettuale; oppure, sette, attingervi come a un serbatoio di conoscenza sedimentata sui differenti modi per fare le cose.”504 . . La Scuola Ufficiale e le nuove strategie: lo Sviluppo La situazione dall’epoca coloniale ad oggi non è cambiata molto nel contesto “latinoamericano”, sono cambiate invece le strategie attraverso le quali si perseguono gli stessi obiettivi; hanno un altro nome: “sviluppo”. Queste politiche vengono sostenute dai governi, anche da quelli più democratici, senza discuterne o dare voce ai diretti protagonisti. In questo scenario, la scuola viene usata per legittimare il modello economico in atto, dando continuità in questo modo ad un processo di colonizzazione che non è mai stato interrotto. In merito riprendo alcune riflessioni presentate da Gustavo Esteva505, in quanto reputo il suo pensiero molto espressivo e in sintonia con quanto voglio esprimere, riguardante il concetto 504 Ibidem Esteva Gustavo. Articolo, Ritorno dal futuro, In Rivista Interculture. Giugno 2012 /Nr. 21. Hermaneta. Bologna Gustavo Esteva si definisce un attivista di base e un intellettuale de-professionalizzato. Autore di molti libri e saggi, exconsulente degli Zapatisti e membro di varie organizzazioni e reti indipendenti. 505 221 di “sviluppo” e la sua intima relazione con il modello di scuola trapiantato dall’epoca coloniale ad oggi in America Latina. “ Per parlare di scuola e di educazione, prima di tutto devo dire qualcosa a proposito dello sviluppo. Per noi, nel nostro contesto messicano l’educazione non può essere disgiunta dallo sviluppo. Essere sviluppati, uscire dal sottosviluppo significa sempre, per prima cosa, ricevere un’educazione. Come altri milioni di persone, anch’io sono stato contagiato dalla malattia dello sviluppo. Avevo 13 anni, e l’ho presa come si prende un raffreddore o la malaria. A quel tempo, navigavo fra le tradizioni divergenti dei miei genitori. Fin da bambino sapevo che la mia nonna zapoteca non poteva entrare in casa nostra a Città del Messico passando per la porta principale, semplicemente perché era india. Mia madre, come altri della sua generazione che miravano a migliorare la loro posizione sociale, riteneva che la cosa migliore da fare per i suoi figli fosse sradicarli decisamente dalla loro ascendenza indigena. Così abbiamo ricevuto un’educazione e siamo diventati “sviluppati”. …(…)… “Il 20 gennaio 1949, il giorno del suo insediamento, il presidente Truman aveva coniato la parola “sottosviluppo”, trasformando me e due miliardi di altre persone in “sottosviluppati”: umiliati, sminuiti, non potevamo più sognare i nostri sogni e fidarci delle nostre intuizioni; gli esperti dello sviluppo in giacca e cravatta, con i loro portafogli globali ci tenevano in trappola. Messe a tacere le nostre intuizioni, negato il nostro comune modo di sentire, potevamo facilmente essere condotti ad agognare le loro meraviglie tecnologiche, la nostra immaginazione e il nostro cuore erano sedotti dall’idea di diventare come la gente “sviluppata”; i nostri sogni di famiglia e comunità venivano strappati via dalla terra che stava sotto i nostri piedi; volevamo volare lontano da casa, volevamo fuggire in quell’Isola-che-nonc’è che Truman aveva escogitato per l’intero pianeta ( costringendo gli hopi, gli indù e gli zapotechi nello stesso stampino..)”506 Su questo argomento ho già riferito le testimonianze di Margarita Pimienta, nel caso del Popolo Wayuu, e del Popolo U’wa, per quanto riguarda la loro lotta contro le multinazionali del petrolio, per difendere la “Ruiria”, sangue della Madre Terra, nella loro cosmovisione, nonché la battaglia contro la privatizzazione dell’Acqua portata avanti in Bolivia, a cui ho fatto riferimento nel capitolo precedente. Tuttavia, nell’interesse di richiamare l’attenzione su questo fatto, riporto anche la testimonianza di Ernestina507, per quanto riguarda la situazione in Perù, specificamente in “Accha”, una comunità ubicata a 70 kilometri da Cuzco. 506 Esteva,G. op. cit, pp. 57 e 58 Ernestina Sotomayor Candia è una donna quechua, docente, con grande esperienza in educazione interculturale bilingue, con la quale ho avuto l’opportunità di condividere la vita nella sua Comunità di Accha, insieme a sua madre e a sua figlia, nel gennaio2012. 507 222 In questa piccola comunità ho avuto anche il privilegio di intervistare sua madre, Lucìa Candia Jordàn508 di 85 anni di età e anche a sua figlia Jazmin Lucero Rodriguez Sotomayor di 13 anni. Questa esperienza inter - genarazionale è stata molto significativa in questo percorso e mi ha permesso di cogliere diverse sfumature della così chiamata “modernità” in America Latina. Vediamo nelle parole di queste tre donne, cosa possono significare i progetti di “sviluppo” nei loro territori. “Ernestina: Mi racconta mia madre che hanno fatto uno studio satellitare, e che in tutta questa zona (Accha) ci sono molti minerali, ma anche molto oro. Per ciò, è molto probabile che presto arrivi l’impresa per lo sfruttamento della miniera e purtroppo alcuni degli abitanti sono d’accordo, tanto ci dicono che questo porta lo “sviluppo”509. …(…) La cosa rende molto triste mia madre, perchè queste montagne: MAIMACHI , APU QUIWCHU e più giù WAIYAPATA, sono state da sempre i nostri “Apu”, i nostri guardiani, sono i nostri Dei tutelari. Sono cose con cui riescono a sgretolare le Comunità, quindi, pur essendo contenta di essere qui insieme a mia madre e mia figlia, questo fatto mi rende molto triste. …(…) Io ricordo da bambina, gli insegnamenti di mia madre, la nostra scuola è stata questo territorio. Quando cadeva una pioggerella così soave come adesso, ( ora chiedo a mia madre perché non mi ricordo in quechua il nome di questa pioggia). Si chiama “ipucasra” questa pioggia soave che cade lentamente per rinfrescare i nostri campi, le nostre “chacras”, Lei ( la pioggia) arriva tranquilla e in quel momento la cosa da fare è sedersi e contemplare la natura, niente altro” “Questo è il mio fiume che durante la mia infanzia mi ha fatto crescere, qui ho imparato tutto quello che so ancora. Per esempio mia madre ci ha insegnato a pescare le trote con un’erba che addormentava i pesci e così prendevamo soltanto il necessario. Era il nostro “gioco”, nei mesi di agosto, settembre, quando non c’era molto da lavorare nella “Chacra”, mia mamma veniva con tutti i suoi sei figli, e facevamo una specie di piscina con delle pietre; dopo prendevamo quest’erba e la pestavamo e mettevamo questo suo sugo nell’acqua. Così i pesci si addormentavano e galleggiavano, così noi prendevamo quelli necessari per mangiare. Mangiavamo tutti insieme lì al fiume. Dopo il pozzo veniva disfatto, l’acqua cominciava a scorrere e i pesci si svegliavano e tornavano a vivere come sempre. Tutto quello che facevamo 508 Anziana saggia, parlante la lingua Quechua. Informaciòn sobre los proyectos en curso en la zona de Acca “La junior Zincore Metals, del grupo Hochschild, impulsará el desarrollo de los yacimientos polimetálicos Accha y Yanque, ubicados en el distrito de Cappi, en Cusco.Como acción inmediata, el primer trimestre del 2011 deberá concluir el estudio de prefactibilidad optimizado del proyecto de óxido de zinc de Accha. Así lo reveló Jorge Benavides, en Expobolsa 2010” www.mineriadelperu.com. 509 223 era sotto forma di gioco, ma tutto era un metodo di insegnamento di mia mamma, non era un lavoro per noi, era una gioia.”510 “Ma sia mia madre che io ne siamo convinte che i nostri Apu “siwina, ñita machu” non permetteranno questa volta che taglino il ventre alla nostra Madre.” Con questa testimonianza cerco di fare evidente come lo sfruttamento dei Territori, sia anche’esso un modo per annientare i Popoli, nonché per distruggere le loro strutture di costruzione e trasmissione della conoscenza. . . Gli Stati Nazione e la Questione identitaria Nel contesto delle società contemporanee, diventa interessante capire questo percorso di ricostituzione delle identità, per cui partendo dal fatto che l’identità non è tanto un attributo del singolo individuo quanto una relazione tra soggetti, l’identità va allora capita innanzitutto come una questione di “frontiera”. Essa è costituita dalla separazione. L'opposizione classica tra "noi" e "loro" è una delle dimensioni fondamentali di ogni identità. Questa frontiera, però, non solo è instabile e mutevole, ma è anche un gioco di conflitti e lotte fra gruppi e attori sociali. Nel contesto odierno dell’America Latina, si potrebbe dire che è più vigente che mai quello che Anderson ha chiamato “le comunità immaginate”: gli Stati nazioni.511 Prendo spunto dall’interessante analisi fatta da Bonfil Batalla, per continuare ancora nel contesto Messicano e la situazione di quel “Messico profondo” con cui si riferisce a la “presencia ubicua e multiforme de lo indio en Mèxico”512, nel suo libro513” “ La storia recente del Messico, quella egli ultimi 500 anni, è la storia del confronto permanente fra quelli che pretendono di mettere il paese nel binario del progetto della civiltà Occidentale e quelli che resistono radicati nelle forme di vita di stirpe messoamericana. Il primo progetto è arrivato con gli invasori europei, ma non è stato abbandonato con l’indipendenza: i nuovi gruppi che hanno preso il potere, prima i “criollos514” e dopo i “meticci” non hanno mai rinunciato al progetto Occidentale. …(…) Le differenze e le lotte che li dividono, esprimono soltanto divergenze sul modo migliore di portare avanti lo stesso Colloquio con Ernestina, nel gennaio 2012 ad Accha – Perù. Parte dell’intervista è consultabile al link: www.youtube.com /YolandaAbyaYala / Mujeres TerritorioCuerpoMemoria / Saberes Ancestrales Pueblo Quechua Perù. 511 Hannerz, op. cit, p.116 512 Bonfil, op, cit, p. 9 513 Questo libro è stato scritto fra maggio del 1985 e aprile 1987. La sua redazione è stato il compito principale, durante questo periodo, come ricercatore al Centro di Ricerca e Studi Superiori di Antropologia Sociale ( CIESAS). 514 Figli di spagnoli nati nelle colonie spgnole nelle Americhe. 510 224 progetto. L’adozione di questo modello ha dato luogo alla creazione, all’interno della società messicana, di un gruppo che incarna il progetto dominante nel nostro paese, che chiamo in questo libro il “Messico immaginario. …(..) Il progetto Occidentale del Messico immaginario è stato escludente e annientante per la civiltà Messoamericana. ..(..) Il Messico profondo è composto da una grande diversità di Popoli, Comunità e settori sociali che costituiscono la maggioranza della popolazione del paese. Quello che li unisce e li distingue dal resto della società messicana, è che sono gruppi portatori di modi di capire il mondo e di organizzare la vita, che hanno la loro origine nella civiltà Messoamericana. …(..) 515 La spaccatura culturale: “ Il Messico, con una società nazionale di più di 80 milioni di esseri umani516, in un paese di geografie multiple; una società impegnata in un progetto di sviluppo capitalista industriale, che penetra le diverse regioni, livelli sociali e gruppi in maniera notevolmente diseguale; una società così, è evidentemente complessa ed eterogenea dal punto di vista culturale. Ma queste disuguaglianze, nel caso del Messico hanno un sottofondo molto più profondo che condiziona la dinamica culturale ….(..) Qui, la cosa è diversa: l’opposizione di fondo che determina la struttura e la dinamica culturale della società messicana è il confronto fra due civiltà, la Messoamericana e quella Occidentale cristiana.”517 …(..) “ La presenza di due civiltà così differenti, implica l’esistenza di progetti storici diversi. …(..) Il sorgere e il consolidamento del Messico come uno Stato indipendente, durante le turbolenze del secolo XIX, non ha portato nessun progetto diverso, niente che non fosse l’intenzione di portare il paese attraverso i sentieri dell’Occidente. Nel definire la nuova Nazione Messicana, è stata concepita come culturalmente omogenea, perchè nello spirito europeo dell’epoca, dominava la convinzione che uno Stato è l’espressione di un popolo che ha la stessa cultura, la stessa lingua, come prodotto di una storia comune”518 “L’indio nemico della modernità: “Quale il Messico immaginario durante il secolo XIX?. Un paese che vuole essere ricco e moderno. La ricchezza viene percepita come il risultato naturale del lavoro individuale e si esprime nella proprietà privata. Le ricchezze si giustificano dal maggiore o minore impegno che ognuno mette a disposizione della produzione; è un fatto individuale” . …(..) Il Messico profondo risultava essere la negazione radicale del Messico immaginario. Le dispute per la terra, che alcuni volevano merce libera, proprietà individuale, e gli altri, la chiedevano collettiva e inalienabile. Queste sono le prove più evidenti di una divergenza inconciliabile. ….. Questo “Indio” costituiva una minaccia intollerabile per la 515 Ivi, p. 21 A 2010 Si registra una popolazione di 15.175.862. Fonte: Consejo Estatal de Poblaciòn. Secretarìa general de Gobierno. www.qacontent.edomex.gob.mx/.../poblaciontotal/in 517 Bonfil, op. cit. p. 94 518 Ivi, p. 103 516 225 pace e la tranquillità che richiedeva il Messico immaginario. Così, viene impiegata di nuovo la forza per sottometterlo. Si usa il servizio militare obbligatorio “ la caserma civilizza l’indio”519 3.3.3 La Questione indigena e la politica )ndigenista Davanti al “problema indigeno” , continua Bonfil in riferimento al caso del Messico, la rivoluzione “fatta governo” istituzionalizzò un progetto politico per i popoli indios, cercando dei riferimenti teorici in sintonia coi tempi Questo processo diede origine a quella politica conosciuta come “indigenismo”. “La figura a cui si riconosce la paternità dell’indigenismo in Messico è Manuel Gamio, il primo antropologo professionale messicano. Nel 1916, Gamio publica “Forjando patria”, opera in cui si plasmano le direttrici fondamentali che seguirà la politica indigenista anche fino a date molto recenti. Gamio condivide in quei tempi i punti di vista del relativismo culturale520, della scuola nordamericana che è stata introdotta molto presto in Messico, con il suo 521 principale esponente Franz Boas . “…(..) si tratta di incorporare l’indio, cioè, “disindianizzarlo”, fargli perdere la sua specificità culturale, storica. L’assunto in gioco è trovare il modo migliore per farlo. Per Gamio, il cammino è chiaro: “ per incorporare l’indio non pretendiamo di europeizzarlo di colpo; anzi, dobbiamo indianizzarci noi un po’, in modo di presentare già diluita nella sua, la nostra civilizzazione, che allora non troverà esotica, crudele, amara e incomprensibile. Naturalmente non deve essere portato ad un estremo ridicolo l’avvicinamento all’indio” …(..) Come si vede, Gamio, si riconosce affiliato alla cultura Occidentale (“nostra civilizzazione”: la non india), e quindi, si assume come portavoce del Messico immaginario. ..(..).. Le tesi di Manuel Gamio continueranno ispirando l’indigenismo messicano durante le decadi seguenti e segneranno il cammino del lavoro indigenista in altri paesi dell’America Latina. I linguaggi, l’impalcatura teorica, cambieranno con il passare degli anni, si aggiornano, si raffinano; ma sosterranno la visione dell’indigenismo come una teoria e una pratica politica disegnata dai “ no indios” per cercare l”integrazione” dei Popoli indios alla nazione”.522 519 Ivi, pp. 156 e 157 Ibidem. “Secondo le prospettive teoriche del relativismo, le manifestazioni culturali dei diversi popoli non possono essere gerarchizzate in una sola ed unica tavola di valori, come propone l’evoluzionismo unilineare, ma propone che ognuna di loro debba intendersi e valorizzarsi nel suo proprio contesto e compararsi senza che il confronto delle une con le altre faccia uso di criteri di superiorità e inferiorità.”. 521 Ibidem. Franz Boas intervenne nella fondazione della Scuola Internazionale di Archeologia ed Etnografia Americana, creata in occasione delle feste del Centenario in Messico” 522 Ivi, 172 520 226 3.3.3.1 La Scuola ufficiale e l’ indigenismo in Messico Nel 1922 si creano le scuole rurali; nel 1925 si fanno partire le “Missioni culturali”; nel 1931 Moisès Sàenz dirige il gruppo che porterà avanti il programma pilota di educazione indigena in Carapan, Michoacàn; nel 1936 il presidente Càrdenas crea il “Departamento Autònomo de Asuntos Indìgenas”; nel 1940 si celebra il primo Congresso Indigenista Interamericano a Pàtzcuaro; nel 1948 si crea l’ “Insituto Nacional Indigenista”. “Queste date rivelano la continuità dell’impegno educativo dei governi rivoluzionari in relazione alla popolazione indigena. La meta non è mai cambiata: portare educazione a chi non ce l’ha. Quale educazione?, con quali contenuti?: Quelli della cultura nazionale, con le modalità della cultura Occidentale. ..(..) In principio e per qualche tempo, i portavoci di questo “messaggio di civiltà” erano i no indios, i portatori naturali della civiltà Occidentale. Il processo è fallito: né loro capivano gli indios né gli indios capivano loro. È stato quindi necessario cercare un’altra soluzione e si decise di fare ricorso agli stessi giovani indios: scegliere i migliori, portarli via dalle loro Comunità, portarli in un mezzo “civilizzato”, preferibilmente in città, sottoporli a un lavaggio del cervello attraverso il quale riconoscessero l’inferiorità della propria cultura e la superiorità della cultura nazionale e riportarli successivamente nelle loro Comunità, già diventati “agenti di cambiamento”, per riuscire a fare da dentro in modo più facile, l’ambita trasformazione che porterebbe definitivamente al “progresso..(..), Questi giovani, così come le lingue indigene, sarebbero utilizzati come strumenti utili alla “de-indianizzazione”523” L’obiettivo di questa politica è stato creare un sistema scolastico uniforme. Si cerca un insegnamento omogeneo sotto il postulato ideologico di cercare l’uniformità della società per consolidare lo Stato Nazionale. Il risultato non può essere altro: L’istruzione scolastica ignora la cultura della maggioranza dei messicani e pretende di sostituirla anziché svilupparla. Questa è un’educazione pianificata dal centro del governo, dalla città e dai Centri di potere. - I Promotori “indios” Come riferito da Bonfil, una delle strategie indigeniste dei governi della Rivoluzione, già da gli anni trenta, è stata quella di formare alcuni giovani indios delle Comunità. Con gli anni le fila di questi “agenti di cambiamento” crescevano, così che negli anni cinquanta sembravano 523 Ivi, p. 173 227 marciare anche in maniera accelerata, ma è stato proprio attraverso questo processo, che si è iniziata una presa di coscienza. Alcuni giovani di fronte alla delusione di non riuscire a superare la categoria di “maestro indio” e andare in città a fare carriera, e altri dalla presa di consapevolezza al confrontarsi con una realtà india comunitaria, diversa da quella pezzente a loro descritta nei diversi corsi a cui erano stati indirizzati prima di diventare promotori, hanno cominciato ad immaginare un progetto alternativo di educazione propria. Nel mio camminare nello Stato del Chiapas ho avuto occasione di dialogare con persone che hanno fatto parte di questo processo. La testimonianza di Vita che riporto di seguito, mi è stata concessa dal mio tutor, in una situazione privilegiata a cui ho avuto l’opportunità di essere presente: Il primo incontro di intellettuali indigeni, all’UNICH, nel febbraio 2011, dove ho condiviso quattordici storie di vita, la cui profondità spero di riuscire a trasmettere in queste righe. “Vedo di riuscire a sintetizzare 48 anni di vita. Io sono Maya Tsotsil di Jocosìc, Huixtàn. Sono orgoglioso di avere ereditato e mantenuto la mia lingua e la mia cultura Maya, ma sono anche consapevole che anche se nelle mie vene corre sangue Maya, nel mio cervello c’è anche sangue europeo. Mia nonna ha procreato un figlio di un “kaxlan”524. So dai suoi racconti quanto hanno sofferto, ma hanno superato tutte le difficoltà e si sono mantenuti e li ringrazio per gli insegnamenti trasmessi che conservo fino ad oggi. Parlerò quindi come Maya Tsotsil, come parte di questo popolo, e spero di non cadere in parole come “loro” o “quelli”, come spesso accade, purtroppo, anche ad alcuni dei nostri fratelli. Sono cresciuto nel seno della lingua della Comunità Sono nato nel 1963 e ricordo ancora le grandi feste delle nostre Comunità. Ricordo lo scambio dei prodotti fra i nostri Popoli. All’età di 9 anni, avevo già conoscenza dell’agricoltura e di certi lavori nella milpa. Conoscenze che conservo fino ad oggi…(…) Allora, da bambino ribelle che ero, a 10 anni ho detto a mio padre che io me ne volevo andare a San Cristobal ( la città più vicina) perchè volevo continuare a studiare. In quel momento avevo una illusione: la radio. Una cosa curiosa perché mia madre aveva risparmiato dalla vendita dei nostri prodotti, fagioli, zucche, mais e pesche, per comprare la radio. Ero curioso di sapere com’era fatta una radio e anche dalla musica. Mia madre lasciava questa radio accesa ore e ore ed io ascoltavo la musica. Era una musica forte che mi striminziva il corpo e che io non avevo mai ascoltato. Oggi so che era musica classica. 524 Termine usato dai Maya Tsotsil per indicare le persone non indigene. 228 Allora, trasmettevano un programma che si chiamava “sviluppo negli alti del Chiapas”, e lì ascoltai gli studenti di Zinacantàn ( un altro municipio) che cantavano per la radio, mi è sembrato bello e allora ho pensato: “anch’io voglio cantare.” Ma in quel momento mio fratello che era più grande di dodici anni, mi ha detto che si stavano formando i primi “promotori” e che anche se avevano finito soltanto il terzo anno di primaria potevano imparare a scrivere in spagnolo e a fare i conti, e dopo insegnare nelle Comunità. E lui mi parlava con orgoglio di questo “promotore”. Era una figura che aveva prestigio, fama, parlava spagnolo e poteva parlare con i “kaxlàn”, che poteva bere della birra e dei liquori fini e avere tante donne. Insomma si dicevano un sacco di cose, ma la cosa che a me più interessava era il fatto che il professore poteva parlare con la gente, questo mi attirava moltissimo. Io non immaginavo che avrei studiato antropologia. Solo mi ricordo che mentre camminavamo con mio padre lui mi diceva: “tu devi prepararti per registrare le tradizioni della nostra cultura” ed io che facevo allora solo il secondo anno di primaria, gli rispondevo: “bueno, bueno” ( bene, bene), penso che questo mi sia rimasto in mente e così un giorno sono arrivato a studiare questa “perdizione” o “benedizione” , scherzosamente parlando. Erano gli anni settanta (1978 – 1979), io avevo già quasi 16 anni e mi offrivano l’opportunità di essere promotore, ma intanto cresceva questo stereotipo del promotore che si gonfiava con il prestigio, che beveva e aveva molte donne, che nella mia mente si era creato come un blocco e non volevo sapere niente di questo discorso. In più mi cominciavano ad interessarmi di molte altre cose e volevo continuare a studiare, nonostante tutte le difficoltà che passavo mentre lavoravo e studiavo. Quando ho finito il sesto grado della primaria, era il 1982, ed era l’ultimo anno per accedere all’educazione nel sistema delle “Normal”525. Il mio insegnante di scienze sociali mi ha detto che lui mi poteva aiutare per entrare alla “normal”. Il mio insegnante di Scienze Sociali mi disse che poteva aiutarmi ad entrare alla “Normal” così studiavo altri tre anni e potevo diventare professore. Anche in questa occasione ho detto all’ insegnante che mi offriva questa possibilità di volere continuare la “prepa” (educazione superiore). Nel frattempo ho continuato a lavorare e questo mi ha dato la possibilità di conoscere la logica di pensiero e l’atteggiamento della società “kaxlana”, questa è stata l’altra scuola, quella della Vita. Così sono andato avanti, dal lavoro in una fabbrica di salumi, sono passato a “factotum” nel “Instituto nacional de investigaciones sobre recursos bioticos”. Lì ho fatto dai lavori più umili, fino ad arrivare alla qualifica di tecnico, avendo così occasione di entrare in contatto con affermati ricercatori occidentali, da cui ho imparato il rigore del “metodo scientifico”. Intanto che lavoravo lì mi sono laureato in antropologia, dopo un tentativo fallito di studiare 525 Le scuole “normal”, sono adibite alla formazione degli insegnanti in America Latina 229 medicina, a cui ho dovuto rinunciare per mancanza di risorse economiche. In quel periodo non c’erano borse di studio per studenti indigeni. Così sono arrivato al 1994, l’anno del movimento Zapatista e qui in Chiapas era un momento di grande confusione e in questo contesto nasce la “Segreteria dei Popoli Indigeni”, dove mi chiamano a lavorare all’interno di un progetto chiamato “Foro delle politiche indigeniste”. Lì ho cominciato a lavorare insieme a molti amici, con una grande capacità di analisi e una grande chiarezza, fra cui Jacinto Arias. Uno dei nostri grandi dibattiti giravano intorno alla creazione delle Università proprie e altri livelli di organizzazione, come per esempio: le regioni autonome. Questo incarico è durato nove mesi al CELALI526, e da lì me ne sono andato per continuare i miei studi facendo un master. Un’altra scuola molto importante, in cui ho dovuto confrontarmi con le strutture rigide dell’Istituto Tecnologico di Oaxaca, dove la mia proposta come originario tsotsil non trovava spazio. Ho dovuto battagliare con le strutture accademiche, ma grazie alle mie esperienze di lavoro nonché al sostegno di grandi esperti che mi hanno guidato sono riuscito a finire il master. Finito il master, nel 2002 lascio definitivamente il CELALI e fra il 2003 e 2004 sono stato docente all’UNACH527, nel frattempo partecipo a vari concorsi per diversi incarichi, ma purtroppo hanno vinto altri anche se non avevano la minima conoscenza delle realtà dello Stato del Chiapas. Così mi sono reso conto che c’è un grande vuoto nella formazione di alto livello fra di noi, tutti i ricercatori erano concentrati in Città del Messico, e come esperti vengono qui con i loro progetti e la loro logica Occidentale e capitalista. Per questo le cose non funzionano nella nostra realtà. Quindi adesso è urgente qualificare la nostra professionalità , stiamo ancora perdendo spazi e dietro a questi progetti stiamo perdendo Territorio e Autonomia, perché dietro a tutti questi progetti arrivano le’ONG, col pretesto di volere proteggere la Selva Lacandona, intanto che portano via le nostre risorse, e intanto noi Popoli facciamo il gioco del Sistema litigando fra di noi. Così, dopo avere finito anche il dottorato, sono arrivato al 2008, qui all’UNICH si presenta la “convocatoria”, vinco il concorso e ora sono qui, insieme a voi in questa costruzione collettiva a cui vi ho voluto convocare per riflettere sugli spazi educativi e accademici in cui ci troviamo oggi.”528 526 Centro Estatal de Lenguas Arte y Literatura Indigena Universidad Autonoma del Chiapas 528 Storia di Vita condivisa da Miguel Sànchez, docente della UNICH. San Cristobal de las Casas, febbrario 2011. 527 230 3.3.4 L’educazione Bilingue Durante la maggior parte dell’epoca repubblicana, in Messico, le autorità del governo e in particolare quelle del settore educativo hanno ignorato la multietnicità e la pluriculturalità del continente, così come sono stati sordi anche alla pluralità linguistica che si muoveva dappertutto. Da quanto ho riportato nelle pagine precedenti, e da quanto emerso dalle diverse testimonianze, si è visto che la scuola nelle aree indigene di lingua vernacolare è stata pensata come istituzione che doveva attuare l’omologazione linguistica verso la lingua dominante, la lingua castigliana, obbligando gli studenti indigeni a ripetere due o tre anni di seguito finché non riuscivano a raggiungere il livello degli studenti monolingue, parlanti il castigliano. “In Messico, agli inizi degli anni’40 in una riunione degli Stati Americani, a Pàtzcuaro, Messico, agli inizi della costituzione dell’istituto Indigenista Interamericano, nell’ambito continentale viene riconosciuta la necessità di utilizzare gli idiomi indigeni per i processi iniziali di alfabetizzazione; avendo però chiara, l’urgente necessità di assimilare le popolazioni indigene nel binario della cultura e della lingua egemonica. Sorge così l’idea di un’educazione bilingue, come una modalità compensatoria in grado di mettere allo stesso livello, in un tempo determinato la popolazione indigena con quella non indigena, in modo che a partire dal terzo o quarto grado di educazione basica, si potesse veicolare l’educazione nell’idioma egemonico. In tale ambito sono nati particolari strumenti legislativi, nello specifico in paesi come il Messico e il Perù. Qualche anno prima nasceva negli Stati Uniti, l’(Instituto Linguitico de Verano/ ILV)529, una istituzione della chiesa evangelica, che è diventata il partner più importante degli Stati latinoamericani nel progetto assimilatorio. Con questa alleanza si sono sviluppati gli incipienti processi educativi bilingue. In Guatemala e in Messico, per esempio, si sono avviati dalla seconda metà della decade del trenta e gli inizi degli anni’40; nel Perù e nel Ecuador, a metà della decade del quaranta e in Bolivia dal 1955. In Bolivia, questo istituto ( ILV) fu convocato durante la Rivoluzione Nazionale del1952, nel quale si proponeva fra i cambi strutturali, l’ampliamento del raggio di azione educativo alle aree rurali, nell’intenzione d’inserire l’ “indio” nella vita nazionale. Così l’(ILV), con un accordo del governo boliviano di allora, ebbe la responsabilità di portare questa educazione nelle regioni amazzoniche del Perù. Questa prima proposta educativa bilingue impiantata in America Latina propiziava l’apprendimento iniziale della lettura e la scrittura in lingua vernacolare e l’apprendimento 529 Istituto Linguistico di Estate 231 orale del castigliano come seconda lingua nei primi due o tre anni di scolarità per fomentare poi il passaggio ad un’educazione veicolata esclusivamente in castigliano. Questa politica riscontrava interessi sia da parte degli Stati che dai missionari-linguisti. Agli Stati nazionali interessava arrivare alle loro popolazioni nei territori lontani, nella foresta tropicale amazonica, in modo da consolidare il territorio nazionale e risolvere il problema delle frontiere, assimilando così quella parte della popolazione con cui fino a quel momento non era ancora entrata in contatto; per i nuovi missionari invece, si trattava di un’occasione per evangelizzare, convertire alla nuova fede e “salvare”, quelli, che a differenza degli indigeni della parte alta delle Ande, erano già stati convertiti dai missionari cattolici nei secoli precedenti.”530 Questi processi sono stati considerati, fino quasi agli inizi degli anni’60, come politiche nazionali. Soltanto negli anni’70, sorgono i primi programmi educativi alternativi istituzionali, che spogliati dal criterio neo-evangelizzatore e staccandosi dalla politica nazionale di “castellanizaciòn”, hanno cominciato ad esperimentare nuove forme di bilinguismo scolastico. 3.3.4.1 L’educazione )nterculturale Bilingue E)B Le situazioni precedentemente accennate, hanno portato i movimenti indigeni a riflettere sulla necessità di trascendere il piano meramente linguistico e di proporre di modificare i programmi di studio, rendendo l’urgenza di modificare in modo sostanziale il curricolo scolastico, in modo che questo potesse dare conto dei saperi, delle conoscenze e dei valori tradizionali. Con questo si cercava, da una parte, di rispondere alle necessità basilari del processo di apprendimento, dall’altra, di avvicinare di più la scuola alla Comunità e alla vita quotidiana dei soggetti destinatari di questa educazione. In questo modo, l’educazione nelle zone indigene dovrebbe diventare un qualcosa di più che un’educazione bilingue. Cominciano, quindi, a prendere forma le riflessioni sui contenuti, sulle metodologie e sulla necessità della partecipazione comunitaria, dei padri e delle madri nella gestione e nel “che fare” educativo delle Comunità. 530 PROEIB-ANDES. Revista Iberoamericana de Educación es una publicación monográfica cuatrimestral editada por la Organización de Estados Iberoamericanos (OEI) No. 20 La educación intercultural bilingüe en América Latina: balance y perspectivas. Mayo – Agosto 1999. 232 Bisogna tenere conto che la EIB non è stata una concezione né degli Stati né dei governi, ma è stata una rivendicazione nata dagli stessi Popoli. Su questo versante gli Stati latinoamericani, alcuni influenzati dalla corrente “indigenista”, in particolare Messico e Perù, portarono avanti più in modo discorsivo la questione dell’educazione dell’ “indio”, e la necessità di incorporarlo e assimilarlo alla vita nazionale, anche se per questo fosse necessario inizialmente utilizzare le loro lingue ancestrali. “agli inizi degli anni’80 si comincia in America Latina, a parlare di “Educazione bilingue interculturale (EBI) prevalentemente o Educazione Interculturale bilingue ( EIB).” Un’educazione radicata nella cultura di riferimento degli educandi, ma aperta ad incorporare elementi e contenuti proveniente da altri orizzonti culturali, compresa la cultura universale. In questo modo, l’educazione bilingue, viene ora chiamata anche interculturale, per fare riferimento esplicitamente alla dimensione culturale del processo educativo e ad un insegnamento significativo, social e culturalmente situato. La dimensione interculturale dell’educazione dovrebbe anche fare riferimento alla relazione curriculare che si stabilisce fra i saperi, conoscenze e valori propri o appropriati da parte delle società indigene e quelli sconosciuti o altrui, nonché la ricerca di un dialogo e di una complementarità permanente fra la cultura tradizionale e quella Occidentale. “Un altro aspetto della EIB, importante da considerare, è il fatto che in alcuni paesi si abbiano avviato iniziative d’insegnamento per recuperare la loro lingua ancestrale, rivolte a bambini e adulti che pur riconoscendo la loro appartenenza ad un Popolo originario, hanno perso la propria lingua, per essere stati educati in un’idioma egemonico, castigliano o portoghese. Queste esperienze riguardano specificamente alcuni Popoli,le cui organizzazioni hanno deciso volontariamente di rivendicare la loro lingua ancestrale e propiziare l’insegnamento, nel tentativo del suo re-inserimento nella vita scolastica. Normalmente questo succede in contesti dove alcuni “maggiori”, uomini e donne che conservano ancora la loro lingua, sono disponibili a dare supporto a questo processo. Alcune esperienze da riportare come abbastanza significative sono: i “ramas” e i “garìfunas” del Nicaragua; i “cocama-cocamilla” in Perù; i “Guaranì” in Bolivia, gli “Aymara” del nord del Cile, e alcuni gruppi “Mapuche” sia nel Cile che nell’ Argentina. Tutto questo processo ha portato in molti paesi, alla creazione di dispositivi legali che riconoscono i diritti linguistici e culturali, determinando anche riforme delle loro costituzioni politiche, come nel caso di: Argentina, Bolivia, Brasile, Colombia, Ecuador e Messico. 233 Undici costituzioni latinoamericane, e innumerevoli leggi e decreti, riconoscono il diritto delle popolazioni indigene alla propria lingua. Queste riforme sono state motivate e/o ratificate da una legislazione internazionale.”531 Tuttavia, il ruolo della “Scuola ufficiale” in materia interculturale è assai scarso, come testimonia ancora Monica Michelena, nel caso dell’Uruguay, situazioni molto simili negli altri paesi del continente, dove l’educazione interculturale dipende più delle volontà dei singoli insegnanti e non in seguito a disposizioni di tipo istituzionali. “Ufficialmente in Uruguay non possiamo parlare di educazione interculturale. Personalmente, in quanto insegnante, ho promosso alcune iniziative all’interno dei licei dove ho insegnato ma è una cosa che dipende più dalla sensibilità delle singole insegnanti che dalle politiche educative ufficiali. Un modo con cui ci siamo trovati a parlare del processo Charrùa è stato attraverso l’arte, visto che è una materia della struttura curriculare ufficiale, quindi, a partire dall’arte parliamo anche della sfera spirituale, una dimensione che viene repressa dalla razionalità in maniera molto forte e con cui, invece, attraverso tutte le espressioni artistiche, pittoriche, musicali, poetiche si possono trovare delle connessioni. Un’esperienza interessante è stata quella di un percorso che abbiamo coordinato con l’insegnante di disegno e la mia materia, matematica. Abbiamo iniziato un lavoro sulle pittografie dei Charrùa, sia dal punto di vista matematico che geografico. Penso che la parte artistica può essere la porta che connette i due saperi, perché l’arte si connette con la spiritualità: prima è arte visiva, ma dopo trascende verso il cuore, quindi la via è il cuore. In questo modo possiamo parlare di una geometria che abbia una ragione spirituale, che abbia un proposito spirituale nella trasmissione del sapere e così l’insegnante di disegno si può collegare e spiegare la sua materia attraverso la spiritualità Charrùa”.532 “Un’altra cosa importante da sottolineare è che il nostro processo è diventato anche uno strumento politico. Pensi che la canzone alla Luna l’abbiamo ricostruita nel processo culturale, ma è diventata anche uno strumento politico. L’abbiamo fatta nel 1996 e nel 1999 è stata pubblicata in un libro ufficiale dell’educazione primaria.”533 Per quanto riguarda invece la situazione in Argentina, vorrei accennare quanto appreso dall’esperienza realizzata durante la mia visita al COAJ, nella città di Jujuy, dove ho avuto la possibilità di intervistare più di 30 persone, studenti e docenti del corso di “Tecnicatura en 531 PROEIBANDES, op.cit. Ibidem 533 Intervista a Monica Michelena, Montevideo, marzo 2011. L’intervista può essere consultabile al link: www.youtube.com /YolandaAbyaYala / Mujeres TeritorioCuerpoMemoria / Pueblo Charrùa. 532 234 desarrollo Indìgena” iniziato nel 2010 e oggi riconosciuto dallo Stato Argentino come Corso di laurea triennale.534 Il mio periodo al COAJ è stato molto breve in termini di giorni ma molto ricco in termini di esperienze grazie alla disponibilità e all’interesse, anche delle persone intervistate, condividere e fare conoscere le loro esperienze, di risultato delle lotte e delle rivendicazioni dei Popoli Originari del Nord dell’Argentina (Kolla, Ocloya, Guaranì, Diaguita e Omaguaca). La “ Tecnicatura” ha una durata di tre anni e si realizza in sei sedi ( Quiaca, Abra Pampa, Humahuaca, Tilcara, San Salvador, Libertador General San Martin), con la partecipazione di 400 studenti al primo anno. Una delle novità di quest’esperienza è la creazione della “Coppia Pedagogica”, formata da un’insegnante con formazione nell’accademia occidentale e un Maestro/a, Savio/a delle Comunità, chiamato “Idoneo”. Questo punto, insieme all’alta partecipazione della donna nel gruppo di lavoro al COAJ, sono, a mio avviso, due grandi pilastri su cui poggia quest’esperienza. Riporto, quindi, il frutto di questo incontro di volontà ed energie, attraverso il quale il COAJ ha nutrito la mia esperienza, nell’intenzione di contribuire alla costruzione di quegli “altri Orizzonti del Possibile” in cui si stanno impegnando i Popoli Originari. Innanzitutto vorrei trasmettere l’entusiasmo con cui le persone hanno vissuto questo percorso formativo, ritrovando, attraverso il loro incontro e le loro pratiche, la restituzione di una storia negata e l’affermazione di un’identità di cui non bisogna più vergognarsi. Entusiasmo che trasmettono le parole di Florencia Pujka, studentessa Kolla di 57 anni. “ Non ho mai negato le mie origini, ma scoprire la nostra vera storia, oggi mi fa sentire orgogliosa e più forte. Grazie alla Tecnicatura sento che la mia autostima, la mia personalità è cambiata e riesco ad esprimerla senza paura. Nel mio percorso personale, sono stati fondamentali gli insegnamenti riguardanti il Diritto, la Spiritualità, la Storia e le Tecnologie. Altro punto molto importante è stato l’affermare e riconoscere l’Alimento come sapere ancestrale attraverso il quale siamo riusciti a mantenere e trasmettere la nostra cultura.”535 Nella mia relazione presentata al COAJ ho raggruppato gli argomenti che le persone intervistate hanno indicato come punti di forza all’interno del loro percorso formativo. 534 Intervista disponibile al link: www.youtube.com “Panorama Jujeño. COAJ y Colegio de Tècnicos incorporan Tecnicatura Superior en Desarrollo” 535 Intervista realizzata a Jujuy, Argentina, nel marzo 2012 235 Questi sono stati i risultati: l’importanza delle pratiche della Spiritualità Ancestrale come filo connettore dell’Identità. Il ruolo dell’insegnamento della Storia “Vera” come asso fondamentale nella ricostruzione collettiva in quanto Popoli Originari. L’educazione sui Diritti dei Popoli come strumento strategico nella difesa del Territorio e della Cultura. L’importanza della “Coppia Pedagogica” dove la figura dell’idoneo ha avuto un ruolo fondamentale per comprendere e apprendere la realtà locale. metodologie proprie in merito alla ricerca e alla L’insegnamento delle Proiezione Comunitaria in grado di rispondere ai bisogni individuati all’interno dalle proprie Comunità e non imposti da attori esterni. Infine, l’insegnamento delle TICS come strumento di cui appropriarsi, considerando il suo valore strategico per la diffusione della conoscenza nonché come sostegno alle loro lotte per il Territorio e alla ricostruzione della loro memoria, come accennato dalla testimonianza di Lorena Montes, giovane laureata , ex-docente oggi parte del gruppo tecnico di gestione del COAJ. “ Essere stata docente della Tecnicatura è stato fondamentale nel mio percorso personale . Abbiamo fatto un esercizio molto bello insieme a mia madre, per la risignificazione delle nostre identità. A livello professionale è stato molto arricchente avere cominciato a lavorare con e per le donne. Sentivo che attraverso ogni cosa che facevo onoravo la memoria di mia nonna, è stato anche una rielaborazione del dolore dei mie genitori che negavano il passato per il dolore che si portavano dentro dopo avere visto il loro paesino sepolto dalla miniera ( fa riferimento alla Miniera Pilquitas a Rinconada-Nord Argentina)”536 Complemento quanto sopra riportato, condividendo l’esperienza di Natalia Sarapura537 Originaria Kolla, Coordinatrice generale del COAJ e oggi Preside del l’Istituto d’Educazione Interculturale “Gloria Pèrez”, nonché vicepresidente del Fondo Indigeno per L’America Latina e i Caraibi, responsabilità che rendono conto del suo impegno etico e politico nella causa dei Popoli Originari dell’Argentina, responsabilità che porta avanti dai suoi 14 anni di età. “Io mi sono impeganta nella causa indigena da quando avevo 14 anni. Essermi formata con uomini e donne che hanno inaugurato la causa indigena in Argentina è stata una grande 536 Ibidem Natalia Sarapura, Coordinatrice Generale del COAJ, Preside dell’Istituto d’Educazione Interculturale “Gloria Pérez” a Jujuy e Vicepresidenta del Fondo Indigeno, per l’America Latina e i Caraibi. 537 236 scuola, soprattutto in un paese come il nostro che fino a poco tempo fa negava l’esistenza dei Popoli originari. È stata una formazione basata sull’identità, la lotta e la rivendicazione dei popoli originari. Sono stata una giovane indigena migrata in città e qui sono riuscita a partecipare in molti spazi: dalla rivendicazione dei diritti alla lotta per la terra che è in questo momento una delle lotte più grandi dei popoli originari in Argentina. Negli ultimi anni mi sono concentrata nella promozione dell’organizzazione delle donne indigene, come una parte importante del movimento dei Popoli, considerando che fino ad oggi siamo state uno “strumento”, siamo state usate per l’oppressione contro i nostri popoli. Quindi organizzare le donne è un compito importante anche come meccanismo per preservare l’identità. In questo senso, sono arrivata ad un’altra conclusione dopo questo lungo periodo di lotta ed è l’alleanza fondamentale fra l’educazione e l donne. Questa mia conclusione si basa su dati di fatto: “L’educazione è stata una domanda storica, ma non è mai stata una priorità nell’agenda delle organizzazioni indigene in Argentina. Quindi in questo orizzonte di lotta, ho intrecciato i due argomenti: Donne/Educazione. Penso, che in questo contesto, in una società globalizzata e globalizzante, l’educazione è uno degli ambiti in cui si possono pensare, proporre nuovi modelli per un vero dialogo interculturale. Gli assi centrali di questa nuova proposta sarebbero: Da una parte partire proprio da un paradigma diverso. In Argentina l’educazione è stata uno strumento colonizzante. La strategia di annientare i popoli originari, è stato un compito affidato alla scuola, questa è stata la politica chiara dello Stato Argentino. L’educazione quindi, deve essere oggi uno spazio di riparazione, di guarigione dalle ferite a cui ha contribuito. Per far questo abbiamo bisogno di un cambio di paradigma, e questo nuovo paradigma indiscutibilmente deve puntare alla visione integrale dell’essere umano come parte della Pacha Mama, alla relazione innegabile umanonatura-sacro”. “Quindi, un’educazione come spazio propiziatorio di modelli nuovi. Un’alternativa di Vita distinta. Un’educazione che possa servire di punto da partenza per ricostituire il Mondo dei Popoli Originari e abbattere i vecchi paradigmi. Quest’educazione, ribadisco, deve partire dall’identità propria, dalla relazione reciproca con la Natura. Un’educazione che riconosce il sapere acquisito e la conoscenza dei Popoli. Un’Educazione Rivitalizzante. Un’educazione che deve partire da quella conoscenza che sta nel proprio Territorio e che si nutre della Vita Comunitaria. Queste le mie conclusioni dopo 23 anni nel movimento dei Popoli Originari, e ribadisco ho iniziato all’età di 14 anni.”538 538 Intervista disponibile al link: www.youtube.com /YolandaAbyaYala/COAJ Tenicactura en Desarrollo Indìgena /Natalia Sarapura, Pueblo Kolla, Jujuy Argentina. 237 3.4 I NUOVI SCENARI: LE AUTONOMIE INDIGENE In questa prospettiva, la problematica “linguopedagogica”539 viene situata in un contesto politico e culturale a più ampio raggio. Un discorso che resiste e non parla più di assimilazione, e non più d’integrazione nel discorso politico latinoamericano, ma che rappresenta vere articolazioni di Popoli diversi che compongono uno stesso Stato nazione, e che richiamano ad un riconoscimento delle proprie differenze culturali e linguistiche, sorpassando lo spirito discorsivo dell’interculturalità per arrivare alle AUTONOMIE, come affermazione e controparte indissolubile della dimensione idiomatica, spirituale e culturale. Questo argomento è stato oggetto di dibattito e studio da parte di molti intellettuali indigeni e non in America Latina. A continuazione riporto alcune considerazioni di uno studio sull’intero continente, elaborato recentemente.540 Miguel Gonzàlez541 presenta nel suo sagggio “Autonomias territoriales indigenas y regìmenes autonòmicos (desde el Estado) en Amèrica Latina” una riflessione sui regimi di autonomia in AL, dove nonostante gli sviluppi legali in materia di diritto internazionale rispetto ai diritti dei popoli indigeni, stabilire autonomie territoriali e regimi “autonomisti” in beneficio di questi Popoli continua ad essere concepito dalle elite governative come una minaccia ai principi di integrità territoriale e della sovranità dello Stato. “ La domanda per istaurare le autonomie territoriali indigene ha preso un interesse notabile nelle diverse realtà nazionali dell’America Latina. Costituiscono oggi una parte sostanziale nelle relazioni fra i Popoli indigeni e gli Stati. Attualmente al meno sei paesi hanno incorporato nelle rispettive costituzioni politiche alcune forme di autonomia territoriale indigena o multietnica: Panamà(1972), Nicaragua (1987), Colombia(1991), Venezuela( 1999), Ecuador (2008) e Bolivia (2009). Inoltre, l’Autonomia, compare come aspetto centrale nelle agende dei movimenti sociali indigeni, intanto che si portano avanti autonomie “di facto” in diverse latitudini del continente come forma di esercitare l’autodeterminazione nella pratica davanti alla resistenza degli Stati”542 539 Per fare riferimento a due degli aspetti del dibattito in materia educativa (lingua e pedagogia) Gonzàlez M., Burguete Cal Y Mayor, A., Ortiz P., Coordinadores. La autonomìa a debate. Autogobierno y Estado Plurinaconal en Amèrica Latina.FLACSO – GTZ – IWGIA- CIESAS – UNICH. Quito, Ecuador, noviembre 2010. 541 Miguel Gonzàlez es Doctor enCiencias Polìticas, York University (Toronto). Enseña en el programa de Estudios de Desarrollo Internacional de York University. Sus lìneas de investigaciòn son movimientos sociales indìgenas, autonomìa y desarrollo. 542 Gonzàlez, op.cit, p.36 540 238 Da parte sua, Aracely Burguete Cal y Mayor543, presenta le sue riflessioni riguardo all’Autonomia come nuovo paradigma i AL, analizzando i processi di Decolonizzazione in atto come la realizzazione del “Paradigma dell’autodeterminazione dei Popoli Vs. il Paradigma coloniale”. I processi di Resistenza, come il “Paradigma delle Autonomie Vs. il Paradigma dell’assimilazione/Integrazione”. I processi di “Ricostituzione” come il “Paradigma dell’Autonomia Vs. il Pardigma del multiculturalismo”. “Nella mia opinione “la autonomia” come paradigma, è un processo in costruzione. Irrompe negli anni’70 e 80, quando il movimento indigeno latinoamericano decide di porre nell’orizzonte delle proprie lotte, la realizzazione del diritto alla libera determinazione dei Popoli. Nasce disputando egemonia ad altri vecchi paradigmi: il paradigma coloniale e il paradigma dell’assimilazione e dell’integrazionismo.”544 Infine, riporto l’analisi di Astrid Ulloa545, riguardante i diversi processi di consolidazione dell’autonomia dei popoli indigeni in Colombia, che mettono in evidenza processi autonomisti in merito al controllo territoriale, giurisdizione propria, piani di vita, gestione ambientale e sovranità alimentare, portata avanti da alcuni Popoli, fra cui: misak, pijao, nasa, camentsà, embera, tule, senù, kogui, arhuaco, wiwa e kankuamo. “richieste fondamentali dei popoli indigeni in Colombia sono: l’Autonomia e l’Autodeterminazione basate sul riconoscimento delle loro identità e specificità culturali. Inoltre, le rivendicazioni e il riconoscimento del Territorio ancestrale, inteso come l’articolazione delle diverse dimensioni (spaziali, fisiche, simboliche e dei vissuti quotidiani), il che implica il riconoscimento legale delle terre collettive, per esercitare il controllo territoriale e l’esercizio della loro territorialità, così come l’uso della natura, d’accordo alle loro pratiche culturali. Per i Popoli indigeni, Autonomia implica anche: il riconoscimento del proprio governo, cioè, le forme organizzative proprie con il riconoscimento delle Autorità ancestrali e spirituali; l’esercizio del diritto proprio (norme,istituzioni e procedure proprie di giustizia, governo e autorità): il diritto a sviluppare proposte di educazione e salute in concordanza con le loro visioni e pratiche culturali che permettano la trasmissione e permanenza dei loro saperi e la protezione della loro conoscenza.”546 Investigadora del Centro de Investigaciones y Estudios Superiores en Antropologia Social – CIESAS- Mèxico. Burguete, op. cit, p. 67 545 Astrid Ulloa, Profesora del Departamento de Geografìa de la Universidad Nacinal de Colombia. Sus linea de investigaciòn son: movimientos indigena, autonomìa indìgena, desarrollos locales, ecogubernamentalidad, etnografia, etno-ecologìa, gèenero, cambio climàtico, territorialidad, antropologia del medio ambiente y antropologìa aplicada. 546 Ulloa, op. cit, p.150 543 544 239 3.4.1 Le Autonomie e le Università Interculturali in Messico Nel parlare delle Autonomie indigene diventa assolutamente necessario accennare a quale sia stato il processo delle Università Interculturali in Messico. Sulla complessità del contesto messicano mi sono già espressa nel capitolo zero ma riprendo l’argomento in questa sede considerando altamente significative le esperienze vissute durante il mio periodo di ricerca presso l’Università Interculturale del Chiapas, essendo, appunto, lo Stato del Chiapas lo scenario in cui insorge l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN), che come accennato da Paoli nel suo libro, è un attore politico importante, soprattutto per quanto riguarda il tema delle Autonomie Indigene. Oltre allo studio di Paoli (ampiamente presentato nel capitolo primo di questo elaborato) e alle interviste realizzate a studenti e docenti – indigeni e non – della stessa università, nel parlare di autonomie indigene e interculturalità reputo di grande importanza riportare le parole dell’antropologa e sociologa Aracely Burguete Cal y Mayor, altamente riconosciuta nel mondo accademico a San Cristobal de las Casas. “Per parlare d’interculturalità penso sia inevitabile parlare d’indigenismo. Inevitabile, perché il concetto d’interculturalità, secondo me, rende conto delle politiche indigeniste in Messico. Per esempio, in antropologia, fino a 15 anni fa, si parlava di un concetto chiamato “relazioni interetniche” che si limitava soltanto a descrivere un “fatto sociale”. Descriveva l’interazione di due gruppi sociali etnicamente differenziati. Attualmente, o diciamo che a partire dagli anni Novanta, si inizia a delineare il nuovo concetto di “relazioni interculturali” per mostrare che le relazioni fra i “due altri”, non sono unicamente un fatto consapevole, nel senso di sapere che sono “lì” e che sono “così”, si cerca, con questo concetto d’interculturalità, di fare riferimento a politiche e relazioni fra gli “altri”. Si potrebbe dire che c’è stato un cambio qualitativo, nel senso di non fare soltanto la descrizione delle relazioni interetniche, ma ora, nel parlare d’intercultura sappiamo che dobbiamo tener conto di una politica pubblica, di una politica di Stato. Diciamo che è questo il contesto in cui emerge il concetto d’interculturalità: basicamente pensando che si fa riferimento ad una politica pubblica.” Sul contesto chiapaneco (dello Stato del Chiapas), penso che il concetto d’interculturalità, e con questo quello che verrà posteriormente, cioè, il sorgere delle Università Interculturali si iscrivono in una logica di Stato, attraverso la quale dare una risposta politica alle domande “autonomiche” dei Popoli indigeni.” 240 Queste domande “autonomiste” nel contesto chiapaneco fanno riferimento a quanto ampiamente spiegato da Paoli, cioè il sorgere dell’EZLN, alle quali ci rimandano ancora le parole di Aracely. “ Succede che nel 1994, alla base della lotta dell’EZLN e del Movimento Indigeno in generale c’era la domanda dell’Autonomia Indigena, e sottolineo “INDIGENA”, perché giustamente è quello che non è successo. Inoltre, insieme alla domanda di Autonomia Indigena si avanzava la proposta della creazione delle Università Indigene, che avrebbero dovuto riconoscere il protagonismo di un soggetto collettivo, i Popoli. Ci sono stati diversi tentativi: nello Stato del Chiapas, per esempio, c’è stato un grande sforzo di creazione di Università a partire dalle proposte delle stesse organizzazioni indigene. Uno di questi è stato la “Escuela Normal Indìgena Intercultural Bilingue Jacinto Canek”, che è stata inizialmente una proposta di ragazze e ragazzi Tseltal e Tsotsil di creare un’Università indigena.” “Nonostante ciò, le soluzioni che diede il Governo hanno ribaltato la domanda dei Popoli, dando avvio alla creazione delle Università Interculturali. Questo ha una rilevanza forte perché, giustamente, è stata la risposta dello Stato Nazionale alle domande di autonomia dei Popoli indigeni. Anche perché il discorso è semplice da dire, ma, difficile da fare perché l’Autonomia non fa riferimento alla Libera Determinazione intesa come Sovranità, ma ci si riferisce a una Libera Determinazione, intesa come Autonomia, il che significa, che i Popoli Indigeni sono autonomi (non Sovrani)547 nel senso che hanno una relazione di dipendenza con lo Stato Nazione ed è in questo scenario che lo Stato risponde con la creazione delle Università Interculturali, non riconoscendo in questo modo la domanda di creazione delle Università Indigene. Questa risposta viene letta sia dai Movimenti che dai Popoli, come una risposta limitata, come una risposta di controllo politico per non considerare la proposta “autonomica” nei termini in cui il Movimento Indigeno la stava prospettando. È in questo scenario che il Parlamento (Camera dei deputati e Camera dei Senatori) autorizza la creazione delle Università Interculturali in Messico, quindi, in fin dei conti, il concetto delle Università Interculturali si iscrive in una logica di politica indigenista. Sui contenuti curriculari delle Università Interculturali come punto di dialogo con la cultura Occidentale, Aracely sottolinea alcuni aspetti su cui c’è ancora molto da lavorare. “Diciamo che, da una prospettiva Occidentale, l’interculturalità è il modo migliore per esprimere il “come” si possano relazionare i popoli in una logica di un qualcosa che non è vero, o diciamo che è relativamente vero: 547 NdT 241 il fatto che l’intercultura abbia un’idea di uguaglianza, o meglio, d’interazione fra differenti “uguali”, cioè, pensare che “i due altri” possano interagire in termini di uguaglianza, cosa che in questo contesto non avviene. “Quando si creano le Università Interculturali, si comincia un processo di formazione dei curricula, e vediamo di nuovo che lo stesso concetto di Università, che esprime un solo modo di vedere l’universo, continua ad essere l’approccio predominante di queste università, ovvero, il curricula, il modo d’insegnare, il modo di trasmettere – trasmettere perché non si genera – continua ad essere lo stesso: un aula, la cattedra, il docente magistrale. Quindi questo modo in cui si trasmette la conoscenza è una grande limitazione per potere pensare che effettivamente le conoscenze indigene abbiano uno spazio all’interno di queste università. In questa prospettiva, questo concetto di università, è determinato da molti fattori, è determinato dall’imballaggio di quello che si sta insegnando – ribadisco, insegnando perché non si sta creando-, perché i curricula, i programmi, per avere il riconoscimento dello Stato, per essere riconosciuti come corsi di laurea devono adempire certi requisiti. In questo percorso di “legalità”, si privilegiano certi insegnamenti, certi contenuti che continuano ad essere del dominio – non mi piace la parola “Occidentale”, anche perché penso non sia la più adatta - ma diciamo che continuano ad avere un tipo di educazione egemonica, un tipo di formazione dove prevale ancora il pensiero dominante. Credo quindi che queste siano due limitanti importanti. La terza cosa riguarda il fatto di rispondere a domande come: studiare perché cosa? Formare a cosa? creare delle Università a quale scopo?. Questo è un punto importante da considerare. Torniamo di nuovo ad un esempio, qui a San Cristobal esiste il corso di laurea in “Turismo“, il quale ha un obiettivo ben chiaro : formare gli indigeni in modo che diventino promotori turistici, il che significa collocare i beni naturali come risorse economiche, collocare i beni naturali nel mercato, questa logica è presente in questo percorso e quindi le Università Interculturali rispondono al proposito di formare professionali indigeni che abbiano una possibilità maggiore di entrare nel mercato del lavoro, nel mercato economico. Altro esempio sono i corsi di gastronomia, cioè preparare alimenti da portare nei ristoranti, non formare per preparare alimenti che possano migliorare il livello di nutrizione della popolazione. Altro esempio ancora riguarda i corsi di Ecoturismo. Quindi il problema è lì, è presente. Questa, ribadisco è un’opinione espressa a partire dalla mia soggettività. Io vedo che le Università Interculturali sono un modello, una proposta che parte dallo Stato Nazione, per affrontare il tema dell’impiego e dello sviluppo, fra virgolette, nelle “regioni indigene”. Tale è la logica dello Stato, quindi saranno le persone, individui e i collettivi indigeni, chiamati a decidere.”548 548 Intervista disponibile al link: www.youtube.com /YolandaAbyaYala /Intercultura y Autonomìas Indìgenas/ Indigenismo e Interculturalidad en Mèxico/Aracely Burguete. 242 - L’Università Interculturale del Chiapas, UNICH. In uno scenario così travolgente come lo è lo Stato del Chiapas, prendere un'unica strada era quasi una scelta obbligatoria, per cui la mia esperienza si è concentrata sull’Università Interculturale del Chiapas, UNICH, su cui riporto di seguito alcune riflessioni. Come ampiamente spiegato sopra, le Università Interculturali in Messico sono nate come risposta del Governo alle esigenze del Movimento Indigeno e in particolare della rivoluzione Zapatista dopo il 1994. “ La politica “indigenista” di assimilazione portata avanti dal governo messicano imponeva la categoria del “meticcio” come protagonista della storia del paese, attraverso un sistema educativo, come atto consapevole dello Stato Nazionale Messicano che è durato dal 1936 al 2000. Sessantaquattro anni più quelli del regime coloniale per costringere i popoli originari a rinunciare alla loro essenza e al loro essere culturale. Il sistema delle università interculturali è stato creato nel 2003. La UNICH è stata la seconda istituzione, fondata nel 2004.”549 Le riflessioni che presento a continuazione riguardano il “che-fare” dell’educazione interculturale nell’UNICH, sottolineando che è soltanto un abbozzo di quello che sono riuscita ad apprendere nei tre mesi della mia permanenza qui. In primo luogo, riporto ciò che sarebbe la missione istituzionale dell’Unich, secondo i loro documenti istituzionali. “La Universidad Intercultural de Chiapas es una Institución de Educación Superior pública y descentralizada del Gobierno del Estado, orientada a la formación de profesionistas con “una sólida formación interdisciplinaria”, conocimiento de las lenguas originarias y capacidad para el diálogo intercultural y de saberes, éticamente responsables de su compromiso social y representantes de la sociedad pluricultural mexicana, a través de programas educativos basados en el modelo educativo intercultural que promueve procesos de aprendizaje y construcción del conocimiento donde confluyan el saber científico y saberes tradicionales, donde el reconocimiento y revitalización de la lengua y la cultura se orienta a la construcción de una sociedad abierta a la diversidad encaminada a mejorar la calidad de vida, comprometida con el desarrollo social y económico sostenible local, regional y nacional550” fuente: Plan Institucional De Desarrollo 2008 – 2016.UNICH 549 Fàbregas Puig, Andrès, Chiapas Antropologico. Lecturas para entender Chiapas, UNICH, Messico Tuxtla Gutièrrez, 2006 550 fuente: Plan Institucional De Desarrollo, UNICH, San Cristobal de las Casas, 2008 – 2016. 243 In merito agli obiettivi sopra dichiarati, come missione Istituzionale direi che la componente linguistica trasversale ai quattro corsi di laurea non è sufficiente per incidere nella formazione professionisti con un’alta capacità di “dialogo interculturale e saperi”, a mio avviso, mancano le componenti filosofiche e le fondamenta sulle quali possano poggiare i contenuti dei diversi corsi di laurea che offre l’università: Sviluppo sostenibile, Lingua e Cultura, Comunicazione interculturale e Turismo Alternativo. Ad esempio, il corso di “Sviluppo Sostenibile” richiama con urgenza un intervento deciso e forte in materia di proposte ambientali, tipo: raccolta differenziata dei rifiuti, riciclaggio, oltre all’educare alla consapevolezza sulle conseguenze della deforestazione e sulla crescita indiscriminata dell’industria del legname nella zona. Altro punto che ha suscitato il mio interesse riguarda la mancanza di contenuti specifici riguardanti l’interculturalità, così come la mancanza di discussione all’interno dei diversi corsi di laurea sul tema del “Lekil Kuxlejal”/Buen Vivir (Vita Buona) di cui mi sono occupata in questo elaborato. Dalle diverse testimonianze avute sia da parte degli studenti sia di alcuni docenti all’Unich, nel novembre 2010, questo argomento non era considerato al di là delle iniziative individuali dei singoli docenti appartenenti ai Popoli Originari, ma non è un argomento che riguardi le politiche istituzionali. Inoltre, anche in alcuni casi la percezione dell’interculturalità è ancora quella di una pratica “multiculturale”, cioè “rispetto” delle diverse culture e delle diverse cosmovisioni. Di seguito riporto alcune informazioni ricavate durante le diverse interviste con alcuni insegnanti. “L’interculturalità è il rispetto e il dialogo che deve esistere fra le diverse culture e le diverse cosmovisioni. Qui all’Unich, di fatto i nostri gruppi sono gruppi interculturali, nel senso che sono presenti nell’aula studenti appartenenti ai diversi popoli originari del Chiapas, quindi il lavoro in gruppo va generando questo dialogo interculturale. Un altro aspetto che propizia l’interculturalità è il lavoro sul campo, attraverso la materia di “Vinculaciòn Comunitaria” che permette l’interazione con le diverse Comunità.” “Sul punto dei contenuti certamente ci sono ancora delle valutazioni da fare, ma questo è un argomento su cui si sta lavorando in questa riforma curriculare per il 2011, la quale, però,riguarda specificamente il disegno delle mappe curriculari all’interno della metodologia delle competenze, in questo orizzonte si sta considerando anche la riforma nei contenuti.551” Dr. Josè Antonio, insegnante dell’area Ambientale-prodottiva. Società, Natura, Ecologia e “Vinculaciòn Comunitaria”. Intervista realizzata nel maggio 2011 a San Cristobal de las Casas. 551 244 Sullo stesso argomento ne ho discusso anche con il Dottore Joaquin Peña Piña, coordinatore dei corsi di laurea in Sviluppo Sostenibili e Turismo alternativo. “ Per quanto riguarda l’interculturalità, penso implichi il rapporto con culture diverse, ma questo implica anche interazione, perchè ci sia intercultura il riconoscimento non è abbastanza, se così fosse si parlerebbe soltanto di multiculturalità. Quindi il rispetto comporta anche il riconoscimento e l’interazione. Un punto a mio avviso abbastanza critico, riguarda il corso di laurea in Turismo Alternativo, dove le singole materie hanno un’impostazione abbastanza industriale, diciamo un marketing orientato verso il consumo. Queste le parole del coordinatore, Dr. Peña Piña. “Per quanto riguarda i contenuti, certamente ci sono ancora delle cose da migliorare. Il programma del 2005 contiene alcune specificità proprie delle Università interculturali, ma non avevamo esperienze precedenti, per cui già nel 2008 abbiamo iniziato a parlare delle riforme, adesso in questa riforma del 2011 vedremo di ampliare i contenuti in ambito interculturale.” Sull’argomento rifiuti e riciclaggio ho insistito ad indagare, arrivando direttamente al Dr. Peña, in quanto sotto il suo coordinamento si trova anche il corso di laurea di “Sviluppo sostenibile”. In merito la sua risposta alle mie sollecitazioni. “Fra gli obiettivi della Facoltà, esiste un progetto ambientale integrale che comprende un impianto di riciclaggio, un programma di recupero delle aree di riserva ecologica dell’università, un orto botanico, ma esiste soltanto sulla carta perché ancora non ci sono state le risorse economiche per farlo”552 Da queste e altre testimonianze ricavate lungo il mio percorso all’Unich è stato confermato che il processo dell’Unich come università interculturale è ancora un processo in costruzione, sia per quanto riguarda l’elaborazione di contenuti propri, sia per lo sviluppo delle pratiche interculturali tanto a livello dello stesso corpo accademico quanto degli studenti. Dr. Joaquin peña piña, Coordinatore dell’area di Processi Naturali e dei corsi di laurea in Sviluppo Sostenibile e Turismo Alternativo. UNICH, Intervista realizzaa nel maggio 2011 a San Cristobal de las Casas. 552 245 3.4.2 Autonomie e Rivoluzione Educativa nello Stato Plurinazionale della Bolivia I popoli indigeni originari contadini, le organizzazioni sociali, le boliviane e i boliviani, attraverso l’Assemblea Costituente, hanno tracciato un nuovo orizzonte nel paese, hanno costruito, attraverso la mobilitazione sociale e il dialogo democratico un progetto politico il cui scopo è il Vivir Bien ( Sumak Kawsay). Questo progetto politico si rispecchia nella Costituzione Politica dello Stato (CPE) che stabilisce dentro alla cornice dei diritti, l’Educazione, garantita dallo Stato. Nonostante, ciò per riuscire ad adempiere a questo obbligo, il mandato dei movimenti sociali è tale per cui il proprio Stato deve trasformarsi, passare da uno Stato monoculturale, centralista e promotore dell’interesse privato, allo Stato progettato nella CPE: Plurinazionale, Autonomo e incidente nello sviluppo economico. Piano Strategico Istituzionale 553 Lo Stato Plurinazionale necessita di un’educazione che accompagni il processo di trasformazioni strutturali che vive la Bolivia, come indica appunto la Legge “Avelino Siñani Elizardo Perez.”, che nel suo articolo terzo “Basi dell’educazione” indica:  L’Educazione è “descolonizadora”, liberatrice, “despatriarcalizadora” (non patriarcale) rivoluzionaria, anti-imperialista, e trasformatrice delle strutture economiche e sociali; orientata alla riaffermazione culturale delle nazioni e dei popoli indigeni originari contadini, le comunità interculturali e afroboliviane nella costruzione dello Stato  Plurinazionale e il Vivir Bien. (Sumak Kawsay) È laica pluralista e spirituale. Riconosce e garantisce la libertà di coscienza e di fede. Promuove il rispetto e la mutua convivenza fra le persone con diverse opzioni religiose, senza  imposizione dogmatica, favorendo il dialogo inter-religioso. È intraculturale, interculturale e plurilingue in tutto il sistema educativo. Dal potenziamento dei saperi, conoscenza e idiomi delle nazioni e popoli indigeni originari contadini, le comunità interculturali e afro boliviane, promovendo la interrelazione e convivenza in  uguaglianza d’opportunità per tutte e tutti attraverso il rispetto reciproco fra le culture. È scientifica, tecnica, tecnologica e artistica, sviluppando le conoscenze e i saperi partendo dalla cosmovisione delle diverse culture in complementarità con i saperi e la conoscenza universale, per contribuire allo sviluppo integrale della società. Dirección General de Planificación - Ministerio de Educación- Descargar el Plan Estratégico Institucional 2010 – 2014. www.minedu.gob.bo . Traduzione dell’autrice 553 246  È educazione della Vita e nella Vita, per Vivir Bien. (Sumak Kawsay). Sviluppando una formazione integrale che promuove la realizzazione dell’identità, l’affettività, la spiritualità e la soggettività delle persone e delle comunità. È vivere in armonia con la Madre Terra e in  comunità con gli esseri umani. È liberatrice nella sua pedagogia, perchè promuove nella persona la presa di coscienza della sua realtà per trasformala, sviluppando la sua personalità e il suo pensiero critico. Il processo della Bolivia viene considerato in America Latina un vero processo di rivoluzione culturale in atto, per cui riprendo “decolonizzazione” Fèlix Càrdenas, di nuovo le parole nell’intenzione di del Viceministro della rendere un’idea di cosa abbia significato la scuola ufficiale, in questo caso nell’odierno Stato Plurinazionale della Bolivia, ma da quanto riportato in questo capitolo, si potrebbe dire che la situazione non sia stata molto diversa per i Popoli Originari negli altri paesi del contenitore chiamato “America Latina”. “Dobbiamo capire che non possiamo transitare da uno Stato coloniale a uno Stato Plurinazionale come se fosse un atto di magia. Per questo paese il problema principale è ancora “l’indio” e se non si risolve il problema dell’ “indio” non si risolve il problema del paese, almeno per quanto riguarda la Bolivia, il Perù e l’Ecuador. Per cui, parlare di tutti questi temi è parlare di educazione, tutti sono problemi che riguardano l’educazione. Se analizziamo gli inni che ancora si cantano nei nostri paesi, vediamo che sono totalmente coloniali e colonizzanti. L’inno a Oruro ( io sono di Oruro, perciò so molto bene che lo cantiamo in tutti i momenti) dice: “grazie Colombo per darci un altro mondo. E lo cantiamo tutti i lunedì” L’inno a Santa Cruz è un altro esempio: “grazie Spagna, grazie per averci rubato tanto, grazie per avere ucciso milioni di “indios”. Questo stiamo cantando. Ma non è tutto. Lo Stato coloniale ha due assi fondanti: il razzismo e il patriarcato. Il razzismo è il disprezzo di una persona per un’altra per le sue origine o il colore della sua pelle. Purtroppo è ancora una struttura che fa parte delle Istituzioni che conformano lo Stato: ministeri, regioni, comuni. Tutte disegnate e blindate contro “l’Indio, ancora oggi, anche se ne parliamo di cambiamento e di decolonizzazione, queste strutture rimangono ancora intatte. D’altra parte, questo Stato continua ad essere ancora coloniale, razzista e patriarcale, anche se abbiamo un Presidente Aymara. Evo Morales è Aymara. Quindi dobbiamo ancora parlare del come si costruisce lo Stato patriarcale. Il tutto viene dai miti fondanti del cattolicesimo. Quando ci dicono che Adamo era molto felice nel paradiso e per colpa di Eva è stato espulso. 247 Questo cosa vuol dire ? Tristemente, significa tutto quello che la chiesa cattolica ha costruito nei suoi precetti religiosi contro la donna. Cioè: donna peccatrice in potenza, inferiore per natura. Purtroppo tutti questi precetti religiosi si volgono contro la donna e si trasformano prima in condotte cittadine contro la donna e poi in leggi contro le donne. Per esempio all’epoca dell’inquisizione migliaia di donne sono state mandate al rogo. L’inquisizione ha ucciso più donne che la seconda guerra mondiale, ma la storia non lo mette in evidenza, così si costruisce il patriarcato. Adesso non mandiamo le donne al rogo, ma abbiamo atteggiamenti che riproducono questo modello patriarcale. Per esempio quando invitiamo una famiglia ad una festa, da noi si usano le feste di laurea, nel bigliettino d’invito, scriviamo: “Signore Fèlix Càrdenas e Signora” Non si scrive il nome della donna, la quale è intesa come un accessorio del marito. Allora, se siamo sulla via della “depatriarcalizzazione” il minimo è che ci sia anche il nome della donna. Molta gente, nella maggior parte del mondo dell’accademia pretende di fare credere che quello che vogliamo fare e “re-indianizzare” il paese, che è un processo verso il passato quello che stiamo promuovendo, che stiamo proponendo di tornare al Tawantinsuyo. Invece no. Non proponiamo un ritorno romantico al passato. Quello che cerchiamo è un recupero scientifico del nostro passato. Del meglio del nostro passato per dialogare con la modernità, ma non con qualsiasi modernità, con quello che rimane sano della modernità, quella che ci può permettere di avere delle industrie senza danneggiare la Madre Terra. Non parliamo neanche di un pensiero ecologico romantico. Quello che stiamo proponendo è un cambiamento di struttura mentale, di logica di comportamento. E questo ribadisco, è un compito dell’educazione, è la parte più difficile. Ed è la più difficile perché bisogna avere a che fare anche con gli insegnanti. Eh.. si .! E, sull’educazione e gli insegnanti cosa vi posso dire ? . Bèh, che nel nostro paese, in Bolivia, l’insegnante può essere trozkista, il maestro può essere socialista, marxista, leninista, ma innanzitutto il maestro è stato il veicolo di trasmissione dell’ideologia coloniale e colonizzante, imperiale, dominante. Quindi, non è sufficiente dire che abbiamo creato la nuova legge sull’educazione, “l’Avelino Signani”. No, non è sufficiente, perchè gli insegnanti nel nostro paese hanno una struttura mentale colonialista, anche se vantano di essere di sinistra. Per cui, l’educazione per la decolonizzazione è un compito molto importante, ma sicuramente avremmo molti problemi da affrontare, per rompere con quella storia clandestina che ci hanno raccontato.”554 Conferenza tenuta a Cochabamba nel febbraio 2012 sulla legge di educazione “ Avelino Sinani –Elizador Perez” (Ley 070 del 20 diciembre de 2010) Nel seminario internazionale “Educaciòn Productiva Comunitaria Descolonizadora IntraIntercultural en el Estado Plurinacional de Bolivia” organizzato al Centro di Culture Originarie KAWSAY, al quale ho partecipato come relatrice. Parte dell’intervista è disponibile al link: www.youtube.com /YolandaAbyaYala/ Educaciòn Descolonizadora / Viceministro Fèlix Càrdenas, Estado Plurinacional de Bolivia. 554 248 3.4.3 Autonomie ed Educazione Decoloniale in Colombia Costituzionalmente la Colombia è dichiarata “uno Stato Plurietnico e Multiculturale”, che oltre ai Popoli Originari comprende anche la popolazione afrodiscendente555, i Raizales556 e i Rom.557 Fonte: Etnias de Colombia 555 La popolazione nera colombiana, chiamata oggi anche afrocolombiana, è costituita dai discendenti di africani schiavizzati e portati in America ai tempi della conquista, nel secolo XVI. Il loro arrivo avviene nel contesto dello sviluppo del capitalismo mondiale, quando l’onda colonizzatrice europea introdusse la mano d’opera schiava nel continente americano per lo svolgimento delle attività produttive legate allo sfruttamento delle materie prime come cotone, riso, zucchero, tabacco e altri. 556 Il popolo RAIZAL è ubicato nell’arcipelago di San Andrès, Providencia e Santa Catalina, un possedimento della Colombia distante 200 kilometri dal Nicaragua dall’est. Durante il secolo XVII l’arcipelago fu colonizzato dall’ impero Britannico, anche se formalmente non è mai appartenuto alla Corona Spagnola, che iniziò la produzione di tabacco e cotone. Per lavorare nelle coltivazioni furono portati dall’Africa e dalla Jamaica enormi quantità di schiavi neri, che costituiscono gli antenati del popolo RAIZAL. I raizali occupano tutto il territorio delle isole. 557 I Rom, popolarmente conosciuti come “gitanos”, sono un popolo tribale e nomade i cui discendenti arrivarono in America a bordo dell’imbarcazione di Colombo – nel suo terzo viaggio-, dopo essere stati espulsi dalla Corona Spagnola. Nonostante le loro origini etniche, si ubicano nell’India, fra le tribu Luri e Dom. I Rom di Colombia, gruppo umano prevalentemente urbano, appartengono quasi nella totalità al subgruppo nominato “Zingaros Calderas, fra qui risalgono i clan: bolochoc (maggioranza), boyhàs, mijhais, jhànes, churòn, lovary e binbay. ( Gòmez, 1998). Per molti secoli, per proteggere la loro identità e integrità come gruppo, vissero in condizioni di invisibilità etnica e in un grado di marginalità “volontaria” che permise loro di mantenere strutture sociali defferenziate dal resto della società colombiana. www.dane.gov.co. “Colombia Una Naciòn Multicultural: Su diversidad Etnica” 249 Costituzione Politica del 1991558 - Art. 7 “Lo Stato riconosce e protegge la diversità etnica e culturale della Nazione colombiana” Art. 10 “Il castigliano è l’idioma della Colombia. Le lingue e i dialetti dei gruppi etnici sono - anch’ esse ufficiali nei loro territori. L’insegnamento che si impartisce nelle comunità con tradizioni linguistiche proprie sarà bilingue” - Art. 70 “ la Cultura nelle sue diverse manifestazioni costituisce le fondamenta della nazionalità”…(..)” - Art. 68 “I membri dei gruppi etnici avranno diritto ad una formazione che rispetti e sviluppi la loro identità …(..)” Art. 55 (transitorio) “ sulla protezione dell’identità culturale e i diritti delle Comunità Negre” - “Il Decreto 804 del 1995 regolamenta le Legge 115 del 1994 dichiarando quanto segue: “ L’educazione nei gruppi etnici sarà orientata dai i principi e dai fini generali dell’educazione tenendo conto inoltre dei criteri di “integralità, interculturalità, diversità linguistica, partecipazione comunitaria, flessibilità e progressività”. Avrà come finalità rafforzare i processi di identità, conoscenza, socializzazione, protezione e uso adeguato della natura, dei sistemi e pratiche comunitarie di organizzazione, delle lingue vernacolari, la formazione di docenti e la ricerca in tutti gli ambiti della cultura nazionale.”559 Nonostante il quadro giuridico sia ampio e variegato, in materia educativa le proposte di autonomia in Colombia a livello ufficiale sono ancora scarse, tuttavia ci sono delle iniziative portate avanti grazie alla tenacia e all’impegno, sia dei Popoli sia delle Comunità Afrodiscendenti, di cui citerò alcuni esempi. Inizio considerando la situazione riguardante i Popoli Originari, nei confronti dei quali lo Stato ha attuato in un qualche modo misure di salvaguardia delle loro culture, situazione che non è stata vissuta allo stesso modo dalle popolazioni Afrodiscendenti, come spiegherò più avanti. Nello Stato nazione della Colombia ci sono 102 Popoli Originari che abitano il territorio nazionale, ma soltanto 87 sono riconosciuti dallo Stato.560 558 La traduzione è a cura di chi scrive. MEN Ministerio de Educaciòn Nacional de Colombia, Cátedra de Estudios – Afrocolombianos. Revoluciòn Educativa Colombia Aprende, Bogotà 2004. P.17 560 Fuente: Organizaciòn Indigena de Colombia ONIC. www. cms.onic.org.co/pueblos-indigenas 559 250 “I Popoli ancestrali in Colombia, secondo i risultati del censimento del DANE 561 nel 2005, sono 87, ma questa cifra è in contrasto con quelle presentate dall’organizzazione che li rappresenta l’ONIC, che confermano l’esistenza di 102 Popoli originari in Colombia. Di questi, diciotto sono in pericolo d’estinzione. La popolazione indigena in Colombia si calcola in 1.378.884 persone, di cui 933.800, che abitano nei 710 “resguardos” (riserve) esistenti, il che significa che quasi 500.000 non hanno un loro territorio”. 562 - La Popolazione indigena e (I “Desplazados”563) “Desplazamiento forzado y despojo de tierras”564 . “Fino al maggio 2011, il Governo della Colombia ha registrato più di 3,7 milioni di “desplazados” (sfollati) interni. Alcune ONG, come la “Consultoria para los Derechos Humanos y el Desplazamiento”(CODHES), considera che la cifra reale degli sfollati, come causa del conflitto armato interno che dalla metà degli anni’80 vive la Colombia supera i 5 milioni di persone. Approssimativamente 70.000 di queste persone sono indigene. L’ONIC informa che le cifre che riguardano i popoli indigeni possono essere superiori, perché molte di loro non accedono ai registri ufficiali e ciò è dovuto alla lontananza dei loro territori, altri perché non conoscono lo spagnolo e i funzionari non sono in grado di ricevere l’informazione e in altri ancora perché non conoscono l’esistenza del sistema di registro. Gli indigeni sono costretti a fuggire dei loro territori per diversi motivi: conflitti armati, minacce, massacri, mine anti-persona, reclutamento forzato dei minori da parte degli attori armati. Negli ultimi 10 anni gli indigeni hanno sofferto un incremento della violenza come conseguenza del conflitto armato interno. Nel periodo fra il 1998 e il 2008, l’ONIC ha riportato l’assassinio di 1.980 indigeni. L’occupazione forzata e lo sfruttamento abusivo del territorio, sono fra i fattori centrali dello sfollamento forzato in Colombia. Le Comunità indigene sono particolarmente vulnerabili, se si considera che abitano estensi Territori Collettivi molto ricchi di risorse naturali (biocombustibili, petrolio, carbone, legname) e inoltre abitano nelle vicinanze delle frontiere,o in luoghi propizi per la coltivazione della coca.” 565 561 Departamento Administrativo Nacional de Estadìstica ACNUR.(Agencia de Naciones Unidas para Refugiados) Pueblos Indìgenas en Colombia. www.acnur.org 563 Fa riferimento a persone costrette per la forza ad abbandonare le loro terre, le loro case, le loro famiglie. 564 Estudio de la ACNUR, sobre Desplazamiento Forzado y despojo de tierras en Colombia. Mayo 2011. 565 ACNUR.(Agencia de Naciones Unidas para Refugiados) Pueblos Indìgenas en Colombia. www.acnur.org 562 251 A livello dell’educazione primaria, oltre alla proposta del “Kajkrasa Ruyina”566 del popolo U’wa, è particolarmente significativa la proposta del “Piano di Vita” del Popolo Kankuamo,567attraverso il quale si stabilisce la proposta del modello “Etnoeducativo”. MAKÚ JOGÚKI - ORDENAMIENTO EDUCATIVO DEL PUEBLO INDIGENA KANKUAMO ______________________________________________________________________ 568 “Todos los espacios y tiempos que vivimos se convierten en proceso pedagógico Proprio” . 566 Cfr. I Capitolo di questo elaborato Il popolo Kankuamo risiede nel nord della Colombia, a sud est della Sierra Nevada di Santa Marta, nel municipio di Valledupar, Dipartimento del Cesar. Questo territorio si estende fra i 300 e i 2.500 m. s.m., caratteristica che offre una variegata tipologia del suolo e del clima e favorisce la diversità delle colture. I Kankuamos convivono nella Sierra Nevada di Santa Marta assieme ai popoli Arhuacos, Kaggaba o Kogui, Wiwa o Arzarios, condividendo un territorio, riconosciuto dallo stato Colombiano e delimitato da una “Lìnea Negra o zona Teologica”, che circoscrive il Territorio lasciato ai quattro popoli indigeni della Sierra Nevada di Santa Marta, secondo la Legge d’Origine, con la missione di custodire l’equilibrio e l’armonia nel mondo fra uomo e natura. 567 252 “Oggi ci affermiamo come Popolo Originario, decidendo di essere soggetti coscienti del nostro sviluppo. Consideriamo che l’orientamento proprio dell’educazione è un fattore importante per affermare la nostra identità e la formazione di un popolo autonomo. In quest’orizzonte il “Makú Jogúki-Ordenamiento Educativo del Pueblo Indígena Kankuamo” è una risposta ai nostri interessi per la costruzione di una società orgogliosa delle proprie radici e con un’identità che le permetta di consolidare un modello di sviluppo proprio. L’educazione propria ha le sue fondamenta nella spiritualità profonda,dove l’essere umano è parte della natura, colei che guida e indica il senso della nostra esistenza in questo pianeta, dove abbiamo la missione di conoscere, curare, rispettare, proteggere e diffendere la “Madre Tierra”, mentendo l’equilibrio armonico dell’Universo e la Comunità umana.”569 Il Progetto Educativo proprio del Popolo Kankuamo poggia sui pilastri fondamentali della Scuola nella Vita570: l’esperienza, la parola, la tradizione orale, la pedagogia del Consiglio, la Vita Quotidiana, attraverso la metafora della tessitura della vita che viene rappresentata in ognuna delle “mochilas” , tradizione condivisa fra tutti e quattro i Popoli della Sierra Nevada di Santa Marta in Colombia ( Arhuacos, Kogui, Wiwas e Kankuamos). Laboratorio di tessitura della “Mochila” Kankuama-2006 “Nell’educazione propria, si esprime il processo di insegnamento/apprendimento. Insegnare è tessere il pensiero, pensando ogni punto, cominciando dal “chipire” (las base tonda che 568 Organizaciòn Indigena Kankuama (OIKA). Maku Joguki, Ordenamiento Educativo del Pueblo Indigena Kankuamo. Resguardo Indigena Kankuamo. Sierra Nevada de Santa Marta. Bogotà, 2006 569 570 Ivi, m p, 14 Cfr II Capitolo di questo elaborato 253 rappresenta la Terra), per così costruire la storia propria, mirando a rafforzare l’identità del Popolo Kankuamo, per proseguire con i giri di colori che incarnano le norme proprie della famiglia e l’autonomia che ha il popolo per decidere in armonia ed equilibrio.571” “L’educazione propria ha come elemento formativo fondante la Pedagogía del Consiglio, attraverso la parola dei saggi (abuelos) che insegnano a tutta la comunità con il loro esempio, con i riti ( pagamentos (offrende), digiuni e altri aspetti propri di ogni popolo. Si educa permanentemente negli spazi tradizionali, nei luoghi sacri e anche negli atti quotidiani: cantando, danzando, parlando, piangendo, ridendo, giocando, lavorando, facendo il bagno, mangiando e “poporiando”572, per questo l’educazione propria non è quella del sistema scolastico che offrono ancora le istituzioni del governo, così come l’aula non è il luogo adatto”573 Per quanto riguarda l’educazione universitaria a livello ufficiale, le esperienze sono ancora molto distanti dal quadro giuridico sopra accennato. Per cui considero importante dare rilievo ad un’esperienza che ha la sua origine nei processi di affermazione identitaria a partire delle dinamiche dei movimenti indigeni a livello continentale, ma che, nel caso colombiano ha contato sulla collaborazione dell’Università di Antioquia a Medellìn, dove esiste il corso di laurea in “Pedagogia della Madre Terra”, esperienza che presento in questa sede per la sua valenza come esperienza “Ponte” fra i due modelli educativi. Riporto di seguito alcune delle prime riflessioni di chi è stato uno degli artefici di questa opera magna. Abadio Green Stócel, Originario del Popolo Tule o Kuna, il cui nome in lingua Tule è Manipiniktikinya, che vuol dire “Lucero del Alba” (Astro del Mattino).574 “L’educazione che proponiamo deve essere in grado di includere nei processi formativi delle nuove generazioni le sagge e i saggi della comunità, artigiane e artigiani, botanici, storici, leader uomini e donne delle nostre comunità. Allo stesso tempo si deve propiziare il dialogo di saperi con altre culture, a partire da una prospettiva critica, creativa e trasformatrice che permetta di rompere con questi penosi processi storici di assimilazione, acculturazione e perdita dell’identità. In tal modo l’esperienza della Scuola di Governo e Amministrazione indigena e il corso di Laurea in Pedagogia della Madre terra, proposto da un gruppo di lavoro con l’Organización Indígena de Antioquia e l’Universidad de Antioquia, si nutrono del pensiero che i popoli originari hanno mantenuto da sempre.” 571 OIKA, op, cit, p. 14 Atto rituale di usare il “poporo”. Cfr. IV capitolo di questo elaborato. 573 OIKA, op, cit, p. 15 574 Abadio Green( Manipiniktikinya, Lucero del Alba en lengua Tule) es filósofo y teólogo de la universidad Bolivariana de Medellín, con post grado en Lingística en la Universidad de los Andes de Bogotá. Coordinador del Programa de Educación Indígena, Universidad de Antioquia. Ex-presidente de la Organización Indígena de Antioquia y de la Organización Nacional Indígena de Colombia. 572 254 “Tutti i popoli indigeni della terra, tutti Noi, assolutamente tutti, diciamo che la Terra è la nostra madre, che tutti gli esseri che l’abitiamo siamo le sue figlie e i suoi figli perché dipendiamo da Lei in ogni momento della nostra vita, perché la struttura del nostro corpo è uguale a quello della Terra: Il nostro fegato, i nostri polmoni, le nostra ossa, il sangue che scorre nelle nostre vene , sono uguali ai ruscelli, alle montagne ai diversi ecosìstemi che ci sono nella Madre Terra” ,…(…) Pertanto dobbiamo proteggerla perché sta sia nel nostro proprio corpo come nell’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo, il sole che ci riscalda e le piante e gli animali che ci danno sostentamento. L’educazione fino ad oggi ha significato un apparato repressivo che ha negato sostanzialmente la saggezza dei popoli, perciò troviamo nei cammini di Abya Yala, popoli che si vergognano del loro volto, della loro identità, delle loro tradizioni, della loro lingua, perché tutta la trasmissione della scuola è stata estranea alle loro tradizioni. La scuola che oggi abbiamo non rende conto della bellezza della vita, dell’armonia fra gli esseri, della collettività. Fino ad oggi le bambine e i bambini sono stati trattati come oggetti perchè i loro metodi sono stati semplicemente di trasmissione d’“informazione”.575 Corso di laurea “Pedagogia della Madre Terra – Università di Antioquia-Colombia Il Corso di laurea in “Pedagogia della Madre Terra”, vuole rispondere alla diversità di Modelli Educativi che s’intrecciano nel contesto dei popoli indigeni, 575 incorporando le Presupuestos iniciales para la creación curricular de la Licenciatura en Pedagogía de la Madre Tierra. Medellín: Organización Indígena de Antioquia y Facultad de Educación,Universidad de Antioquia. Octubre de 2006 (documento de trabajo). www.udea.edu.co/ http://www.faceducacion.org/madretierra/1b.html 255 diverse proposte di Educazione propria, elaborato all’interno dei “ Piani di Vita”, come il caso del Popolo Kankuamo prima riportato. In merito alcune riflessioni riportate nel lavoro del gruppo di ricerca “Diverser” dell’Università di Antioquia. “Le Comunità per riuscire a portare avanti il proprio progetto educativo e nutrire il “Piano di Vita”, devono contare su un elemento fondamentale per la loro esistenza che è la Terra e il Territorio, comprese le conoscenze mitologiche e cosmogoniche che permettono l’equilibrio fra l’essere umano e la natura. Le diverse forme di convivenza con la natura,le relazioni che tessono gli esseri umani con la natura, l’uso delle proprie medicine, i modi di concepirsi nello spazio e analizzare i cambiamenti e le trasformazioni nel tempo, sono stati da sempre gli elementi per “l’educazione propria”. “Prodotto dell’insorgere delle lotte indigene per il recupero delle terre e del riconoscimento delle loro autonomie, lo Stato inizia ad accettare le loro organizzazioni come interlocutrici dando avvio a delle riforme legislative che riconoscano le loro domande, fra cui il Decreto 1142 del 1978 che approva l’insegnamento delle lingue native nelle scuole indigene e dà paso ad una politica di educazione bilingue. Il cambiamento più significativo è rappresentato dalla costituzione politica del 1991 che dà origine all’istituzionalizzazione dell’Etnoeducazione (52). Nonostante gli sforzi delle organizzazioni indigene di ottenere le modifiche dei programmi curriculari delle scuole indigene e la contrattazione d’insegnanti indigeni da parte dello Stato, si è visto che nelle pratiche pedagogiche si continuano ad imporre i modelli propri di un sistema educativo colonizzatore , autoritario e burocratizzato situazione non esclusiva per i popoli indigeni, ma per l’educazione pubblica in generale.576” Uno degli argomenti centrali di questa proposta pedagogica, riguarda l’enfasi su un’educazione “decoloniale”, in modo da costruire nuovi significati e nuovi modelli che possano integrare le pedagogie autotrofe dei popoli. “La critica post- coloniale emerge da un processo continuo di resistenza e ricostruzione delle antiche colonie, in uno sforzo per sfuggire alle pratiche discorsive culturalmente dominanti che limitano la possibilità di auto - affermazione e auto-determinazione dei popoli. Allo stesso tempo, dalla critica latinoamericana alla modernità e alla colonialità, Fernando Coronil577 invita a decentrare la storia che ci hanno raccontato e a riconoscere che la crescita 576 Ibidem. 577 historiador y antropólogo venezolano; autor, entre otros libros: El Estado mágico. Naturaleza, dinero y modernidad en Venezuela (Nueva Sociedad / CDCH-UCV, Caracas, 2002). Profesor en la Universidad de Michigan y director del Centro de Estudios Latinoamericanos y del Caribe de esa universidad. Muere en New York en agosto de 2011. Coronil siempre supo 256 dell’Europa non sarebbe stata possibile senza il contributo della “periferia”, sia come fonte principale di ricchezze naturali, come di mano d’opera economica, e in questo modo si è rafforzata la relazione capitalismo/ Colonialismo. “Il colonialismo è il lato oscuro del capitalismo europeo” . Oltre alla manodopera economica, ai prodotti agricoli e alle risorse minerali, le colonie “ offrirono all’Europa una varietà di culture in contrapposizione alle quali Europa si auto denominò come il modello per l’umanità – come portatrice di una religione, una ragione e una civilizzazione superiori incarnate dagli europei. La colonialità è inserita nella stessa costituzione di una modernità che si presenta sotto la veste di una società liberale, più avanzata e progressista ma che non può mascherare il suo carattere coloniale, egemonico e imperiale, il quale si continua ad esprimere in diverse sfere della nostra vita negli ambiti di potere, dell’essere, del sapere e della natura.”578 Come è stato ampiamente presentato nei capitoli precedenti, nella vita dei popoli indigeni , la Comunità e l’educazione sono intimamente in relazione perchè madri, padri e gli altri membri del gruppo seguono la loro tradizione con i loro metodi, trasmettendo attraverso la pratica e in modo integrale gli aspetti politici, sociali e culturali. I metodi pedagogici propri dei Popoli Originari per lo sviluppo della pratica dei loro saperi e conoscenze sono le stesse forme di convivenza; attraverso di esse acquisiscono questi saperi durante un lungo processo e così si costruisce la vita Comunitaria. In questo contesto, l’educazione dei popoli indigeni ha come fondamenta lo stile di vita quotidiana che si svolge all’interno della stessa Comunità in modo integrale e permanente. Nell’intenzione di rendere un’idea di quanto abbia significato costruire quest’esperienza in termini di sforzi umani e di tempo, riporto ancora una testimonianza diretta di Josè Abadio, che ringrazio per l’intervista concesa.579 “Quando abbiamo iniziato la domanda era se dovevamo continuare insegnando al “futuro” dei nostri popoli cose che niente avevano a che fare con noi. Così 15 anni fa, abbiamo avuto l’idea di quello che allora abbiamo chiamato “l’educazione: una strategia in difesa della Madre Terra”. Ma è stata un’idea che non prosperava perché lo dicevamo questo ma non sapevamo come farlo. In più c’erano tanti problemi: massacri, morti, omicidi, tutto uno scenario che non que el Norte no se podía explicar sin el Sur, y que el Sur tenía que liberarse del Norte para poder emprender su propio camino. Junto con Mignolo, Dussel, Quijano o Santos, Fernando Coronil sentó las bases del pensamiento poscolonial y construyó, desde su condición de profesor comprometido, las bases de una manera de comportarse que van cuajando en la independencia del continente. Prensa COMUNA: pensamiento critico en la revolución / | Viernes, 19/08/2011. 578 Ibidem. 579 Intervista disponibile al link: www.youtube.com /YolandaAbyaYala/Intercultura y Autonomìas Indìgenas/Abadio Green Stocel, Manipiniktitinya, Licenciatura en Pedagogìa de la Madre Tierra/ 257 ci dava tempo per riflettere e pensare al modo in cui dare corpo a questa nostra idea. Così siamo andati avanti per molto tempo finché, più o meno verso il 2003-2004, io sono stato alla presidenza dell’Organizzazione Indigena di Antioquia (OIA) e lì ho avuto la possibilità di iniziare a consolidare una proposta. Contando sulle mie capacità in materia educativa ho cominciato a combinare gli spazi della pedagogia comunitaria con la parte accademica, la parte organizzativa. Ma diciamo che il mio orizzonte è stato sempre la parte della pedagogia. In questo percorso personale, Abadio ci racconta cosa abbia significato per lui la connessione fra la linguistica e pedagogia. “Credo di aver studiato linguistica, non perché volevo essere linguista ma perché volevo sapere la connessione della linguistica con la pedagogia. Era un interesse grande, perché quello che ho visto sempre fra i linguisti e il mondo accademico è che i primi vengono formati come linguisti ma non come pedagogisti, così, il loro intervento il più delle volte anziché aiutare le Comunità le divideva, perché per i linguisti insistono sull’importanza della parte fonetica e fonologica delle lingue, ma io penso che il punto non sia quello, forse è fondamentale per la struttura delle lingua, ma per Noi, Popoli, c’è una parte molto più importante ed è l’anima, il cuore delle lingue. È lì che si trovano i significati, e quindi, entrare nel mondo dei significati è stato per me come aprire gli occhi.” Questa relazione fra pedagogia e linguaggi è stata fondamentale, come sottolinea ancora Abadio, per individuare nel vuoto di rapporti fra Comunità e Scuola, oltre ai modi in cui l’insegnamento veniva strutturato in quest’ultima, il problema più grande da risolvere. “La Pedagogia della Madre Terra da rilievo alla questione dei linguaggi e dell’interculturalità; parliamo di linguaggi e comunicazione, non chiamiamo linguistica le aree del linguaggio. Con questa base abbiamo iniziato tutta la nostra analisi del contesto. Abbiamo cominciato con le critiche alle politiche educative in America Latina, considerando che tutte le nostre scuole e università sono una copia del modello Europeo e Nord Americano. Abbiamo cominciato anche a valutare il modo in cui i bambini venivano inseriti nella scuola ufficiale, senza considerare che i bambini e le bambine apprendono all’interno delle loro culture molte cose, ma tutti questi insegnamenti non venivano riconosciuti. La scuola si occupava di riempire la loro testa d’informazioni e nient’altro. Quindi abbiamo cominciato a mettere in discussione questo modello ufficiale, riportando il bambino come protagonista, come Soggetto della propria storia e soggetto della storia delle sue Comunità.” 258 Nel dare corpo ai contenuti del corso di laurea in “Pedagogia della Madre Terra” Abadio e altre persone si sono concentrati sulla necessità di riconnettere le creature umane con il Ventre della Madre Terra, così come lo siamo stati in origine con il Ventre della nostra Madre Biologica. “Su questa strada, nell’intenzione di costruire una proposta diversa, abbiamo cominciato ad interrogarci su quale fosse l’origine del sapere di tutti i popoli del mondo, non soltanto dei popoli indigeni, e lì, nella risposta a questa domanda, abbiamo capito che tutto quanto aveva origine nella Terra, in questo centro indispensabile alla nostra vita. Lei è questo Centro e Lei non è una cosa qualsiasi. Lei è la Madre. Lei è donna. Abbiamo indagato fra tutti i popoli di Abya Yala e tutti, parlano della Madre Terra, quindi abbiamo capito che abbiamo uno stesso concetto sulle nostre origini. Così ci siamo avvicinati anche all’Europa, perché anche il vecchio continente aveva questo stesso concetto sulla Madre Terra. Il fatto che l’abbia dimenticato è il prodotto della razionalità. Quando la conoscenza si è fatta razionale, con la comparsa della manipolazione della conoscenza, si è perso il senso del collettivo e sono apparse le persone che fanno conoscenza (…) Quindi la proposta è che il Centro dell’educazione deve partire della Madre Terra perché è lì che si trova tutta la conoscenza, perché la Terra non è isolata, Lei è in intima connessione con il Cosmo, per questo io parlo di PLURIVERSO, non lo chiamo Universo, perché non esiste un Uni-verso” (...) Su questo argomento abbiamo conversato fra diversi Popoli e sono soddisfatto di sapere che siamo tutti connessi dallo stesso Ventre, che è il Ventre della Madre Terra. Lungo il percorso continuavano le domande, per esempio, come faccio io a parlare ancora la lingua Tule, come faccio a sapere le storie del mio Popolo se non me le hanno insegnate a scuola, e tante altre (…) Così siamo arrivati a capire che l’origine della conoscenza stava nelle nostre stesse Comunità. Ѐ così che io comincio le lezioni di linguistica: inizio parlando del cordone ombelicale, perché in molte culture il cordone ombelicale e la placenta sono molto importanti, questi si piantano nella terra e così continuano la connessione con la Madre Terra.” Sulla disconnessione del Ventre della Madre Terra e il rapporto diretto con la malattia le parole di Abadio riprendono ancora tutto quanto ampiamente esposto nel capitolo primo. “Così come prima ero connesso al Ventre di mia madre, dipendevo da lei, da quello che mangiava, attraverso questo fatto di piantare il cordone ombelicale e la placenta, continuo ad essere connesso con il Ventre della Madre Terra e questo è importante per capire molte cose che succedono oggi. Per esempio tanti problemi che abbiamo oggi noi umani, fra cui le malattie, sono anche malattie della Terra, dei campi. 259 Tutto ciò ha un epicentro a partire del Ventre della MADRE, è questa disconnessione quello che porta queste malattie, per cui, per capire ogni cosa, forse dovremmo ritornare al Ventre della Madre. Per questo motivo noi Popoli indigeni ci siamo inventati le cerimonie: “il Yajè, il Yopo, il Tè Mazcal”, fra altre. Ogni atto rituale che fanno i Popoli indigeni ha per obiettivo il ritorno al Ventre delle nostre Madri. In quest’orizzonte, la Pedagogia della Madre Terra, tratta di tutto questo: si cerca di andare a conversare con gli anziani, andare alle cerimonie per trovare il modo di ritornare al Ventre delle nostre Madri e questo implica anche dare alla nostra Madre Biologica l’importanza che merita. Oggi dobbiamo essere connessi con il Ventre della Madre Terra, così come lo siamo stati con il Ventre della nostra Madre Biologica, anche perché il giorno che moriamo torneremmo alla Terra per continuare il cammino degli Astri, il cammino dei nostri Antenati e delle nostre Antenate.” Partendo da questa riconnessione con il Ventre della Madre Terra la proposta continua attraverso un’agenda politica che cerca gli spazi istituzionali atti a dare forma a quest’idea comunitaria. “I pilastri fondamentali su cui ci siamo costruiti come Movimento, in modo da accedere alle risorse e riuscire a rivendicare davanti allo Stato i nostri diritti culturali, economici e politici, li abbiamo chiamati “Le Politiche del Movimento Indigeno” . Questo Movimento è più di 40 anni che a livello nazionale, in Colombia, ha messo sull’agenda politica 4 assi portanti su cui consolidare le nostre organizzazioni: Unità, Territorio, Cultura e Autonomia. In questi 40 anni, ogni organizzazione nuova ha avuto come punto di partenza queste quattro colonne. In Antioquia ne abbiamo una in più, sempre in collegamento con queste quattro, ma che arricchisce la nostra proposta come “OIA”, ed è il Governo e l’Amministrazione. L’obiettivo di inserire il Governo come una quinta colonna del nostro Movimento, mira a recuperare le forme di governo ancestrali, i governi che avevamo prima dell’invasione dei nostri territori, in modo da capire se questo governo potrebbe funzionare ancora oggi e interrogarsi sulle cause degli squilibri nei nostri Territori. Diciamo che tutte queste politiche le abbiamo fatte diventare Pedagogie, sarebbe come dire “Pedagogizzare queste Politiche”. Lo scopo principale è capire se le politiche che si stanno costruendo a partire dagli stessi movimenti indigeni stanno arrivando veramente alle Comunità e abbiamo pensato che in questo la Pedagogia ci potrebbe aiutare molto, facendo in modo che queste politiche arrivino anche alle Comunità che sono molto lontane. L’importanza della Politica di Territorio in merito alla Sacralità della Natura e alla sua relazione diretta con l’argomento Salute/Malattia, viene messa in evidenza ancora una volta. 260 “Tutte le Politiche sono importanti, ma fra alcune prioritarie abbiamo la Salute. È importante perché molte malattie che non avevamo prima, ora sono arrivate nei nostri Territori. Questo per sottolineare come detto prima che il tema della Salute è in relazione diretta con il Territorio, soprattutto con il luoghi sacri che abbiamo all’interno del Territorio, con l’Acqua, con le Montagne. Questo è un tema della politica, perché ha a che fare con le lotte che abbiamo portato avanti per la difesa del nostro Territorio. Per esempio: la regione di “Antioquia” ha avuto una cultura di depredazione, hanno quasi fatto fuori i Popoli indigeni, tutti i governi avevano reso invisibile la popolazione indigena, non avevamo un pezzo di territorio in Antioquia, avevamo dei territori in altre regioni, quelle che il governo chiamava “inospitali”, terre lontane, dove il loro “progresso” non poteva arrivare, lì noi abitavamo. Quindi, recuperarli è il risultato di una lotta del movimento indigeno negli ultimi 27 anni. Ad oggi, lo dico con un sorriso nostalgico, abbiamo recuperato 354.000 ettari, ma questo ci è costato 300 morti, assassinati dai diversi attori armati che abbiamo nel nostro paese. “Proprio per questo la politica del Territorio è fra le nostre priorità, perché dal concetto che abbiamo come Territorio viene anche il mondo di concepire la Terra come Madre, perché da Lei veniamo e in ogni secondo della nostra esistenza dipendiamo da Lei. Il nostro Corpo è uguale a quello della Madre Terra, Lei respira e noi respiriamo, lei ha polmoni, noi abbiamo polmoni; le grandi montagne sono il latte della Madre Terra, da lì viene l’Acqua che va dopo al mare. Tutte queste sono state le riflessioni che abbiamo fatto quando abbiamo inserito il Territorio fra le politiche da difendere e da portare avanti”. Nella politica “Educazione e Cultura” s’intrecciano le pratiche di Vita Quotidiana, fra cui anche le relazioni di genere, generazioni e famiglia, a cui la Pedagogia della Madre Terra dedica particolare attenzione. “L’altro asso portante della nostra proposta è l’educazione e la cultura, non come linea d’intervento separata, ma in relazione diretta con una forma di Governo la cui politica si nutre della Pedagogia della Madre Terra, tessuta insieme al Territorio, la Salute e l’Autonomia. Da qui, la domanda: Quale educazione vogliamo per le nostre figlie e i nostri figli.?” Anche qui il lavoro è molto. Quando noi siamo arrivati all’OIA, 27 anni fa, tutta l’educazione indigena era in mano alla chiesa cattolica, nello specifico alle suore della madre Laura, ancora oggi in alcune Comunità. Davanti a quanto da loro fatto, il lavoro è grosso perché diciamo che il danno era già stato compiuto. Molte comunità vogliono soltanto imparare la matematica e lo spagnolo, perché così era l’educazione proposta fino ad ora, così sono state influenzate durante tutti questi anni. Nonostante tutto su quest’area abbiamo investito molto, anche entrando un po’ in dialogo con Occidente, abbiamo inserito appunto, l’argomento: genere, generazioni e famiglia. 261 È importante in questo contesto interrogarci sui modi in cui si rapportano le nostre famiglie, com’è il nostro tessuto sociale , quali sono le relazioni fra le bambine, i bambini, gli anziani, gli uomini, le donne, i giovani nelle nostre Comunità, quali sono le pratiche di Vita Quotidiana che ancora oggi abbiamo, e lì man mano che discutiamo insieme compaiono di nuovo i riti, le cerimonie, e con loro i concetti che abbiamo di salute e malattie, il concetto di ambiente, di habitat, e da lì l’importanza del modo in cui ci rapportiamo fra di noi e con il Cosmo per conservare l’equilibrio ed evitare tante malattie, anche perché il 99% delle nostre relazioni avvengono in un ambiente, cioè nel nostro habitat quotidiano:un Territorio. Sul risultato delle alleanze istituzionali e l’approccio comunitario, sottolineare l’importanza di un nuovo modo di fare ricerca per Abadio ci tiene a ribaltare l’approccio accademico verso la “Proiezione Comunitaria”. “Partendo da queste politiche del movimento indigeno, abbiamo pensato che questo dovrebbe essere il contenuto del programma curriculare. Cioè, “Pedagogizzare le politiche” attraverso il corso di laurea in Pedagogia della Madre Terra che comprendesse allo stesso tempo la dimensione politica, culturale, interculturale e di ricerca ma una ricerca concepita in modo diverso: non come le Università ufficiali che dividono i saperi e che agiscono fuori della realtà delle Comunità, dando un valore estremo alla conoscenza teorica; noi, invece, partiamo dalla realtà, più dall’esperienza che dalla teoria. Su questa base e con questo chiarimento abbiamo iniziato la collaborazione con l’Università di Antioquia. Loro ci hanno offerto il supporto dall’accademia e noi apportiamo la nostra costruzione a partire dalle Pedagogie dei Popoli Originari. Lungo il percorso abbiamo cominciato a parlare insieme dell’importanza di fare ricerca, ma in partenza abbiamo eliminato la parola “ricerca”, l’abbiamo chiamata “proiezione comunitaria”, considerando che la ricerca deve tenere conto dei bisogni delle Comunità, non degli interessi della persona che la fa. A partire da questa collaborazione con la UniAntioquia, abbiamo costruito i “Piani di Vita” delle nostre Comunità e abbiamo cominciato a scrivere quanto oggi abbiamo su questo corso di laurea.” Sul fatto di avere realizzato questo progetto con l’Università di Antioquia, in quanto Università Privata, comunque appartenente al mondo dell’accademia ufficiale, e non da soli, come propongono altri popoli, Abadio commenta: “Di fronte all’educazione superiore ci sono due pensieri sia in Colombia che in America Latina. Uno: “niente con le università statali, niente con le università coloniali, noi vogliamo 262 fare la nostra propria università”. Questo è un pensiero portato avanti dai compagni della regione del Cauca qui in Colombia. Noi abbiamo fatto invece questa scelta, che comunque ha le sue ragioni. Innanzitutto, siamo un Popolo piccolo, nella Regione, Antioquia, siamo soltanto il 0.02% della popolazione, quindi non possiamo pretendere di creare la nostra propria università, secondo perché il contesto non è ancora favorevole, per esempio i compagni del Cauca che hanno un’organizzazione grande e forte non sono ancora riusciti a consolidare la loro Università. Nonostante ciò, noi crediamo alla loro proposta e li sosteniamo ma noi pensiamo che ci sono altre strade, una di queste sono le reti costituite fra università, Comunità e altre Organizzazioni. Questa è stata la nostra scelta e penso che non esista un’università in questo paese che non comprenda la scommessa che abbiamo fatto. Così ci siamo avvicinati all’Università di Antioquia e penso che il risultato più importante è che abbiamo creato spazi per una discussione epistemica. Stiamo dicendo che esistono altri epistemi, che non esiste un solo modo di guardare il mondo, che esistono i saperi ancestrali dei popoli, che abbiamo le nostre cosmovisioni, la nostra propria cosmogonia, le nostre lingue, le nostre culture, le nostre tradizioni. Che abbiamo un approccio diverso di fronte alla produzione economica, ovvero, che non esiste soltanto la conoscenza riconosciuta alla parte occidentale. Certamente ancora le nostre università sono coloniali, e conversare con le Università Coloniali implica ore, giorni, mesi, anni, non per convincerli, ma per discutere sulla possibilità di costruire insieme, di dialogare con altre conoscenze. Quindi, riuscire a mettere insieme in questo dibattito pedagogisti, filosofi, matematici penso sia una cosa molto importante, e questo è stato appunto, il contributo dell’Università di Antioquia. Quindi, tutta la questione dell’interculturalità deve cominciare da noi stessi, dalla nostra origine che è il Ventre della Madre, poi la relazione con la mia famiglia, la mia società, i miei vicini, successivamente ci allarghiamo alla regione, alla nazione. Questi sono i principi per cominciare la discussione pedagogica, tenendo conto che non soltanto gli esperti si possono sedere a costruire i curriculum, ma che esistono anche i padri e le madri. Abbiamo cominciato questo incontro e abbiamo passasto 5 anni a discutere con gli esperti in pedagogia dell’Università di Antioquia, finché hanno capito che esistono altri modi e altre forme di pensare di costruire la conoscenza. Da questo riconoscimento si è passato a stabilire la collaborazione, dando vita al corso di laurea che inizialmente non è stato riconosciuto. Abbiamo cominciato come corso di formazione “diplomado”, ed eravamo già al terzo semestre della nostra formazione quando finalmente il Ministero della Pubblica Educazione ci ha riconosciuto, nel 2011 come corso di laurea; hanno riconosciuto che questa proposta è importante all’interno del contesto colombiano.” 263 Arrivando alla fine dell’intervista con Abadio, l’attenzione si è rivolta agli Spazi Pedagogici e all’organizzazione didattica degli insegnamenti. “Mentre si superavano le procedure burocratiche il nostro interesse si è concentrato nel perfezionare il programma di studi con particolare attenzione agli Spazi Pedagogici. Qualche anno fa avevamo avuto un’esperienza con l’Università Pontificia Javeriana580, in un programma di formazione per Etnoeducatori e, anche se l’esperienza è stata interessante, noi volevamo migliorare certi aspetti. Per esempio, allora, si realizzava un incontro unico ogni semestre. Nel mese di Gennaio ci sedevamo per 22 giorni a conversare e questa era l’unica esperienza d’incontro durante un semestre. La stessa cosa si faceva a Giugno per il secondo semestre e questo veniva chiamato: “educazione a distanza.” Davanti a quest’esperienza, abbiamo chiarito che la Pedagogia della Madre Terra non poteva essere educazione a distanza, che doveva essere un’esperienza. Così abbiamo organizzato un incontro regionale dove tutti i nostri studenti arrivano all’Università di Antioquia a Medellin. Lì rimaniamo per 12 giorni a tempo pieno, dalla mattina alle 8 fino alle 6 di pomeriggio e delle volte anche durante la notte. Dopo questi 12 giorni gli studenti ritornano alle loro Comunità, perché i nostri studenti devono avere un legame forte con le loro Comunità, devono trasmettere quanto hanno imparato in questi 12 giorni a tutti: donne, anziani, bambine, bambini, giovani. Successivamente, finita questa condivisione iniziano le attività di “progettazione comunitaria”. “Il secondo ciclo di incontri si dividono per zone, per esempio, Antioquia Zona Nord con la Comunità dei Zenù, la zona dell’Urabà Sud con gli Embera, la zona del mezzo Atrato con i Dobida e gli Eyavida, a sud-est con i Chamìes e nel basso Cauca con i Zenù e gli Embera. Questi incontri durano 10 giorni e dopo ritornano alle loro Comunità per condividere di nuovo l’esperienza e fare attività pedagogica con la Comunità, perché già nel primo semestre era cominciato il lavoro Comunitario. Una volta finita questa attività si ritorna di nuovo ad altri 10 giorni di incontri per zone e dopo di nuovo all’incontro regionale a Medellin per cominciare il secondo semestre. Questo modello è diventato molto interessante, ma molto costoso per le nostre capacità economiche, considerando che l’università contribuisce mettendo a disposizione i docenti ma non con i costi per gli spostamenti e le altre spese, ma noi continuiamo a farlo perché è realmente importante contare, negli incontri per zone, con la presenza dei saggi e delle sagge di ogni Comunità, condividendo importanti insegnamenti su argomenti diversi: filosofia, politica, governo, arte, medicina. Adesso abbiamo 87 studenti che concludono il corso di laurea a Giugno di quest’anno, nell’ultimo incontro regionale La Pontificia Universidad Javeriana è un’università privata appartenente alla “Compagnia di Gesù “ (Gesuiti), presente in Colombia dal 1604. 580 264 Per quanto riguarda invece l’organizzazione degli insegnamenti, abbiamo quattro pilastri che sostengono l’intera impalcatura del corso: i) l’intercultura come tema importante nella costruzione di un paese così diversificato, qual è la Colombia. Anche perché ancora, nella realtà non esiste interculturalità e penso non esista in nessuna parte in America Latina, anche se abbiamo delle Costituzioni Politiche molto belle, ma ancora in America Latina è soltanto un discorso scritto, anzi, in certi casi, come ad esempio in Colombia, anche se ci sono molti articoli nella Costituzione che parlano dei diritti dei Popoli indigeni, ci sono dei casi concreti in cui questi non vengono rispettati: il tema della Consulta Previa in merito alla Convenzione ILO 169, in particolare per quanto riguarda l’industria delle miniere nel nostro paese; ii) il Dialogo di Saperi, questo dialogo è importante per conoscerci e riconoscerci imparando insieme, apprendendo le diverse forme di concepire il mondo che ha ogni popolo; iii) la Pedagogia Critica, noi sosteniamo che la Pedagogia Critica è un sapere che molti pedagogisti hanno considerato già da tempo, e quindi diventa importante valorizzarne la sua portata che evidenzia il fatto che ogni pedagogia deve costruirsi a partire dal contesto, quindi su questo siamo d’accordo, ma non vogliamo fermarci lì, vogliamo andare oltre, verso la Pedagogia Creativa, perché i nostri popoli sono molto creativi. Creativi in diversi scenari: la pittura, la danza, la musica, e quindi l’idea è di riuscire a recuperare queste didattiche in modo che le nostre bambine e i nostri bambini possano imparare più facilmente; iv) la Pedagogia decoloniale, ovvero, decolonizzare il pensiero. Ma l’importanza di questo progetto è che si tratta di un processo che stiamo portando avanti per l’intera umanità, non è soltanto per i popoli indigeni. Per questo l’interculturalità è importante, perché tutto è in relazione. Ma ribadisco, è u processo ancora in costruzione, perché non può esistere un dialogo se non impariamo l’Altro, se non conosciamo l’Altro. E fino a questo momento non conosciamo nulla dell’Altro perché tutto fino ad oggi è stato imposto a livello educativo. Dunque non si può parlare di Educazione Interculturale Bilingue, né in Colombia, né in America Latina, perché tutto il sistema educativo è stato concepito dal pensiero dominante, senza tenere conto della diversità. E per finire sottolineo di nuovo l’importanza che la lingua materna ha in tutto questo processo. La lingua è importante perché essa racchiude tutta la conoscenza dei nostri popoli, è come una nave spaziale, attraverso la quale sono diventato un testimone della vita e della memoria della mia cultura. La lingua è come uno specchio che mi permette di vedere attraverso la mia sapienza ancestrale. Inoltre, a prescindere da quanto possiamo imparare in questo processo, la cosa più importante e che siamo cresciuti in Autostima, ci sentiamo orgogliosi di ciò che siamo, non abbiamo più vergogna. Ora non possiamo più dire che non abbiamo identità e questo è un fatto molto significativo. Molte volte sento delle persone che dicono di non avere identità, a loro io rispondo: Tutti veniamo da un unico ventre che è il ventre della Madre 265 Terra, ed è lì dove ognuno di noi si può incontrare, perché siamo tutti figli di un unico Ventre.”581 3.4.4 Etnoeducazione nella Càtedra de Estudios Afrocolombianos “La Cátedra de Estudios Afrocolombianos” è creata attraverso la Legge 70 del 1193 e la sua regolamentazione con il Decreto 1122 del 1998, il quale stabilisce il carattere obbligatorio nelle aree di Scienze Sociali in tutti le istituzioni educative dello Stato e in quelle private che offrano livelli di educazione prescolare, primaria e media. I lineamenti curricolari considerano aspetti teorici, pedagogici e tematici della “Catedra di Studi Afrocolombiani, nel tentativo di dare un significato storico, geografico, politico e culturale del termine “Afrocolombiano”. Totale Popolazione Afrocolombiana 10.562.519582 581 Intervisa con Abadio Green, consultabile al link: www.youtube.com /YolandaAbyaYala/Intercultura y Autonomìas Indìgenas/Licenciatura en Pedagogìa de la Madre Tierra/ 582 Ministerio de Educaciòn Nacional de Colombia. MEN, Cátedra de Estudios – Afrocolombianos. Revoluciòn Educativa, Colombia Aprende, Bogotà 2004. - p, 25 (popolazione Afrocolombiana: Zona evidenzia in grigio nella mappa.) 266 Con quanto esplicitato sopra si può intuire che parlare in profondità di questo insieme di culture sarebbe un obiettivo troppo ambizioso, tuttavia, considerando la popolazione afrodiscendente583 altamente rappresentativa nella diversità culturale del paese, citerò in questa sede un’esperienza puntuale in materia educativa riguardante la popolazione afrodiscendente in una zona specifica della Colombia: “El Caribe Seco”“Il Caribe Seco” è una zona formata da montagne e vallate, fiumi e praterie, piccole paludi e ruscelli, non vicina al mare, anzi, la sua caratteristica e proprio quella di essere una regione “intra-costiera”. Questa descrizione corrisponde geograficamente al territorio della Provincia del Cesar, situata sulla costa nord della Colombia, dove inoltre si trova una geografia particolare, considerando che la regione è attraversata da due grandi catene montuose: La Serranìa del Perijà ubicata nella parte nord della Cordigliera delle Ande e la Sierra Nevada di Santa Marta, ubicata nella parte nordoccidentale, fra le Provincie della Guajira e il Magdalena. Questa gigantesca formazione montuosa diventa il limite naturale fra i territori che compongono il Caribe seco colombiano. La scelta di riportare questa esperienza, trova spiegazione nel fatto che in questa regione in particolare nella provincia del Cesar si trovano quattro dei popoli indigeni della Colombia, due dei quali ho considerato in questo elaborato: Il popolo Kankuamo e il popolo Kogui, oltre al popolo Wayuu della Guajira. Ritengo particolarmente importante questo riferimento alla popolazione Afrodiscendente, nell’intenzione di offrire uno scenario il più ampio possibile della complessità non soltanto della Colombia, ma come accennato prima del continente in generale. Per collegarmi in questo percorso, riporto gli studi di Ernel Villa584, intellettuale Afrodiscendete con cui ho avuto l’ opportunità di condividere diversi aspetti delle sue ricerche sia a livello personale che come docente dell’Università Popular del Cesar a Valledupar. Lo studio condiviso da Villa, riguarda le esperienze della “Càtedra de Estudios Afrocolombianos: Una Posibilidad de Descolonizaciòn del Lenguaje en el Caribe Seco Colombiano”, attraverso la quale avanza una proposta di “decolonizzazione del linguaggio”, che possa essere anche una proposta politica e pedagogica, come riportato di seguito. 583 “In Colombia ci sono 4.311.757 abitanti auto-riconosciuti come afrosdicendenti ( 10.43% del totale del paese). Nell’ultimo censimento realizzato in Colombia, nel 2005, si è rilevato che dei 1099 comuni del paese, 107 hanno maggioranza di popolazione auto riconosciuta come afrodiscendente, i quali si trovano distribuiti in 15 regioni”. Agencia presidencial para la Accion Social y la Cooperaciòn internacional de Colombia. www.accionsocial.gov.co. 584 Licenciado en Psicología.Profesor investigador de la Universidad Popular del Cesar, Valledupar (Colombia). Dottore in Educazione e Studi Interculturali dell’Università di Antioquia, con la tesi dottorale “Narrativas de los pueblos Afrodescendientes del Caribe Seco Colombiano. Una forma de costruire nuevas epistemologias.” E-mail: v_ernell@yahoo.com. 267 “Per sminuire gli stereotipi egemonici dei “costegni” (abitanti della costa) e avanzare nella considerazione della trasformazione delle realtà dei territorio intra-costa, stiamo proponendo a partire dall’Associazione di Organizzazioni di Comunità Negre della provincia del Cesar: KuSuto, una nuova politica nelle forme di dare i “nomi” alle cose, alla vita e alla realtà. L’inizio implica l’articolazione degli “elementi culturali” identificati come propri e appropriati. Per capire questo processo, si fa necessario presentare una breve descrizione delle comunità negre del Cesar, che impiega come motto la frase “ku-suto”, proveniente dalla lingua palenquera585 di San Basilio de Panque, che viene tradotta in lingua spagnola come “noi siamo”. …(..)586 “Le Comunità negre del Caribe seco si auto denominano a partire da un senso collettivo che afferma la memoria radicata sul Territorio, il quale è un attore protagonista nella produzione delle loro narrazioni. Così, il riferimento a “lo negro”, come una istanza di identificazione, è vincolato alle pratiche quotidiane di radicamento. Tuttavia, dal punto di vista politico, le comunità negre utilizzano “l’etnonimo” ‘afrocolombiano’, ma nella quotidianità, la gente del ‘Caribe Seco” colombiano continua ad utilizzare ‘l’etnonimo’ “negro” per autodeterminarsi.”587 Il senso pedagogico che orienta questo corso di studio è la contestualizzazione storica, territoriale, giuridica, educativa e organizzativa, per avanzare una proposta politica che possa avviare processi educativi che si nutrano delle dinamiche perdurate nelle diverse realtà delle Comunità negre in Colombia, mirando specificamente ad un processo di decolonizzazione del linguaggio, come spiega Villa nel suo studio. “La configurazione di enunciati razzisti sulle comunità negre del Caribe Seco Colombiano si fa evidente nella colonialità del corpo, specialmente quando si riferiscono ai capelli di donne e uomini afrodiscendenti, sono termini peggiorativi fissati attraverso modi di dire delle persone bianche-meticce, attraverso espressioni come “pelo grifo”, “pelo pimienta”, “pelo ñongo”, “pelo apreato”, “pelo de brillo fino” y “pello 8888”. Tutti questim modi di nominare i capelli delle comunità negre si raggruppano nella categoria di “pelo cattivo”, che costituisce un modo razzista di condannare la particolarità dei capelli della popolazione afrodiscendente.”588 “Per rispondere a questa situazione, la “Càtedra de Estudios Afrocolombianos en el Caribe seco Colombiano” cerca di dare un significato positivo a quegli aspetti negati durante la storia coloniale. Si tratta di dare un luogo alle esperienze delle persone e dei collettivi sociali. 585 Fa riferimento alla lingua delle Comunità Afrodiscendenti della regione di San Basilio di Palenque. Villa, Ernell; Villa Wimer. Catedra de Estudios Afrocolombianos: Una posibilidad de descolonizaciòn del lenguaje en el Caribe Seco Colombiano. Nòmadas (Col), nùm, 34, abril 2011, pp. 76-92 587 Ivi, p. 82 588 Ibidem. 586 268 L’obiettivo è incidere nella produzione della conoscenza in modo che sia possibile creare una rappresentazione condivisa del “noi” per arrivare a una trasformazione” “La Catedra de Estudios Afrocolombiano, non costituisce in sé stessa, un modello di educazione propria, ma rappresenta e offre la possibilità di costruire a partire dalla scuola e dalla Comunità una riflessione condivisa, i modo da riuscire a incorporare i contenuti endogeni che nella storia sono stati negati dalle istituzioni sociali come la Famiglia, la Scuola e lo Stato.”589 Chiudo questo capitolo riportando quanto appresso nel colloquio con Villa in merito alle esperienze all’interno dell’Università Popular del Cesar (UPC) -Università Pubblica della città di Valledupar, Regione del Cesar – Colombia -, in particolare per quanto riguarda le proposte di educazione interculturale, considerando che in questa regione convergono ben sette Popoli indigeni, oltre alla popolazione afrodiscendente di cui abbiamo appena parlato. “Qui all’Università del Cesar, posso dire che c’è stato un certo avvicinamento ai popoli indigeni verso la decade dei ’90, particolarmente i quattro popoli della Sierra Nevada di Santa Marta (Arhuacos, Kogui, Wiwa e Kankuamos). In questo periodo si è organizzato un “conversatorio” con i “Mamos” Arhuacos, ma più per iniziativa di un gruppo di studenti indigeni che a quell’epoca frequentavano l’università. Loro hanno stabilito delle relazioni con alcuni docenti e sono riusciti a creare all’interno dell’università una certa sensibilità, organizzando un incontro di tre giorni dove sono intervenuti alcuni dei “Mamos” e altri “sabedores” dei popoli Arhuaco e Kankuamos. L’evento è riuscito grazie all’impegno di alcuni docenti della facoltà di educazione, fra cui il Professor Elio Fabio Mejia, e all’interesse di alcuni studenti indigeni, curiosamente, delle facoltà di matematica e fisica . Questa, diciamo che è stata l’unica esperienza per quanto riguarda lo scenario istituzionale, è stata verso la fine della decade dei ’90, diciamo che è stato un momento molto importante nella storia dell’università, ma gli studenti interessati se ne sono andati e senza loro la dinamica è rallentata. “Altre iniziative si sono realizzate più per interesse personale da parte di alcuni, pochi, docenti, come nel mio caso, ma non sono iniziative all’interno di uno spazio istituzionale.”590 “ Diciamo che le esperienze riguardanti i popoli indigeni, in ogni modo sono state poche. Alcune ho avuto la possibilità di coordinarli, ad esempio , sono stato direttore di alcuni lavori monografici attraverso la Facoltà di Educazione, ma sempre curiosamente con alcuni studenti delle Facoltà di Matematica e Fisica, non della Facoltà di educazione. Questo è un fatto veramente curioso. Qualche anno fa ho coordinato la tesi di uno studente Wayuu, sui sistemi di 589 590 Ivi, 86 Intervista realizzata a Valledupar, agosto 2012. 269 misura nella cultura wayuu. E’ stato un lavoro abbastanza importante. Successivamente, un altro studente, Aurelio Pumarejo, ha realizzato un lavoro su concetti di fisica, applicati al curriculum educativo del popolo Kankuamo. Altri lavori si sono realizzati nel programma di sociologia, orientati alla mia linea di ricerca: le comunità afrocolombiane e i popoli indigeni. Attualmente stiamo consolidando un gruppo di ricerca che abbiamo chiamato “Gruppo di Ricerca in Studi Etnici Regionali”, il cui proposito è accompagnare i popoli nelle loro dinamiche organizzative e di ricerca, perchè abbiamo considerato che è un modo di avvicinare l’UPC alle Comunità e allo stesso tempo un modo affinché anch’esse possano entrare in dialogo con l’Università. Ma ribadisco, è un interesse di un gruppo di studenti che ormai sono già fuori dall’università, con cui ho lavorato in altri momenti, per cui cerchiamo di dare vita al gruppo per vedere di riuscire a istituzionalizzarlo, anche se ho paura che una volta istituzionalizzato si corra il rischio di essere resi invisibili.”591 Riguardo alla proposta di un corso su “Diversità culturale e Pedagogia”, Villa parla della proposta avanzata all’UPC. “La proposta nasce da questo mio camminare fra i Popoli attraverso l’accompagnamento nei loro processi organizzativi e anche attraverso il confronto con altre istituzioni educative del paese. Ho percepito la necessità che l’UPC possa offrire un programma di educazione ai docenti dei popoli della Sierra Nevada, ma anche alle Comunità afrocolombiane che abitano sia nel Dipartimento del Cesar che nella Guajira. Questo mi ha portato a pensare un programma , magari a livello di un master in “Pedagogia e Diversità Culturale”. Ci stiamo lavorando dal 2010 e parte del 2011, ma ultimamente a causa dei miei impegni col dottorato siamo un po’ fermi, ma abbiamo già elaborato dei documenti che possono servire da fondamenta per creare il programma di formazione avanzata a carico del gruppo di ricerca che io coordino.” Per quanto riguarda il ponte attraverso il quale riuscire a connettere i diversi livelli di conoscenza sia dell’accademia che dei Popoli, Villa manifesta: “Io faccio la scommessa e sono convinto che i saperi dei Popoli sono saperi che stanno già dialogando e possono continuare a dialogare allo stesso livello delle scienze Occidentali, e questo lo dico perché conosco, ho partecipato a congressi e a vari eventi di ricerca dove diverse università colombiane sono già da molto tempo all’interno di questo dibattito, e sono 591 Ibidem 270 università che sono distanti geograficamente da contesti come questo della Sierra Nevada, in cui ci sono quattro popoli indigeni oltre alle Comunità afro discendenti, e tuttavia sono università che hanno un grande percorso. Per esempio, l’Università del Valle a Cali ha un master in etnobotanica e un altro in etnomatematica. Poi c’è anche l’Università di Antioquia che porta avanti il corso di laurea in “Pedagogia della Madre Terra” e ci sono anche altre esperienze in altre Università, ma queste che riporto sono quelle che conosco da vicino. Questi programmi sono sostenuti da tutte le fondamenta che hanno i popoli, a partire da un “CosmoEsistere” , un “CosmoVivere”, che sono assi portanti di una filosofia, che sono tanto forti quanto le filosofie fondanti Occidentali, ad esempio la filosofia greca. Esistono delle fondamenta epistemologiche là, ma esistono anche qui. Quindi, il dialogo fra i saperi dei popoli e le scienze Occidentali è un dialogo che si sta dando già da qualche tempo in Università di prestigio e penso che le nostre università, come ad esempio l’UPC qui a Valledupar, che sono in un contesto così vicino ai Popoli, sarebbero le prime chiamate a generare questo dialogo. “Certamente ci sono delle persone all’interno di certe università che guardano al sapere dei popoli come saperi su cui fare ricerche e migliorare il loro stipendio, ma da lì a che questo venga considerato un sapere legittimo che dialoga con le scienze Occidentali, c’è una grande distanza, quindi bisogna avere chiaro che ci sono due punti di vista diversi. Bisogna però sottolineare che non è questo il tipo di approccio che si aspettano i popoli, perchè loro si sono resi conto di questa strumentalizzazione e giustamente stanno chiudendo le porte a questo genere di ricerche. Loro, (i Popoli), vogliono un altro tipo di dialogo e personalmente io miro a creare un altro tipo di approccio: un vero dialogo fra i saperi originari e i saperi occidentali, che per me sono allo stesso livello, hanno la stessa gerarchia, sono legittimi, sono validi, sono saperi che hanno contribuito a costruire società tradizionali ancestrali, tanto solide da essere ancora lì”.592 592 Ibidem. 271 CAPITOLO QUARTO SAPERI INTRECCIATI: IDENTITÀ TERRESTRE, BUEN VIVIR E PROGETTUALITÀ ESISTENZIALE “In principio tutto era tenebra. Solo esisteva il mare. In principio non c’era niente, né sole, né luna, né gente. Non c’era niente, né animali né piante. C’era solo il mare. Il mare era la ‘Madre’. Solo il mare. La ‘Madre era niente. Assolutamente niente. Quando era, era spirito. Era solo ricordo, possibilità. Era pensiero e memoria”593 Mitologia Kogui Poblado de Bunkuanegueka Territorio Kogui – Sierra Nevada de Santa Marta-Colombia – Septiembre 2012 593 Cucchiella, Pio Emilio, I Custodi del Sapere Mitico, op, cit, p. 13 272 Premessa Per iniziare vorrei prendere in considerazione il concetto di “paradigma” coniato da Thomas Kuhn nel 1962, accenando all’importanza che il cambio di paradigma della fisica ha rappresentato nel contesto sociale e il susseguirsi di implicazioni epistemologiche verso i nuovi paradigmi in educazione, argomento di riflessione di questo capitolo. Per collegarmi a tutto quanto esposto lungo questo elaborato, ho trovato particolarmente interessanti le riflessioni di Fritjof Capra, per cui, ritengo opportuno soffermarmi su alcune di esse. “ Oggi, oltre trent’anni dopo l’analisi compiuta da Kuhn identifichiamo nel mutamento di paradigma della fisica una parte integrante di una trasformazione culturale molto più vasta. …(..) . Per analizzare questa trasformazione culturale, ho applicato la definizione di Kuhn di paradigma scientifico, al paradigma sociale: “Una costellazione di concetti, valori, percezioni e comportamenti condivisi da una comunità che dà forma a una visione particolare della realtà come base del modo in cui la comunità si organizza.” “Il paradigma che oggi sta perdendo valore ha dominato la nostra cultura per molte centinaia di anni, durante i quali ha foggiato la società occidentale moderna e ha esercitato un’influenza significativa sul resto del mondo. Questo paradigma consiste di una quantità di idee e valori radicali, fra cui la visione dell’universo come sistema meccanico composto da mattoni elementari, la visone del corpo umano come macchina, la visione della vita sociale come lotta di competizione per l’esistenza, la fiducia in un progresso materiale illimitato da raggiungere attraverso la crescita economica e tecnologica, e – ultima ma non meno importante – la credenza secondo cui una società nella quale la donna è ovunque sottomessa all’uomo segue una legge fondamentale della Natura.”594 Nel mantenere il collegamento con i capitoli precedenti, devo riprendere uno dei punti cardine di questo intreccio attraverso il quale ho cercato di tessere la grande “mochila” della Conoscenza dei Popoli Originari: Il “Territorio”. Un Territorio in cui le dimensioni Spirituale, Ecologica, Cognitiva ed Esistenziale si intrecciano. Un Territorio : Corpo-Spirito-Mente-Mondo, dove l’Identità Terreste, il Buen Vivir e la Progettualità Esistenziale, non solo si manifestano, ma soprattutto si connettono. Anche qui le citazioni di Capra per quanto riguarda il concetto di “Ecologia Profonda” può rappresentare una chiave di lettura di quanto scritto in precedenza e quanto seguirà in merito 594 Capra, F. La Rete della Vita, BUR Rizzoli, Milano 2010, p.16 273 alla connessione e la tessitura del Esserci nel mondo che ho voluto esprimere attraverso il concetto di “ConoSCentire” spiegato nel capitolo “Zero”. “ Il senso in cui io uso l’aggettivo ‘ecologico’ è associato a una specifica scuola filosofica e, inoltre, a un movimento globale d’opinione, noto come ‘ecologia profonda’. ..(..) La Scuola di pensiero fu fondata dal filosofo norvegese Arne Naess nei primi anni Settanta con la distinzione fra ecologia ‘superficiale’ ed ecologia ‘profonda’. ..(..) L’ecologia superficiale è antropocentrica, cioè incentrata sull’uomo. Essa considera gli esseri umani al di sopra o al di fuori della Natura, come fonte di tutti i valori, e assegna alla Natura soltanto un valore strumentale o di ‘utilizzo’. L’ecologia profonda non separa gli esseri umani, - né ogni altra cosa – dall’ambiente naturale. Essa non vede il mondo come una serie di oggetti separati, ma come una rete di fenomeni che sono fondamentalmente interconnessi e interdipendenti. L’ecologia profonda riconosce il valore intrinseco di tutti gli esseri viventi e considera gli esseri umani semplicemente come un filo particolare nella trama della vita. In definitiva, la consapevolezza ecologica profonda è una consapevolezza spirituale o religiosa. Quando il concetto dello spirito umano viene inteso come la forma di coscienza in cui l’individuo prova un senso di appartenenza, di rapporto di connessione con l’intero cosmo, diventa chiaro che la consapevolezza ecologica è spirituale nella sua essenza più profonda. Perciò non sorprende che la nuova visione della realtà che sta emergendo, basata su una consapevolezza ecologica profonda, sia coerente con la cosìddetta “filosofia perenne” delle tradizioni spirituali, sia che parliamo della spiritualità dei mistici cristiani, di quella dei buddhisti, o della filosofia e della cosmologia che sono alla base delle tradizioni dei nativi americani.”595 4.1 IDENTITÀ TERRESTRE E COSCIENZA DI SPECIE “Tutti gli esseri viventi contengono DNA, siano essi batteri, carote o esseri umani. Il DNA, come sostanza, non varia da una specie all’altra; cambia solamente l’ordine delle sue lettere. …(….) “Quando camminiamo in un campo, il DNA e la vita basata sulla cellula che esso codifica, si trovano ovunque: all’interno dei nostri corpi, ma anche nelle pozzanghere, nel fango, negli escrementi delle mucche, nell’erba sulla quale camminiamo, nell’aria che respiriamo, negli uccelli, negli alberi e in tutto ciò che vive …(…) “Questa rete globale di vita basata sul DNA, questa biosfera, racchiude l’intera terra”596 595 Ivi, p. 18 596 Narby Jeremy, Il Serpente Cosmico. Il DNA e le origini della conoscenza, Venexia, Roma 2003, pp. 103 e 104 274 Nell’iniziare questo capitolo cerco d’incorporare nel concetto di “Identità Terrestre” le dimensione della Ritualità e Sacralità, nonché il “concetto” di Unità con cui il Territorio è vissuto, da quanto appreso e riportato nei capitoli precedenti. In questo orizzonte riporto la cosmovisione del Popolo Kogui della Colombia, nelle parole di don Emilio Cucchiella, nel tentativo di approfondire il concetto di “Complementarità” fra gli esseri viventi e il Cosmo. “ Il mondo, come l’uomo, è stato creato dalla Madre Universale. Essa ha nove figlie e ciascuna rappresenta un certo tipo di suolo coltivabile: nero, grigio, rosso, verde, bianco, giallastro, sabbioso, argilloso e pietroso. Questi terreni coltivabili costituiscono altrettanti strati all’interno dell’uovo cosmico e simboleggiano anche una scala di valori: fecondo, produttivo, sterile, incolto, del matrimonio, dell’agricoltura. L’uomo vive sul quinto strato: sulla terra nera che si trova al centro”597 …(…) Ogni luogo o terra incolta per poter essere abitato o coltivato deve essere ‘cosmizzato’ ‘usbashi’, cioè trasformato da caos a cosmo con un rito, per allontanare da esso la presenza degli spiriti malefici, issè, dando così forma e norme al luogo per utilizzarlo come spazio vitale. Con questa cerimonia e con questo rito del ‘Mama’ (sacerdote) si ripete l’atto primordiale della creazione del mondo. Viene eretta nel luogo una pietra (sinkana), altare e luogo delle offerte, indicando così che si è preso possesso del luogo e lo si è affidato all’esere totemico del popolo.”598 ..(..) per i Kogui, ogni cosa del mondo inanimato – astri, montagne, pietre, fiumi, alberi, uomini – è un essere vivente, ha un’anima (luab): essa è ragione, forza, vita, memoria e attività. Ciò che oggi è Sole, Luna, costellazioni, stelle, Via Lattea, montagne, laghi, grotte, alberi, uccelli, animali, liane ‘ab illo tempore’ erano persone, parlavano come persone e vivevano come persone.”599 Con questa diversa percezione dei Popoli Originari, mi avvio verso i concetti di “Identità terrestre” e “Coscienza di Specie”, ricordando appunto, che come Specie, siamo parte integrante di Esso, e che del nostro impegno etico, in quanto “parte interagenti” di questa Unità, dipende se approfondiamo nell’abisso che la Specie umana ha creato, oppure riusciamo a risalire, cosa che ci ricorda Morin, con le sue riflessioni: “Le eredità del XX Secolo / L’eredità del progresso e della barbarie …(…) .. La morte introdotta dal XX secolo non è soltanto quella delle decine di milioni di morti delle due guerre 597 Cucchiella, P.E, op. cit. pp. 153 Ivi, p. 117. Cfr P.E.Cucchiela, El solitario corazòn, p.201 599 Ivi, p. 147. Cfr P.E. Cucchiella, El solitario corazòn, p.82 598 275 mondiali e dei campi di sterminio nazisti e sovietici, è anche quella delle due potenze di morte. La prima è la possibilità della morte globale di tutta l’umanità per mezzo dell’arma nucleare. …(..) La seconda è la possibilità della morte ecologica A partire dagli anni Settanta abbiamo scoperto che deiezioni, emanazione , esalazione del nostro sviluppo tecnico industriale urbano degradano la biosfera e minacciano di avvelenare irrimediabilmente il mondo vivente di cui facciamo parte; il dominio sfrenato della natura traverso la tecnica conduce l’umanità al suicidio .600 “Infine, la morte ha guadagnato terreno all’interno delle nostre anime. Le potenze di autodistruzione, latenti in ciascuno di noi, si sono attivate in modo particolare, con l’aiuto di droghe pesanti come l’eroina, ovunque si moltiplicano e crescono le solitudini e le angosce”.601 Il passaggio attraverso la connessione “Territorio-Corpo”, è stata fondamentale in questo percorso, considerando che l’Unità nella dimensioni Spazio/Tempo in cui le diverse dimensione dei Mondi si intrecciano all’interno della “Pacha Mama” -.Madre Terra-, comprende anche la categoria della “Cittadinanza Terrestre” esplicitata da Morin, come la dimensione, appunto dove le Specie, anche quella umana, nascono, crescono, socializzano, sentono, sognano, pensano, si riproducono e muoiono, ovvero Esistono o sopravvivono in mezzo ai propri silenzi e alle proprie paure. “ L’unione planetaria è l’esigenza razionale minima di un mondo ristretto e interdipendente. Tale unione ha bisogno di una coscienza e di un sentimento di reciproca appartenenza che ci leghi alla nostra Terra considera come prima e ultima Patria. Se la nozione di patria comporta un’identità comune, nata da un rapporto di affiliazione affettiva a una sostanza nel contempo materna e paterna, ( insita nel termine femminile - maschile di Patria), come comunità di destino, allora possiamo introdurre la nozione di Terra-Patria … (…) Siamo nati dallo sviluppo della vita di cui la Terra è stata matrice e nutrice .602. (..)Così, dobbiamo imparare a “esserci” sul pianeta. Imparare a esserci significa: imparare a vivere, e a condividere, a comunicare, a essere in comunione; e ciò che si imparava soltanto nelle e con le culture singolari. Abbiamo bisogno ormai di imparare a essere, a vivere, a condividere e a comunicare, essere in comunione anche in quanto umani del pianeta Terra.”603 Morin, Edgar, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, op, cit, p. 71 Ivi, p.72 602 Il grassetto è mio 603 Ivi, p. 77 600 601 276 D’altra parte cerco di avvicinarmi verso una categoria di “Identità Terrestre” vicina alla Pedagogia del “Buen Vivir”, che come spiegato nel capitolo secondo, ha la sua essenza nel tentativo di ricucire la struttura che è stata spezzata, riscoprendo quella “struttura”, nel punto in cui le quattro dimensioni della Pacha (Spazio,Tempo,Contesto/situazione, Esseri Viventi) si interconnettono con i quattro principi vitali sopra accennati: Munay, Yachay, Ruway, Atiy. La “struttura che connette”, sia nella cosmovisione Andina sia in quella Maya, è rappresentata da quel “centro” ciclico, circolare, complementare e “pariverso”604, luogo d’incontro delle energie cosmiche e telluriche nelle sue due manifestazioni: “negative” e “positive”, la quale, ribadisco rispecchia quanto espresso ancora da Morin: “Non dobbiamo più essere solo di una cultura, ma anche essere terrestri. Dobbiamo impegnarci non a dominare, ma a prenderci cura, migliorare, comprendere. Dobbiamo inscrivere in noi: La Coscienza antropologica, che riconosce la nostra unità nella nostra diversità. La Coscienza ecologica,ossia la coscienza di abitare con tutti gli esseri mortali, una stessa sfera vivente ( biosfera). Il conoscere il nostro legame consustanziale con la biosfera ci porta ad abbandonare il sogno prometeico del dominio dell’universo per alimentare, al contrario, l’aspirazione di convivialità sulla Terra; La Coscienza civica terrestre, ossia la coscienza della responsabilità e della solidarietà per i figlio della Terra; La Coscienza dialogica, che nasce dall’esercizio complesso del pensiero e che ci permette nel contempo di criticarci fra noi, di autocriticarci e di comprenderci gli uni gli altri.605 Per completare l’importanza di questa connessione “Territorio/Corpo”, come dimensione coadiuvante al ritrovamento della” nostra “Identità Terrestre”, o la nostra “Coscienza di Specie”, riporto quanto in merito esposto da Victor Toledo606. “ Parlare di Coscienza di Specie, è parlare di etica planetaria. La specie umana o l’umanità se si preferisce, per la prima volta ci si è reso conto che è una specie che può morire, che può scomparire dallo scenario planetario, come è già successo nel passato, nel lungo divenire dell’evoluzione organica. Coloro che riescono ad ravvisare questa situazione, che produce nello stesso tempo angoscia e paura, paralisi o delusione , riescono a riscattare la dimensione Nella cultura Andina, tutto l’esistente ha imprescindibilmente il suo “PARI”. L’origine non è l’unità, ma la “Parità”, come ampiamente spiegato nel primo capitolo di questo elaborato 605 Morin, op. cit, p. 78 606 Victor Toledo (1945), biologo messicano, con studi in economica politica, culture agrarie e sociologi rurale. Esperto in etnoecologia. I suoi studi e contribuito teorici sulle relazioni fra le culture indigene e la natura sono riconosciute a livello internazionale. I suoi studi hanno contribuito allo sviluppo di una disciplina di recente creazione: l’ecologia politica. Dal 1970 svolge le sue attività di ricerca prima nel Istituto di Biologia e successivamente nell’Istituto di Ecologia. Attualmente svolge le sue attività di ricerca presso il “Centro de Investigaciones en Ecosistemas, Universidad Nacional Autónoma de México” Email: vtoledo@oikos.unam.mx. 604 277 più finita del pensiero critico: ovvero, hanno acquisito una “Coscienza di Specie”, un’ “Etica Planetaria”.607 Questa “coscienza di specie” permette agli esseri umani di andare oltre la Famiglia, la Comunità, la Cultura, la Nazione, la Confraternita religiosa o politica che sia, allargando questo senso di appartenenza anche a tutta la rete delle specie biologiche, in quanto specie dotata di una storia, impegnata nella costruzione di un futuro, con un’esistenza in relazione con gli altri esseri viventi che integrano “l’abitat planetario”; situazione che comporta di fatto una intima connessione con il pianeta stesso. Questa “coscienza di specie” permette agli essere umani una nuova percezione dello Spazio, in parole di Toledo “topocoscienza” e del Tempo “cronocoscienza”. “la “topocoscienza” e la “cronocoscienza” permettono innanzitutto di trascendere la visione ridotta dell’individualismo, del razionalismo e del pragmatismo Homo economicus, promossa dalla civiltà industriale. …(..) La “topocoscienza” permette all’individuo di incorporarsi, cioè, prendere coscienza del suo proprio Corpo e della sua collocazione nello Spazio. La “topocoscienza” dota all’essere umano di una visione integrale dello Spazio, partendo dal proprio Corpo fino alla dimensione planetaria, e li permette di riconoscere l’esistenza dei diversi processi della Vita e la connessione fra di essi. ..(..) La “Cronocoscienza”, permette di recuperare la visione evolutiva, cioè di restaurare la capacità di ricordare, di percepire il Tempo in tutta la sua profondità. Questo permette all’essere umano di ubicarsi come parte “di”, nei diversi processi storici dell’umanità. Questo per far fronte ad un epoca dove gli individui tendono ad essere mutilati nella sua capacità di percepire il Tempo come processo storico: lo “istantaneo” sostituisce la storia.”608 4.1.1 Identità Terrestre e Eco-diciplinarietà In questo orizzonte prendo in prestito il concetto di “Eco-disciplinarietà” ripreso da Silvia Demozzi609, condividendo il suo pensiero, nel senso che un nuovo paradigma educativo non può prescindere dell’approccio ecologico se ha intenzione di creare nuove forme di Esserci nel Mondo. Toledo, Victor, Contro di noi? La coscienza di specie e l’insorgere di una nuova filosofia politica, POLIS, Rivista dell’Università Bolivariana del Cile, Vol. 8 No. 22, 2009, pp. 219 a 228 608 Ibidem 609 Demozzi, Silvia. La struttura che connette, op, cit, p.22 607 278 In questo orizzonte, per parlare dell’insieme che in questo elaborato fa riferimento a tutte le dimensioni di Vita che interagiscono nella costruzione e trasmissione della conoscenza attraverso la “Scuola nella Vita”610, ho cercato, fra quelle che in occidente vengono chiamate “disciplina”, una che mi potessi portare in quella dimensione Spazio /Tempo in qui si intrecciano tutti i Mondi esplicitati nei capitoli precedenti, nel tentativo di collegare il “ConoSCentire” dei Popoli Originari con gli argomenti proposti in questo capitolo. Con questa intenzione , e cercando di andare verso l’ “Eco – disciplinarietà” ho preso in considerazione anche la Geografia, nel tentativo di seguire un percorso attraverso il quale individuare alcune connessioni con la condizione esplicita di “Esserci” nel Mondo e le forme attraverso le quali ha presso corpo quello che in questo elaborato ho chiamato la “Ecologia dello Spirito” . In questo tentativo ho rispolverato un libro arrivato alle mie mani qualche anno fa, trovando alcuni scritti di Elisée Reclus, che curiosamente nel 1854 si recò in Nuova Granada ( Colombia), riuscendo nei diciotto mesi di permanenza a visitare i popoli della Sierra Nevada di Santa Marta, dichiarata nel 1979 dall’UNESCO riserva di Biosfera e Patrimonio dell’Umanità, in quanto ospita culture oggi ancora vive che sostengono nella loro cosmovisione la difesa di questo luogo: Arhwacos, Koguis, Wiwas e i kankuamos, che riconoscenti della loro tragica acculturazione hanno intrapreso negli anni Ottanta il loro processo di recupero culturale attraverso la lingua, la spiritualità, la musica e il tessuto. Di questo viaggio, Reclus pubblica nel 1861 la propria esperienza ( secondo quanto riporta Jhon Clark 611) “ Il suo viaggio in Nuova Granada costituì la base del suo Voyage à la Sierra Nevada de Sainte –Marthe: Paysages de la nature tropicale”. A mio avviso, considerando il momento in cui Reclus ha avuto occasione di entrare in contatto con popoli che ancora oggi conservano viva la loro cultura, può avere influenzato la sua forma di ri-vedere il mondo una volta rientrato in Europa, come si riesce a percepire da alcune delle riflessioni, che rimandano alla sua grande opera “L’homme et la Terre”612 con la sua frase celebre: “L’homme est la nature prenant conscience d’elle même” (l’uomo è la natura che prende coscienza di se stessa), parole che rispecchiano quelle metafore da me ascoltate durante i lunghi “pensatorios” con i capi spirituali di questi popoli: i “Mamos613”: “ Reclus, pensò che fosse stupido negare un’anima agli animali, alle piante e perfino a tutto ciò che è ancora definita materia insensibile, come se tale materia la si potesse trovare altrove 610 Cfr. II Capitolo del presente elaborato Clark, John P., Reclus, Elisée, Natura e Società. Scritti di geografia Sovversiva, a cura di. Elèuthera. 1999 612 Reclus, Elisée, L’Homme et la Terre, Librairie Universelle, Parigi 1905-1908, 6 Voll. 613 Mamos, è il termine per indicare i Savi dei quattro popoli della Sierra Nevada de Santa Marta in Colombia. 611 279 nell’universo. ….(…) La sua concezione del mondo, costituisce secondo Edward Rothen, un “panteismo infinito che percepisce un’immensa solidarietà tra tutto ciò che vive..(…).. Reclus non usò mai il termine “panteismo” per riferirsi alla sua concezione del mondo e che costantemente si trattenne dall’esplicitare le implicazioni religiose o spirituali di tale concezione.614 “Infine, vorrei sottolineare dal punto di vista pedagogico, la vicinanza che ritrovo in alcuni punti con il “problematicismo pedagogico”, specificamente quanto riguarda l’urgenza di rivolgere un’educazione che possa rafforzare la conoscenza di noi stessi e del nostro essere nel mondo. “ La rilevanza di Reclus consiste nell’aver saputo coniugare la sua visione generale con una notevole capacità d’analisi delle barriere sociali che impediscono agli essere umani di cogliere la totalità delle cose e di operare in base a una visione “dall’interno”. La sua concezione olistica di “umanità-in-natura” serve a tracciare una diagnosi della nostra malattia egoistica e autistica, l’analisi delle istituzioni del potere ( capitalismo, Stato, patriarcato, razzismo) serve a capire che cosa cioè da cambiare per curare il nostro autismo. L’unica uscita dal vicolo cieco dell’egocentrismo è il processo di autotrasformazione coniugato quello di evoluzione /rivoluzione sociale. ..(..) “L’eredità più durevole che Reclus ci ha lasciato è il suo contributo alla conoscenza di noi stessi, in quanto esseri umani ed esseri viventi sulla Terra, e alla rinascita di uno spirito di speranza e di creatività fattiva615. La sua importanza sta nell’aver saputo far convergere ragione, sentimento e fantasia: logos, eros e poesis. Dalla sua opera si scorge in prospettiva l’avvicinarsi del giorno in cui poesia, mito e leggenda entreranno a pieno titolo nella dialettica insieme a ragione ed esperienza”616 Queste precisazioni sono importanti da considerare, perché a mio avviso sono in sintonia con quanto espresso da G. M. BERTIN e il “momento creativo della ragione proteiforme”: …(...) In quanto precede ho preso in esame un momento costitutivo della progettualità razionale – il sentimento-, considerandolo in generale, ma dando debito rilievo a quell’aspetto di esso che ho denominato, in analogia al motivo contenuto nel capitolo precedente, sentimento demonico – esistenziale617. L’ho definito come energia biopsichica ed etico - culturale, in grado nel suo aspetto più elevato di razionalità, di sostenere e potenziare, nella vita individuale e collettiva – con lo slancio della passionalità che può intensificarla – la tensione al lontano, al 614 Clark, John. P, op, cit, p. 31 Il grassetto è mio 616 Clark, John. P, op., cit, pp.. 134 – 135 617 Il grassetto è mio 615 280 diverso, al nobile, al lieve ( attributi nietzscheani qualificanti il demonico secondo l’accezione richiamata in precedenza) …(…) La ragione subisce indubbiamente, per quanto si è detto, nella vita sociale ed individuale, tra altre influenze, quelle provenienti dai sentimenti dei singoli e da quelli che potremmo chiamare collettivi: caratterizzati da ambiguità, incertezze, oscillazioni, e soggetti a spinte eterogenee, mal definibili e spesso contraddittorie. Dai sentimenti individuali e collettivi o, piuttosto, dal molteplice e confuso gioco di essi, la ragione è indotta, nell’esercizio delle sue svariate funzioni, ad elevarsi o ad abbassarsi di livello, a raffinarsi o a imbarbarirsi, a ingentilirsi o a incattivire, a compatire o ad irridere, ad esaltarsi o a deprimersi; ad ampliare o a restringere il proprio orizzonte vitale a seconda delle pressioni derivanti da individualità di rilievo (leader,divi, ecc), da gruppi di opinione, correnti culturali, ceti emergenti o in declino; da situazioni “influenti”, scelte importanti, esperienze traumatizzanti; dal nutrimento affettivo e culturale assimilato dai singoli nel quotidiano, speso nella banalità o vissuto in modi intelligenti.”618 La dimensione “Territorio” è stata una delle mie priorità bibliografiche, cercando di arrivare a studi che andassero in termini di ricerche oltre lo studio della geografia fisica e che mi permettessero di mettere in relazione il “sentire” e l’ “esserci” in una dimensione Spazio/Tempo, comune a tutti gli esseri viventi, nell’intensione di connettere quella “Identità Terrestre” di cui ci parla Morin, o la “Coscienza di Specie” di Toledo con il “Buen Vivir” dei Popoli Originari e con la “Progettualità Esistenziale” di G.M. Bertin e Mariagrazia Contini. Avventurandomi sempre nei sentieri della geografia tenendo conto di quanto appresso con le scoperte di Reclus, durante una torrida estate bolognese, ho chiamato con segno di disperazione una mia cara amica: Margherita Ciervo619, fiduciosa che il suo camminare con i popoli in Bolivia, e altri popoli dell’Abya Yala, ma soprattutto riconoscente della sua sensibilità e il suo impegno sia civile che accademico, mi potessero dare una luce su geografi italiani che avessero affrontato il tema “Territorio” in termini diversi da quelli del territorio considerato dalla pianificazione territoriale, e quello delle politiche pubbliche in Italia. Attraverso Margherita, quindi, sono arrivata ai libri di Adalberto Vallega”, trovando sia in “Geografia Umana620” che nella sua “Geografia del Tempo”621 alcuni passaggi che ritengo 618 Ivi, p. 27 Margherita Ciervo è attivista impegnata col cuore e la testa, del forum italiano dei movimenti per l'acqua, ricercatrice e autrice del libro “La Geopolitica dell'acqua”. 620 Vallega, Adalberto, Geografia Umana. Teoria e prassi. Le Monnier Università / Scienze Umane. Firenze. 2008 621 Vallega Adalberto, La Geografia del Tempo. Saggio di geografia culturale, Utet. Torino 2006. 619 281 interessanti in questo tentativo di capire i diversi significati che il termine “territorio” possa avere fra le diverse culture. “La logica razionalista (razionalismo) espressa dal pensiero cartesiano, ha ampiamente sostenuto gli indirizzi di geografia umana fino agli anni Settanta. Appartiene alla famiglia delle “logiche disgiuntive” dette così perché conducono a disgregare la realtà nelle sue componente, e a considerare le singole componente come campi specifici di indagine”622 In “Geografia Umana”, ho trovato interessante l’approccio con cui Vallega comincia - in parole sue- “cercando di integrare geografia e semiotica”, per cui ritengo opportuno riprendere alcune delle sue riflessioni: “muovendo dall’idea che la cultura consista nel produrre simboli e nell’attribuire significati ai simboli, prerogativa che distingue la specie umana dalle altre specie viventi mi sono dedicato a considerare i luoghi non già nella loro materialità ma come segni impressi sul territorio ..(…) “I luoghi sono segni che connotano non soltanto il rapporto tra cultura umana e superficie terrestre, ma anche il modo con cui il tempo è percepito e rappresentato nelle singole culture”…(…) “Quando consideriamo il luogo come segno siamo investiti da un’onda emozionale, rapportiamo quel segno alla nostra sfera esistenziale, non ci interessa indagare il senso del luogo nel corso del tempo, ma il suo valore nel nostro tempo. Così facendo, ci chiediamo quale senso del tempo sia racchiuso nel segno. A questo riguardo emerge una folla di problemi: a quale immaginazione delle nostre condizioni esistenziali conduce ? come ci fa considerare il rapporto tra la vita e la morte, il senso dell’aldilà? …(…) “Dunque, quando osserviamo un luogo, qualunque tipo di luogo, in quanto segno le nostre reazioni emozionali e le nostre immaginazioni riguardano contestualmente due elementi: spazio e tempo623” Proseguendo la lettura, ritrovo ancora un concetto nuovo e abbastanza interessante, nel mio sentire anche la versione più vicina in termini occidentali a tutto quanto ho voluto trasmettere nelle pagine precedenti: “topofilia”, termine coniato da Yi-Fu Tuan624, nel non molto lontano 1974. 622 Vallega, A, Gegrafia Umana. Op. cit. pag. 71 Vallega, A, Geografia del Tempo Op. cit. pag. VIII. 624 Yi-Fu Tuan (Tientsin, 1930) ha frequentato le scuole elementari in Cina, per poi studiare in Australia, nelle Filippine, in Inghilterra e negli Stati Uniti. E proprio negli Stati Uniti ha percorso la sua carriera accademica, come docente di Geografia umana nell'Università del Minnesota e nell'Università del Wisconsin, di cui è ora professor emeritus. È autore di una dozzina di libri, tra cui Topophilia (1974), Space and Place (1977), Segmented World and Self (1982), The Good Life (1986), Aesthetics, Nature and Culture (1993), Escapism (1998). www.zam.it/biografia_Yi-fu_Tuan. 623 282 “ Il luogo cessa di essere un semplice ambito fisico e diventa ciò che Yi-Fu Tuan propose di chiamare topofilia, cioè un luogo avvolto nel nostri sentimenti e nelle nostre emozioni e immerso nelle nostre immaginazioni: non più un luogo in sé, teatro di traffico e custode della memoria, ma un luogo vissuto, che diventa parte della nostra sfera esistenziale e della nostra spiritualità”625 Questo colloquio con Margherita è stato decisivo per confermarmi che certamente il dialogo fra Geografia, Ecologia, Scienze Economiche e Pedagogia sono decisive nella formulazione di nuovi paradigmi educativi, se vogliamo “essere parte” di quell’Unità Cosmica, che ci permetta di ricreare anche dei “Territori Immaginari” dove tutti gli esseri viventi possano connettersi e continuare all’infinito quella “Danza di parti interagenti” di cui ci parla Bateson. 4.2 BUEN VIVIR : TERRITORIO-CORPO -MEMORIA Collegandomi con quanto esplicitato nel capitolo primo sul “Buen Vivir”, voglio riportare alcune delle definizioni elaborate con studenti del terzo semestre della Facoltà di “ Sviluppo Sostenibile” dell’UNICH, dove ho partecipato ad un laboratorio riguardante , appunto, il “Lekil Kuxlejal”626, nell’intenzione di rendere esplicita la connessione che “TerritorioCorpo-Memoria”, come “conditio sine qua non” per intendere la proposta del “Buen Vivir” come Paradigma Educativo. D- Di cosa c’è bisogno per il “lekil kuxljeal” ? “Uno dei gruppi del laboratorio ha espresso: Coscienza ( Ch’ulel en lingua tsotsil). Rispetto. Amore. Lavoro comunitario ( Ya’tel komonal in lingua tseltal). Il rituale della Parola. Il Silenzio e l’Ascolto D – Cosa è il “lekil kuxlejal”? R- Lupita: “Eessere in armonia con il Tutto e con tutti. È un qualcosa di spirituale che si porta dentro e che si impara ascoltando, vivendo, facendo” R- Yolanda: “È un’esperienza di interconnessione della mente, il corpo e lo spirito e di interazione con il Territorio del quale facciamo parte come specie viventi” 625 626 Vallega, A, Geografia del Tempo. Op. cit. pag. XI Nelle lingue tsotsil e tseltal” (Vita Buona/Buona Vita/Buen Vivir). 283 R- Alejandro: “È sentirmi che sono un organismo parte della Natura stessa, non una specie che la danneggia” R- Almendra: “ Sono confusa perchè penso che ho ‘vissuto meglio’, nel senso di possedere cose o comodità materiali, ma credo che soltanto ora sto imparando a conoscere il “Buen Vivir”627 Nella cosmovisione del Popolo Kogui presentata all’inizio di questo capitolo, oltre ad essere evidente questo intreccio “Territorio-Corpo-Mondo”, è sottolineata anche la componente altamente femminile. L’importanza di questa concezione si radica nel fatto che ancora oggi venga percepita e vissuta da parte dei giovani, come ho avuto possibilità di confermare durante il laboratorio da me realizzato con docenti indigeni e non, nei gradi di scuola materna, elementare e superiore (bacchillerato) in territorio Kogui , nel collegio di “San Antonio de la Sierra”, (Bunkuanegheka in lingua originale), creato da don Pio Emilio Cucchiella, autore del libro prima riportato. Di seguito i risultati dei gruppi di lavoro con cui abbiamo lavorato, utilizzando la “Metodologia della Chakana”628 nel processo di elaborazione del “Curriculo etnoeducativo del Popolo Kogui”, in un progetto curato dalla diocesi di Riohacha (Guajira).629 Esposizione del Gruppo No. 1 “ Gruppo Malkua (Araña –Ragno): Abbiamo scelto “Malkua” perché è il principio attraverso il quale si tesse la Vita, nella Cosmovisione Kogui. La dimensione della Spiritualità (ALDUNAKZBIABA - ZHÀTUJUA) è il livello massimo di divinazione, conoscenza esclusiva dei “Mamos”. I Kogui non realizzano nessuna attività senza prima fare il “lavoro” spirituale. Nella dimensione dell’Educazione, il “processo” educativo comincia prima di nascere e va dopo la morte. Nella dimensione dell’Economia, prima si fa il “lavoro” spiritual ( le offerte alla Madre Terra), dopo la parte dell’economia materiale si realizza attraverso il truce ( baratto). Nella dimensione del Governo, i Mamos sono la massima autorità, hanno il potere civile, religioso e di guarigione. Sono loro i conoscitori delle leggi dei Kogui. Nel Governo c’è anche una figura chiamata “Cabildo” che è il ponte fra la Comunità e il Governo dello Stato colombiano.630” 627 Sartorello, S, Avila L, Avila A, (Coordinadores). El Buen vivir, op, cit, p.194 Cfr. II Capitolo del presente elaborato. 629 Laboratorio “Curriculo Etnoeducativo del Pueblo Kogui” da me condotto a San Antonio de la Sierra, 1 – 7 settembre 2012. I registri audiovisivi di questo laboratorio nonché l’intervista a Suor Èlsida Jèrez Direttrice del collegio, possono esseri consultati al link www.youtube.com /YolandaAbyaYala/Intercultura y Sabidurìa Ancestral/Taller Curriculum Proprio. Pueblo Kogui. 630 Ibidem 628 284 Esposizione Gruppo Malkùa – Territorio Kogui -Colombia631 Alla Cosmovisone Kogui si sono interessati in molti, ma qui prendo in considerazione alcune citazione prese dagli scritti di Reichel Dolmatoff632, uno degli antropologi più riconosciuti in Colombia, in cui viene narrato il mito della “Donna Ragno” ( Malkua), come rappresentato nel gruppo di lavoro sopra citato. “ All’inizio, spigarono, tutto era avvolto dall’oscurità e dall’acqua. Non vi era terra, non vi era sole o luna e non esisteva alcuna forma di vita. L’acqua era la Grande Madre. Ella era la mente che animava la natura, la fonte di tutte le possibilità. Ella era vita in divenire, vuoto, puro pensiero. Assunse molte forme. Come fanciulla, si sedette su di un masso nero posto sul fondo del mare. Come serpente cinse il mondo. Era figlia del Signore del Tuono, la Donna Ragno, la cui ragnatela abbracciava i cieli. 631 Ibidem Reichel-Dolmatoff (Erasmus Reichel) ha vissuto più di mezzo secolo in Colombia. Nel 1945 fundó a Santa Marta el L’Istituto Etnologico del Magdalena e nel 1964, il primo Dipartimento di Antropologia, all’Università de Los Andes a Bogotà, dove nasce anche la prima Facoltà di Antropologia. 632 285 Come Madre del Ghiaccio abitò in una nera laguna nella Sierra alta: come Madre del Fuoco dimora in ogni focolare. Alla prima alba, la Grande Madre iniziò a tessere i propri pensieri. Nella sua forma di serpente depositò un uovo nel vuoto, e l’uovo divenne l’universo.”633 Esposizione Gruppo No. 2 “Gruppo Shimanà, Shimanà, vuol dire “Piedra de la sabidurìa” ( Pietra della Saggezza). Abbiamo rappresenato il “Nujuè”( Kankurwa / Casa Cerimoniale / Tempio) e i quattro fuochi, come rappresentazione delle quattro dimensioni della “Chakana”, nel nostro caso, per il Popolo Kogui, i quattro fuochi rappresentano i quattro punti cardinali e i quattro popoli della Sierra ( Kogui, Arhuacos, Wiwa e Kankuamos). Così rappresentiamo la creazione dell’uomo e la donna come guardiani di tutto il creato. “Nuakubi” è il bambimo scelto per ricevere la conoscenza ancestrale nel Nujuè, dove si trasmettono i saperi ancestrali.”634 Esposizione Gruppo Shimanà – Territorio Kogui -Colombia635 633 Narby, J,op. cit. p.168 Ibidem. 635 Laboratorio “Curriculo etnoeducativo Kogui” da me condotto – Territorio Kogui, Colombia. Settembre 2012 634 286 Sull’importanza del “Nuhuè” come luogo di concepimento della Vita stessa, nonché luogo di culto e trasmissione della conoscenza scrive Cucchiela: …(…) Per capire meglio il mistero e il fascino della personalità del “Mamo” entriamo in un tempio, nella ‘Nuhuè’ 636.Nell’oscurità, fra una spessa nube di fumo, ogni uomo ha tra le mani il ‘poporo’ e occupa un proprio posto intorno a uno dei quattro fuochi del tempio: sospeso in alto, disteso su un’amaca fatta di rustiche corde di fibra di agave, sta il ‘Mama’ Nel silenzio profondo una voce scandita e chiara ripresenta ai duecentocinquanta uomini, presenti gli archetipi della vita sociale in ‘alùna’: riprende o corregge, arbitra o media la soluzione di conflittualità, cercando la soluzione di un problema. ..(..) Sono lunghe notti insonni, interrotte solo dal movimento frenetico del bastoncino del loro ‘poporo’ , che dopo aver estratto particelle di polvere di calce, strofinano intorno all’apertura del medesimo. La masticazione della coca acquieta gli animi, tranquillizza le menti, acuisce l’attenzione e aiuta a sopportare meglio la fatica, la fame e il sonno.”637 Esposizione Gruppo No. 3 “ Gruppo Poporo. Il “Poporo” è molto importante nella Cosmovisione Kogui, per quello abbiamo scelto questo nome. È il complemento fra il principio maschile e il principio femminile, rappresentato dall’incontro dell’ “hàyu” (foglie di coca), e il ‘sùgi’, base di tutta la nostra spiritualità. Il ‘poporo’ è per noi come i quaderni per i “bianchi” ( le persone non indigeni), su di esso scriviamo ed impariamo. Noi abbiamo lavorato sull’argomento dell’economia e la sua relazione con le altre dimensioni della Chakana, partendo del fatto che anche l’economia gira intorno a Madre Natura e ai Consigli del “Mamo”. Sono loro che hanno il compito di mantenere la memoria, l’equilibrio e l’armonia attraverso la divinazione e i riti nei siti sacri del Territorio, dove si fanno “i pagamenti” ( le offerte) per risolvere i problemi all’interno della Comunità e guarire la malattia sia della Natura che delle persone.” Chiamato anche “Cansamarìa” . Questo vocabolo entrato nell’uso corrente è di origine spagnola, come si volesse ribattezzare la Nuhuè, casa del diavolo, con ‘Cansamarìa’ ( Casa di Marìa, Casa degli uomini), luogo sacro, amato e rispettato come centro di vita della Comunità. La ‘Nuhuè’ è un gran Foro dove si dibattono i problemi più svariati, sacri o profani; la soluzione dei quali spetta al saggio ‘Mama’ coadiuvato dagli anziani. Cucchiela, E. op. cit. p. 206 637 Ibidem 636 287 Esposizione Gruppo Poporo – Territorio Kogui -Colombia638 Ancora le parole di Cucchiella in merito all’uso del ‘poporo’ e la masticazione delle foglie di coca. “ La coca è importantissima per questi uomini Kogui ! Nell’uso che ne fanno c’e tutta una ritualità simbolica: il ‘poporo’ è l’organo femminile, il bastoncino detto ‘sùgi’ è l’organo maschile; la coca è la donna ideale e misteriosa, colei che è saggia e dona saggezza, eleva la mente e il cuore al di sopra delle meschinità e degli egoismi umani. Lo scambio rituale delle foglie di coca tra gli uomini è espressione di comunione e fratellanza, mezzo per rinsaldare i legami sociale e stimolo energetico che agevola l’accesso alla sfera delal realtà spirituale. Tutti gli uomini iniziati nella ‘Nuhuè’ devono far uso della coca ‘hàyu’, per lasciarsi guidare dallo Spirito della Madre nel mondo degli archetipi in ‘ alùna”.639 Esposizione Gruppo No. 4 “ Gruppo Jaba Sè (Ley de Origen): Abbiamo scelto questo nome, perchè la nostra legge dell’origine è quella che guida tutte le nostre azioni, per cui anche se abbiamo lavorato sulla 638 639 Laboratorio da me condotto – Territorio Kogui – Colombia, settembre 2012 Cucchiella, E. op. cit, p. 206 288 parte del governo, dell’organizzazione non possiamo staccarci della dimensione della spiritualità. L’organizzazione delle nostre Comunità ha come centro la figura del “Mamo”, ma ci sono anche delle autorià come il “cabildo” che fa di ponte fra la nostra Comunità e lo Stato. Nell’organizzazione ci sono anche le assemblee dove partecipiamo tutti e se decide la vita quotidiana della Comunità, il lavoro comunitario per sistemare i sentieri, per costruire il “Nujuè”, per seminare. Ma comunque prima di tutto lavoro fisico si fa un “lavoro” spirituale, il “pagamento” per ringraziare la Madre Terra. Questo lavoro spirituale è molto importante per mantenere l’equilibrio. Lo dobbiamo realizzare sia noi uomini che le donne, e parte di questo “lavoro” spirituale è la “confessione640”, così siamo organizzati noi, i Kogui.” Esposizione Gruppo Jaba Sé – Territorio Kogui - Colombia641 Si va dal ‘Mama’ a confessare le proprie trasgressioni per tornare a vivere secondo la ‘legge della Madre’. Ogni uomo è obbligato a scrutare la propria coscienza e ad impegnarsi ad essere assolutamente onesto nelle azioni e nelle intenzioni, per evitare di ammalarsi o per guarire di qualche malattia da cui è afflitto. Ivi, pag. 203 641 Laboratorio da me eseguito. Territorio Kogui – Colombia. Settembre 2012 640 289 Per intendere questo ‘concetto’ de la “Ley di Origen” bisogna addentrarsi nella complessità della Cosmovisone dei Kogui e camminare sui loro sentieri. Nel cercare di spiegare la profondità delle loro parole e del loro “ConoSCentire”, riprendo ancora nelle parole di don Emilio Cucchiella, ( Padre Emilio, come ancora lo ricordano le suore del collegio di San Antonio della Sierra.) “La cosmogonia kàgaba è popolata da una selva di presenze misteriose che formano il cosìddetto ‘mondo in alùna’, un immaginario spazio cosmico, una sorta di pantheon abitato da personalità mitiche-spirituali: antenati, eroi, demoni. Essi sono i padri i custodi ed i guardiani di tutte le cose642” …(..) Compito sacro dei loro sacerdoti è far sì che l’agire, vivere ed operare degli uomini della tribù sia in armonia, ‘yuluka’, in accordo, ‘identificato’ con il progetto archetipico, mitico, ancestrale del mondo in ‘alùna’. Loro cercano attraverso la ‘divinazione’ di armonizzare le energie creatrici e distruttrici. Essere d’accordo, ‘yuluka’ è il principio fondamentale della saggezza umana.”643 ..(…).. “ Alla parola ‘alùna’ si possono dare tanti significati: indica l’anima (aseiba alùna) o ‘kasidukua’ per indicare la casa del divino. Inoltre la parola ‘alùna’ con significato di ‘sopranaturale’ non si riferisce solo agli esseri umani ma anche a tutto ciò che è meraviglioso.(…) D’altro canto con la stessa parola si indicano i pensieri, le intenzioni buone o cattive, l’intelligenza, la conoscenza, la memoria, il ricordo: ad esempio ‘alùna kalta’ è la tradizione; ‘alùna arzeŝi essere triste; ‘alùna izgaaŝi’ dire i pensieri, confessare, desiderare qualcosa; ‘alùna itŝsani’, desiderare di fare qualcosa con il pensiero”.644 I Kogui sono considerati dal Popolo Kankuamo645, i custodi della loro lingua, persa a causa dell’intenso processo di acculturazione portato avanti sia dalle religioni che del conflitto armato in Colombia. Per il Popolo Kankuamo, la Spiritualità insieme alla lingua, hanno costituito due degli elementi principali che nutrono il processo di recupero della loro cultura ancestrale, processo in cui le donne hanno avuto un ruolo fondamentale nel processo di 642 Cucchiella, op.cit, p. 179 Ivi, p. 151 644 Ivi, p. 191 645 Il Popolo kankuamo, più degli altri tre popoli ( Arhuacos, Kogi, Wiwa), ha sofferto un processo di acculturizzazione molto forte, iniziato all’epoca del colonialismo e prolungatosi nel tempo, causando la quasi scomparsa totale dei loro valori tradizionali.. Partendo dal passato e dagli errori, si è dato inizio ad un processo di “Reindianizzazione” kankuama, che anche se recente come progetto collettivo, ha radici ben profonde legate al territorio e alla propria storia. Non si può nascondere che molti kankuamos negavano la loro identità indigena; ma alcuni, anche se in maniera isolata e individuale, la rivendicavano. E proprio per dare voce a questa riflessione collettiva si è realizzato, fra il 16 e 20 ottobre 1993, il primo congresso delle comunità che ha dato origine all’Organizzazione Indigena Kankuama-OIK, istituita come entità politicoamministrativa e che rappresenta ed orienta il popolo kankuamo verso il recupero della propria cultura e del proprio territorio. Testo da me curato per la mostra fotografica “Popoli, Semi e Saperi” Realizzata a Ferrara nel 2007, in collaborazione con la Provincia di Ferrara e l’Associazione “Hermanos Latinos”. 643 290 autorganizzazione e coinvolgimento all’interno dell’organizzazione politica la O.I.K, come spiega il Cabildo Gobernador (Autorità politica) del Popolo Kankuamo. “Partendo dal passato e dagli errori, si è dato inizio ad un processo di “Reindianizzazione” kankuama, che anche se recente come progetto collettivo, ha radici ben profonde legate al territorio e alla propria storia. Non si può nascondere che molti kankuamos negavano la loro identità indigena; ma alcuni, anche se in maniera isolata e individuale, la rivendicavano. E proprio per dare voce a questa riflessione collettiva si è realizzato, fra il 16 e 20 ottobre 1993, il primo congresso delle comunità che ha dato origine all’Organizzazione Indigena KankuamaOIK, istituita come entità politico-amministrativa e che rappresenta ed orienta il popolo kankuamo verso il recupero della propria cultura e del proprio territorio. Fin dalla sua nascita l’ O.I.K,, ha dovuto affrontare le violazioni sistematiche dei diritti umani ed ha dovuto pagare un alto tributo in vite umane sul proprio territorio: più di 212 membri uccisi, di cui 65 (il 30% del totale delle vittime) dopo la firma da parte del governo colombiano, nel settembre 2002, di un atto amministrativo che prevedeva una protezione speciale per gli indigeni Kankuamo. A questo si deve aggiungere anche il fenomeno del “desplazamiento” cioè l’abbandono forzato della terra, che ha coinvolto più di 300 famiglie. Omicidi, ingiustizie, violenze che rimangano a tutt’oggi non solo impuniti ma ancora eseguiti, nonostante la Commissione dei Diritti Umani dell’ OSA (Organizzazione degli Stati Americani) il 24 settembre 2003, abbia imposto allo stato colombiano di adottare misure speciali per la protezione del popolo Kankuamo”646 Personalmente, ho avuto l’opportunità di seguire il processo del Popolo Kankuamo dal anno 2003, andando diverse volte nel loro Territorio, inizialmente come coordinatrice del progetto “Popoli, Semi e Saperi” finanziato dalla regione Emilia Romagna, fra gli anni 2003 e 2006. Successivamente, negli ultimi tre anni sono stata partecipe in diverse attività nel processo di “educazione propria”, così chè nell’ agosto del 2012 sono stata invitata a realizzare il laboratorio “ Spiritualità e Territorio” rivolto a donne e autorità tradizionali. Di seguito riporto una particolare testimonianza di una donna kankuama. “La Sierra è considerata come un corpo umano. I “Nevados” ( ghiacciai ) rappresentano la Testa; le “lagunas” (laghi)e i parami rappresentano il Cuore; i Fiumi e i ruscelli rappresentano le Vene; gli strati della Terra, rappresentano i muscoli; le paglie rappresentano i capelli. Su questa base, tutta la geografia della Sierra è uno spazio sacro. Quando tagliamo i nostri capelli o depiliamo le nostre ascelle e il nostra inguine stiamo 646 Colloquio con Jaime Arias. Attuale Cabildo Gobernador del Popolo Kankuamo. Valledupar –Cesar -agosto 2012 291 deforestando la Sierra. Questo ci hanno insegnato i ‘Mamos Kogui, e loro sono i guardiani della lingua e le tradizioni del Popolo Kankuamo.” 647 Spero attraverso questa concezione del Mondo di intraprendere la strada verso un nuovo paradigma che permetta di ricucire il filo della grande rete della Vita, in modo di scavalcare quel grande abisso che in Occidente ha fatto del Corpo un’appendice della propria esistenza. In questa prospettiva, faccio un breve passaggio verso la letteratura, con una narrazione che intreccia molto bene la parte mistica di questo “Territorio-Corpo-Memoria”, nelle parole di Gioconda Belli648 “Ritornò al crepuscolo. Aprì porte e finestre. Sembrava felice. Felice quanto me che avevo trascorso la serata a esplorare il mondo, a respirare attraverso tutte le foglie del mio nuovo corpo. Chi me lo avrebbe detto che sarebbe successo. Quando gli anziani parlavano di paradisi tropicali per coloro che morivano nell’acqua, sotto il segno di Quiote-Tlaloc, io immaginavo distese trasparenti, fatte della sostanza dei sogni. La realtà è spesso più fantastica dell’immaginazione. Non vago per giardini. Sono io stessa parte di un giardino. E quest’albero vive di nuovo della mia vita. …(…) Mi chiedo cosa sarà successo ai miei. Dove sarà Yarince? Abiterà forse in un altro Albero? O starà vagando per il Cielo come astro, o sarà diventato un colibrì?649 “… (…) È notte. L’umidità della terra penetra queste mie lunghe vene di legno. Sono sveglia. Sarà che non tornerò mai più a dormire,mai più a conoscere i presagi decifrati dai sogni. Sicuramente ci saranno molte cose che non tornerò più a provare. ..(..)650 ..(..) “ Ho cominciato a dondolarmi nell’aria, a cullarmi sentendomi leggera. Più di una volta avevo pensato che gli alberi, nonostante i loro grossi tronchi, sembravano eretti e gracili, come se i rami non pesassero. E questo perché le radici danno una sensazione molto diversa da quella dei piedi, sono sottili gambe che si allungano nella terra: una parte del mio corpo affonda nella terra dandomi una sensazione di stabilità e di equilibrio che mai avevo provato quando avevo i piedi. È notte, dunque, e le lucciole volteggiano intorno agli uccelli addormentati. La vita brulica in me come se fossi gravida; un telaio di farfalle, la lenta gestazione dei frutti nelle corolle delle zagare. È divertente pensare che sarò madre di arance. Io che fui costretta a negarmi la maternità.”651 Intervista con Patricia, donna Kankuama. Guatapurì, agosto 2012. I registri audiovisivi del laboratorio e dell’intervista possono essere consultati al link www.youtube.com /YolandaAbyaYala/ Mujeres TerritorioCuerpoMemoria /Patricia Pueblo Kankuamo/ PensamientoTerritorioMemoria, Taller CuerpoTerritorioMemoria, Pueblo Kankuamo. 648 Poetessa, giornalista e scrittrice nicaraguense. 649 Belli Gioconda, La donna Abitata, e/o, Roma 2008, p. 20 650 Ivi, p. 25 651 Ivi, p. 26 647 292 4.3 PROGETTUALITÀ ESISTENZIALE FRA PEDAGOGIA DELLE EMOZIONI E PEDAGOGIA DEL CORPO Quando ho sentito per la prima volta Mariagrazia Contini, la sua complessa dissertazione sul “Problematicismo Pedagogico” è stata per me illuminante. Da quel momento ho intravisto una via di connessione con “quello” in cui ho investito ore, giorni e notti di monologhi diventati nel tempo quasi meditazione o contemplazione. Ho cercato di seguire le sue riflessioni, attingendo in modo speciali a certi argomenti che ho individuato come possibile chiave per rendere comprensibili quanto scritto in queste pagine. Oltre al già citato precedentemente “Figure di Felicità. Orizzonti di Senso” ho considerato in questo capitolo la “Pedagogia delle emozioni”, nel tentativo di proporre una considerazione particolare per quanto riguarda il rapporto con il nostro Corpo, come il nostro primo Territorio da scoprire, da curare, da coltivare, da amare. In questa prospettiva mi ricollego alla connessione “Territorio/Corpo”, nelle dimensioni abbozzate lungo queste pagine, cercando di ri-creare una dimensione dove la “Pedagogia delle emozioni” possa trovare un terreno fertile per il proprio germogliare e per la fioritura di quei “Territori” che possano diventare Unità nella differenza. “Territori/Corpi” che in sintonia con gli accordi dell’intera Natura permettano di coniugare le sue, le nostre, le mie, le loro emozioni, tendendo così al superamento di quell’ “analfabetismo emozionale”, di cui ci parla Mariagrazia Contini. “ Inoltre, la storia del nostro (occidentale) sapere filosofico e psicologico rivela anche chiusure e svalutazione rispetto alla dimensione dell’affettività in genere, cui è contrapposta una valorizzazione della razionalità – intesa come dominio della e contro l’emotività” – che continua a circolare, infiltrata e radicata sia nel senso comune, sia nelle costruzioni dei diversi ambiti disciplinari. La conseguenza più temibile è probabilmente la rigida stereotipia che influenza, con elevati tassi di inconsapevolezza, i nostri tentativi di interpretare e definire le manifestazione di emozioni e sentimenti con cui ci incontriamo o scontriamo nello spazio della quotidianità, nell’intreccio di relazioni che ineriscono alla nostra sfera personale e che pertanto stentiamo a riconoscere come assimilabile e dipendente da modelli culturali dominanti. Così, le distinzioni che operiamo tra reazioni emotive legittime e giustificate e altre eccessive e “disordinate”; le aspettative che nutriamo nei confronti del repertorio affettivo di un bambino, di un uomo, o di una donna; l’attenzione differenziata che riserviamo alle componente cognitive e affettive nello sviluppo della personalità di un soggetto educativo, tutti questi atteggiamenti 293 che riteniamo nostri, magari “oggettivamente” lettimi, oppure ovvii, sono invece, il più delle volte, espressione di una ‘weltanschauung” generalizzata e dominante che subiamo acriticamente e che contribuiamo a perpetuare classificando, escludendo, liquidando problemi ed esperienze sulla scorta dei suoi statuti prescrittivi e rassicuranti652” Dopo l’incontro con la “Pedagogia delle emozioni”, avere fra le mie mani uno in più fra tutti i suoi importanti scritti, “Non di solo cervello”653, è stato un contributo assai importante per aiutarmi a tessere tutte le esperienze fin qui narrate e vissute, portandomi quasi in maniera “inconscia” a domandarmi: “ma, come riuscire ad educare alle connessioni mentecorpo-significati-contesti, in questo contesto?”, cioè in Occidente. Eppure, sapere che c’è chi osa fra “sconfinamenti” e “mescolanze”, parole care a Contini, mi fa riprendere le forze in quei momenti di sgomento quando la distanza, in fondo apparente, fra questi mondi con cui provo a dialogare mi confondono e mi fanno chiedere in continuazione se sono sulla strada giusta o se forse arriverò smarrita al vicolo cieco dove l’unica scelta possibile sarà tornare indietro. Per ora, in onore a quanto mi è stato insegnato sia dal Problematicismo che dai grandi Maestri della Vita, continuo ad osare. Rifiuto quindi il pensiero di arrendermi ed eccomi qui, cercando di abbozzare in quanto segue una fra le tante connessioni possibili, augurandomi che i kilometri percorsi, le “lune camminate” e la profondità delle esperienze condivise, non rappresentate in kili nè in percentuali, ma raccolte in tutte queste pagine dove “abitano” le testimonianze e gli apprendimenti appresi, possano fare riflettere su quella che, a mio avviso, è la connessione mancante nel pensiero Occidentale, rappresentata dalla polarità del rapporto “Io” trattino “Mondo”. E quindi, mi domando: “in che modo fare dialogare il “problematicismo pedagogico”, quando il suo binomio problematicità/ragione, cerca di rispondere alla problematicità implicita nel rapporto “io-Mondo”, con quello che lungo questo elaborato ho chiamato il “ConoSCentire” dei Popoli Originari? Come stabilire questo dialogo quando tutta l’ “ermeneutica della Vita” di questi Popoli è fondata nell’insieme complementare che unifica? Procedendo in questa direzione faccio ricorso agli insegnamenti di Mariagrazia Contini, seguendo il suo percorso di “ricerca-riflessione” dove cerca di intrecciare dimensioni e contesti generalmente considerati e trattati ‘in parallelo ”, facendo riferimento al “soggetto, 652 653 Contini, Mariagrazia, Per una pedagogia delle emozioni, La Nuova Italia, Milano 2004, pp. 4 e 5 Contini Mariagrazia, Fabbri Maurizio, Manuzzi Paola. Non di solo cervello. Op, cit. 294 al suo conoscere-sentire-essere-nel mondo”, e riconoscendo che la connessione “emozioneconoscenza” è ancora “poco per superare il paradigma della disgiunzione”, allargando il suo sguardo verso quello che ha chiamato “Il cervello ‘mobile nel corpo654. Molecole d’informazione cognitiva ed emozionale”655. Riporto alcuni concetti rintracciati lungo il suo percorso di ricerca il cui contributo penso possa essere assai significativo in questo tessuto di saperi intrecciati, particolarmente il concetto di “mente allargata” degli “ingegneri-filosofi” Riccardo Manzotti e Vincenzo Tagliasco. “ I due autori rifiutando il dualismo tra la materia “cosa da rappresentare” e il pensiero, “evento che la rappresenta”, indicano nella distinzione tradizionale fra soggetto e oggetto un errore responsabile di gran parte delle difficoltà incontrate dalla ricerca scientifica sui soggetti umani e sul mondo. Ogni evento, essi sostengono, andrebbe descritto, invece, in termini di relazione come parte di un processo nel quale la distinzione degli elementi è solo ‘convenzionale’”656 ..(…) così, secondo Manzotti e Tagliasco, quando abbiamo una rappresentazione mentale non cioè distinzione tra l’evento e ciò che lo rappresenta:accadono insieme. La mente, infatti non è chiusa in se stessa e costretta a ‘sbirciare’ la realtà sterna attraverso i sensi, né è una scatola vuota che riceve suoni e immagini dal mondo esterno, ma un frammento in espansione della realtà stessa. E infatti, la loro teoria è denominata “teoria della mente allargata” poiché si parla di una mente che “si allarga”, inglobando il tutto ciò ci cui fa esperienza”657 In questo concetto di “mente allargata”, cerco di riallacciare l’ipotesi di partenza di questo elaborato, sulla possibilità di ricavare “Oltre Oceano” alcuni insegnamenti che potessero dialogare con quelle teorie che in Occidente cercano di abbattere la “malattia della disgiunzione”. Con questo obiettivo rileggo ancora una volta i principi di “complementarità”, di “Reciprocità”, di “relazionalità” di “corrispondenza”658, del “Buen vivir”, riassunti in forma semplice nelle parole di Leonel Cerruto, “Noi umani siamo già natura659”, ritrovando in esse il “principio ologrammatico” di Morin, ripreso da Mariagrazia Contini, come molto vicino al concetto di esperienza del problematicismo razionalista. 654 Il grassetto è mio Cfrt. Contini, in Contini, Fabbri, Manuzzi, Non di Solo Cervello, p. 3 656 Ivi, p.38 657 Ivi, p.39 658 Cfr. I Capitolo del presente elaborato. 659 Cfr. II Capitolo del presente elaborato 655 295 “Secondo il principio ologrammatico di Morin, bisogna tener presente che “la parte è nel tutto “, ma reciprocamente, “il tutto è nella parte”, ovvero, se parliamo di soggetti umani, ciascuno di essi è presenza attiva e influente nel mondo …(..) così che come in ciascuno di essi è presente e agisce il mondo, inteso nel suo significato più ampio possibile, ecologico. Tale principio presenta una significativa prossimità con il concetto di esperienza teorizzato dal problematicismo razionalista, prima con Antonio Banfi e poi con G.M. Bertin nei termini di “processo di integrazione tra io e mondo”: integrazione ( da non confondersi con interazione) significa proprio reciprocità d’incontro, di influenza, di interconnessione tra soggetti, tra soggetti e mondi naturale, culturale, storico, ecc. Il problematicismo precisa che l’integrazione si verifica, generalmente e come testimoniano le storie individuali e collettive, all’insegna della problematicità e cioè della parzialità, insufficienza, conflittualità e che l’impegno etico- razionale consiste nel perseguire senza pretendere di raggiungerlo mai completamente o definitivamente, l’obiettivo dell’arricchimento reciproco, della reciproca dilatazione di possibilità.”660 Facendo tesoro di quanto appena riportato, vorrei azzardare, rileggendo lentamente le righe sotto riportate, la proposta che questo paradigma che preveda l’intreccio possa essere letto attraverso gli “occhiali” dei Popoli Originari, cioè il “Paradigma del tutto nelle parti e le parti nel tutto”. “ Occorre aprirsi a nuovo metafore per rendere pensabile il corpo in termini diversi da quelli di materia, forza ed energia, occorre riferirsi a un paradigma che preveda l’intreccio, lo scambio, il gioco dei feedback e che sia in grado di connettere ciò che è stato sempre separato e contrapposto: non solo, dunque, emozioni/conoscenza, ma cervello/corpo e, più complessivamente, cervello/mente/anima/corpo.”661 Su questa strada vorrei sottolineare uno degli insegnamenti più importanti appresi dai Popoli durante la presente esperienza, e che a mio avviso può aprire la porta di questo dialogo: la Cura della Vita, manifestata attraverso quella “metafora” – che per loro metafora non è - che possa “rendere pensabile il corpo in termini diversi”, appunto, la metafora del “Corpo-Memoria-Territorio” che viene riempiendo di senso queste pagine. come riporta, fra le tante, ancora la Cosmovisione del Popolo Kogui. 660 661 Contini , in Contini, Fabbri, Manuzzi, Non di solo Cervello, op, cit, p. 42 Ivi, p.12 296 “ Le grandi colline a forma di piramide della Sierra Nevada sono immaginate come ‘mondi’ o ‘case’ di struttura simile allo stesso mondo. Le principali case di culto, le ‘Nuhuè’, sono viste come repliche microcosmiche di queste colline e di conseguenza sono costruite al centro del villaggio …(..) “L’uovo cosmico è interpretato come l’utero della Madre Universale, in cui vive il genere umano. Anche la terra è un utero, come lo sono la Sierra Nevada e ogni casa di culto, di abitazione e la stessa tomba. Le caverne e i crepacci della terra rappresentano gli orifizi (vagine) della Madre. Gli apici con cui terminano i tetti simboleggiano l’organo sessuale della Madre: delle “Nuhuè” (tempio) la ‘grande vagina cosmica’ che è rappresentata sui tetti delle case, visibile a tutti. Esse sono le ‘porte’ che permettono l’accesso ai livelli più alti.”662 Per stringere i fili della tessitura di questo “Corpo-Memoria-Territorio”, riporto quanto emerso degli studi di Paola Manuzzi, in merito alle connessioni di cui si occupano le pagine di “Non di solo cervello.” “ Se chi legge si concede di restare a occhi chiusi per qualche istante e immagina di fare un salto, di lanciarsi in un passo di danza latinoamericana, di ricevere un abbraccio o di essere in lite e fare un urlo, sentirà che, pur da fermo, qualcosa del suo corpo è in azione …(….) “sorgono una coloritura emozionale e un sentire del tutto soggettivo, che immettono oltre l’immaterialità del corpo parlato, che è sempre una ‘rappresentazione’ del corpo. È porre per entrare nel territorio del corpo vivente/vissuto663 che queste pagine intendono percorrere, al fine di rintracciare processi di mascheramento e di elusione come impronte di visibilità; un territorio connotato dall’intreccio fra dimensione del tutto private e modelli culturali che le influenzano” 664 In questa bella traversata di Paola Manuzzi, lungo “Il Corpo-Territorio”, ci sono alcune sue riflessioni che rispecchiano diversi punti già accennati nei primi capitoli di questo elaborato. Seguendo questa traccia vorrei continuare, riprendendo alcuni dei passaggi che collegano intimamente il discorso. 662 Cucchiella, P.E, op. cit. pp. 154 “Nelle pagine che seguono, il riferimento al corpo vissuto è inteso nell’accezione husserliana che differenzia il ‘Leib?, il corpo vivente – e dunque il soggetto che io sono, imparentato con ‘Leben?, la vita e ‘Liebe?, l’amore – dal ‘korper’, organismo oggettivo”. Manuzzi, P. in Contini, Fabbri, Manuzzi, Di non solo cervello. , op. cit. p..63 664 Ibidem 663 297 “ Il corpo eccede e precede ogni simbolo. Dire il ‘corpo’ è uno scarto incolmabile. Possiamo, attraverso la parola scritta, tentare di dire ‘del corpo’, il che significa dirne sempre una rappresentazione e dunque oggettivarlo, comporta un filtro nei confronti degli aspetti di eccedenza, per riuscire a renderlo “discorso”, e così finiamo per trasformare il territorio in una mappa,pe usare una metafora batesoniana. Ma a quale corpo ci riferiamo?”665 Sulla Pedagogia dell “Ascolto”, illustrata in questo elaborato attraverso la figura del “Palabrero” del Popolo Wayuu, ritrovo ancora nelle riflessioni di Manuzzi, il senso dell’Ascolto che dobbiamo al nostro Corpo, e nel caso di cui si sono occupate queste pagine, l’Ascolto che dobbiamo alla Natura, che come manifestato nelle pagine sopra per i Kogui –e non solo- è intrinseca al nostro Corpo. “ La prospettiva fenomenologia ci suggerisce che l’orientamento da tenere – piuttosto che puntare a modellare il nostro corpo affinché corrisponda al nostro ideale - va nella direzione dell’impegno a capovolgere la prospettiva: ascoltare quali riflessione esso chiede e indichi, traendo spunto dalle sue metamorfosi, delle sue età, dai suoi desideri o dalle sue paure”666 …(..) Solo se partiamo da un tale ascolto “sapremo” che non è solo il mio stomaco che soffre, ma la mia esistenza stessa che si è rattrappita o che l’iperattività di un bambino non è la diagnosi che lo etichetta, ma è il richiamo che lo narra. Tale particolare ascolto è in grado di condurci su un’ambivalente e cangiante linea di confine, in cui il corpo addita contemporaneamente l’esserci con la propria consistente carnale datità ( il mio feroce mal di stomaco o la corsa irrequita di un bambino) e il rinvio ad altro come possibilità e trascendenza”667 Seguiamo ancora questo filo conduttore, riguardante i “segni” di questo “Corpo-Memoria.” “Il nostro corpo non è mai solo quello che vediamo allo specchio o indossiamo come una veste; esso è il coagulo insieme della nostra ‘ visibilità e invisibilità’, poich’attorno a quanto è visibile sempre s’irradia una zona opaca, che si staglia come sfondo silenzioso che dà profondità e significanza. Va tenuta cara tale zona di allusività, complessa da decifrare, altrimenti perdiamo la pregnanza della memoria e dello sguardo” ..(..) “Così, di fronte allo struggimento inevitabile che sempre comporta di sentirsi invecchiare, amo pensare che ci sono voluti tutti gli ormai quasi sessant’anni della mia vita per fare del volto 665 Ivi, pag.64 Ivi, p.75 667 Ivi, p.76 666 298 questo ‘mio volto’. Le rughe della fronte, un accendersi degli occhi, la piega delle labbra, tutto è carico di incontri e memorie. Le mie. Nel volto precipita la nostra storia”.668 E io aggiungo, nel Territorio, precipita la memoria dei Popoli, la memoria della Terra, sostenuta appunto dalle esperienze vissute e dalla vita sensoriale attraverso le quali hanno tessuto la loro conoscenza e la loro memoria, tramandata da generazione in generazione fino ai giorni nostri, come testimoniano i risultati dei laboratori da me realizzati in diversi Territorio Originari, una parte dei quali ho riportato in queste pagine riguardanti il Popolo Kogui. Questo desiderio, in partenza di trovare “Oltre Oceano” altri “Orizzonti del Possibile,” in campo pedagogico si è esaurito quando sono riuscita a intravedere che attraverso la “cura della Vita” e il “Demonismo pedagogico”, insito in quella Forza Nutrice e Creatrice con cui i Popoli vivono immersi nell’insieme, esseri viventi Cosmo, sarebbero state chiave di lettura importanti. Sono quasi emozionata di arrivare a questo traguardo. Così, andando avanti con le preziose dissertazioni sia di Mariagrazia Contini che di Paola Manuzzi, sento di essere quasi vicina allo snodo di questo incontro, considerando l’importanza dell’Esperienza e la Conoscenza Sensoriale, ampiamente descritte nei primi due capitoli e che ritrovo nel punto che Manuzzi dedica alle “Radici corporee dell’empatia”. “Emergono dunque in modo forte, dalle riflessioni della fenomenologia almeno due elementi utili al ragionamento che sto svolgendo: il legame esistente fra la consapevolezza dell’unità del corpo e le relazioni che lo legano inestricabilmente al mondo esterno, da un lato e, dall’altro, la sottolineatura della dimensione corporea della psiche. Nodi concettuali di grande portata, in quanto la vita sensoriale 669viene posta al centro del farsi del pensiero, anzi dentro il suo farsi stesso. Se senza la vita sensoriale non c’è possibilità di pensieri, se la possibilità di conoscere non può che traversare la nostra carne, si frantuma l’idea di mente immateriale: corpo soggetto e corpo oggetto nel mondo sono inestricabilmente insieme, poiché il nostro essere qui è sempre un essere connessi con il tessuto del mondo. ….(…)670 ..(..) Ma, allora, l’empatia a che condizione è possibile? Intesa come capacità di approssimarsi all’altro, secondo l’accezione che ne dà Mariagrazia Contini671, essa ha la sua casa su un fragile crinale, reso scivoloso sia dai processi di dimenticanza sia dai rischi di divoramento e manipolazione. L’empatia non va intesa come sinonimo di immediatezza, ma è 668 Ibidem Il grassetto lungo queste citazione è mio 670 Manuzzi, P, in Contini, Fabbri, Manuzzi, Non di solo cervello, op. cit. p.77 671 Cfr. Contini M., La comunicazione intersoggettiva fra solitudine e globalizzazione,La Nuova Italia, Firenze 2002 669 299 anzi un percorso accidentato, guidato dalla cura di sé e dell’altro come dal desiderio: richiede il faticoso restare “faccia a faccia”con il tempo dell’attesa e con un lavorio, per niente facile che scaturisce da un iniziale percepirsi estranei, in presenza di chi ci sfugge e non comprendiamo.672” Potrei continuare riportando tutto l’elaborato di Paola Manuzzi in questo contesto, perché come detto prima sono sollevata dal trovare in queste sue riflessioni il collegamento attraverso il quale volevo arrivare alla fine del mio percorso, senza che purtroppo possa soffermarmi in questa sede per approfondire su altri aspetti della fenomenologia ermeneutica, la psicologia dello sviluppo, dove sicuramente troverei ancora degli elementi scientifici per sostenere con più forza quello che all’inizio di questo elaborato ho chiamato “ConoSCentire”. Scrive Manuzzi: “Significa, oggi, la necessità- oltre che il desiderio – di poter appoggiare il pensiero a contatto e in coerenza con il sentire del corpo; significa accettare che le vie della conoscenza sono carnali ed emozionali, dunque soggettive, opache e provvisorie; significa ridare radici di ‘terra’ di ‘storie’ e di ‘contesti’ ai nuclei concettuali e ai processi formativi, rivolgendoci a studi e pratiche di ‘embodiment’ della mente. ..(..) Significa, in somma, che l’educazione fa un passo in direzione di una nuova consapevolezza della materialità del proprio agire e parta ‘da dentro’ il corpo, senza per questo perdere in legittimità scientifica. ..(…)673 Per ora, mi concedo ancora di riprendere il concetto che Manuzzi usa di “mente incorporata”, introdotta dagli studi di Francisco Varela, neurologo ed epistemologo, insieme a Humberto Maturana, suo maestro.674 “ indagando il rapporto esistente tra esperienza vissuta dal soggetto e componente biologica dei processi cognitivi, essi non cadono nella facile trappola di sottolineare l’uno o l’altro dei due termini della coppia ( corpo-mente), ma indicano la significatività della relazione tra i due, in una danza che li fa emergere ‘insieme’. La riflessione di Varela, in particolare, è ben attenta a evitare che il nesso tra pensiero e parte corporea significhi ridurre l’esperienza a un fascio di neuroni, ma è ricerca di una visione ‘naturale’( incorporata) delle vie della conoscenza. Quando sostiene che 672 Manuzzi, op.cit. p. 82 Ivi, pag. 77 674 Maturana, H e F. Varela, La via di mezzo della conoscenza, tra.it. Feltrinelli, Milano 1992, in Manuzzi P., Non di solo cervello, op. cit. p. 83, entrambi appartenenti al gruppo di lavoro che con Bateson, contribuirono a fondare la seconda cibernetica. 673 300 “la mente non è nella testa”, egli sa di proporre una visione alternativa rispetto alle tradizionali scienze cognitive, poiché esula dall’idea della mente come laboratorio di informazioni.”675 …(..) L’organismo umano funziona secondo connessioni. “La mente va considerata come un sistema naturale ed evolutivo, per cui la vita e la cognizione sono due processi omologhi, non vi è l’uno senza considerare anche l’altro”676 Rileggendo queste righe mi viene da ricollegare il concetto di “Ch’ulel” (Coscienza) del popolo Tsotsil,677 ricordando quando nei diversi colloqui con Manuel mi manifestava che il “Ch’ulel” era quel filtro che faceva sì chè le “cose del mondo” passassero attraverso il filtro della “coscienza” per farli diventare “sapienza”, nel senso in cui questa veniva espressa dagli anziani. In questo contesto ritengo opportuno ancora riprendere il concetto di “coscienza”, espresso da Varela. “ Nel dibattito scientifico contemporaneo incentrato ‘ sulle querelle’ se venga prima la componente biologica o psicologica del soggetto nei processi cognitivi, Varela sceglie ‘una via di mezzo della conoscenza’, sostenendo che la coscienza non appartiene a un gruppo di neuroni, ma a un organismo, anzi a un essere vivente, il quale, proprio perché vivente, ha bisogni, desideri e sentimenti che non possono prescindere della sua relazione con mondo678” …(..) “L’idea di mente incorporata, per Varela, rinvia sempre a un soggetto in azione in un contesto e non prescinde mai dei significati che esso attribuisce: la terza via della conoscenza supera sia il riduzionismo di posizione fiscalista sia il dualismo che divide ontologicamente la materia dal senso, l’anima dall’esattezza..(..)”679 Mi coinvolgono le profonde e ricche riflessione di Paola Manuzzi, sul proprio vissuto personale, raccontandoci delle ore di “silenzio” di Annarita, o di Mario “che scalpitava come un cavallo perché non riusciva a stare fermo nella sedia”. Riporto la sua riflessione perché un messaggio di questa ricchezza interiore può trovare eco in tanti contesti dove mi auguro questo testo possa arrivare, portando la saggezza dell’Ascolto. 675 Ibidem “Così Telmo Pievanti al dibattito sul pensiero di Francisco Varela organizzato dalla rivista Pluriverso nel novembre 2002”, Paola Manuzzi, in Contini, Fabbri, Manuzzi, Non di solo Cervello, op.cit. p. 83 677 Cfr. “Lekil Kuxlejal” I capitolo del presente elaborato 678 F. Varela, “il cervello e la coscienza”, intervista di S. Benvenuto, in Lettera internazionale, 68, 2001, pp. 36-40, Manuzzi, in Contini, Fabbri, Manuzzi, .Non solo Cervello, op.c it. P.85 679 Ivi, op, cit. , p. 85 676 301 “ Erano domande di sguardo e relazione che questi ragazzi facevano ogni giorno a me, agli adulti, alla scuola, attraverso la forza di gesti che urlavano ascolto oltre le parole. Come coglierle e averne cura? Avevo una laurea in Lettere classiche, mi avevano insegnato la bellezza dei versi di Leopardi e Lucrezio, la lucidità analitica del procedere sintattico, conoscevo gli inni orfici e Omero, i viaggi di Magellano, le guerre e gli armistizi, nulla per cogliere quei silenzi, quegli scomposti richiami. Corpi e sguardi giungevano come narrazione mute.”680 Sulla via della “Pedagogia dell’Ascolto” presentata nel capitolo la “Scuola Nella Vita”, mi sto avvicinando a quello che ho già riferito e che rappresenta l’insegnamento pregnante di questo percorso: “Prendersi cura della Vita”. “Il silenzio sul Corpo ha costituito un modello eloquente dell’educazione; silenzio che non è mai fortuito, ma teso a significare qualcosa proprio attraverso la dimensione latente o la presenza di un interdetto, che in ombra delineano l’implicita cornice cognitiva entro cui siamo profondamente ( e proprio per questo ) immessi.”681 Una cosa diversa a quanto ancora riporta Manuzzi la troviamo nel capitolo primo, per quanto riguarda la cura del corpo di donne e uomini nella cultura Wayuu. “insieme al tema del corpo vissuto e intrisi in esso, quelli del genere e della sessualità, da sempre rimasti “sotto il banco”, rendono necessari orizzonti interpretativi che operino una decostruzione delle cornici implicite che hanno segnato tradizionalmente i processi educativi, e indichino nuovi approdi formativi ….(..) “Una pedagogia della corporeità intesa come punto di ancoraggio attraverso il quale mettere in forma il sapere, il sentire, le relazioni e le vie della conoscenza resta un orientamento inusitato nella prassi educativa e formativa; si preferisce delegare la dimensione corporea a quelli “addetti ai lavori” che ne fanno un ambito specifico della propria ricerca e pratica professionale . ..(..) Noi, invece, intendiamo indicare la necessità di una pedagogia del corpo che sappia connettere una ‘mente incarnata’ in un corpo ‘ sapiente’.(..)”682 680 Ivi, p. 89 Ivi,.p.92 682 Ivi, p. 94 681 302 Continua ancora Paola Manuzzi con alcune riflessioni sulla “malattia come forma di resistenza”, argomento a cui dedico particolar attenzione, considerando sia questo il cardine del “Problematicismo” all’interno del ConoSCentire dei Popoli Originari. “L’anestesia emotiva come mascheramento del corpo vivente. Il corpo vissuto si ribella alle trasformazioni veloci del tempo-freccia su cui viaggia la neocorteccia e ai continui processi di spoliazione, e riemerge sulla scena attraverso una grande quantità di sintomi”683 …(…) “Quando la malattia è una forma di resistenza. Lego sui giornali che tra le donne nordamericane si starebbero diffondendo due nuove “malattie”: la sindrome da stanchezza cronica ( Chronic Fatigue Sindrome, CFS) e lo stress da lavoro; il fenomeno è segnalato in costante crescita tra le donne bianche di età compressa tra i 30 e i 40 anni,di cultura medio alta, di solito con un buon lavoro, che rappresentano ben il 70 per cento dei casi segnalati.(…) ma già molti ipotizzano che la CFS sia una malattia sociale del terzo millennio, una cosìddetta “malattia della civilizzazione. .(… ) Alcune malattie prenderebbero oggi il posto di forme di ribellione che un tempo venivano esternate attraverso modalità ritualizzate socialmente : la stregoneria, il carnevalesco, la festa consentivano infatti- attraverso la satira, il riso, l’immaginario magico- l’accesso a mondi ch invertivano in modo temporaneo e simbolico l’ordine sociale, per cui era previsto uno spazio-tempo per rituali di riparazione (..)”684 Su questo ultimo paragrafo, vorrei richiamare l’attenzione sul fatto che sono tutti “rituali di riparazione” che i Popoli Originari fanno ancora oggi, mentre in Occidente queste pratiche sono state “rigettate”. Forse sarebbe interessante ri-creare spazi sociali dove “l’immaginario magico” potesse essere vissuto senza essere giudicati stregoni o pazzi. Arrivo così alla grande domanda di Manuzzi, dove spero di trovare qualche risposta pure io. Ma assumere l’essere corpi ( io direi esseri CorpiTerritori) come filo conduttore del processo formativo che cosa comporta? Implica tessere quella che, a questo punto, avviandomi a trarre alcune provvisorie conclusioni, preferisco chiamare una pedagogia ‘dal’ corpo, fondata sul recupero della centralità dell’esperienza e su metodologie formative ‘body oriented’ in varie direzioni: Essa si basa su un lavoro di alfabetizzazione al ‘sentire’, in cui la dimensione corporea dei soggetti viene assunta come ponte di lancia per allenare a percepirsi e pensarsi come corpi senzienti: il concetto di mediazione corporea risulta centrale in tale processo, in modo da essere rimessi a contatto – attraverso il fare- con noi stessi, con gli altri, con gli oggetti o con 683 684 Ivi, p. 106 IVI, P. 113 303 gli spazi …(..) Avvia poi, verso l’indispensabile apprendistato al ‘metasentire’, cioè a pensare il sentire, laddove, una volta sollecitati a riconoscere quanto sentiamo , non ci identifichiamo tuttavia del tutto conquesto, ma restiamo sul delicato crinale della nostra ineludibile doppietà: tra l’essere corpo vissuto,da un lato, e la nostra capacità di sguardo su di noi stessi dall’altro. In questo modo l’impegno sensoriale innalzato a livello di auto scienza metodologica può diventare fonte di autentica riflessività e via di formazione.”685 Ho attraversato mano nella mano con Mariagrazia Contini e con Paola Manuzzi tutto questo meraviglioso “Territorio-Corpo”, cercando di arrivare a quello che rappresenta il cardine del “Problematicismo” dei Popoli Originari. Per loro il problema non è la morte, la loro ricerca permanente riguarda l’equilibrio con “il tutto”, con l’Unità, come ricavato ancora dalla Cosmovisione del Popolo Kogui. “La morte per un Kogui non è la negazione della vita, ma un recupero degli elementi dell’antica persona, un cambiamento di stato, un passaggio ontologico ed esistenziale. ..(..) “La tomba scavata è la ricostruzione del grembo materno e il corpo in posizione fetale, avvolto in un’amaca(simbolo della placenta), è il seme che dovrà ripercorrere il viaggio di rinascita in direzione del “pàramo”. (montagna nevosa). ..(..) “ La morte nella visione Kogui è intesa non come distruzione, ma come rinascita nela condizione opposta alla vissuta: chi muore giovane rinasce vecchio e chi muore povero rinasce ricco….(..) “ con le parole “Apriti utero!” gridate dal sacerdote mentre prende quattro zolle di terra nella direzione solstiziale, viene rappresentato in modo simbolico el singolare evento della rinascita, così come lo stesso gesto di sospendere per nove volte l’involto contenente il cadavere prima di calarlo nella fosa; la stessa danza con cui si comprime la terra con i piedi intorno al corpo del defunto: tutto parla anche all’estraneo, a significare che la terra sarà l’utero di queta seconda gestazione che permetterà il ritorno alla Gran Madre, tra la famiglia dagli antenati.686” L’ essenza della “Pedagogia della Vita”, comune a tutti i Popoli qui considerati, ricade nel coltivare la saggezza necessaria per mantenere l’equilibrio del Cosmo destinando la loro vita a “gestire” le tensioni nel rapporto salute/malattia, con particolare riguardo alle “malattie sociali” attraverso la spiritualità, attraverso l’Ascolto non soltanto del nostro Corpo ma 685 686 Ivi. P. 122 Cucchiela, P.E, I Custodi del Sapere Mitico, op. cit, pp. 187 e 188 304 dell’intera Natura. Un equilibrio non soltanto per i loro Territori Sacri, ma per tutta l’Umanità, come trasmettono ancora le parole di Cucchiella. “L’idea della polarità e complementarità è la chiave di interpretazione del mondo, della società e dell’individuo…(.) compito sacro dei loro sacerdoti è far sì che l’agire, vivere ed operre degli uomini della tribù sia in armonia, ‘Yuluka’, in accordo. …(..) Loro cercano attraverso la divinazione di armonizzare le energie creatrici e distruttrici. Essere d’accordo, Yuluka, è il principio fondamentale della saggezza umana”.687 ..(..) Gli elementi costitutivi della cultura Kogui e della loro spiritualità cosmica sono da ricercarsi nella singolare relazione esistenziale con la natura e il cosmo in generale. ..(..) “la visione esistenziale che i Kogui hanno del mondo è prodiga di messaggi anche per il nostro mondo occidentale, industrializzato e tecnologico; ci aiuta a riscoprire l’elementare bisogno di umanità, solidarietà cosmica, di silenzio e di ascolto della natura.” 688 4.3.2 Progettualità esistenziale: Impegno, memoria e resistenza Arrivare fin qui attraverso questa piacevole traversata nella dimensione “Teritorio-CorpoMemoria”, mi porta ad azzardare una proposta che possa essere integrata nell’educazione alla progettualità esistenziale, facendo tesoro di quella Forza Demonica, dove in questi “CorpiTerritori” possano abitare sia i “cittadini” della “Patria-Madre” di Morin, che le creature viventi della “Madre Terra” dei Popoli Originari. …(… ) Sulla scorta di questa suggestione, vorrei concludere prospettando come compito della mente nel mondo, comprensivo di quanto detto finora, in termini di resistenza, due parole chiave che accenno e tengo in serbo, per farle crescere e diventare materia di future elaborazioni. Sono due verbi, più dinamici dei sostantivi corrispondenti: il ‘desiderare’ e il ‘prendersi cura’. Il primo allude a un essere nel mondo alla ricerca della propria differenza e nella continua tensione a prefigurare obietti che non coincidano con quelli ?prescritti? e validi per tutti ….(…) Il desiderare implica progettare, l’intravedere possibilità di cambiamento, l’individuare percorsi di creatività, il condividere con gli altri, il tendere alla felicità. Per tendere alla felicità occorre molto coraggio poiché occorre ‘aprirsi’ all’esistenza, essere disponibili a incontrala insieme alla sua ‘sorella gemella’, la sofferenza, superare la tentazione 687 688 Ivi, p. 151 Ivi, p.197 305 difensiva, autoconservativa, che induce ad accontentarsi di poco per non rischiare molto e a chiudersi nello spazio della propria soggettività per non avvertire la domanda di felicità che proviene da chi non osa nemmeno pensarla.”689 ..(..) Il secondo riecheggia l’I Care del già citato don Lorenzo Milani, e si oppone al violento ‘menefreghismo’ implicito nelle scelte, ciniche e miopi insieme, di chi crede che ci possa salvare da soli. Parla di pratiche di accadimento, di sostegno e di aiuto, rimanda a soggetti che si assumono la responsabilità di farsi carico dei problemi, di tutti e non solo propri, per cercarne le vie di superamento ….(..) Allude alla resistenza nei confronti di una cultura diffusa, pervasiva che legittima la violenza e la discriminazione con modalità che tendono ( e riescono!) a camuffare la propria crudeltà, rendendo inaccessibili, alla stragrande maggioranza, la conoscenza di quanto accade nel mondo e proponendo, al consumismo. Resistenza, dunque: affinché si realizzino l’impegno a “voler conoscere” e la tensione a indignarsi di fronte alle ingiustizie, si trovi il coraggio di denunciarle e ci si impegni a diventare operatori di pace, nei piccoli e grandi contesti, senza mai dimenticare che per prendersi cura di noi e di tutta l’umanità occorre curare la nostra Terra-Patria”690 In questo contesto, insieme al monito di Morin ritroviamo la “Lettera del popolo U’wa al mondo”691, nonché il messaggio del Popolo Kogui, in quanto “fratelli maggiori” 692, nella loro “Dichiarazione al Mondo”.693 « Per Noi, Kogui, esiste una sola legge sacra, immutabile, preesistente, primitiva e sopravissuta a tutti e a tutto. Potrebbe il Mondo esistere o lasciare di esistere, senza che questo alterasse minimanete questa legge, la quale costituisce il pensiero universale di quello non manifesto, unico origine della Vita. nell’Universo. Questa legge di origine trova la sua espressione Così che nasce una bellissima associazione fra legge e pensiero, che accompagnata con l’intorno si trasforma in legge naturale. Questa legge Naturale da origine alla creazione della materia, alla sua evoluzione, all’equilibrio, alla preservazione e all’armonia. Tuttavia il fratello minore ( gli occidentali) violano l’ordine immutabile di questa 689 Contini, in Contini, Fabbri, Manuzzi, Non di solo cervello, op. cit. p. 60 Ivi, pag.61 691 Cfr. I Capitolo del presente elaborato 692 “Gli indiani della Sierra Nevada de Santa Marta si considerano superiori rispetto a noi. Si auto denominano “fratelli maggiori”, convinti, come sono, del loro sapere mitico che li fa sentire superiori a noi “fratelli minori”. Questa loro coscienza di “fratelli maggiori” li fa responsabili del mantenimento dell’equilibrio del mondo. Nel loro modo di vedere e sentire se stessi nel cosmo, sono profondamente convinti che l’intero pianeta dipenda da ciò che accadde sulla ‘Sierra’. Con le loro pratiche rituali e con il loro complesso sistema di offerte sono profondamente persuasi di dominare e regolare tutti gli eventi naturali, e di prevenire attraverso i riti della divinazione le catastrofi che possano danneggiare la Madre Terra” Cucchiella,op. cit, p. 113 693 La traduzione è responsabilità di chi scrive 690 306 legge portando la Madre Terra ( Sèineken) e tutti gli esseri all’abisso. Questo il motivo per cui esigiamo all’umanità un cambiamento nel loro comportamento in generale, nella loro condotta verso di noi e verso il tratto che danno alla Madre Terra, la nostra Madre reale – Madre di tutte le Madri e figlia della grande Madre Saggezza. Tutti stiamo in debito con Lei. Chi paga alla Madre per l’aria che respiriamo, per l’Acqua, per il Sole ? . La Madre Universale chiede al fratello minore questi debiti. Solamente attraverso i « Mamos » e mediante i pagamenti(offrende alla Terra) si fa possibile cancellare questi debiti. …(..) La Sierra Nevada è il cuore del Mondo, fonte vitale di tutt’energia, origene della vita e dell’equilibrio spirituale Sèineken ( la Madre Tierra), Per noi tutto quanto esiste ha uno spirito che è sacro e deve essere rispettato. Per questo tutto è sacro e i nostri fratelli : aria, fuoco, alberi, insetti, pietre, montagne. Noi viviamo in continuo dialogo con loro attraverso la nostra conoscenza e la nostra attività spirituale. …(…) Tutto quanto possa recare danno alla Sierra, ai suoi luoghi sacri, punti di « pagamento »(offrende), alle sue tradizioni, ai suoi origini, ai suoi « Mamos » ai suoi quattro popoli, inevitabilmente avrà conseguenze negative per il pianetta e l’universo. Si pronosticano anni molto duri, siccità, grandinate, piogge acide e tutta classe di cattastrofi naturali. …(..) Non sappiamo come i nostri fratelli minori siano in grado di trafficare con gli elementi e gli organi della propria madre. Come figli dell’Acqua, della Terra, del Vento, del Fuoco sapiamo da tempi immemorabili che di questi elementi proviene la Forza del nostro Spirito. L’Acqua è come il nostro Spirito, non cambia la sua essenza anche se adotta molteplice forme : nuvoli, laghi, fiumi, rugiada sopra gli alberi, umidità nell’ambiente. Così nelle sue molteplice manifestazioni l’essenza del nostro spirito rimane inalterabile. La nostra legge e la legge dell’Acqua, è la legge del Sole, la legge del lampo. Non ammete riforme, non conosce decreti, non acetta costituzioni nè politiche, perchè la nostra legge regge la Vita e rimane nel tempo. Così per far si chè l’armonia ritorne alle nostre vite, è necessario che la legge creata dagli uomini, rispette la legge d’origine, la legge naturale, la legge della vita.. ..(..) invitiamo tutti i nostri fratelli minori ad unirsi a noi nella sacra missione di esseri guardiani della vita, in una rete spirituale di diffesa del nostro unico patrimonio : La Madre Tierra. »694 4.3.2.1 Progettualità Esistenziale, Ragione Proteiforme e Demonismo Pedagogico In questa prospettiva, avendo come interlocutori i Popoli Originari e tutta la loro esperienza tessuta attraverso la relazione manifesta nella loro Vita quotidiana del “tutto con le parti e le parti con il tutto”, provo a mettere in dialogo i due pensieri facendo uso ancora della “Chakana” come strumento metodologico. 694 Archivi, Diario “El Tiempo”, Bogotà –Colombia, gennaio 12 del 2004. La traduzione è responsabilità di chi scrive. 307 Demonismo ConoSCentire MetaSentire Progettualità Esistenziale Impegno Etico Realizza te stesso Realizzando gli altri EcodiSCiplinarietà Nelle seguenti tabelle, vorrei offrire una chiave di lettura che possa mettere in evidenza le connessioni e gli eventuali punti di contatto, attraverso i quali i due pensieri si possano incontrare. Munay (affetto, energia, spirito). orientata alle scienze della cosmovisione nelle sue dimensioni di energia, spiritualità, idioma proprio , identità e cultura. Questa dimensione ci dà le basi dei principi e valori sui quali agire nelle altre dimensioni. Demonismo “Energia biopsichica di cui l’uomo è fornito in misura diversa in rapporto a eredità, ambiente, condizione etero - e auto educativa, orientata ad affrontare, rifiutare o trasvalutare l’ ‘attuale’ in funzione del ‘possibile’ opponendo all’identica statica e inerte del massificante la differenza del creativo”.695 Yachay (saggezza, estetica, scienza, arte) orientata alle arti e alle scienze originarie, la saggezza ancestrale, le metodologie comunitarie, la ricerca e le tecnologie. In questa dimensione si cerca l’innovazione permanente, in armonia con i principi e valori della Pacha”. Ermeneutica della Vita “di connessione in connessione: emozione e conoscenza; mente, cervello e resto del corpo,; mondo-nella-mente e mente-nelmondo hanno segnato le tappe di un percorso teso a proporre i paradigmi della complessità e dell’integrazione razionale al posto di quelle della disgiunzione e della semplificazione. …(..) L’obiettivo era quello prospettato nelle prime righe di questo lavoro: imparare a conoscerlo un po’, un po’ meglio, quel soggetto che ci è interlocutore nella riflessione e nella pratica educativa, senza sezionarlo, amputarlo, emarginarlo o rimuoverlo dal mondo.”696 695 696 G.M.Bertin, in Contini, Fabbri, Manuzzi, Non di solo Cervello, op. cit, p.54 Contini, Non di solo cervello, op. cit. p. 59 308 Ruway (lavoro, azione, produzione) orientata alle scienze della produzione e riproduzione comunitaria, il lavoro, l’economia comunitaria, lo scambio, l’autosufficienza del “Ayllu” per il buon vivere. EcodiSCiplinarità Atiy (organizzazione, autorità, capacità, governo dell’ Ayllu) orientata alla scienze dell’organizzazione e la gestione territoriale comunitaria e le sue normative, l’amministrazione comunitaria e l’autogoverno, per il Buon Vivere. Impegno Etico. “Imparare a conoscere un soggetto che è nel mondo –gettato nel mondo- da cui, come “mente-corpo”, riceve ogni tipo di influenza e di condizionamento, per promuovere in lui, da educatori, la progettualità rivolta allo spazio di libertà che quella gettatezza contiene : il possibile. Se tutto si snodasse all’insegna del necessario – il funzionamento della mente e del corpo, come il procedere del mondo-, si potrebbe solo tendere a ‘perfezionare’ quei processi che, invece , sono ‘limitatamente’ aperti a una pluralità sistemica e imprevedibili di percorsi che possono essere intrapresi per promuovere cambiamento , per tendere al “ “realizza te stesso realizzando gli altri”.697 Arrivando verso il mio traguardo voglio riportare un’intervista particolarmente interessante, realizzata in Colombia ad una donna, intellettuale, non indigena: Gloria Mabel Villamizar.698 Queste righe tentano di essere un riassunto del vissuto di Mabel e lo riporto in questa sede in quanto illustrativo di una serie di esperienze che hanno portato la protagonista a una scelta di Vita con un impegno etico che potrebbe richiamare la ricerca di quegli “altri orizzonti del possibile” a cui ci sollecita il Problematicismo Pedagogico. È stata un’intervista assai corta come durata di tempo cronologico, soltanto ventisette minuti, ma che sintetizzano quattordici anni di cammini condivisi, alcune volte in progetti comuni, altre ognuna per la sua strada, ma sempre negli stessi orizzonti. Questa è una fra le motivazioni, ma la più importante riguarda l’esperienza condivisa da Mabel e un gruppo di persone per creare, a Tenjo (una piccola località a 40 minuti da Bogotà), un “Centro di Pedagogia Ecologica Sensoriale ed Esperienziale”, nel quale si propone un metodo diverso d’insegnare e di apprendere. Una proposta che si presenta come alternativa ai modelli dell’educazione industrializzata che impartiscono le istituzioni. 697 Ivi, Op. cit. p. 60 Avvocatessa, Docente Universitaria, Magister presso l’Alleanza Francese in Colombia, in Relazioni internazionali e Analisi di conflitti economici, politici e sociali, Specialista en Diritti Umani, oggi “apprendista” psicoterapeuta. 698 309 D- Quali sono state le motivazione che l’hanno portata a fare questa scelta eco-pedagogica, se così la possiamo chiamare? “ Non è facile rispondere, non so esattamente cosa mi abbia portata verso questa estrada, sono state molte cose ma penso sia stato decisivo il mio ruolo d’insegnante all’Università. Lì nei dibattiti con gli studenti, il pensiero critico si qualificava ogni giorno di più. Insegnavo “Economia internazionale”, “Analisi di congiuntura politica ed economia colombiana”, “Metodologia della ricerca”, “Diritto internazionale dei trattati”. Grazie alla mia formazione interdisciplinare avevo un campo ampio d’insegnamenti per cui venivo contrattata in diverse aree. Però diciamo che è stato innanzitutto l’analisi dell’economia e del sistema Mondo quello che richiamava di più le mie riflessioni: Quali erano le possibilità reali di una società industrializzata di dare risposte a quelle incertezze, a quello che chiamiamo “futuro”? Questo mi generava una specie di angoscia e ogni giorno dopo le lezioni cominciavo a sentire un amaro in bocca che non mi piaceva. Le lezioni finivano sempre nel discorso, non si andava oltre le parole, era come se la situazione non avesse scelta o come se le risposte dovessero essere cercate sotto le maniche. Ma di chi? Si discuteva sulle alternative, sulle leggi, sulle responsabilità delle imprese, ma la cosa rimaneva sempre in un: “Vedremmo di fare meglio”, “le cose devono migliorare”, ma niente di più. Ogni volta mi era più difficile dare delle risposte ai miei studenti, era più difficile trovare una via di uscita anche quando la cercavamo insieme, sopratutto quando facevamo riferimento alla crisi di Umanità che si sentiva già forte nelle aule. Ero ancora all’università quando ho iniziato il percorso con culture indigene, con il movimento ecologista e con gente che vedeva la vita in modo meno disperato, ma molto più reale di come veniva vista nell’accademia. Così, in un’esperienza condivisa da un gruppo che ogni giorno cresceva, abbiamo maturato l’idea che bisognava lasciare un po’ il “correre” quotidiano ma dovevamo anche lasciare tanto discorso, e cercare di Fare. Fare insieme. Così è nata l’esperienza a Tenjo. Abbiamo iniziato con esercizi di “osservazione”. Gli indigeni ci hanno insegnato, che loro imparano dall’osservazione della Natura, invece, noi, gli urbani, gli intellettuali, impariamo parlando, e delle volte parliamo tanto che non sappiamo quanto veramente non sappiamo. Insieme all’osservazione, ci siamo esercitati anche nel “Silenzio”, si fa fatica, visto che siamo abituati a parlare tanto. Insieme all’Osservazione e il Silenzio, arriva anche la “Pazienza”. Così abbiamo iniziato a Osservare e Ascoltare le sementi. Loro hanno compiuto il loro compito silenzioso: “richiamare la nostra attenzione” e ci è arrivato questo “Click”, questo “input”! È stato semplicissimo, mentre la società industrializzata vive preoccupata perché ogni giorno ci sono meno risorse, perché fra un po’ dovranno finire e non ci sarà abbastanza per tutti, la 310 Terra ci insegnava che soltanto un seme, ci dà molti altri semi, ma ci dà anche i frutti, e oltre a questo ci insegnava che tutto si trasforma, si rigenera, cioè, il “sistema complesso” di cui tanto parliamo. Quindi, osservando la Natura ci siamo resi conto che la sua è una vocazione di Abbondanza, di un buon distribuire e un buon condividere. Così, un po’ di metafora della vita, un po’ di lavoro, un po’ di condivisione e tanta osservazione per capire finalmente come sono i cicli della Vita. In questo apprendimento ci siamo rivolti più alla montagna e siamo diventati più silenziosi, più pazienti, più produttivi. Oggi, dopo sette anni siamo ancora lì. Siamo un gruppo spontaneo, siamo convocati come volontà personale, non come istituzioni. Ogni volta che ci troviamo,rimaniamo lungo tempo in silenzio, osserviamo, seminiamo, camminiamo e ci mettiamo in disponibilità di “Ascolto”, disponibilità ad imparare e così risulta che qualcuno insegna, c’è sempre un apprendimento nuovo. Soltanto il fatto della semina ci ha insegnato tante cose. In questo processo, pian piano, abbiamo costruito anche una “Maloka699”, un po’ di infrastruttura in sintonia con il contesto, che ci permetta di mantenere il contatto con la natura senza violentarla. Una volta che abbiamo testato fra di noi il nostro metodo d’insegnamento/apprendimento, abbiamo realizzato un’esperienza pedagogica importante con una scuola superiore di Bogotà “El Liceo Femenino de Cundinamarca, Mercedes Nariño de Cundinamarca”. Questa è una scuola, chiamata a Bogotà di “strato uno e due” cioè rivolta a persone in condizioni di povertà (lo strato riguarda il livello sociale su una scala che va fino a sei). Quest’esperienza è stata molto importante, perchè abbiamo fatto diventare un “progetto”, un “modello” il nostro sistema di apprendimento e lo abbiamo messo in pratica in una scuola istituzionalizzata della città. Il metodo funziona perché c’è un’organizzazione, ma non esiste una gerarchia. L’interesse fondamentale è che tutti dobbiamo imparare qualcosa, non ci sono le pagelle, i voti o la pressione. Ogni persona segue i propri ritmi. Il reale successo consiste nel riuscire a motivare in modo tale i partecipanti che nessuno abbia voglia di abbandonare le attività.” Vediamo, quindi, che la Pedagogia della Vita ha funzionato, l’idea è che ci sia un processo d’“Insegnamento/ apprendimento” collettivo dove si impara giocando, ma soprattutto seguendo uno dei principi della Pedagogia indigena: “Imparare facendo”. Una seconda parte dell’intervista con Mabel ha riguardato questo intrecciarsi dell’educazione con la Cura del Corpo. Un percorso che l’ha portata ad interessarsi, nel campo psicoterapeutico, alla ricerca della connessione fra Territorio, Mente, Corpo e Spirito, spazi in cui, secondo gli insegnamenti indigeni, risiedono l’equilibrio e l’armonia, la malattia e la salute, la vita e la morte. 699 La “Maloka” è la casa cerimoniale dei Popoli Amazzonici 311 “Rispondere sulle motivazioni che mi hanno portata a questa ricerca diventa ancora più difficile, perché riguarda direttamente il mio vissuto personale. Arrivare alla terapeutica è stata una scelta dovuta all’urgenza di lasciare il “correre” quotidiano, sempre inseguendo l’efficienza e la competitività, così come tanto ci hanno insegnato all’università. Questa la storia: “Risulta che un giorno, dopo quattro anni di cure mediche per problemi alla colonna vertebrale molto gravi, il dottore mi dice, così, freddamente, che il mio problema non aveva soluzione,che non potevo essere operata e che la medicina non poteva fare altro che prescrivermi della morfina quando altri calmanti non facessero più effetto. La cosa detta così in modo tanto brutale mi ha scioccata di più che la malattia in sé. Mi sembrava molto triste questa fine per la mia vita e quindi non mi sono rassegnata ad aspettare di dover prendere la morfina. Ho cominciato a cercare altre possibilità di medicine e cure “alternative” e al limite pensavo che se qualcuno mi doveva dire che di quello dovevo morire, almeno che mi fosse detto da una persona a me molto vicina, molto cara, una persona a cui veramente potevo interessare come essere umano, non come un “prodotto”. Mi sono quindi avvicinata di più a quel grande sconosciuto che era il mio Corpo. Ho iniziato un altro processo di apprendimento molto simile a quello che avevamo iniziato con la Terra. Questa volta però il Territorio era il mio Corpo e quindi la ricerca era più di tipo personale. Questo percorso mi ha portato ad avere altri tipi di relazione con me stessa, con il mio Corpo, ma anche con altre persone. E la cosa interessante è che ancora non consumo morfina e non sono a letto. Sul percorso di cura, non so se chiamarlo “alternativo”, più che altro per me è stato un processo di “interiorizzazione”, per capire che noi stesse ci conosciamo poco ma l’importante è che quel poco che conosciamo ci possa aiutare ad essere felici e a non perdere la voglia di continuare ancora a conoscerci di più. Questo processo d’“interiorizzazione” è importante per aiutare a capire che ci sono “altri orizzonti”, diversi da quelli dell’avere, dell’accumulare; per capire il vero senso della Vita e riuscire a demistificare una serie di categorie a cui siamo abituati. Quindi il processo riguarda imparare altre forme di approcciare il nostro Corpo, altre forme di relazione con noi stesse. Penso che abbiamo sbagliato in Occidente sui modi di questo approccio, abbiamo sbagliato forse anche su quello che chiamiamo “Apprendimento”. Altro punto dell’ intervista: una riflessione sull’argomento di cui queste pagine si sono nutrite: Il Sacro. La Relazione, con sé stesse, con gli altri, con il Cosmo, e gli insegnamenti avuti lungo questo processo di crescita. “Non mi scandalizza sentirmi chiamare maestra, ma più che altro mi fa sentire una grande responsabilità. Direi pittosto che sono “buscadora”(che cerca, ma non nel senso intellettuale 312 della ricerca scientifica). La crescita di questi anni si è nutrita della sfida della scelta, della possibilità di sbagliare e di cercare di nuovo. È un processo che si nutre a vicenda, continuare a sbagliare per darci l’opportunità di ricominciare. É un processo che si nutre del coraggio di guardarsi nei propri occhi, dentro di sè. Credo che la cosa più difficile sia stata guardarmi negli occhi e capire che il vero apprendimento è riuscire a mantenere la tessitura fra tutti i fili che vano da dentro verso fuori e quelli che vengono da fuori verso dentro. È riuscire a capire questo ricamo, sottile, bello, gioioso, è la tessitura della Vita, dove non ci sono mete ne tempi per finirla, semplicemente è, bisogna soltanto lasciarsi “acchiappare” da questa Vita. Così direbbe il mio Maestro, ora ho un Maestro, si chiama Didier. Oltre gli insegnamenti di questo Maestro, molto ho imparato dalla profondità della sapienza indigena. Nella loro conoscenza si possono incontrare molte delle risposte a molti degli interrogativi esistenziali sui quali l’Occidente non ha ancora delle risposte. Per esempio, loro, i Popoli Originari, sanno e conoscono il codice della Vita, conoscono l’equilibrio fra la natura e gli esseri umani, sanno che si tratta di una sincronia complementare, che non ci sono gli umani superiori che devono dominare la natura. Capiscono benissimo che loro stessi sono parte della Natura, che sono un pezzetto in più di tutto l’insieme. Hanno cura tanto della Pietra quanto delle Persone. Le Pietre stanno dove devono stare, le persone stanno come devono stare, i bambini sono Curati prima di nascere. L’Amore è reciprocità. Ci sono una serie di categorie che per noi Occidentali, sono difficili da declinare nelle nostre vite: solidarietà, reciprocità., amore, rispetto, ascolto, silenzio. Per loro, invece, sono cose semplici che imparano direttamente con la Terra, con la Natura.” Di seguito una riflessione sul come sono riusciti a mantenere la loro conoscenza i Popoli e quali potrebbero essere gli insegnamenti e i modi per un dialogo con l’Occidente. “ Anche su questo aspetto non è facile rispondere. Diciamo che i Popoli, parliamo in questo caso specifico degli U’wa, sono riusciti a mantenere la loro cultura grazie all’isolamento. Ma la cosa è sapere se questo in futuro possa ancora funzionare. Perché sicuramente arriverà il momento in cui anche queste culture avranno una loro trasformazione . Il punto è come viene avviato questo processo di trasformazione. Anche perché oltre all’isolamento, esiste un elemento fondamentale per riuscire a mantenere la cultura viva e a resistere agli agenti del cambiamento imposto. Questo è, il Territorio. Un Territorio che dentro la loro cosmovisione è lo spazio, il tempo della Vita, la Comunità, l’Alimento, lo Spazio della gioia, della morte. Il Territorio non è soltanto la terra da produrre e da vendere. Nel Territorio abita questo sincronismo con tutti gli elementi che lo compongono. Sugli insegnamenti, potrei dire che i Popoli Originari hanno molto da insegnarci a tutti noi: urbani, industrializzati, Occidentali. Il problema sarebbe se noi siamo disposti ad apprendere. 313 Siamo noi che arriviamo sempre con la forza della conoscenza, una forza incredibile che ci fa sentire che siamo gli unici in grado d’insegnare, perché noi abbiamo la convinzione che il progresso e lo sviluppo, nostre invenzioni, siano gli unici parametri di civiltà. Quindi, vogliamo convincerli che bisogna andare su questo binario per togliersi dall’arretratezza, siamo convinti che bisogna portare loro su un’altra onda.” Sulla possibilità di stabilire un dialogo fra i due pensieri, come base per una proposta educativa, le parole di Mabel possono indicare una chiave di lettura importante. “Forse, se noi imparassimo ad ascoltare un pochino di più potremmo arrivare ad apprendere qualcosa da loro. Si potrebbero creare quelli che chiamiamo “ponti”. Loro potrebbero – trovando il nostro ascolto- cercare di uscire dal loro isolamento e relazionarsi con noi. Noi, invece, con molto impegno, cercare di uscire del nostro progresso e relazionarci con la Natura. Questo è il “dover’essere” se vogliamo avere un futuro. Però, ribadisco, il problema è che non sappiamo stabilire questa Relazione. Non sappiamo aprire questo dialogo, perché anziché avere la disponibilità ad imparare, noi ci rivolgiamo sempre a loro con la pretesa d’insegnare.” Infine, come possiamo trovare quello che Gregory Bateson chiama la “struttura che connette” ? “Personalmente credo, che una cosa molto importante se vogliamo insegnare è sapere Ascoltare. Ascoltare con la sensibilità del cuore. Ascoltare la Natura. Questo è l’insegnamento più grande che ho avuto da Popoli che mantengono ancora viva la loro cultura, parlo di quegli esseri umani che sono rimasti fedeli ai codici imparati dalla Terra. Questa è la chiave: la Natura. Ci sono diverse contro-correnti che ci hanno provato, l’ecologia è una di queste. Qualunque strada vogliamo percorrere, ci deve essere un nesso di Amore, di Rispetto che connette gli umani con la Natura, questa connessione penso sia la chiave per trovare la soluzione ai problemi contemporanei e a quelli che possano venire più avanti. È un cammino semplice perché è il codice della Vita, nella sua complessità e nella sua semplicità allo stesso tempo. Quei codici stanno dentro di noi e questo i Popoli l’hanno capito prima di noi. Per loro è una cosa molto ovvia, perché loro non si sono mai disconnessi. L’Occidente ha fatto il giro tondo per arrivare a riflessioni tanto interessanti come quella Bateson, dove certamente la domanda è: Qual’è la struttura che connette? Ma come sempre, in Occidente ci facciamo le grandi domande, quello che ci imbroglia sono le risposte. Bene, i Popoli Originari non si faranno mai questa domanda, non hanno nessun interesse, perché loro sono connessi e sanno anche quale è la parte che li connette. 314 Penso che questa sia la parte più bella del lavoro che stai facendo, sembra quasi un “metadialogo”. È bella questa proposta di dialogo attraverso quello che scriverai”. “In questo momento della mia vita penso che la chiave vera sta nel Corpo, perché il Corpo è la Terra, e la Terra è Territorio. Noi sappiamo che di Terra siamo e alla Terra torniamo. Penso che lì stia la chiave. Come la troviamo? Questa è la domanda. Penso sia questione di tessere. La conoscenza esiste già. Quindi, è filare e tessere. È necessario sentire il nostro Corpo, tornare a sentirlo, tornare a mettere la testa nella giusta dimensione. Penso che le nostre teste siano disconnesse. Abbiamo imparato a pensare talmente velocemente che il corpo rimane indietro. Se riusciamo a ritrovare l’armonia fra Mente e Spirito, in quel primo Territorio che è il Corpo, allora l’armonia entrerà da sola nella Terra che è il nostro secondo Territorio. D- Potrebbe essere nel tuo caso anche un giro tondo quello di essere passata dall’esperimento pedagogico/ecologico di Tenjo, per arrivare ad intrecciare l’attività educativa con la psicoterapia, attraverso i massaggi? “Diciamo che è stato il ritrovamento del corpo nel cammino spirituale. Non sono semplici massaggi. Il filo conduttore che mi ha spinta in questa strada, è stato precisamente il bisogno di riconnettermi con la Terra, con l’Acqua, con gli elementi che costituiscono la Vita di questo Corpo.” Durante tutti i miei colloqui o interviste ho sempre chiesto se il mio interlocutore o la mia interlocutrice aveva qualcosa da domandarmi riguardante il mio percorso. Molte volte mi hanno fatto delle domande semplici o c’è stato, come spiegato nella metodologia, uno scambio di esperienze, un raccontarmi, una ricetta, un laboratorio o un “rito” condiviso. Questa volta Mabel mi ha fatto una domanda impegnativa cui ho risposto con la freschezza di quell’ambiente naturale in territorio U’wa in cui il nostro colloquio ha avuto luogo. D - Cosa ti aspetti dalla tua tesi? “Spero di riuscire a creare un “ponte” e dare l’opportunità di conoscere altre epistemologie anche agli studiosi dell’ Occidente. Non è soltanto una preoccupazione o un privilegio dei popoli indigeni volere il “Buen Vivir” in Bolivia o in Messico, è bene far sapere che ci sono esseri umani, accademici, studiosi in Occidente che sono molto impegnati in questo percorso. Fra essi, la mia Maestra Mariagrazia Contini da molti anni impegnata nella ricerca di questi “altri orizzonti del possibile”, tanto, da interessarsi a questo argomento, da avere avuto fiducia 315 in questa ricerca e nei miei confronti, motivo per cui, da questo luogo, voglio esprimerle grande riconoscimento. Il mio obiettivo è offrire alcuni elementi per una lettura, per una conoscenza del pensiero dei Popoli Originari, un pensiero che ci parla di “frattali”, di “Chakane”, di “Mondi”, di tutti questi argomenti che Bateson nella sua “Ecologia della Mente” esprime così bene, senza essere entrato in contatto con questi popoli. Questo mi meraviglia. Riuscire a lasciare queste pagine con saperi e pensieri così complessi e così sconosciuti in Occidente ai nuovi studiosi, ma soprattutto ai nuovi impegnati con l’umanità, penso sia un contributo importante. Purtroppo tre anni son pochi e non sono riuscita a consolidare le basi di un nuovo paradigma, di una nuova proposta pedagogica come vorrei, ma se questi elementi venissero considerati mi sentirei già molto contenta.”700 Colloquio realizzato durante una visita a Territorio U’wa in giugno 2012. L’intervista è disponibile al link: www.youtube.com /YolandaAbyaYala / Mujeres TerritorioCuerpoMemoria /Gloria Mabel Villamizar. 700 316 Laboratorio all’interno del corso “Etnoeducazione, Interculturalità e Diversità” Università della Guajira – Colombia – Agosto 2012 317 CAPITOLO QUINTO INTERCULTURA ed ECOLOGIA DEI SAPERI: EPISTEMOLOGIAS DESDE EL SUR “Apenas él le amalaba el noema, a ella se le agolpaba el clémiso y caían en hidromurias, en salvajes ambonios, en sustalos exasperantes. Cada vez que él procuraba relamar las incopelusas, se enredaba en un grimado quejumbroso y tenía que envulsionarse de cara al nóvalo, sintiendo cómo poco a poco las arnillas se espejunaban, se iban apeltronando, reduplimiendo, hasta quedar tendido como el trimalciato de ergomanina al que se le han dejado caer unas fílulas de cariaconcia. ..(..)”701 Premessa Nel parlare d’intercultura ricordo alcune delle considerazioni già fatte sul ruolo di quello che ho chiamato “Scuola Ufficiale”, in quanto strumento si legittimazione delle strutture coloniali in ambito dell’organizzazione politica, economica, sociale e culturale, tese all’imposizione del pensiero dominante attraverso politiche educative escludenti.702 In questo orizzonte il concetto di “intercultura” è stato percepito dagli stessi popoli e da gran parte del Movimento Indigeno, come una creazione Occidentale, la cui novità consisteva nel tradurre i testi scolastici nelle diverse lingue originarie, con gli stessi contenuti di prima. Questa dinamica era già stata messa in atto dai vari missionari che avevano imparato le loro lingue, riuscendo così a tradurre la bibbia e a celebrare l’eucaristia in lingua originaria, ma allora non era stata chiamata “Educazione interculturale Bilingue”. Con quanto espresso sopra, vorrei sottolineare che il concetto d’intercultura, così come concepito in Occidente, è insufficiente per spiegare le diverse dinamiche sociali, politiche, economiche e culturali in atto oggi in quello che Boaventura di Sousa Santos ha denominato il “Sud Globale”, contesto di cui l’Abya Yala fa parte. 701 Cortàzar Julio, Rayuela, Santillana, Mèxico 2010, p.489 (Romanzo tradotto in italiano con il titolo Il gioco del mondo (Rayuela). Il Capitolo 68 è totalmente scritto in “Gliglico”, il linguaggio inventato da Cortázar, attraverso il quale egli usa combinazioni di suoni della lingua, utilizza verbi e nomi riconoscibili e li inserisce in frasi e periodi correttamente strutturati. La creatività dello scrittore sta nel fatto di usare parole–valigia, che costruisce combinando suoni o sillabe di parole esistenti. Il gliglico è dal punto di vista sintattico e grammaticale uno spagnolo corretto.) 702 Cfr. III Capitolo di questo elaborato 318 È proprio da queste nuove dinamiche nate nei Sud del mondo che Boaventura avanza la sua proposta sull’”Ecologia dei Saperi” e l’ “Epistemologie del Sud”, di cui mi occuperò più avanti. . LA QUEST)ONE )NTERCULTURALE Nello scenario odierno dell’Abya Yala i dibatti negli ultimi due decenni sono passati dalla discussione sulla “questione indigena” alle discussioni sulla “questione interculturale” e da queste alle “Autonomie indigene”. Qualunque sia il dibattito, però, la “questione identitaria” rimane racchiusa fra le due “questioni” accennate prima, prendendo svolte assai interessanti. I protagonisti, cioè i Popoli hanno fatto tesoro delle esperienze ampiamente riportate nel capitolo terzo, cogliendo l’opportunità offerte dagli scenari internazionali dei Diritti Umani, nonché dalle interrelazioni con altri movimenti sociali a livello globale per affermare le loro lotte e le loro resistenze. Oltre al caso concreto della Bolivia, voglio riportare ancora un’esperienza molto significativa nel contesto messicano, riguardante le Autonomie Indigene nello Stato del Chiapas, di cui il testimone di Gustavo Steva, è assai rappresentativo. “ L’attrattiva che provavo nei confronti di Ivan (Illich) nasceva dal fatto che le sue idee, le sue parole, i suoi scritti erano una brillante presentazione intellettuale dei discorsi della gente comune. Ivan descriveva i modi di vivere e di essere che avevo sempre incontrato n el mondo di mia nonna, nel mondo degli altri popoli indigeni, nel mondo dei “campesinos” o degli emarginati. ‘Vernacolare’ e ‘Conviviale’ due parole che occupano un posto centrale nel lavoro i Ivan, sono simboli magnifici dei mondi del mio popolo. Là le avevo udite, prima di leggere i suoi scritti. In tutti gli anni che avevano preceduto il mio incontro con lui, avevo percepito, sentito, odorato, toccato e sperimentato quelle parole, e ciò di cui erano simbolo, nei villaggi e fra la gente comune. ….(..) Negli anni ’60 quando la mia prima figlia doveva iniziare il percorso scolastico, mi sono guardato intorno alla ricerca di una buona scuola, pubblica o privata, a cui affidare la mia amata bambina. Non sono riuscito a trovarne una in tutta Città del Messico. Alcuni amici si trovavano nella stessa difficile situazione. Allora ci siamo inventati la nostra scuola. Abbiamo fatto un meraviglioso ‘coktail’, mescolando alla nostra creatività una grossa dose di Freinet, un po’ di Montessori, un po’ di Steiner e delle scuole Waldorf, un po’ di Summerhill, ecc. Era molto bello …(..) ma quando mia figlia ha finito le medie, abbiamo chiuso la scuola. 319 …(…) A quel punto, sia mia figlia che noi genitori sapevamo che il problema non è la qualità della scuola, ma la scuola stessa. Per quanto riconfigurassimo l’aula, il programma di studio ecc., la scuola rimaneva il problema e non la soluzione. …(..) Illich l’avrebbe messo in luce con estrema chiarezza nel suo ‘Descolarizzare la società, come ho scoperto molti anni dopo). Siamo dunque stati costretti a cercare percorsi alternativi. …(..) Ci dedichiamo piuttosto a realizzare le nostre iniziative …(..) una di esse : “ l’Università della Terra””(Uniterra). “Recuperare la nostra libertà di apprendere”. …(..) Venivano da villaggi e quartieri di periferia, per lo più indigeni. Erano semplici ‘refuzniks’ che ne avevano avuto abbastanza della scuola. Venivano per curiosità più che per convinzione ….(..) Piaceva loro l’idea che avrebbero avuto il pieno controllo dei loro percorsi di apprendimento ( contenuto, ritmi, condizioni)….(…) tuttavia hanno fatto presto a scoprire che quello che facevamo non era altro che recuperare pratiche di apprendimento vecchie come il cucco, completandole con alcune pratiche contemporanee di studio e apprendimento partecipato …. (..) stavamo semplicemente, umilmente e molto praticamente cercando di cancellare l’amnesia moderna.”703 Parlare dell’Università della Terra in Messico sarebbe da solo un argomento per questo elaborato, devo confidare che sono stata molto atratta da quest’idea quando ho conosciuto l’esperienza nel mio viaggio in Chiapas, anche perchè la proposta di un’educazione non industrializzata capace di rispondere in maniera diretta alla proposta di autonomia dei Popoli è l’obiettivo principale dell’ “UniTierra.” Continuando sul contesto Chiapaneco, quello che mi preme ora è rendere l’idea di quanto abbia significato la proposta indigena in materia di educazione, dando vita ad un progetto a cui si sono uniti in molti, anche intellettuali non indigeni. D’altra parte, l’ho sottolineato anche in pagine precedenti704, vorrei ancora accennare quanto sia stato importante il ruolo della chiesa cattolica in America Latina dal momento della colonia fino ad oggi, ma per quanto riguarda lo Stato del Chiapas bisogna fare ulteriori chiarimenti, considerando l’incidenza avuta durante il lungo periodo di don Samuel Ruiz Garcia,705( “JTatic” – “nostro padre in lingua Tseltal) Vescovo della diocesi di San Cristobal de las Casas dal 1959 al 1999. 703 Esteva Gustavo, Ritorno dal futuro, in Rivista InterCulture. No. 21, op, cit, pp.60-61 Cfrr. Capitolo Zero e Capitolo Terzo di questo elaborato 705 (1924-2011), vescovo di San Cristóbal de Las Casas per quarant’anni (1960-2000), è stato un testimone della fede del XX secolo. In lui sono confluiti molti avvenimenti: la partecipazione alle quattro sessioni del concilio ecumenico Vaticano II; l’inserimento nel mondo dei poveri, i maya del sudest messicano; gli avvenimenti ecclesiali di Melgar, Colombia (1968) e la conferenza dei vescovi latinoamericani a Medellín nel 1968 (alla quale ha partecipato come relatore); l’incontro di Xicotepc, Messico, nel 1970; il congresso indigeno del 1974 per celebrare i cinquecento anni della nascita di Fra Bartolomé de las Casas. In quel congresso, affidato dal governo del Chiapas a don Samuel e alla diocesi di San Cristóbal, i popoli indigeni della diocesi ebbero modo di dare espressione alle loro miserie e aspirazioni, alle loro sofferenze e potenzialità. Con il suo 704 320 Con il suo gruppo di lavoro, don Samuel si è impegnato a dare vita, pur con discernimento, all’ “inculturazione del vangelo”706, alla nascita della chiesa autoctona con i suoi ministeri specifici (per esempio il diaconato indigeno permanente), alla traduzione della Bibbia in varie lingue. Su quanto l’operato di don Samuel abbia rappresentato per i Popoli, ho parlato con il sacerdote del municipio di Huixtàn, cercando di capire cosa potessero significare i santi cattolici “vestiti” con i vestiti tradizionali delle diverse Comunità nella chiesa di San Juan Chamula, o perché, per esempio si portasse la ‘cocacola’ nei luoghi rituali, o perché nelle sue eucaristie partecipassero come “principali’707 tredici uomini e nessuna donna, anche quando celebravano in maniera mista ( tradizionale e cattolica) i battesimi e le prime comunioni nelle Comunità , o il perché portassero tutte quelle offerte ( mais, uova, zucche, candele, incenso) in chiesa durante la festa delle “cementeras”708; oppure cosa rappresentasse il fatto che durante il carnevale in alcuni comuni come a Tenejapa, le celebrazioni iniziavano o finivano con una sosta nella chiesa.709 Erano troppe domande, alcune sono rimaste senza risposta ancora dopo i miei cinque mesi trascorsi in Chiapas, altre si son chiarite da sole senza bisogno di tornare a domandare. Bisogna soltanto imparare a osservare anche quello che non si sa spiegare, direbbe don710 Juàn a Castaneda nel suo processo d’apprendimento, come riportato anche da Von Foerster711. Torniamo quindi all’ “inculturazione del vangelo”, nelle parole del sacerdote Jorge Trinidad, parroco del municipio di Huixtàn – Chiapas. “Come parrocchia abbiamo continuato a lavorare con i popoli, soprattutto in quest’anno 2011 che è l’anno della Terra. Per i Tsotsil e per i Tsetal, la Terra è i l luogo dove Dio vive. Per me è motivo di soddisfazione continuare a rafforzare l’identità delle culture attraverso gli “abuelos” (gli anziani), rispettando il loro pensiero, perché loro sono la base della cultura. ..(..)La diocesi di San Cristobal de las Casas si allontana dai canoni della chiesa ufficiale di gruppo di lavoro si è impegnato a dare vita, pur con discernimento, all’inculturazione del vangelo, alla nascita della chiesa autoctona con i suoi ministeri specifici (per esempio il diaconato indigeno permanente), alla traduzione della Bibbia in varie lingue, ai catechisti. Più di una volta alzò la voce per denunciare le ingiustizie e i maltrattamenti di cui erano vittime gli indigeni del Chiapas. La sua era una voce accompagnata da una testimonianza personale incontestabile. Tutto questo gli procurò autorità morale, all’interno e all’esterno dell’ambito ecclesiale, dentro e fuori il Messico. Espressione di questa preoccupazione per la difesa degli indigeni è stata la creazione del Centro per i diritti umani «Fray Bartolomé de las Casas» che egli diresse fino al giorno della morte. www.queriniana.it/. 706 Incontro fra vangelo e cultura, promosso dal Concilio Ecumenico Vaticano II ( 1962-1965) 707 Cosi vengono chiamate le persone che celebrano la liturgia nelle Comunità insieme ai sacerdoti 708 La festa del raccolto. 709 Le attività elencate sono consultabili al link. www.youtube.com /YolandaAbyaYala / Tejiendo el Huipil / Misa en Huixtàn. 710 In questo caso il “don” è riferito in America Latina alle persone maggiori, non ai sacerdoti come in Italia. 711 Cfr. IV Capitolo di questo elaborato. 321 Roma. Nel Concilio Vaticano II, don Samuel Ruiz partecipa e apre le porte della chiesa alla “inculturazione del Vangelo”. Lavorando con e per i poveri, partendo da quello che le Comunità hanno, permettendo a loro stessi di essere i protagonisti. Cioè apre le porte all’inculturazione del Vangelo, proponendo una chiesa di comunione e partecipazione. Stiamo parlando di una chiesa di base, una chiesa di Comunità. Questa è una chiesa privilegiata perché lavora partendo dalla condivisone e dalla partecipazione. Una chiesa di fratellanza, di molta Comunità. Noi come parrocchia, non siamo quelli che organizziamo, stiamo soltanto accompagnando. L’inculturazione del vangelo fa riferimento a una chiesa interculturale, che si va inserendo a quello che già c’era , cioè parte da quello preesistente nelle culture e il vangelo s’intreccia, con le basi, con le Comunità. Non vogliamo fare da parte o negare il lascito degli antenati, degli “abuelos.”712 5.1.1 Di quale intercultura vogliamo parlare? Tutto quanto sopra riportato ha l’intenzione di spiegare la complessità del contesto Latinoamericano, in modo da cominciare a pensare che l’ intercultura va ridefinita e che l’importanza del concetto in sé, si radica nell’insieme delle “Relazioni”, termine al quale Bateson ha dedicato praticamente tutto il suo studio. Per chiarezza concettuale, parto dalla definizione del termine “interculturale”, sottolineando come esplicitato da Antonio Genovese, la differenza di esso con il termine “multiculturale”. “ nei paesi anglofoni, in particolare in Gran Bretagna, in Canada e negli Usa il termine ‘multiculturale,’ viene, spesso, utilizzato con gli stessi significati che in Itali e negli altri paesi europei viene attribuito al termine ‘interculturale’. In Italia, in genere e più in particolare in ambito pedagogico, il termine ‘multiculturale’ sta a indicare una situazione di fatto, in cui le diverse culture coesistono tra loro e non hanno trovato ancora gli strumenti per il confronto e la relazione” ..(..) Il termine ‘interculturale’ , invece, nasce in Francia, per trasferirsi presto in altri paesi europei come l’Italia e la Germania; esso sta a indicare una situazione di interazione fra le diverse culture, spesso designa una prospettiva, un possibile punto di arrivo o un obiettivo verso cui si tende. Cioè, una situazione in cui il rapporto fra le culture e le persone che ne sono portatrici comincia ad aprirsi alle relazioni reciproche e può prospettarsi una possibilità di 712 Intervista realizzata il 3 marzo 2011, consultabile al link www.youtube.com /YolandaAbyaYala / Tejiendo el Huipil / Evangelio en Huixtàn. 322 integrazione fra le diverse culture, vale a dire una situazione segnata dal pluralismo politico e culturale, orientata al rispetto reciproco e alla valorizzazione delle rispettivi culture”713 In questa definizione ho sottolineato alcune parole che, a mio avviso, devono essere esaminate alla luce di quanto esposto lungo le pagine di questo elaborato, anche se, per rigore metodologico devo anticipare che non potrò approfondire alcuni argomenti come sarebbe dovuto, altrimenti rischierei di andare ben oltre l’argomento centrale di questa riflessione. Vediamo in primo luogo una delle tante definizioni di “cultura”, quella dell’antropologo Edward Taylor, l’antropologo britannico punto di riferimento classico dell’antropologia culturale. “Punto di riferimento cronologico, perché il 1871 è la data di nascita della disciplina; punto di riferimento logico, perché quella definizione si offre a precisazioni, riformulazioni, ampliamenti o restringimenti”.714 “ La cultura o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità o abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro di una società. (Tylor, 1970 (1871), p.1)715 Successivamente, riprendo ancora le parole di Bateson, a cui fa riferimento anche Manghi, nel richiamare l’ampio significato di una delle domande cruciali del pensiero batesoniano “Qual è la struttura che connette tutte le creature viventi?” 716 “ L’espressione “struttura che connette” traduce qui l’originale ‘pattern which connects’. Rispetto all’inglese ‘pattern’, che può essere tradotto in italiano anche con “modello” o “trama”, il termine “forma”, “struttura” rischia di veicolare significati statici e atemporali. Al di là delle incertezze terminologiche, destinate comunque a rimanere, gioverà tener presente che Bateson attribuiva alla parola ‘pattern’ sia una connotazione dinamica ( danza di parti interagenti), sia una connotazione unificante: già nei suoi lavori giovanili, peraltro influenzati dalla lettura del manoscritto di “Patterns of Culture,” di Ruth Benedict, dove la grande antropologa si serviva del termine ‘pattern’ (reso nell’edizione italiana del suo libro con “modello”) per definire la cultura di una popolazione come insieme coerente di idee internocenesse. Questa attenzione verso gli aspetti unitari della creaturalità, osserviamo di Genovese, Antonio, Per una Pedagogia Interculturale. Dalla stereotipia dei pregiudizi all’impegno dell’incontro. Bononia University, Bologna 2033, p. .181 714 Fabietti, Dal Tribale al globale. Op. cit. p.16 715 Ibidem. 716 Bateson, G., in Mangui, S. La Conoscenza Ecologica, op. cit. p. 43 713 323 passaggio, pone Bateson in una posizione eccentrica ( potremmo dire ‘dèmodè’) rispetto alle tendenze prevalenti nell’antropologia novecentesca, che si concentrano sulle ‘differenze’ irriducibili tra le culture (relativismo culturale). …(…)”717 A partire da quest’ultima definizione, è il termine “relazione”, con la sua connotazione batesoniana, il nucleo centrale su cui si fonda l’analisi del contesto a cui faccio riferimento. Inoltre, proprio per le esperienze che hanno dato vita a queste pagine, diventa necessario riprendere anche le implicazioni del termine “integrazione”, nel contesto già esplicitato, cioè “I Popoli Originari dell’Abya Yala”. “Nel 1988 si tenne la prima conferenza sulla revisione della Convenzione ILO n. 107 in seno alla ILO, ma una delle critiche maggiori a questo processo è proprio data dal fatto che i popoli indigeni non poterono prendere parte alla conferenza. In ogni caso al termine della sessione per la revisione della Convenzione ILO n. 107 vennero stabiliti alcuni principi fondamentali su cui basare il nuovo trattato: il termine “integrazione” e “assimilazione718” dovevano essere eliminati; viene sottolineata la necessità di garantire che siano i popoli indigeni stessi a decidere e gestire il proprio sviluppo economico e stile di vita, attraverso le proprie istituzioni; dovrà essere abbandonata la percezione della superiorità culturale mantenuta nel testo del 1957. …(…) La nuova visione riconosce l’importanza per i popoli indigeni di mantenere le proprie istituzioni, stili di vita e il proprio sviluppo economico, conservando la propria identità culturale, la propria lingua e religione, all’interno dei territori degli Stati cui appartengono. ..(..) La Convenzione si applica ai “popoli tribali” e ai “popoli indigeni”, ma nel trattato non viene data una definizione di questi due gruppi, vengono solamente identificati alcuni elementi che li caratterizzano.”719 Per procedere in questa direzione bisogna addentrarsi nei meandri del “diritto internazionale”, specificamente in questo caso, la Convenzione ILO No.169 del 1989720. 717 Cfr. De Biassi, 1998. In Manghi S, op, cit, pp. 43 e 44 Il grassetto lungo la presente citazione è mio. 719 Rossi, Magda., I Popoli indigeni nell’ordinamento internazionale: Diritto alla Terra e Diritti Umani. Tesi si dottorato. Corso di dottorato di ricerca in Diritto Internazionale – Ciclo XXII. Università degli Studi di Milano. Facoltà di Giurisprudenza. Dipartimento di Diritto Pubblico, Processuale Civile Internazionale ed Europeo. Anno Accademico 2009/2010. p. 140 e ss 720 La Convenzione ILO ( per le sue sigle in inglese) 169 sui diritti dei popoli indigeni e tribali è stata adottata nel 1989 dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), un’agenzia delle Nazioni Unite. La Convenzione riconosce ai popoli indigeni un insieme di diritti fondamentali, essenziali alla loro sopravvivenza, tra cui i diritti sulle terre ancestrali e il diritto di decidere autonomamente del proprio futuro. (In spagnolo: Convenio 169 de la OIT – Organizaciòn Internacional del Trabajo) 718 324 “Per quanto riguarda i popoli tribali vengono menzionati come caratteristici: gli stili di vita tradizionali; la cultura e i modi di vivere differenti dal resto della società (per esempio la lingua, i costumi etc.); un’organizzazione sociale con leggi proprie. Per i “popoli indigeni” vengono essenzialmente menzionati gli stessi elementi di distinzione, con una specificazione rispetto ai popoli tribali: i popoli indigeni hanno mantenuto una continuità con i propri antenati e vivono nelle terre che questi abitavano prima dell’arrivo dell’invasione da parte di “estranei” nelle stesse zone. La prima novità che introduce la Convenzione del 1989 rispetto a quella del 1957 e al resto degli strumenti internazionali relativi a popoli indigeni fino a quel momento prodotti è il criterio dell’autoidentificazione come parametro fondamentale per stabilire i beneficiari dei diritti sanciti nel documento. “La Convenzione ILO n. 169 adotta un approccio basato sia sul criterio oggettivo (un gruppo che risponde ai requisiti dell’art. 1 riconosce una persona come parte del gruppo stesso), che sul criterio soggettivo (una persona si identifica come appartenente a un popolo indigeno; o un popolo si ritiene indigeno sulla base delle indicazioni contenute nelle Convenzioni). Una seconda innovazione, rispetto alla Convenzione n. 107, si riscontra nella terminologia con cui viene definito il soggetto a cui fa riferimento il trattato: dall’utilizzo di “popolazioni” a quello di “popoli”. Il termine “popoli” comporterebbe il diritto di autodeterminazione nel sistema internazionale, ma viene specificato nell’art. 1, comma 3: “The use of the term peoples in this Convention shall not be construed as having any implications as regards the rights which may attach to the term under international law” In questo contesto, diventa particolarmente importante specificare la definizione giuridica del termine “Popoli”, in modo da capire i cambiamenti socio culturali e politici, in gestazione in alcuni Stati Nazione dell’America Latina, soprattutto negli ultimi due decenni. “Questa precisazione deriva dal fatto che il mandato della OIL concerne i diritti economici e sociali, e resta quindi fuori dalla competenza dell’organizzazione interpretare politicamente il concetto di autodeterminazione. La Convenzione non pone alcun limite alla possibilità di autodeterminazione per questi popoli ed è compatibile con qualsiasi strumento successivo che garantisca tale diritto. La scelta del termine “popoli” riflette in maniera più incisiva l’identità distinta di questi gruppi all’interno di una società nazionale strutturalmente e culturalmente differente, ma nonostante l’aggiunta del comma 3 dell’art. 1, molti Stati fin dal principio non condivisero questa posizione e videro minacciata la propria integrità territoriale. 325 Il tema del possibile riconoscimento del diritto di autodeterminazione diventa il principale deterrente per la ratifica della Convenzione da parte di molti Governi. Allo stesso tempo i rappresentanti dei popoli indigeni si sono dichiarati insoddisfatti per la ragione opposta: ritengono, infatti, che il proprio diritto all’autodeterminazione venga compromesso dalla specificazione contenuta nel comma 3 dell’art. 1 e definiscono discriminatorio limitare il proprio diritto come “popoli” a livello di diritto internazionale. In realtà le implicazioni dell’art. 1 della Convenzione non possono certo essere quelle di limitare il diritto all’autodeterminazione nel caso in cui alcuni popoli ne fossero titolari, invece può avere un effetto positivo nell’affermare nel sistema internazionale il diritto di questi gruppi a un’esistenza separata e indipendente rispetto al resto della società dello Stato cui appartengono.”721 . . La Questione indigena e la Questione identitaria Nel documentare i diversi passaggi del processo educativo, ho seguito la traccia, nelle parole di Bonfil Battalla di quel termine coniato nell’epoca coloniale e così pregnante ancora oggi nell’immaginario collettivo di tutta l’America Latina: “l’Indio - “La creazione dell’Indio: “Prima dell’invasione europea, ognuno dei popoli che occupavano il territorio conosciuto oggi come Messico aveva una propria identità sociale e culturale(etnica) particolare e chiaramente definita . …(..) “L’Indio è prodotto dell’instaurazione del regime coloniale. Prima dell’invasione non c’erano gli “indios”, esistevano i popoli specificamente identificati. La società coloniale invece, creò una divisione esplicita che distingueva due poli inconciliabili: gli spagnoli(colonizzatori) e gli “indios” (i colonizzati).”722 (..) “La Scuola in Messico, ha proposto un insegnamento in funzione del Messico immaginario al servizio dei suoi interessi e delle sue convinzioni. È un’educazione che nega quello che esiste e provoca nello scolaro una dissociazione schizofrenica fra la sua vita concreta e le ore nell’aula di classe. ..(..) La distanza fra l’educazione e il Messico profondo cresce man mano che si avanza nei livelli di scolarità. I modelli dell’insegnamento universitario, i suoi paradigmi, i suoi contenuti, provengono da fuori, dalla civiltà Occidentale. Si rifiuta qualsiasi Rossi, Magda.. Tesi si dottorato di ricerca. I Popoli indigeni nell’ordinamento internazionale: Diritto alla Terra e Diritti Umani. Op, cit, p. 140 e ss 722 Bonfil, op. cit, p. 121 721 326 possibilità di vincolo organico con i saperi del Messico profondo; quella sapienza viene ignorata.”723 - Il Processo di “civilizzazione dell’Indio” “Civilizzare” è stata la parola chiave in Messico. Civilizzare ha significato sempre “desindianizar”, imporre Occidente. ..(..) la strada migliore e la più sicura sarebbe l’ “imbiancamento” della popolazione con il contributo delle migrazioni europee, ma questo tentativo è fallito e quindi si è fatto ricorso alla Scuola, nuova panacea per la “desindianizaciòn” del Messico.724” In questo processo di “desindianizaciòn” , in Messico, come in altri paesi del continente, un primo problema è stato individuato dalla diversità linguistica, sommato al fatto che l’azione educativa aveva un raggio di azione limitato, per cui riusciva a raggiungere soltanto le città più grandi, anche se in fondo il problema vero continuava ad essere lo stesso dall’epoca coloniale: “l’Indio”. Bonfil si riferisce a questo periodo come “ai rivoluzionati tempi moderni”. “Siamo nel 1940, ultimo anno del regime presidenziale di Làzaro Càrdenas. ..(..) A differenza del nazionalismo “criollo”, il nazionalismo della rivoluzione non poteva ignorare l’indio vivo. …(…) Il Messico profondo fa vedere per un momento la sua presenza reale e non è stato possibile chiudere gli occhi davanti ad esso. ..(..) Sebbene, l’indio esista e il Messico profondo sia reale,quello che il Messico della Rivoluzione si propone è , da una parte, “redimere” l’indio, cioè, incorporarlo nella cultura nazionale e attraverso di essa nella civilizzazione “universale” ( quella Occidentale); d’altra parte appropriarsi di tutti quei simboli del Messico profondo che le permettano di costruire la propria immagine di paese “meticcio.” Il progetto educativo di Josè Vasconcelos è un’espressione finita di questi propositi. Auspicava la pittura dei murales di Quetzalcòatl insieme a Cristo e a Buddha, ma rifiutava l’insegnamento delle lingue indigene e si opponeva a qualsiasi tentativo d’educazione specialmente disegnata per le diverse regioni indias, come proponeva Manuel Gamio, sotto l’argomento: “prima sono messicani, poi indios”.725 ..(..) Per quanto riguarda la popolazione indigena e tutti i settori che costituiscono il Messico Profondo, il progetto della Rivoluzione offriva rivendicazioni condizionate affinché i benefici che si concedevano fossero allo stesso tempo gli strumenti per la loro integrazione, cioè, per la 723 Bonfil, op. cit, p. 59 Ivi, p. 158 725 Ivi, p. 168 724 327 loro “desindianizaciòn”…. (..) Così, si portano scuole nelle campagne e nelle Comunità indias, ma non per favorire le conoscenze della propria cultura, ma per trasmettere gli elementi della cultura dominante.”726 …(..) Si valorizzano alcune manifestazioni delle culture indias e contadine ( l’artigianato, le espressioni artistiche), ma come attività isolate, fuori del proprio contesto e senza che il supporto offerto sia un vero stimolo allo sviluppo culturale proprio. Si riconoscono i diritti di uguaglianza, ma si nega il diritto alla differenza. Ancora una volta, la civilizzazione del Messico profondo viene esclusa dal progetto nazionale.”727 In merito, alla questione “territoriale” e alla “ questione indigena”, vediamo ora le parole del Viceministro de “Descolonizaciòn” dello Stato Plurinazionale della Bolivia, Fèlix Càrdenas:728 “ Conoscere e capire i meccanismi di dominazione è importante, perchè noi abbiamo vissuto una destrutturazione a tutti i livelli. Soprattutto a livello territoriale. Dobbiamo capire che la forma del territorio definisce anche la forma del potere politico. Ma abbiamo avuto anche una destrutturazione mentale, religiosa. Con questo vi voglio dire che il “peccato originale” degli Stati come Bolivia, Perù ed Ecuador, è la forma della loro nascita, del loro concepimento. Bolivia è uno Stato fondato senza di noi, i popoli indigeni. Ancora di più, è uno Stato fondato contro di noi.” - Quale identità ? Da quanto appresso sulle importanti innovazioni in materia giuridica, derivate dalla Convenzione ILO 169, fare un discorso sull’identità latinoamericana diventa un discorso oltre che complesso quasi che inopportuno, soprattutto oggi in questo periodo (2013) che vede rinascere con forza le identità dei Popoli e addirittura delle Nazioni, come nel caso dello Stato Plurinazionale della Bolivia, dove si porta avanti una grossa campagna di “rafforzamento identitario” attraverso il ministero della “decolonizzazione” e delle ultime politiche educative. Non sarà questa la sede per occuparmi di tutto quanto si è scritto in merito in Occidente sull’analisi del concetto di “identità”, tuttavia, per rigore metodologico riprendo alcune riflessioni di Antonio Genovese.729 726 Ivi, p. 169 Ivi, p. 170 728 Viceministero ascritto al Ministero delle Culture dello Stato Plurinazionale della Bolivia. Intervista consultabile al link: www.youtube.com / YolandaAbyaYala / Educaciòn Descolonizadora / Viceministro Fèlix Càrdenas/ 727 328 “ Di fronte alla globalizzazione delle economie e alle trasformazioni multiculturali delle società che portano con sé, nella loro scia, un ampliarsi ( e, come abbiamo visto, anche un esasperarsi) dei conflitti culturali, diventa centrale il tema dell’identità soggettiva e collettiva; il “chi siamo noi” e “chi sono io” in questo mondo, devono fare i conti con una realtà complessa”730 In merito alla “questione identitaria” ci sono state delle riflessioni molto interessanti durante i diversi incontri realizzati nella provincia di Jujuy - Argentina al COAJ. A continuazione le parole di Carlos, un giovane che grazie al corso portato avanti dal COAJ e le nuove dinamiche intraprese dalla propria Comunità, riesce ad spogliarsi di quell’identità acquisita che lui definisce “gaucho”, un’identità molto forte in Argentina.731 “Attraverso un processo di ritrovo con se stessi è possibile recuperare le nostre vere origini. Noi siamo come una pannocchia di mais, pian piano togliamo il loro vestito e così, pian piano il “gaucho” va sparendo lasciando fin che arriviamo al nocciolo, lasciando emergere l’ identità sommersa, la nostra vera identità. pannocchia Questo processo di togliere le foglie alla ci permette di farci vedere come siamo veramente e soprattutto cancella la vergogna che ci ha fatto negare le nostre origini.”732 Un’altra testimonianza è la voce al femminile di Lucia733, donna Tseltal del Chiapas, docente di lingua Tseltal all’UNICH. “Mi esprimerò in spagnolo in modo che ci possiamo capire, ma certamente avrei preferito parlare in Tseltal. Quando io sono nata c’erano già le scuole primarie, ma nella mia Comunità c’era soltanto fino al quarto grado. Ho finito la scuola anche grazie ai contribuiti dei mie fratelli più grandi, Io sono la quattordicesima . Sulle esperienze personali ci sarebbero tante cose da dire ma farò riferimento a una che mi ha particolarmente segnata e addolorata per molto tempo: Io adoravo, anche da molto piccola, accompagnare mio padre al mercato a vendere i nostri prodotti a Comitàn, la città più vicina 729 Genovese, A. Per una Pedagogia Interculturale, op. cit. Ivi, p. 143 731 “Sembra che la parola “gaucho” deriva dal termine quechua “huachu”, che significa “senza padri”. Questa parola è stata usata nelle regione della Plata, Argentina, Uruguay e anche in Brasile, per nominare i fantini della pianura o la “pampa” addetti alla “ganaderia” (mucche). Il gaucho lottò per duecento anni contro le ostilità degli indigeni e della terra. Guadagnava il proprio sostento con il lavoro nelle campagne. Ha un carattere riservato e melanconico”. www.portalplanetasedna.com.ar/argentin 732 Giovane Originario del Popolo Oclolla, l’ìntervista è consultabile al link: www.youtube.com/ YolandaAbyaYala/ Jòvenes Identidades de AbyaYala/ Carlos Pueblo Ocloya Jujuy Argentina/ 733 Lucia è laureata in Psicologia clinica, ed è iscritta a terzo semestre di “Educazione e diversità culturale” all’Università Pedagogica Nazionale, San Cristobal de las Casas. L’intervista è consultabile al link: www.youtube.com /YolandaAbyaYala/ Jòvenes Identidades de Abya Yala/ Lucìa Pueblo Tseltal. 730 329 alla nostra Comunità, ma per questo dovevamo camminare tre ore e quindi arrivavamo alla città sporchi, pieni di fango. A quell’epoca non usavamo scarpe e quindi, scalzi e pieni di fango nessuno ci voleva. Ci facevano alzare con i nostri prodotti dai posti dove ci mettevamo seduti per terra per venderli, erano i nostri prodotti della milpa, fagioli “botil” e altre cosìne. Mio padre era già anziano e, alla fine, molto stanco con le vesciche ai piedi e la fame, finiva praticamente per regalare i nostri prodotti, li vendeva per quello che gli volessero dare, non per quello che veramente costavano, ormai l’importante era rientrare a casa. Questa è stata un’esperienza dolorosa, non tanto per la stanchezza, ma per le parole dispregiative che ci dicevano: “ pinches indios, cochinos, sucios, asquerosos” e una parola molto forte “pendejos”. Questi passaggi di dolore e alto disagio vengono narrati oggi da Lucia, riconoscendo che attraverso essi ha trovato il coraggio e attivato la sua capacità di resilienza anche da molto piccola, nutrendo così il proposito di creare in futuro le condizioni per uscire da questa “condizione data”: “Io in quel periodo conoscevo soltanto tre parole in spagnolo: “si, no, perchè”. Questo è stato un fatto decisivo e già da piccola, piena di coraggio e dolore, mi sono promessa: “un giorno userò le stesse vostre parole”, era come una specie di rancore che entrava nel il mio cuore per tutto quel dolore. Quando sono arrivata alle scuole medie, non so se fosse stata una scelta strategica, ma senza sapere perchè sono arrivata dicendo che io non parlavo il tseltal e, dato che parlavo poco lo spagnolo, con la luce dell’ “ocote”734 – perché allora non c’era l’energia elettrica - leggevo quasi tutta la notte per esercitarmi costringendo i miei fratelli ad ascoltarmi e a correggere la mia pronuncia.” La testimonianza di Lucia è assai significativa sulla “questione identitaria” e sulle “maschere“ sociali. Troviamo nelle sue parole come il fatto di negare la propria identità in un momento della vita, soprattutto nell’ età dell’adolescenza, possa essere una scelta strategica per afferrare altre conoscenze e “penetrare” altri spazi, ma in ogni modo le conseguenze a lungo andare diventano problematiche, per cui bisogna trovare il coraggio prima o poi di prendere una decisione. “Per studiare alla “prepa” (scuola superiore) son venuta a San Cristobal, e ho deciso di continuare la stessa strategia: di dire che non parlavo il tseltal. Ma in quel momento, oltre tutto, ho deciso di negare anche la mia identità, dicevo di non essere tseltal. Successivamente 734 È un legno molto combustibile. 330 sono partita a Puebla per l’università e continuavo a negare la mia identità . Da Puebla son dovuta rientrare perché mio padre era molto malato, così costretta a continuare i miei studi di psicologia clinica, qui a San Cristobal, all’università Mesoamericana. Per i primi quattro mesi ho continuato a negare la mia identità, ma quando abbiamo iniziato a fare le dinamiche delle terapie di gruppo, capii che quella negazione mi faceva male e che niente avevo risolto nascondendo la mia realtà indigena. Questo mi ha portato a diverse riflessioni, finché un giorno mi sono detta: “sono stanca di nascondermi, io voglio essere Tseltal, voglio ritornare ad essere quella che ero prima.” Negare la propria identità è una situazione molto traumatica, perchè è vivere con una maschera sociale che ci costringe a giocare molti ruoli: uno a scuola – dove non ero tseltal – un altro nella Comunità e un altro quando andavo per le strade della città con la mia famiglia. Quindi man mano che avanzavo negli studi di psicologia ho iniziato a studiare i cosìddetti “ traumas psicosociales” arrivando al punto di costringermi a prendere la decisione di fare pubblica la mia identità. Volevo tornare a cantare, a urlare, a sentire la mia lingua. Ho avuto un aiuto grande dalla psicoterapia che io stessa applicavo, ma ho avuto anche il sostegno del mio psicoterapeuta Ricardo Carvajal che mi ha spinta ad intraprendere questo percorso. Lui ha messo a mia disposizione tutti gli strumenti e mi ripeteva sempre: “ lo strumento più potente che hai è la tua lingua. Devi ritornare a parlare nella tua lingua”. In quel momento dovevamo presentare una relazione pubblica sull’Autostima, e lui mi ha motivata e sostenuta per decidere di farlo in tseltal. Lui insisteva che io stessa avevo creato la maschera, per cui io stessa ero in grado di indossarla o meno. Così ho preso la decisone di toglierla. Certamente non è stata una decisione facile, perché non basta prendere la decisione, dopo, bisogna avere anche il coraggio di assumere socialmente le critiche e le continue richieste di spiegazioni sui perché di una scelta simile. Assumerla e avere il coraggio di spiegare i tanti perché, così come lo faccio oggi, è stata la mia grande guarigione, ma soprattutto la mia più grande gioia: tornare ad essere Tseltal.” Le parole di Lucia richiamano l’attenzione anche sull’importanza di raccontare la propria esperienza come messaggio educativo per i giovani, indigeni e non, che nei processi migratori anche all’interno dei propri paesi si trovano ancora oggi nella stessa situazione di crisi identitaria in cui si è trovata lei. “Condividere con voi oggi quest’esperienza così con grande serenità è molto significativo, perché ho capito che la mia testimonianza è importante da condividere con altri giovani che magari oggi vivono la stessa situazione. Oltre tutto, mi riempie di soddisfazione assumere questa sfida non soltanto dal punto di vista personale, ma assumerla attraverso l’educazione, e per questo sono qui oggi, per questo faccio anche dei laboratori con i giovani nella Comunità. 331 Così come lo dico ai giovani lo dico anche a voi: la negazione dell’identità non è una scelta volontaria, è una costrizione sociale, dove incide, sì il vissuto personale ma sopratutto il contesto e i giochi di potere della società all’interno della quale ci si relaziona.”735 . . L’Educazione )nterculturale Bilingue nel Contesto Latinoamericano Nel capitolo terzo la “Scuola ufficiale” ho cercato di fare una sintesi dell’evoluzione della scuola ufficiale nei diversi momenti storici, con particolare riferimento al Messico, dando speciale rilievo al punto di vista del vissuto dei diretti protagonisti, i Popoli, che Batalla nel suo libro definisce “Il Messico Profondo.” Ora, riporterò alcuni dei passaggi della relazione presentata da Vicente Limachi Pèrez 736, al XIII Congresso della SOLAR a Cartagena de Indias – Colombia, nonché alcune considerazioni emerse durante i nostri colloqui a Cochabamba nel febbraio 2012. Le riflessione di Limachi sono particolarmente importanti per capire la dinamica del processo evolutivo in materia di politiche educative, considerando la sua esperienza come ricercatore e oggi direttore del “Programma di Formazione ed Educazione Interculturale Bilingue per i paesi Andini” (PROEIB-Andes), che funziona all’Università Mayor di San Simòn, dal 1997 ad oggi. Inoltre il PROEIB-Andes, fa parte dei programmi dell’UII ( Università Interculturale Indigena), gestita dal “Fondo Indigena”737, dando origine al programma di formazione per donne indigene : “Diplomado para el Liderazgo de Mujeres Indigenas”, che coinvolge donne di undici paesi del Centro e Sudamèrica, insieme al “Centro de Investigaciones y Estudios Superiores en Antropología Social (CIESAS) del Messico, dove ho avuto l’opportunità di partecipare come “consulente pedagogica” nel secondo ciclo realizzato a San Cristobal de las Casas, fra novembre e dicembre 2011. Vediamo quindi, cosa ha significato in Bolivia, l’avvio delle politiche riguardanti l’Educazione Interculturale Bilingue. “In Bolivia e in America Latina si fa “educazione bilingüe” 738 da più di sessanta anni. Questo tipo d’educazione è stato accompagnato da diverse ricerche e valutazioni in diversi 735 Storie di Vita, Primo incontro di Intellettuali Indigeni, UNICH. Lunedì 14 marzo 2011. Docente e investigador con maestrìa en educaciòn, director del Programa de Formación en Educación Intercultural Bilingüe para los Países Andinos (PROEIB - Andes). 737 Il “Fondo Indigena” è costituto da 22 paesi; 19 dall’America (Argentina, Belize, Bolivia, Brasil, Cile, Colombia, Costa Rica, Cuba, Ecuador, El Salvador, Guatemala, Honduras, Messico, Nicaragua, Panamá, Paraguay, Perú, Uruguay e Venezuela),e tre europei. (Belgio, Spagna e Portugallo). Vedi: www.fondoindigena.org 738 Cfr. III capitolo di questo elaborato 736 332 paesi come Bolivia, Cile, Colombia, Ecuador, Guatemala, Messico, Paraguay, Perù, fra altri, che rendono conto degli sviluppi, delle difficoltà, dei successi e delle sfide. I dati che presento di seguito riguardano la nostra linea di ricerca: “Estudios evaluativos de proyectos y programas de educación intercultural bilingüe”, realizzata dal PROEIB Andes.”739 Limachi fa riferimento anche alle normative giuridiche che hanno costretto gli Stati ad assumere responsabilità in ambito educativo, nei confronti dei Popoli Originari. Nel 1989 la Convenzione sui Diritti del Fanciullo, riconosce il diritto dei bambini all’educazione, attraverso l’educazione primaria obbligatoria e gratuita per tutti. conseguenza di questa Norma Internazionale, gli Stati Parte hanno Come concordato che l’educazione del bambino dovrebbe essere focalizzata a “ promuovere nel bambino la propria identità culturale, la propria lingua, e i propri valori, nonchè i valori nazionali del paese in cui vive, del paese di cui è originario e delle civiltà diverse della propria ( Art. 29). Cioè, gli Stati in cui esistano minoranze etniche, religiose o linguistiche o persone di origine indigeno, non potranno negare al bambino appartenente a queste minoranze il diritto di avere la sua propria vita culturale, a professare la propria religione o a fare uso del proprio idioma ( Art. 30). In base a questa normativa la Bolivia, come altri paesi, è stata obbligata ad adeguare le proprie politiche educative. Nel caso Boliviano si è avviata la riforma educativa del 1994, verso le popolazioni più vulnerabili.”740 Inoltre, la convenzione ILO 169, sopra citata, ratificata dallo Stato Boliviano con la Legge No. 1257 del 1991, considera come diritto fondamentale per i popoli indigeni l’educazione, secondo quanto stabilito negli articoli 26, 27 e 28. Fra le diverse norme e dichiarazioni internazionali in materia di Educazione, Limachi, riporta come ultima e contundente per quanto riguarda i Popoli Indigeni, la Dichiarazione ONU del 2007 sui “Diritti dei Popoli Indigeni” , i cui articoli più rilevanti in materia di educazione, stabiliscono: “I popoli e gli individui indigeni hanno diritto a non essere sottomessi ad una assimilazione forzata né alla distruzione della loro cultura” (Art.8), stabilendo inoltre che: 1. I popoli indigeni hanno diritto a stabilire e controllare i loro sistemi che impartiscono educazione nei loro idiomi, in consonanza con i propri metodi culturali d’insegnamento e apprendimento. 739 Programa de Formación en Educación Intercultural Bilingüe para los países andinos, que funciona en la Universidad Mayor de San Simón desde 1997 a la fecha. 740 Limachi, Vicente, Relazione presentata a Cartagena de Indias – Colombia (XIII congresso della SOLAR). Settembre 2012. La traduzione è responsabilità di chi scrive. 333 2. Gli indigeni, in particolare i bambini, hanno diritto a tutti i livelli e forme di educazione dello Stato senza discriminazione. 3. Gli Stati adotteranno misure efficaci, insieme ai popoli indigeni, per far sì che le persone indigene, in particolare i bambini, inclusi anche coloro che vivono fuori delle proprie Comunità, abbiano acceso, quando sia possibile, all’educazione nella propria cultura e nella propria lingua. ( Art. 14) In materia d’interculturalità, collegandomi alle riflessioni già riportate da Antonio Genovese, vediamo in parole di Limachi come questa venga interpretata nel contesto Latinoamericano. “La nozione d’interculturalità è emersa quasi contemporaneamente sia in America Latina che in Europa, ma con differenze significative In Europa si tende di più alla nozione di multiculturalità, in America Latina, invece si tende verso la nozione e la pratica dell’interculturalità. Multiculturalità e interculturalità sono due concetti differenti, ma normalmente vengono usati come sinonimi. Quindi è necessario fare qualche chiarimento. La multiculturalità è una nozione descrittiva che fa riferimento alla presenza di culture diverse in un determinato spazio, sia questo locale, n azionale o internazionale e che non sono necessariamente in relazione o starebbero in relazioni conflittuali. La multiculturalità,cioè, si propone di difendere la libertà e l’uguaglianza delle culture, richiede soltanto un atteggiamento di rispetto e tolleranza e in un qualche modo rivendica come atteggiamento complementare, il bisogno di riconoscimento. L’interculturalità, da parte sua è anche essa un concetto descrittivo, ma anche propositivo che fa riferimento alle relazioni complesse e agli scambi fra culture in termini di conoscenze e pratiche culturali diverse. L’interazione fra culture diverse parte dal riconoscimento delle asimmetrie sociali, economiche, politiche e di potere che impediscono all”altro” di essere considerato come soggetto con identità, differenze e diritti. L’interculturalità va oltre il semplice riconoscimento dell’altro, la tolleranza o il rispetto alla differenza, promuovendo processi di scambi dinamici che possano generare incontri e dialoghi fra soggetti di diverse culture che condividono saperi, sensi e pratiche diverse”741 “Quindi , l’interculturalità non è soltanto un paradigma teorico, ma un’ esperienza di vita. Una qualità che sviluppiamo in contatto con l’altro. Questo porta a pensare che non è possibile parlare di una interculturalità, ma è necessario parlare di tante “forme” di interculturalità quante siano le diversità esistenti: etnica, linguistica e culturale. Un elemento per questa considerazione, è il fatto che i diversi attori sociali fanno circolare diversi concetti di interculturalità, alcuni coincidono, altri sono divergenti, ad esempio, per gli Stati essa viene concepita in una prospettiva più vicina alla multiculturalità.” 741 Heise, M., Tubino, F. Y Ardito, W. Interculturalidad, un desafío, CAAP, Lima, 1994, 2da. edición, pp. 7-22. 334 Cosa ha significato questo concetto di interculturalità in Bolivia? In Bolivia, si cerca di trascendere il livello del riconoscimento dell’esistenza della diversità linguistica e culturale per assumere un’interculturalità come opzione filosofica, politica e pedagogica. Per la popolazione di base, principalmente per i rappresentanti dei popoli indigeni, la interculturalità significa dialogo, interazione, convivenza e condivisone dei saperi fra i popoli indigeni e i non indigeni, in parità di condizioni e opportunità, negli stessi spazi di potere. Significa anche partecipazione politica, partecipazione nella presa di decisioni nei diversi ambiti e livelli, cioè, la redistribuzione del potere, implica il ribaltamento dello squilibrio sociopolitico ed economico. Così, gli attori sociali e politici sviluppano il concetto di interculturalità come contestatario al pensiero egemonico e all’omogeneizzazione culturale, ma anche come sfida per riaffermare l’identità etnica, linguistica e culturale. Per questo in Bolivia si è stabilito che il sistema educativo sia intraculturale, interculturale, plurilingue,”descolonizador” e produttivo.”742 Come viene applicata l’Interculturalità in Educazione? “Come accennavo prima, negli anni ‘70, in America Latina e in Europa, nasce questo concetto di “interculturalità” in educazione, ma con differenze tra i due continenti. In Europa è emersa come una necessità di dare attenzione ai lavoratori e alle famiglie migranti che hanno trasformato il tessuto sociale dei contesti urbani. Questo implicava che nelle aule scolastiche si trovavano studenti di diversi gruppi nazionali, etnici e culturali. Mentre in America Latina, il concetto emerge all’interno di progetti di educazione indigena orientato all’attenzione di bambine e bambini che entravano in contatto con una cultura scolastica egemonica. In entrambi i casi, nella pratica l’interculturalità è stata inserita attraverso l’insegnamento delle lingue, siano queste le lingue egemoniche ufficiali o le lingue indigene. Nel caso Europeo, il paradigma interculturale è stato avviato con l’insegnamento delle lingue egemoniche e la tolleranza delle minoranze etniche, nell’intenzione di tendere verso una convivenza democratica, libera da pregiudizi, razzismo e xenofobia nei contesti urbani culturalmente complessi. In ogni modo i risultati tendono normalmente all’assimilazione. Per quanto riguarda L’America Latina, la costruzione di questo concetto d’interculturalità, implica un immaginario di una società multietnica, pluriculturale e plurilingue, con la partecipazione di contributi antropologici, linguisti, intellettuali, leader indigeni, in un contesto Limachi, relazione Congresso SOLAR. Parte dell’intervento è consultabile al linik: www.youtube.com / YolandaAbyaYala/ Tejiendo el Huipil/Congreso SOLAR, Cartagena de Indias, Colombia. 742 335 di ripristino della democrazia e la ricerca dei modi di superare l’esclusione e la emarginazione storica che hanno coinvolto i diversi collettivi (organizzazioni) nazionali. Limachi sottolinea come l’esercizio dell’interculturalità in America Latina abbia un’intenzione altamente politica, guardando all’educazione come a uno spazio strategico di cambiamento. In America Latina, l’interculturalità come traguardo di strategia socio-politica, inizia nell’ambito dell’educazione. A partir da questa si da inizio a processi di cambiamento, soprattutto attraverso “L’educazione Intercultural bilingue”, nell’ambito delle politiche statali rivolte ai popoli indigeni, per questo la popolazione in generale concepisce che questo tipo di educazione e l’interculturalità in sé sia soltanto una questione per indigeni” “In Bolivia la nozione d’interculturalità comincia a prendere forza a partire dagli anni 80, all’interno del “Servicio Nacional de Alfabetización y Educación Popular (SENALEP), anche se sia la nozione di interculturalità sia quella di decolonizzazione siano oggi parole molto usate, sono già state richiamate negli anni ’60, prendendo più forza col “ Manifesto di Tiahuanacu en 1973” e posteriormente con il ritorno del paese alla democrazia negli anni ’80, tempo in cui i movimenti indigeni hanno preso in mano la lotta per le proprie rivendicazioni” “Negli anni ‘ 90 in America Latina si apre un forte dibattito, si disegnano politiche e si dà avvio all’educazione bilingue interculturale (EBI) o la (EIB), educazione interculturale bilingue o “educazione indigena”. A partire da questa decade fino ad oggi la Bolivia conta con una cornice giuridico legale che potrebbe favorire lo sviluppo dell’interculturalità nel sistema educativo. Tuttavia, nonostante tutto l’avanzamento in materia politica e giuridica, ancora oggi si continua faticosamente nei tentativi di sviluppare un’educazione interculturale che sia sostanzialmente diversa da quella multiculturale, alla quale nella pratica si è molto più vicini.”743 Fra Teoria e Realtà Sono state molte le esperienze condivise, sia con adulti che con giovani, in merito all’argomento dell’identità e dell’educazione, ma una delle più importanti, già indicata nel paragrafo “I punti di ricamo del Huipil”,744 è stata quella di avere il privilegio di partecipare al “Primo incontro di Intellettuali e Pensatori Indigeni”, dove ho condiviso la mia storia con le storie di vita di quasi venti docenti indigeni, che in un percorso di profonda riflessività si 743 744 Ibidem Cfr. Capitolo Zero del presente elaborato. 336 sono convocati con l’obiettivo d’interrogarsi sul divenire dell’educazione e di rielaborare la propria Storia. Riprendo le parole di un’altra voce al femminile: Virginia745, insegnante di lingua Ch’ol all’UNICH. “I miei genitori, sia mia madre che mio padre, sono stati insegnanti. Mio padre è bilingue (spagnolo – Ch’ol). Loro hanno dato molta importanza all’educazione; era una priorità che le loro figlie avessero un’educazione “formale”. Loro pensavano e continuano a pensare che essere insegnante fosse l’opzione migliore per noi donne. In casa eravamo quattro femmine e due maschi, ma nonostante i limiti economici la loro idea era quella di “educare” tutti. Uno slogan di mio padre era che noi donne dovevamo studiare per non dipendenre dagli uomini, dovevamo essere autonome economicamente, perchè così – oggi lo dico fra virgolette – “ se per caso arrivavamo al “fracaso746” avevamo i mezzi per sostenerci da sole”. Faccio riferimento a questa nozione di “fallimento”, così, fra virgolette, come vorrei sottolinearlo, perché è un “fallimento” che fa riferimento soltanto a noi donne. Lo discuto anche all’università. Comunque, mi sono ribellata ai desideri di mio padre e non ho voluto studiare per essere insegnante, anche se a quel tempo, come già hanno detto altri compagni, si poteva arrivare ad essere insegnante bilingue senza neanche aver finito la scuola superiore. Così, sono arrivata all’università, alla Facoltà di Scienze Sociali , mi sono laureata e ho partecipato ad alcuni gruppi di ricerca. Successivamente ho vinto una borsa di studio della “ Fondazione Ford” , attraverso il CIESAS ed è così che sono andata a fare il Master alla FLACSO in Ecuador, e quindi, anche tutto questo andirivieni è stato un apprendimento. Sono andata via nel 2002 e sono rientrata in Chiapas nel 2007. Durante tutto il 2009 sono stata sei mesi in Guatemala e sei in Ecuador, sono stata anche qualche mese in Colombia. Diciamo che questo periodo di ricerca attraverso il dottorato è stato molto importante; mi ha permesso di conoscere e fare parte delle diverse strategie politiche ed organizzative delle donne indigene in tre paesi: Messico, Guatemala ed Ecuador. Iscrivermi al dottorato è stata un’opportunità di ritornare in Messico e cercare di avere un modo sicuro di sostenermi, visto che dopo tanto tempo fuori, non era facile ricominciare”. Virginia fa riferimento all’importanza della “restituzione”, cioè alla condivisione che comporta l’impegno etico-sociale nei confronti della propria Comunità, una volta apprese le conoscenze dal mondo Occidentale e dall’università. Un altro aspetto da lei considerato, Virgina è Ch’ol, del municipio di Tumbalà. Antropologa sociale dell’Università Autonoma di Chiapas. Con Master in Studi di genere della FLACSO-Ecuador, e dottoranda (4°. Anno) dell’Università Autonoma Metropolitana – Messico DF, insegnante all’UNICH. 746 Fa riferimento ad un matrimonio “fallito” o al fatto di rimanere incinta senza avere un marito. 745 337 riguarda la necessità di mettere fine al periodo del “ventriloquo”, quello che ha sempre parlato, dall’epoca coloniale ad oggi, degli “indios”; un richiamo anche da parte sua a prendere la situazione in mano, cioè, a passare da quella “condizione data” alla “destinazione prescelta”. “Tornare in Messico, ha comportato anche il ritorno alla mia Comunità, là vivono mia mamma e le mie sorelle. Questo ritorno mi porta a domandarmi: “Cosa posso restituire al mio Popolo, alla mia Comunità?”. La risposta è quasi una scelta obbligata: coinvolgermi nei processi Comunitari, motivo per cui sono interessata a questo incontro , convocato e gestito da noi stessi. Il fatto di esserci riuniti e che fra i diversi docenti indigeni ci sia anche una preoccupazione costante di cambiamento, significa che a muoverci è un interesse, una sensazione urgente di fare presenza. Questo è uno degli argomenti su cui sto lavorando anche nella mia tesi di dottorato: la fine del “ventriloquismo”: mettere fine a quella tradizione con cui tutte le discipline hanno parlato di noi, i popoli: come ci vestivamo, cosa mangiavamo, come pensavamo. Quindi, mi domando se veramente è passato il periodo del “ventriloquo”. Riflettere se è arrivato il momento che noi stessi prendiamo in mano la nostra condizioni di popoli, non soltanto attraverso la parola e arrivando negli spazi accademici, ma anche, e soprattutto negli spazi politici, è una necessità; perciò questo scenario, qui all’interno dell’università, è uno spazio che dobbiamo mantenere, potenziare e promuovere.”747 Di questo Primo incontro d’intellettuali indigeni ci sono molte storie da condividere; scegliere su quali soffermarmi non è stato facile perchè tutte racchiudono in ogni sospiro un vissuto che si fa memoria viva nelle parole di chi racconta. A continuazione, la testimonianza di un insegnante che si autodefinisce “l’eterno studente di filosofia”. Anche lui docente all’UNICH. “Sulla mia formazione vi posso dire che un giorno, senza volere, ho conosciuto alcuni sacerdoti che oltre a sacerdoti erano anche intellettuali. Questo è stato un momento storico per me. Così ho preso la decisione di studiare filosofia con loro. Io mi chiedevo perché queste persone dovessero essere esiliate di paese in paese, ma un giorno gliel’ho chiesto e mi hanno detto “un nostro compagno è stato assassinato perchè stavamo costruendo spazi di socializzazione per i giovani”, allora mi son chiesto: “ma perché l’hanno ammazzato?” , e da solo mi son risposto: “l’hanno ammazzato perché faceva un qualcosa per e con gli altri”. 747 Storie di Vita al “ I incontro di Intellettuali Indigen”. UNICH.Lunedì 14 marzo 2011 338 Quindi ho pensato: “ se devo morire perché un giorno viene uno tsunami, “pos” posso decidere di morire come lui: facendo qualcosa per e con gli altri”. Così a vent’anni ho deciso che volevo formarmi e mi sono formato con questi tizi. Ho studiato, otto, dodici, quattordici anni, senza titoli, però vedevo che ero in grado di coordinare le tesi di dottorato di molti studenti delle Università ufficiali. Non mi sono mai chiesto se dovevo avere dei titoli ma ho visto che, insieme ad altri compagni, stavamo guadagnando degli spazi. Io avevo lavorato anche nell’industria e quindi ho fatto esperienza e ho imparato anche dal movimento operaio.” Questa testimonianza si riferisce a quanto siano stati significativi, nel suo processo formativo, gli insegnamenti appresi nella Scuola della Vita, dove ha imparato l’importanza della pazienza e dell’ascolto. “Dopo due anni sono entrato in un’altra fase di apprendimento, con gli indigeni. Con loro ho imparato a camminare. Camminare dodici, quattordici ore di seguito fra le montagne, quell’apprendistato mi è servito per imparare a cadere e imparare a rialzarmi, mi è servito per la vita. Mi è servito a capire che l’apprendistato grande nella vita è quello che serve a partorire speranze e a risolvere problemi. Così ho visto che quello che stavo imparando era il contatto umano. Ho imparato che la pedagogia non era una cosa strettamente metodologica, coperta dalla semantica e didattica occidentale, ma che era una questione che aveva a che fare con il cuore. Io mi sono laureato in Scienze Sociali, ma con il nuovo apprendistato ho imparato a vedere come la sofferenza crea coscienza, come si impara la pazienza e come l’ascolto.” Un’altra delle riflessioni importanti di questa testimonianza riguarda il fatto di riconoscere la possibilità di riscatto nell’educazione superiore, attraverso l’università, dove si possono apprendere degli elementi importanti per i loro processi di resistenza, ribadendo però, che prima bisogna imparare ad Ascoltare le parole del Cuore e la sua Sapienza. “Qui, purtroppo, le scuole non formano le comunità ma le “deformano”; dall’università, però, si possono imparare elementi importanti per la resistenza culturale. Io non ho valorizzato quello che potrebbe rappresentare il fare un dottorato, non mi interessa perché sono consapevole che andrei controcorrente. Sarebbe un qualcosa come una tortura. Vedo alcuni amici che hanno fatto questa scelta e mi fanno compassione, e quindi, meglio evitare questa tortura perché può creare rabbia e superbia che molte volte non si possono scaricare e questo fa male. Poi mi viene la delusione di vedere molti compagni indigeni che hanno studiato e arrivano agli ambienti politici a rubare, dico la verità: “ non vorrei essere come loro”. 339 Ci sono altre alternative che sono molto interessanti, per esempio le proposte di educazione del movimento Zapatista, dalle quali possiamo imparare molto. In ogni modo, la cosa importante è appropriarsi di alcuni elementi del pensiero dominante per costruire il nostro proprio modello di scuola e per questo bisogna imparare ad ascoltare le parole del cuore. Quando avremo imparato ad Ascoltare, avremo imparato la sapienza del cuore, che è una cosa molto più profonda dell’informazione. Ce n’è molta d’informazione.”748 Per quanto riguarda invece la situazione in Argentina, riporto un’altra testimonianza raccolta durante la mia visita alla città di Jujuy, nelle parole di Victor Tolaba, docente Guaranì. “Qui in Argentina, il Guaranì lo chiamano “chauanco” in modo dispregiativo, allora io non volevo ammettere di essere guaranì. Per questo fra i 10 e i 19 anni, ero discriminato e non parlavo la lingua, negavo la mia identità, non mi identificavo come indigeno, dicevo che ero Argentino. Ho recuperato la lingua all’età di 19 anni e dopo non l’ho più negata, col tempo ho imparato ad amarla a volerle veramente bene. Quando non parlavo liberamente Guaranì, era come se avessi perso il mio spirito, non avevo voglia di fare nulla. equilibrio, Oggi invece, al riconoscermi Guaranì, sento che ho ritrovato il mio sento che posso mettermi in gioco e raccontarmi, coinvolgere altri giovani in questo processo di recupero della loro identità. Esser sicuro della propria identità e sentirsi più forte dentro è una gioia grande, è sapere da dove veniamo, chi siamo, ma è una cosa che bisogna vivere e sentire, non soltanto dire. Questo ancora oggi in Argentina non è così chiaro. Ci sono ancora molti fratelli guaranì che non vogliono ammettere la loro identità. É ancora una questione sociale di discriminazione molto forte. Siamo preparati ad essere argentini ma non ad essere quello che siamo. L’argentino prima di tutto è prodotto di una base territoriale, una base di Popoli Originari anche se la maggioranza degli argentini non lo vuole ammettere.”749 Sull’argomento dell’interculturalità sia in Europa che in Bolivia, ho avuto opportunità di intervistare Claudia Stengel750, la cui testimonianza ritengo particolarmente significativa in questo contesto, considerando la sua condizione di cittadina tedesca con oltre quindici anni di esperienza in educazione sia in Argentina che in Bolivia. “Il problema è che l’educazione non risponde, in Europa, come non risponde in America Latina, al discorso interculturale, soprattutto a livello dell’educazione universitaria, per cui, Storie di Vita, I incontro d’intellettuali indigeni, UNICH. Lunedì 24 marzo 2011 Intervista con Victor Tolaba, docente Guarani, con master in educazione. Jujuy. Marzo 2012, consultabile al link: www.youtube.com /YolandaAbyaYala/ Jòvenes identidades de Abya Yala/ Vìctor Tolaba, Pueblo Guaranì/ 750 Laureata in Pedagogia, funzionaria dell’agenzia di cooperazione internazionale GTZ in Bolivia. 748 749 340 per riuscire a connettere pensieri diversi, ci vogliono epistemologie diverse. Per esempio in Asia o Africa esistono altre università che applicano altre epistemologie. In India esistono università che funzionano con parametri diversi da quelli dell’accademia classica greca. Sono Università che hanno un’altra forma di costruzione e trasmissione della conoscenza. Ma dopo tutte queste alternative “altre” si ritrovano in Occidente con il problema di convalida dei titoli. Quindi, ribadisco, una struttura che connette dovrebbe passare per la conoscenza e il riconoscimento di altre epistemologie. Dobbiamo interrogarci a che livelli la conoscenza altra viene riconosciuta dall’Occidente, forse anche le scale di valutazione non sono le più adeguate. Per cui, riuscire ad avere una valutazione inclusiva e un processo di riconoscimento sarebbe una priorità. L’Europa può funzionare, magari, per noi Europei e magari siamo felici con questo sistema, ma non può funzionare per il resto del mondo.” In merito al processo in Bolivia, Claudia si mostra un po’ scettica e queste sono le sue parole. “Per me il processo in Bolivia è ancora un processo soltanto sulla carta. Inoltre non mi sembra un processo inclusivo, penso che si stiano sprecando degli spazi d’inclusione delle diverse conoscenze, anche perchè il curricolo educativo è stato costruito soltanto con la partecipazione di una parte del settore educativo, e quindi le cose buone che potrebbe avere questa proposta non hanno legittimità , principalmente nel settore che lo dovrebbe mettere in pratica, che è appunto, il settore educativo (...) Diciamo che la proposta Accademica mi sembra troppo romantica, molto lontana dalla realtà.”751 5.1.4 La Pedagogia Interculturale in Italia In Italia, come riportato da Antonio Genovese752, lo sviluppo della prospettiva interculturale prende avvio con l’arrivo di immigrati e l’estendersi dei flussi migratori, che a partire della metà degli anni Ottanta del secolo scorso, hanno imposto nella riflessione pedagogica, oltre alla necessità di confrontarsi con le problematiche delle differenze culturali derivate dall’arrivo degli stranieri, anche con i cambiamenti in atto nel mondo globalizzato. In merito, l’analisi di Genovese: “ Se la presenza di allievi stranieri nelle scuole è stata una spinta rilevante alla nascita della pedagogia interculturale in Italia, l’arrivo degli “stranieri” non è stata l’unica causa; anzi, come abbiamo visto in relazione allo sviluppo della multiculturalità nei paesi a capitalismo 751 Intervista realizzata a La Paz – Bolivia, febbraio 2012. Genovese, A., Per Una Pedagogia Interculturale, op. cit. p. 186 752 341 avanzato ( i cosìddetti Paesi a Sviluppo Avanzato, PSA), è la realtà del mondo Globalizzato che, indipendentemente dall’arrivo degli stranieri, ci costringe a vivere in una dimensione in cui il nostro orizzonte culturale si allarga continuamente” ..(..) Il rapporto con le altre culture e con la differenza va affrontato,dunque, su due registri ben distinti e differenti: a) come “emergenza sociale” che deriva, in ambito educativo, sia dai ricongiungimenti familiari che gli immigrati (uomini o donne che fossero) hanno attuato richiamando nel nostro paese i propri nuclei familiari, sia dalla nascita in Italia di bambini appartenenti a famiglie immigrate; b) ma soprattutto, dal mio punto di vista, come compito politico, cioè come incontro/confronto democratico e nonviolento che nasce dal vivere oggi in un contesto di vita che si è trasformato ( piaccia o no) in senso multiculturale. Certo, il primo ( l’accoglienza dell’altro) è più urgente proprio perché riveste i caratteri dell’emergenza e richiede un’operatività quasi immediata; l’altro (convivere con le differenze), anche se necessita di tempi più lunghi, riveste, però, un carattere “strategico” perché rappresenta le risposte che saremo in grado di costruire allo sviluppo dei processi di globalizzazione, d’interdipendenza e di comunicazione a livello internazionale.”753 Nello scenario pedagogico che costruisce un contesto di “convivenza con le differenze” come compito politico, riporto l’opera di Boaventura di Sousa Santos, sottolineando che nel suo pensiero, non si parla soltanto di una “convivenza”, ma della necessità, nonché dell’opportunità, di costruire delle nuove “epistemologie” come alternativa al pensiero dominante e coloniale che ha caratterizzato l’Occidente. 5.2 ECOLOGIA DE SABERES y EPISTEMOLOGIAS DESDE EL SUR In questa prospettiva, dedicherò l’ultima parte di questo elaborato, facendo riferimento a quella che Boaventura ha definito l’“Ecologia dei Saperi” attraverso la valorizzazione e il dialogo interculturale con le “Epistemologie del Sud”. Per introdurre nello scenario del dibattito epistemologico il pensiero di Boaventura, riporto un’intervista intitolata “Passaggio epistemologico al Sud Globale”754, pubblicata in occasione del “IX Foro Sociale Mondiale” a Belèm Do Parà, Brasile, 2009. D- “Lei ha sostenuto che la resistenza politica alla globalizzazione egemonica deve basarsi sulla resistenza epistemologica755, e che il World Social Forum solleva questioni che possono 753 Ivi, p. 186 De Sousa Santos Boaventura. “Il manifesto”. Intervista di Giuliano Battiston. Mercoledì 28 gennaio 2009. Pag. 13. www.boaventuradesousasantos.pt/media/Il%20Manifesto_28Jan09.pd 755 Il grassetto è mio 754 342 essere riassunte nell’idea che «non vi è giustizia sociale globale senza una giustizia cognitiva globale». Cosa intende quando suggerisce di decolonizzare anche il pensiero e le pratiche della sinistra, per «imparare dal sud attraverso una epistemologia del sud»? R- “Se intendiamo avanzare una critica realmente radicale alle forme di sapere egemoniche,dobbiamo essere in grado di suggerire delle alternative alla cornice eurocentrica e nord-centrica, e riconoscere che l’epistemologia non può essere spiegata soltanto in termini epistemologici. L’epistemologia infatti è contestuale, legata alle condizioni storiche in cui prende corpo e a particolari agenti, e dietro una certa concezione epistemologica molto spesso ci sono idee promosse con la forza: non la forza delle idee, ma le idee della forza, della potenza militare, inclusa quella del colonialismo e del capitalismo. In questo senso, per rinnovare il pensiero epistemologico dobbiamo cominciare dalle esperienze degli oppressi, da ciò che definisco come «sud globale». Non il sud inteso in termini geografici, ma il sud come metafora per indicare chi più subisce gli effetti del capitalismo.” “Dobbiamo partire dalla loro esperienza cognitiva, da quel che pensano, dalle loro nozioni relative al modo in cui la società si muove o dovrebbe muoversi, perché solo attraverso questa operazione epistemologica possiamo apprendere forme di sapere più complesse e scoprire aspetti sconosciuti delle nostre società. Quelle forme di sapere infatti non sono disciplinari, non sono prodotte nelle «istituzioni » (le nostre università sono istituzioni reazionarie dove vengono confinate anche le idee rivoluzionarie), nascono da premesse molto diverse, sottopongono a critica molti dei concetti eurocentrici, compreso quello di democrazia, ed elaborano nozioni che non sono disponibili nelle lingue coloniali e nel nostro immaginario. Abbiamo bisogno di nuove idee, soprattutto ora che il neoliberalismo si sta suicidando: l’epistemologia del sud è un modo per afferrare la ricchezza delle esperienze sociali senza che vada dispersa. Per fare questo, come lei stesso ha sottolineato, è però necessario avviare un dialogo interculturale, operare una continua traduzione tra diverse pratiche e saperi critici ed elaborare una teoria della traduzione che crei intelligibilità reciproca, riconoscendo la diversità «non come fattore di frazionamento e isolamento, ma piuttosto come fattore di condivisione e solidarietà». D- Ci può dire qualcosa di più a proposito del concetto di traduzione interculturale? R- “Secondo alcuni, non si può mai stabilire un vero e proprio dialogo tra culture perché queste sarebbero incommensurabili, mentre secondo altri esisterebbero delle costanti universali. Le differenze culturali sarebbero più superficiali di quanto non appaia, e si tratterebbe soltanto di trovare il giusto procedimento. 343 Io sostengo invece una terza posizione, secondo la quale non esistono vere incommensurabilità,ed è dunque possibile intrattenere una dialogo interculturale, a patto però che si stabiliscano adeguate condizioni; ma sostengo anche che ci sono cose che non possono essere tradotte senza residui. Pensiamo per esempio al concetto di ubuntu nelle culture subsahariane, per il quale non disponiamo di equivalenti, perché la cultura occidentale ha talmente reificato la divisione tra natura e cultura da non essere più in grado di riconoscere nella natura la nostra Terramadre. In linea generale, dunque, dovremmo cercare di creare intelligibilità reciproca756 senza eliminare le specificità culturali, creando dei terreni sui quali sia possibile comprendere le differenze e al contempo capire ciò che rimane in comune pur usando lingue differenti. Lo scopo non deve essere l’intrattenimento intellettuale, ma stabilire alleanze tra movimenti sociali. Solo così potremmo combattere il capitalismo e il colonialismo su scala globale. D- Secondo la sua analisi, il pensiero occidentale moderno sarebbe un «pensiero abissale», perché fondato su un sistema di divisioni e distinzioni visibili e invisibili, nel quale le divisioni visibili costituiscono il fondamento di quelle visibili. Ci può spiegare meglio cosa intende? R- “Il pensiero abissale è una disposizione intellettuale, filosofica e politica, che si traduce nella capacità di tracciare linee attraverso le quali istituire divisioni radicali all’interno della realtà, rendendone una parte «riconoscibile», rispettata, rilevante, e condannando tutto il resto all’irrilevanza e all’inesistenza. È una pratica strettamente connessa al colonialismo: nel capitalismo, infatti, la linea che divide i lavoratori dai capitalisti non deve essere abissale, perché per poter essere sfruttati i lavoratori devono essere visibili e riconoscibili, altrimenti l’economia capitalista non funzionerebbe; i contadini, le popolazioni indigene, le donne, tutti coloro che non sono «direttamente» sfruttati dal capitalismo invece possono essere facilmente dimenticati in quanto non esistenti. E la stessa operazione si applica alle forme di conoscenza e ai modi di organizzazione sociale. A partire dal XVI secolo, in particolare, tutto le regole che vengono applicate nel «vecchio mondo», non valgono per il «nuovo mondo», dove una linea abissale divide i «selvaggi», gli indigeni dal resto. Nelle colonie dunque non è mai valsa la tensione tra regolamentazione ed emancipazione sociale, che caratterizza invece il nord globale, ma soltanto quella tra appropriazione e violenza. E questa divisione continua ad operare ancora oggi: il colonialismo infatti non è cessato con la fine del colonialismo politico, ma prosegue, insieme al razzismo, che si definisce proprio per la capacità di disegnare linee abissali dichiarando irrilevante chi si trova «al di là» della linea. D’altra parte, la dicotomia appropriazione-violenza sta contaminando anche l’altro paradigma socio-politico. Negli ultimi anni l’emancipazione, che ha sempre rappresentato il polo opposto della regolamentazione, è 756 Il grassetto lungo il testo è mio 344 diventata l’«altro» della regolamentazione, il suo doppio. La «democrazia sociale», come la intendiamo in Europa, originariamente intesa come orizzonte di emancipazione, è divenuta una forma di regolamentazione sociale per il capitalismo, e dopo il 1989 ha perso anche il suo volto umanitario, dimenticando le politiche sociali.” Riporto anche il pensiero del professore Ramòn Grosfoguel 757, il quale in sintonia con la proposta di Boaventura, parla della necessità di una politica radicale e dell’articolazione di un discorso critico che vada oltre il nazionalismo e il colonialismo. GroSfoguel propone di superare i paradigmi dell’economia politica e degli studi culturali, partendo dal criterio che “colonialità” e modernità sono due facce della stessa moneta. Di seguito alcuni punti dell’intervista realizzata da due studenti di dottorato758 , punti a mio avviso, centrali nell’analisi delle considerazioni con cui andrò avanti, in riferimento al pensiero di Boaventura. “ Grosfoguel, propone una prospettiva epistemica da una geopolitica della conoscenza alterna alla differenza coloniale. Sintetizza la critica a la epistemologia eurocentrica egemonica, che prende un punto di vista universalista, neutrale e oggettivo. In questo modo, nella filosofia delle scienze occidentali il soggetto rimanendo nascosto, coperto e cancellato dall’analisi: “l’epistemologia del punto zero”, si rappresentano se stesse senza punto di vista, come se fosse “l’occhio di Dio”. Questa prospettiva, inaugurata con Cartesio come “ego politica della conoscenza”, nutrita da 150 anni del “Io conquisto, quindi sono”. Ma le prospettive epistemiche che nascono dalle alterità razziali, etniche, de genere e di classe, ci avvertono che i nostri pensieri sono situati, cioè, stiamo sempre parlando in riferimento ad una “localizzazione” particolare nelle relazioni di potere. Di conseguenza – prendendo le riflessioni filosofiche di due argentini Rodolfo Kush759 e Enrique Dussel760 –l’epistemologia ha colore e sessualità, ha “localizzazione” geopolitica e “corpo/politica.761” Post-Doctoral, Fernand Braudel Center/Maison des Sciences de l‘Homme, Paris, France, 1993-4. PhD, Sociology, Temple University, 1992. MA, Urban Studies, Temple Univerisity, 1986. BA, Sociology, University of Puerto Rico, 1979. www.ethnicstudies.berkeley.edu/faculty/profile.php. La traduzione è responsabilità di chi scrive. 758 Angélica Montes Montoya: Magister en Estudio de Sociedades latinoamericanas de la Universidad Sorbona III; Candidata a Doctora en Filosofía Política de Paris VIII (en co-tutela con la Universidad de Antioquia). Correo electrónico: angmon11@yahoo.com / Hugo Busso: Magister en Estudio de Sociedades latinoamericanas de la Universidad Sorbona III ; Candidato a doctor en Filosofía de la Universidad de Paris VIII. Correo electrónico: habusso@hotmail.com. La traduzione è responsabilità di chi scrive. 759 Günther Rodolfo Kusch. Buenos Aires ( 1922-1979). Profesor de Filosofia de la Universidad de Buenos Aires en 1948. Trabajò en la direcciòn de “Psicologia Educacional y Orientaciòn Profesional del Ministerio di Educaziòn de la Provincia de Buenos Aires”. 760 Enrique Dussel è considerato uno dei grandi pensatori contemporanei, il punto di riferimento del pensiero latino americano. È il principale esponente della "filosofia della liberazione" latino-americana. Argentino di Mendoza (1934) ha studiato in Europa filosofia e teologia. Giovanissimo ha deciso di fare un viaggio alla scoperta delle radici del cristianesimo andando in autostop in Terrasanta. Lavorò come carpentiere a Nazareth per tre anni dopodiché rientrò in Germania e si sposò.- Decise di tornare in Argentina ma nel 1973 subì un attentato e per miracolo riuscì a sopravvivere ad una bomba che 757 345 D- : Profesor Grosfoguel, ¿Cos’è la “colonialità” del potere ? RG- “Il colonialismo è diverso al concetto di “colonialità”. Il colonialismo è l’usurpazione della sovranità di un popolo ad un altro popolo, attraverso la dominazione politico-militare sul loro territorio e sulla popolazione, mediante la presenza di un’amministrazione coloniale.” …(..) “La “colonialità”, fa riferimento ad un modello di potere che si inaugura con l’espansione coloniale europea a partire del 1492 dove l’idea di razza e la gerarchia etnorazziale globale attraversa tutte le relazioni sociali esistenti: la sessualità, il genere, la conoscenza, la classe, la divisione internazionale del lavoro, l’epistemologia, la spiritualità, ecc, e che continua vigente anche se le amministrazioni coloniali sono state sradicate dal pianeta. Per esempio il patriarcato non si può intendere nella sua complessità se non capiamo come la “colonialità” del potere lo attraversa e lo trasforma.”762 D- “Se non volessimo chiamare gli indigeni con quel termine, come dovremo chiamarli? O non dovremmo nominarli? Sarebbe molto più universale dire che un paese si compone soltanto di uomini e donne e così potremmo evitare le categorie di nero, indio, bianco, ecc.?” RG: “No, le categorie come negro, indio, bianco prima del 1492 non esistevano, sono categorie del mondo coloniale e della modernità eurocentrista. Prima del 1492 nessuno si definiva come bianco in Europa, nessuno si chiamava negro in Africa e nessuno indio in America Latina, queste sono categorie coloniali. Una volta costruite, manifestano la creazione di un mondo di diseguaglianze sociali molto diverso dai sistemi-mondi di prima.”..(..)763 Riporto inoltre alcune riflessioni dello stesso Grosfoguel, che analizza la “visione decoloniale” di Frantz Fanon e la “Sociologia decoloniale” di Boaventura. Con questo spero di rendere chiara la proposta di Boaventura: “L’ecologia dei Saperi” nella sua portata epistemologica, sottolineando che è una proposta politica chiara che non si sofferma sulla definizione di “concetti” o “categorie”. “L’opera di Boaventura de Sousa Santos costituisce un contributo fondamentale alla “decolonizzazione” delle scienze sociali. Il suo lavoro è esempio di una teoria critica “de- coloniale” prodotta in Europa, in dialogo critico con il pensiero del Sud Globale. …(..) gli sventrò la casa. Si sottrasse alla repressione dei golpisti nel 1976 riparando in Messico, dove tuttora insegna, nell'università statale della capitale. www.zam.it/biografia_Enrique_Dussel. 761 Montes Montoya Angèlica y Hugo Busso, « Entrevista a Ramón Grosfoguel », Polis [En línea], 18 | 2007, Puesto en línea el 23 julio 2012, consultado el 14 enero 2013. URL : www.http://polis.revues.org. 762 Ibidem 763 Ibidem 346 De Sousa Santos parte del principio che “la comprensione del mondo è molto più ampia che la comprensione occidentale del mondo”. La sua sociologia è una rottura con l’universalismo eurocentrico, richiamando alla produzione di un’epistemologia del Sud attraverso un’ecologia dei saperi “Altri” prodotti nel e dal Sud. L’ecologia dei saperi è un principio epistemico fondamentale nell’opera di Sousa Santos che costituisce il punto di partenza dialogico che permette di scappare dal monologo monoculturalista eurocentrico.”764 Grosfoguel continua con l’analisi fra il pensiero di Fanon e Boaventura De Sousa Santos, arrivando al concetto di quest’ultimo di “linea abissale”, nell’intenzione di mettere alla luce le relazioni di potere. “Per De Sousa Santos (2010) nella modernità esiste una “linea abissale” fra gli abitanti al di sopra di questa linea e gli abitanti sotto di essa. Se traduciamo questa linea come la linea dell’umano e chiamiamo “zona dell’essere” gli abitanti che abitano al di sopra della “linea abissale” e “Zona del non essere” arricchire il nostro intendere quelli che abitano al di sotto di questa linea, possiamo la modernità e il suo sistema-mondo capitalista/imperialista/patriarcale/razziale coloniale che abitiamo”. “ Per De Sousa Santos la maniera in cui si gestiscono i conflitti nella zona dell’essere (al di sopra della “linea abissale” è attraverso quello che lui chiama “meccanismi di regolazione ed emancipazione.” L’emancipazione fa riferimento a concetti di libertà, autonomia e uguaglianza che fanno parte dei fini discorsivi, istituzionali e legali della gestione dei conflitti nella zona dell’essere”. “Contrariamente, come afferma De Sousa Santos (2010), è nella zona del “nonessere”, della “linea abissale”, dove le popolazioni sono disumanizzate nel senso di essere considerate al di sotto della linea dell’umano. “I metodi usati per l’”Io” imperiale/capitalista/mascolino/eterosessuale e il suo sistema istituzionalizzato per gestire e amministrare i conflitti, sono stati sempre attivati attraverso la violenza e l’appropriazione aperta e sfacciata . Come tendenza, i conflitti nella zona del “non-essere” sono gestiti dalla violenza perpetua e soltanto in momenti eccezionali vengono usati metodi di regolazione ed emancipazione.” “La zona dell’essere ed il non-essere non è un luogo geografico specifico, se non un posizionamento nei rapporti razziali di potere che avviene su scala globale fra centri e periferie, ma che accadono anche su scala nazionale e locale contro i diversi gruppi radicalmente interiorizzati.”765 764 Grosfoguel, Ramòn, La descolonizaciòn del Conocimiento: Dialogo critico fra la visione decoloniale di Frantz Fanon e la Sociologia Decoloniale di Boaventrua di Sousa Santos. Departamento de Estudios Étnicos, Berkeley University, Estados Unidos.Integrante del Grupo Modernidad / Colonialidad. Pp. 97- 108. www.iepala.es/.grosfogu@berkeley.edu. 765 Ibidem 347 In questo dialogo fra Frantz Fanon e Boaventura, prosegue Grosfoguel, con la seguente domanda. “Quale la rilevanza della zona dell’essere e della zona del non-essere per la discussione riguardo la decolonizzazione epistemica in lotta contro l’eurocentrismo? Nel rispondere a questa domanda, Grosfoguel fa riferimento alle parole di Anibal Quijano,766 “La decolonizzazione epistemica, implica la disconnessione dall’eurocentrismo”, domandandosi nello specifico ” a che cosa faccia riferimento esattamente questo “disconnettersi. Prosegue con un’analisi ampia che può essere consultata nel link di riferimento, di cui però, riporto una parte essenziale per arrivare al punto dell’ “ecologia dei saperi” proposta da Boaventura. “ L’inferiorità è razziale nella zona del “non-essere”, accade non soltanto in rapporto con i processi di dominazione e sfruttamento nelle relazioni di potere economiche, politiche e culturali, ma anche nei processi epistemologici. …(…) ..(..) Perciò, una conseguenza importante che deriva da questa discussione è che il progetto di decolonizzazione epistemica implica una disconnessione sia dalle teorie di destra che da quelle di sinistra prodotte dalle esperienze sociali della “zona dell’essere” che sono cieche verso l’esperienza sociale della zona del “non-essere”. Quindi, la decolonizzazione deve essere costruita a partire da una teoria “decoloniale” che faccia visibile le esperienze sprecate e rese invisibili dalle teorie nordico -centriche della “Zona dell’essere”. delle assenze” e È qui che “la sociologia “la sociologia delle emergenze” di Boaventura De Sousa Santos costituiscono una contribuzione fondamentale alla decolonizzazione delle Scienze Sociali”767 Alla “Sociologia delle assenze” e alla “Sociologia delle emergenze”, Grosfoguel dedica ampio spazio riprendendo gli aspetti più rilevanti della “Sociologia decoloniale” di Boaventura, a continuazione proseguo in questa accurata analisi, che reputo necessaria per continuare verso “l’ecologia dei Saperi” proposta da Boaventura, alla quale mi propongo di arrivare. In merito le parole di Boaventura di Sousa Santos, riportate da Grosfoguel (2006) 766 Anibal Quijano è sociologo peruviano. Direttore del "Centro de Investigaciones Sociales" di Lima, dirige l'"Anuario Mariateguiano" ed è professore presso il Dipartimento di Sociologia della Binghmanton University. 767 Grosfoguel, R.- op. cit. p. 101 348 “La razionalità che domina nel Nord ha avuto un’influenza enorme in tutti i nostri modi di pensare, nelle nostre scienze, nei nostri modi di concepire la vita e il mondo. Questa razionalità – seguendo Gottfried Leibniz– la chiamo “indolente, pigra”. ..(..)768 “La ragione indolente si manifesta in due forme importanti: la ragione metonimica e la ragione prolettica ( De Sousa Santos:2006). La ragione indolente ha quindi doppia caratteristica: In quanto ragione metonimica, contrae, sminuisce il presente; in quanto ragione prolettica, espande infinitamente il futuro. E quello che vi propongo è una strategia opposta: espandere il presente e contrarre il futuro. Ampliare il presente per includere in lui molte più esperienze e contrarre il futuro per curarlo. Bisogna contrarre il futuro e, allo stesso tempo, ampliare il presente. È una procedura epistemologica che possiamo vedere insieme come fare. Per combattere la ragione metonimica Boaventura propone la “ sociologia delle assenze” che amplia il presente per fare visibili le esperienze sprecate e rese invisibili dalle teorie sociali nordiche ( De Sousa Santos:2006)769 De Sousa Santos identifica cinque modi attraverso i quali si producono queste “assenze”, elaborate dalla razionalità occidentali e riprodotte dalle scienze sociali: i) monocultura del sapere e del rigore: “l’idea che l’unico sapere rigoroso è il sapere scientifico, per cui, altre conoscenze non hanno la validità e il rigore della conoscenza scientifica; ii) monocultura del tempo lineare: “ l’idea che la storia ha un senso, una direzione e che i paesi sviluppati siano davanti”; iii) monocultura della naturalizzazione delle differenze: “ che occultano le gerarchie, delle quali la classificazione razziale, etnica, sessuale e delle caste in India, sono oggi le più persistenti; iv) monocultura della scala dominante: “la razionalità metonimica ha l’idea che esiste una scala dominante nelle cose. Nella tradizione Occidentale, questa scala dominante ha avuto storicamente due nomi: Universalismo, e ora, globalizzazione”; v) monocultura del “prodottivismo” capitalista: “l’idea che la crescita economica e la produttività misurata in un ciclo di produzione determinano la produttività del lavoro umano o della natura, e che tutto quello che c’è in più non conta”.770 L’uscita che De Sousa Santos propone con la sua sociologia delle assenze, è affrontare queste cinque monoculture con cinque ecologie che permettano di ribaltare la situazione di invisibilità e creare la possibilità di trasformare quello che è prodotto come assente per farlo presente. Queste sono le cinque ecologie:771 768 Santos, in Grosfoguel, op. cit. Ivi, pag. 104 770 Cfr. De Sousa Santos, Ibidem 771 Ibidem 769 349 1. Ecologia dei Saperi: “la possibilità che la scienza non entri come monocultura se non come parte di un’ecologia più ampia dei saperi, dove il sapere scientifico possa dialogare con il sapere laico, con il sapere degli indigeni, con il sapere delle popolazioni urbane marginali, con il sapere contadino.” 2. Ecologia delle temporalità: “sapere che anche se il tempo lineare è uno, esistono altri tempi.” 3. Ecologia del riconoscimento: “decolonizzare le nostre menti per potere produrre qualcosa che distingua, in una differenza, quello che è prodotto delle gerarchie e quello che non lo è. Soltanto dobbiamo accettare le differenze che rimangano dopo che le gerarchie siano state scartate.” 4. Ecologia della trans- scala: “la possibilità di articolare nei nostri progetti le scale locali, nazionali e globali.” 5. Ecologia delle produttività: “ consiste nel recupero e valorizzazione dei sistemi alternativi di produzione delle organizzazioni economiche popolari, delle cooperative operaie, delle imprese autogestite, dell’economia solidale, ecc, che l’ortodossia produttivistica, capitalista, ha occultato o screditato.”772 Nella sua analisi Grosfoguel, mette in evidenza un altro dei concetti chiave nell’elaborazione di Boaventura, il concetto di “Traduzione”. ( De Sousa Santos: 2010) “ La traduzione è fondamentale per tendere ponti fra i diversi movimenti sociali. Senza la traduzione non è possibile capire né rispettare le differenze. Non si tratta di avere commensurabilità assoluta nei processi di traduzione. Esistono molte cose intraducibili per esser incommensurabili. Tuttavia, questo non scarta spazi di traduzione, negoziazione e rispetto che permettano di agire politicamente insieme partendo dalle differenze di situazioni e progetti politici. Ma la traduzione non è soltanto un lavoro politico se non anche 773 intellettuale.” Per collegare quanto accenato sopra prendo in considerazione un punto rilevante, necessario alle mie analisi nel tentativo di allacciare la mia proposta di “TerritorioCorpoMemoria” come soggetto relazionale vivente, con le riflessioni di Boaventura riguardanti, appunto, le “relazioni di potere”. Riporto di seguito un’altra delle tante interviste pubblicate774, su questo argomento. 772 In queste cinque ecologie si possono ritrovare alcuni elementi della teoria della complessità di Morin, con la differenze che Boaventura fa esplicita la connessione di questa proposta con i saperi degli altri popoli del Sud Globale. 773 Cfr. De Sousa Santos, Ibidem. 774 Aguiló Bonet., Antonio de Jesùs, Entrevista a Boaventura de Sousa Santos. Publicada en la Revista Internacional de Filosofía Política Nº 35, octubre de 2010. Madrid, España.106 . La traduzione è responsabilità chi scrive. 350 D- Una delle sue affermazioni più forti è quella che “viviamo in società che sono politicamente democratiche, ma socialmente fasciste775”. Questo è dovuto, in parte, al fatto che la democrazia, al servizio dello Stato debole neoliberale, ha perso il suo potere redistributivo, riuscendo a convivere comodamente con situazioni strutturali di miseria, diseguaglianza ed esclusione sociale. Come può la democrazia rivoluzionaria, sotto il dominio della democrazia rappresentativa liberale, fare fronte andando oltre la teorizzazione accademica, ai fenomeni di disuguaglianza ed esclusione? R. El Concepto de «fascismo» que uso en esa cita es diferente del concepto usado para definir los regímenes políticos de partido único vigentes principalmente en Italia y Alemania en el período entre las dos guerras mundiales, así como en España y Portugal hasta 1974-1975. Tal como lo uso, se refiere a relaciones sociales de poder tan extremadamente desiguales que, en el contexto social y político en el que se producen, la parte –individuos o grupos– más poderosa ejerce un poder de veto sobre aspectos esenciales de la vida de la parte menos poderosa. Del mismo modo que la lucha contra el fascismo político fue una lucha por la democracia política, la lucha contra el fascismo social debe ser una lucha por la democracia social. Se trata, por tanto, de un concepto de democracia mucho más ampio que el concepto que subyace a la democracia representativa.” ..(..) “Per me democrazia sono tutti i processi di trasformazione delle relazioni di potere disuguali in rapporti di autorità condivisa. Laddove ci sono lotte contro il potere disuguale, c’è un processo di democratizzazione. Nella mia analisi, distinguo sei sotto-campi di relazioni sociali in cui i processi di democratizzazione sono particolarmente importanti: i) lo spazio – tempo domestico; ii) lo spazio –tempo della produzione; iii) lo spazio – tempo della Comunità; iv) lo spazio tempo del mercato; v) lo spazio-tempo della cittadinanza; vi) lo spazio tempo mondiale delle relazioni fra gli Stati.” “ognuno degli spazi-tempi possono essere un campo di lotta democratica contro il fascismo che si genera nel suo interno. In ognuno di loro la lotta democratica acquisisce una forma specifica”. “Ad ognuno di loro corrisponde una forma specifica di relazione disuguale del potere”:   Nello spazio-tempo domestico, la forma di potere è il patriarcato o le relazioni sociali di sesso. Nello spazio-tempo della produzione, la forma di potere è lo sfruttamento centrato nelle relazioni capitale-lavoro 775 Il grassetto è mio. 351  Nello spazio-tempo della comunità, la forma di potere è la differenziazione diseguale, cioè, i processi attraverso i quali le comunità definiscono chi appartiene e chi non appartiene e si   arrogano il diritto di trattare in maniera diseguale coloro che non appartengono. Nello spazio-tempo del mercato, la forma di potere è il feticismo delle mercerie, il modo in cui gli oggetti assumono vita propria e controllano le soggettività dei soggetti. (alienazione) Nello spazio-tempo della cittadinanza, la forma di potere è la dominazione, la diseguaglianza nell’accesso alle decisioni politiche e al controllo dei politici, in quanto sono loro che  decidono nell’ambito pubblico. Nello spazio-tempo mondiale, la forma di potere è lo scambio diseguale, la diseguaglianza in termini di scambi internazionali, sia economici che politici e militari. Continua Boaventura nella sua analisi, mettendo in evidenza il modo in cui ogni forma di potere abbia origine in una precisa dimensione spazio-tempo. Vediamo: “Ognuna delle forme di potere, ha come base privilegiata e originaria, un determinato spaziotempo, anche se non agisce esclusivamente nelle relazioni sociali che lo caratterizzano. Piuttosto, ognuna delle forme di potere ha ripercussioni in tutti ed ognuno degli spazi-tempi. “Per esempio, il patriarcato ha la sua sede strutturale nello spazio-tempo domestico, ma è presente nelle relazioni sociali di produzione, del mercato, della comunità e della cittadinanza. Le società capitaliste sono formazioni sociali che si riproducono per l’azione combinata di queste sei forme di potere. Non agiscono in maniera isolata. Anzi, si nutrono mutuamente e agiscono in rete. In virtù di questo, le lotte anticapitaliste, per avere successo, devono lottare contro tutte queste forme di potere e possono avanzare soltanto nella misura in cui in ognuno degli spazi-tempo le disuguaglianze di potere vanno sminuendo”. “È importante che ci sia articolazione fra i diversi movimenti e organizzazioni. Il potere che agisce attraverso le costellazioni si può combattere soltanto efficacemente attraverso una costellazione di resistenze.” “Questo non vuol dire che le sei forme di potere siano sempre ugualmente importanti e che non sia possibile stabilire gerarchie interne fra di loro. Quello che succede è che l’importanza relativa e le gerarchie fra di esse possono determinarsi soltanto in contesti di lotta definiti come tali dalle condizioni storiche e dagli effetti della congiuntura. “Non dobbiamo dimenticare che ci sono strutture – gli spazi-tempi – e che ci sono circostanze, e che è attraverso la inevitabile relazione fra di esse che nasce la contingenza” Partendo da queste dimensioni “spazi-tempi”, mi propongo di connettere le relazioni di potere che in esse s’intrecciano, attraverso la metodologia della Chakana e le quattro dimensioni ampiamente esplicitate nei capitoli precedenti. 352 Mondo Simbolico Ecologia dei Saperi TERRITORIO CORPO MEMORIA Traduzione Interpolitica Traduzione Interculturale Realizza te Decolonizzazione Interdisciplinarietà È da questa ampia dissertazione sugli “spazi-tempi” in cui si realizzano le relazioni di potere che propongo la “connessione strutturale” con questa dimensione “TerritorioCorpoMemoria”, come soggetto reale attraverso il quale queste relazioni si subiscono, si costruiscono e si trasformano. Partendo da questo esercizio di accostamento e prendendo in considerazione gli importanti contribuiti della proposta di Boaventura, provo a tessere la “trama epistemologica” che possa incontrare i due pensieri considerati lungo questo elaborato. Munay (affetto, energia, spirito). orientata alle scienze della cosmovisione nelle sue dimensioni di energia, spiritualità, idioma proprio , identità e cultura. Questa dimensione ci dà le basi dei principi e valori sui quali agire nelle altre dimensioni. Yachay (saggezza, estetica, scienza, arte) orientata alle arti e alle scienze originarie, la saggezza ancestrale, le metodologie comunitarie, la ricerca e le tecnologie. In questa dimensione si cerca l’innovazione permanente, in armonia con i principi e valori della Pacha”. Ruway (lavoro, azione, produzione) orientata alle scienze della produzione e riproduzione comunitaria, il lavoro, l’economia comunitaria, lo scambio, l’autosufficienza del “Ayllu” per il buon vivere. Atiy (organizzazione, autorità, capacità, governo dell’ Ayllu) orientata alla scienze dell’organizzazione e la gestione territoriale comunitaria e le sue normative, l’amministrazione comunitaria e l’autogoverno, per il Buon Vivere. Mondo Simbolico Ecologia dei Saperi Decolonizzazione / interdisciplinarietà Interpretazione Inter politica e Interpretazione Interculturale Giustizia Sociale Giustizia Cognitiva 353 Nel rendere questa relazione più esplicita, ci sono due concetti particolarmente importanti nell’elaborazione di Boaventura che ci tengo a richiamare: il concetto di “traduzione” e il concetto di “ermeneutica diatopica” . “Il lavoro di traduzione intende catturare questi due momenti: le relazioni egemoniche fra le esperienze e quello che in esse si racchiude oltre la relazione stessa.” “Il lavoro di traduzione incide sia nei saperi come nelle pratiche dei suoi agenti. La traduzione fra i saperi assume la forma di una “ermenutica diatopica”. Questa consiste in un lavoro di interpretazione fra due o più culture con l’obiettivo di studiare le implicazioni isomorfiche fra di loro e le diverse risposte che queste proporzionano”.776 ...(..) L’ermeneutica diatopica nasce dall’idea che tutte le culture sono incomplete e per tanto possono essere arricchite dal dialogo e dal confronto con altre culture. Ammetere la relatività delle culture non implica adottare per sé il relativismo come attitudine filosofica. Implica, sì concepire l’universalismo come una particolarità occidentale la cui supremazia come idea non risiede in se stessa, quanto nella supremazia degli interessi che la sostengono.” 777 “Il secondo tipo di lavoro di traduzione ha luogo fra le pratiche sociali e si suoi agenti(..) all’incidere sulle pratiche, il lavoro di traduzione cerca di creare intelligibilità reciproca fra forme di organizzazione ed obiettivi di azione. Il lavoro di traduzione tende a chiarire quello che unisce e quello che separa ai differenti movimenti e alle differenti pratiche, in modo che determina le possibilità e i limiti dell’articolazione fra di essi”.778 ..(..) Il lavoro di traduzione permette di creare sensi e direzione precarie, ma concreti; di corto raggio, fra cui la giustizia cognitiva a partire dall’immaginazione epistemologica. L’obiettivo della traduzione fra pratiche e i suoi agenti è creare le condizioni per una giustizia globale a partire dall’immaginazione democratica”.779 ..(..) Il lavoro della traduzione crea le condizioni per emancipazioni sociali concrete di gruppi sociali concreti in un presente la cui ingiustizia è legittimata in base ad un massivo spreco dell’esperienza. Il lavoro di traduzione basato sulla sociologia delle assenze e sulla sociologia delle emergenze, permette soltanto rivelare o denunciare la 776 De Sousa Santos Boaventura, Introducciòn: Las epistemologìas del Sur. Opc. Cit. P. 137. Ivi, 139 778 Ivi, 140-141 779 Ivi, 151 777 354 dimensione di questo spreco. Il tipo di trasformazione sociale che partendo da esso (lo spreco) può costruirsi esige che le costellazioni di senso create dal lavoro di traduzioni si trasformino in pratiche trasformatrici e nuovi manifesti”780 Su questa valorizzazione dello spreco come risorsa creatrice e trasformatrice, trovo quest’ultima parte del pensiero di Boaventura, in grande sintonia con quanto scritto da Mariagrazia Contini781 “Scarto come marginale, come residuo in relazione a ciò che “conta”, e si colloca in primo piano godendo di una diffusa rappresentazione sociale positiva: il sapere pedagogico, ad esempio, diventa “scarto” di fronte a una “chiacchiera” mediatica che, attraverso spot sempre più seduttivi e ricchi di effetti speciali, finisce per orientare pesantemente lo sguardo sul mondo e gli stili di vita dei soggetti” “Scarto” , anche , come distanza tra: la progettualità educativa e i suoi esiti, tra i tempi delle nostre parole e i tempi delle risposte dei nostri interlocutori educativi, tra quello che, noi e loro, siamo e l’orizzonte del possibile che, aperto, prospetta a noi e a loro altri spazi, altri percorsi, nuove identità” “Resistenza: nei confronti del pensiero unico e delle “passioni tristi”; dei modelli di umanità che, imposti a livello mondiale dai pochi che possiedono molto tendono a impoverire e inquinare i rapporti quotidiani e i sogni degli “individui” rendendoli “gregge”, delle parole “logore” perché derubate del loro significato da una manipolazione strumentale e bugiarda. Elogio pedagogico di scarto e resistenza: per prefigurare percorsi “in ombra” , ma “audaci”, che conducano verso la costruzione di un pensiero critico e di legami solidali con tutti i viventi, aprendo alla possibilità di “passioni gioiose”782 Ampliando l’orizzonte verso la strada della “Giustizia Cognitiva”, riporto parte dell’intervista realizzata da Marcelo Escudero a Boaventura De Sousa Santos durante la sua conferenza all’ Università di Rio Cuarto in Argentina.783 780 Ibidem. Contini, Mariagrazia. Elogio dello scarto e della resistenza, CLUEB,Bologna 2009. 782 Ivi, quarto di copertina. 783 Intervita di Marcelo Escudero con Boaventura de Sousa Santos: Perché le epistemologia dal Sud?. Secondo incontro : “Spazi Decoloniali. Università, Movimenti Sociali e Nuove Linee del Pensiero Critico.” Pubblicata il 28 maggio 2012. http://www.youtube.com/user/audiovisualunrc?feature=watch 781 355 D_ Lei dice che non esiste Giustizia Sociale se non c’è Giustizia Cognitiva. Quindi, la domanda è: Chi sono gli incaricati d’impartire questa Giustizia Cognitiva? R_BSS: I popoli. I popoli organizzati. I movimenti sociali, le organizzazioni. Tutti loro attraverso i loro lavori, le loro pratiche sociali, perchè nelle loro organizzazioni producono una conoscenza che non viene riconosciuta come conoscenza scientifica, conoscenza che non è prodotta nelle università, ma che è una conoscenza molto valida perché è la conoscenza che comanda, che organizza le pratiche sociali e la vita quotidiana delle persone. Una conoscenza che fino ad oggi è rimasta fuori dell’università. Questo è un male sia per questo tipo di conoscenza sia per l’università stessa. L’università si arricchisce se porta dentro alle sue mura altri tipi di conoscenza. È questo che io sto chiamando “Le epistemologie dal Sud”. D- Non rimane la sensazione che quando parliamo di movimenti sociali da una parte, università e conoscenza scientifica dall’altra, in mezzo resto la società in una sorta di grigio, in mezzo a questi due poli? R_ BSS: Assolutamente sì, la grande maggioranza della gente non sta nè dentro all’università, né con i movimenti sociali, né partecipa nei partiti, anche se può votare in un partito ogni quattro o cinque anni, ma non è organizzats, è “spoliticizzata”, questo è un problema che dobbiamo affrontare, io lo affronto, nel mio lavoro lo vedo. ..(..) Penso che l’università dovrà orientarsi in questa direzione, verso questi gruppi sociali che non sono organizzati in movimenti sociali. Bisogna disseminare una certa scomodità nella gente, in modo che ogni volta sia meno rassegnata alle ingiustizie sociali, anche se non vogliono fare parte dei movimenti sociali, magari per diversi motivi, perchè possono sembrare radicali, o perchè non sono in una situazione critica ora, ma l’importante è che l’Università assuma questo ruolo di avvertire la società che bisogna stare attenti, perché questo che succede oggi può succedere domani, anche in un altro luogo, può succedere da un momento all’altro.”784 784 Ibidem. 356 Nel cercare di accostare il concetto di “Giustizia Sociale” con l’idea di “Giustizia Cognitiva” di cui ci parla Boaventura, vorrei, oltre alla proposta del riconoscimento delle Conoscenze Altre, riportare uno degli argomenti, a mio avviso, in intima relazione con tutto ciò: la fame. Fonte: L’Espresso (rivista Italiana) 18 ottobre 2012 “All’età di 2 anni, quando buona parte delle strutture grammaticali sono state acquisite e lo sforzo linguistico è meno intenso, la produzione di sinapsi declina e altrettanto avviene per il metabolismo cerebrale: produrre sinapsi, infatti, significa anche sintetizzare nuove proteine ( di cui sono fatte le sinapsi) e fornire alimento ai neuroni, zucchero soprattutto, per sostenere la loro intensa attività. Una grave carenza alimentare in questa fase ..(..) , ha effetti molto negativi sullo sviluppo del cervello e dell’intelligenza: il cervello resta più piccolo in quanto la corteccia si sviluppa meno, i neuroni possiedono un minor numero di sinapsi, si manifestano deficit dell’intelligenza irreversibili, anche se questi bambini denutriti verranno rialimentati in età successive.”785 785 A. Oliverio, Prima lezione di neuroscienze, in Conitni, Fabbri, Manuzzi, Non di Solo Cervello, op. cit, p.136 357 Sarebbe opportuno auspicare che le Pedagogie del Buen Vivir avessero come Orizzonte il diritto alla Giustizia Cognitiva fra le priorità del secolo XXI, affinchè le agende politiche degli Stati, ma soprattutto i programmi delle istituzioni educative, avviassero degli insegnamenti volti a superare i vuoti esistenziali nonché l’oceano d’indifferenza che abbatte l’umanità, per evitare che una parte del pianeta continui a morire di obesità, un’altra di depressione e un’altra ancora di fame, ma soprattutto in modo da rendere possibile lo sviluppo cognitivo delle bambine e dei bambini dell’intero pianeta. Mi sembra benaugurante, riportare in questo punto la presentazione dell’interessante progetto, dell’Università di Coimbra nel Portogallo in collaborazione con altre istanze internazionali, che dà avvio e corpo all’elaborazione di Boaventura di Sousa Santos: Le Epistemologie dal Sud. “ALICE : Specchi estranei, lezione inaspettate. Nuovi modi per l’Europa di condividere le esperienze del mondo” .786 “Il progetto ALICE si propone di ripensare la conoscenza convenzionale mediante le Epistemologie del Sud proposte da Boaventura de Sousa Santos, sviluppando nuovi paradigmi teorici e politici di trasformazione sociale.” “Perseguita l’Europa e il Nord Globale in generale, un sentimento di smarimento intellettuale e politico che si traduce in un’incapacità di affrontare, in modo innovativo, le sfide della giustizia sociale, ambientale, intergenerazionale, culturale e storica che interrogano il mondo nelle prime decadi del secolo XXI. “In contrasto, il mondo non europeo (il Sud Globale) si assume oggi nelle sue immese diversità come un vasto campo d’innovazioni economiche, sociali, culturali e politiche. “Potrà l’Europa apprendere dalle esperienze innovatrici del mondo e trarne beneficio assieme a loro? “Dopo più di cinque secoli d’“insegnare” al mondo, avrà perso l’Europa la sua capacità di apprendere con il mondo non europeo?. “Saranno possibili nuove forme di distribuzione del sapere e dell’esperienza oltre a quelle che hanno caratterizzato (e caratterizzano) la dominazione capitalista e coloniale? “ALICE assume la sfida della possibilità di dare una risposta positiva a queste domande. La trasformazione sociale, politica e istituzionale in Europa può beneficiare ampiamente delle innovazioni che hanno luogo in paesi e regioni con i quali Europa è ogni volta più interdipendente”. Centri di Studi Sociali. Laboratorio Associato. Facoltà di Economia . Università di Coimbra – Portogallo. www.ces.uc.pt 786 358 In questo scenario, spero questo elaborato possa contribuire a rivolgere lo sguardo verso lo specchio estraneo di Alice, in modo che “gli altri orizzonti del possibile” riescano a riflettersi e che questo andare “oltre” possa offrire delle “lezioni inaspettate.” In perfetta sintonia con quanto sopra esposto sull’Epistemologie dal Sud, vorrei chiudere questo capitolo con le parole di Tupac Enrique Acosta, originario Izcaloteca (Nordamerica), col quale ho avuto l’opportunita di parlare su un argomento molto attuale nel continente dell’Abya Yala che riguarda la “Decolonizzazione della Cognizione”. Nell’iniziare l’intervista Tupac mi richiama sull’uso di un linguaggio occidentale che interpella le realtà altre, come se le diverse culture fossero obbligate a capire o interpretare i codici linguistici nello stesso modo. Prima di entrare in merito all’argomento della “decolonizzazione della cognizione”, Tupac ritiene necessario chiarire in primis cosa si intenda per Nazione nella costruzione ancestrale dei Popoli Originari.787 “La Nazione è la correlazione degli elementi della Vita come la Terra e l’Acqua, queste due si intrecciano con gli altri due elementi che sono il Fuoco e l’Aria, così accoppiati a due a due, formano il quattro, che corrisponde alla realtà che viviamo in questo universo, le quattro dimensioni o i quattro punti cardinali. Tutte le scienze, incluse le cosiddette “occidentali o contemporanee” riconoscono che la materia ha quattro fasi, e così siamo noi umani. La Terra è l’aspetto solido, l’energia che sta congelata, questo stato noi lo conosciamo come solido. Poi c’è l’Acqua, e quindi stiamo parlando di un altro stato della materia che si chiama liquido. Fra il solido e il liquido si presentano altri stati, perché la materia e l’energia sono in sé un Quetzacoatl di serpi intrecciate che alcuni riconoscono come energia e altri come materia. Dopo abbiamo anche l’Aria, che è l’espressione di materia gassosa e poi il Fuoco che in termini scientifici può essere il plasma, l’incandescenza elettronica, ma per Noi, i Popoli, è il nostro”abuelo”(antenato). Quindi abbiamo ancora una presenza della correlazione fra materia ed energia. Sono fasi della stessa realtà, ma ci sono anche altri elementi che sono “ponti”. Quindi, in questi termini, la Nazione è la Relazione delle parti con il tutto. Ad esempio, un albero appartiene alla Nazione degli alberi, lo stesso una famiglia di uccelli, appartiene alla Nazione dei volatili. Cioè, parliamo di Nazioni in termini planetari, perché qui siamo nati e qui moriremo. Quindi, io vi sto parlando di un ri-nascere come Nazioni.” Tupac Enrique Acosta. Si autodefinisce “Yatasca”. (Guardiano) della Nazione Izkalotlan, di cui è originario. Tupac è membro dell’Ambasciata dei Popoli Indigeni , promotrice con altre organizzazioni indigene della “III Cumbre Continental de Pueblos y Nacionalidades Indigenas de Abya Yala” realizzata nel 2007 in Iximulew Guatemala. intervista realizzata a San Cristobal de las Casas nel Maggio 2011, consultabile al link: www.youtube.com /YolandaAbyaYala / Educaciòn descolonizadora /Descolonizaciòn de la Congniciòn /Tupac Enrique Acosta, pueblo Izkaloteca. 787 359 Con le precedenti parole Tupac, sottolinea la differenza che esiste fra gli Stati e i Governi, e le Nazioni così come i Popoli Originari le concepiscono e sottolinea che le Nazioni non sono etnie, o “ponti interculturali” per fare studi rivolti al mondo dell’accademia o agli studiosi famosi in Occidente ed è in questo orizzonte che la decolonizzazione della cognizione è una priorità per i Popoli. “ Una cosa molto diversa sono gli Stati, i Governi, certo che noi Nazioni li riconosciamo ma anche loro dovrebbero riconoscere noi come Nazioni. Per cui, finchè loro non ci riconoscono, noi non siamo obbligati a riconoscere loro. Noi non siamo soltanto delle etnie, così come siamo stati considerati fino ad oggi, non siamo i cosìddetti “ponti interculturali”, non siamo gli oggetti per fare studi accademici o per fare diventare famosi alcuni studiosi in Occidente o produrre delle grandi pubblicazioni nelle loro lingue. In questo modo continuano ancora a succhiare, oltre alla nostra identità, anche la nostra cognizione. Quindi io mi chiedo che senso abbia questo? Che senso ha? Per cui, è da li che dobbiamo partire, perché la colonizzazione altro non è che la disarticolazione della relazione armonica che abbiamo noi tutte le Nazioni, - nel senso esplicitato prima-, con la Madre Terra, con il nostro Universo e le quattro direzioni, per potere vivere insieme, collettivamente in armonia. Questa è la nostra legge di equilibrio naturale che abbiamo condiviso da sempre con tutti gli esseri viventi”.788 La strada della decolonizzazione della cognizione, per quanto riguarda Occidente e, in particolare per quanto riguarda la forma in cui gli Stati vengono concepiti, può essere auspicabile soltanto a partire da un atto personale, da una scelta, che Tupac spiega attraverso la figura di una “deportazione personale e volontaria”. Sarebbe un qualcosa riguardante la “ Scelta” bertiniana, ovvero una presa di coscienza, attraverso l’impegno etico-sociale che porta dalla “condizione data” alla “ destinazione prescelta”, e quindi anche qui ritroviamo la valorizzazione dell’ “inattuale”, categoria tanto cara al problematicismo pedagogico. Queste le parole di Tupac. “ In questo scenario, si fa necessario avviare un processo di “deportazione”. Le persone devono firmare l’uscita volontaria dallo Stato e dallo stato di cose in cui sono intrappolate. Ma ribadisco è una scelta che deve fare ogni singola persona. Deve concentrare la sua 788 Ibidem 360 volontà, la sua capacità di azione, incanalando le energie verso il Fine che desidera, avendo chiarezza del Perché, del Per Chi, del Dove, e del Come lo vuole fare. In questo orizzonte è importante avere coscienza delle proprie origini, perché se non abbiamo chiare o non valorizziamo le nostre radici, la nostra storia, la nostra memoria, la scelta diventerà un fare salti avanti e indietro, ma non si troverà la strada che ci può condurre tutti verso la strada della vita responsabili, in primis come esseri viventi , poi sì, come esseri umani, ma tutti figli della Madre Terra. Sono certo che questa “deportazione volontaria” non è facile, ma l’umanità lo farà comunque in due modi: o in forma volontaria, o costretta dalle catastrofi che stiamo arrecando al pianeta per la relazione non equilibrata che abbiamo noi esseri umani con la natura, con la Madre Terra. Ma se abbiamo la volontà di fare questa “deportazione”, possiamo pensare, in un futuro momento, di ristabilire l’omeostasi con gli altri esseri viventi, dobbiamo avere presente che non siamo gli unici figli, non siamo qui come umani per controllare e distruggere tutto.” Per dare luogo a questa “scelta di deportazione volontaria” l’educazione sarebbe la prima chiamata in causa, da cui la necessità urgente di avviare processi di apprendimento/insegnamento che possano ribaltare questo stato di barbarie nei confronti della natura e delle creature che la compongono. In questo processo, mentre le strutture educative ufficiali prendono nota dell’urgenza, Tupac ribadisce che la prima cosa da fare è Vivere con coscienza e responsabilità. “la prima cosa che adesso possiamo fare è Vivere, Vivere, Vivere con tutte le difficoltà e tutte le contraddizioni, ma con la piena consapevolezza che stiamo condividendo la nostra esistenza e che abbiamo la responsabilità di Vivere ed Esistere nel migliore dei modi. Prima di tutto cercando di ri-generare le articolazioni planetarie e l’integrazione con gli altri esseri viventi. Stiamo parlando della responsabilità che abbiamo come esseri umani nel confronto degli altri esseri. Sicuramente non sono stati gli alberi a danneggiare il pianeta, neanche i pesci e tanto meno i cervi. Quindi siamo Noi umani quelli chiamati a pagare questo debito e a riparare perché le cose trovino di nuovo l’equilibrio. Dobbiamo essere Nazioni in gemellaggio con le altre Nazioni dei viventi, e così cominciare io, con la mia famiglia, le famiglie con le loro Comunità, le Comunità con il loro Popoli, i Popoli con le loro Nazioni, e tutte le Nazioni in una confederazione di Nazioni.” Sui modi per raggiungere questa articolazione delle Nazioni a livello planetario, Tupac ribadisce i criteri della scelta personale, attuata attraverso il collegamento con la prima cellula organizzativa che è la famiglia, concepita, questa, non come la famiglia patriarcale, ma 361 attraverso un concetto molto più allargato in sintonia con il modo in cui le famiglie si costituiscono nei Popoli Originari, sottolineando anche la differenza fra “identità planetaria”, che ha a che fare con le Nazioni, e la questione della “cittadinanza” che fa riferimento agli Stati, ai Governi. “Articolazioni che partono dalle famiglie, arrivando ai loro Popoli, alle loro Nazioni confederate con l’intera umanità. VOLONTÀ Siamo articolazioni di: tutti abbiamo queste articolazioni. MEMORIA, COSCIENZA E Siamo articolazioni di uno spirito che attraverso queste tre dimensioni intrecciate permette che la vita continui ad esistere. Questi tre elementi ci sono anche nel mito cristiano, sono un principio universale. Il principio della treccia, dal tre viene fuori l’uno. Ma questa articolazione del tre viene tessuta anche col cinque, con la relazione che intrecciamo come continenti. Ci sono cinque continenti e abbiamo cinque dita nella mano. Questo il simbolo della Chakana. Dobbiamo tessere, “chakaniare”, per ristabilire le relazioni fra i cinque continenti, ma attraverso i loro miti originari, è lì che bisogna andare per piantare i semi della cognizione planetaria. Anche “Eurasia” ha i suoi propri miti fondanti, anche loro hanno una propria storia, a questo si riferisce il termine “intraculturalità”, prima conosciamo bene il nostro, poi tessiamo con le altre Nazioni. Perché noi Nazioni ci relazioniamo attraverso le leggi generatrici, queste sono miti di creazioni universali, con” identità culturale planetaria” che abbiamo condiviso da sempre. Tutti condividiamo le leggi del rispetto che sono codificate dai quattro elementi nominati prima, quelli sono presenti in tutte le culture, è con quella legge della natura che siamo articolati, quindi siamo in relazione con tutte le Nazionalità degli esseri viventi dei cinque continenti della Madre Terra. Una cosa totalmente diversa è il discorso della “cittadinanza” che riguarda soltanto gli Stati. Riguardo a questo “Ponte”, Chakana, e ai modi attraverso i quali rafforzare questa articolazione planetaria fra le Nazionalità dei viventi nei cinque continenti che costituiscono la Madre Terra, Tupac prosegue con un invito a creare delle “agropoli”, dove la scienza e il sapere spirituale possano convivere e creare nuove forme di vita, sottolineando il fatto che il “Sapere” è uno dei grandi misteri della Vita e mettendo in evidenza la differenza esistente fra “informazione” e “conoscenza”. “Per creare delle “agropoli” dobbiamo fare i Ponti che sono assolutamente necessari. Ma per farli dobbiamo avere i pilastri, e quindi torniamo allo stesso discorso. Dobbiamo cominciare dai quattro pilastri che sono gli elementi. Quindi, il Ponte attraverso questi 362 quattro elementi che abbiamo e che sono dentro di noi in forma spirituale, senza dividere l’energia della materia, senza dividere la scienza del sapere spirituale. Diciamo che il sapere spirituale non è necessariamente l’unica condizione, anche perché è un sapere che non tutti abbiamo, è una condizione che in un momento può manifestarsi, ma proprio per questo è necessario un processo di intra-culturalità fra i diversi mondi e le diverse cognizioni. In questo contesto bisogna avere presente che lo stesso Sapere, è già un mistero, penso sia il mistero più grande che ci sia, e così bisogna capire che il Sapere è costruito attraverso l’informazione, ma non tutta l’informazione diventa sapienza, perché appunto, la Sapienza è uno dei grandi misteri.” Uno dei punti finali di questo colloquio, riguarda il cosìddetto “Turismo Alternativo” promosso attraverso i progetti di cooperazione in alcune regioni dei Popoli Originari. Su questo argomento Tupac è molto critico e ci tiene a sottolineare che noi umani “non siamo turisti sulla Terra”, e che in questo passaggio ci sono piuttosto delle grosse responsabilità. “Noi, Nazioni non siamo luoghi di ecoturismo. Non funziona quella storia di “andiamo ad aiutare gli indigeni”. Noi non siamo turisti sulla terra. Siamo qui per ricreare la vita, qui stiamo ri-generando la vita, questo è il nostro ruolo come umani, una grande responsabilità che abbiamo nei confronti di noi stessi, ma anche delle famiglie, delle Comunità, dei Popoli e delle Nazioni dei viventi in generale. Quindi, altro che “turismo ecologico”, la nostra responsabilità è di dare risposte alla grave situazione del cambio climatico, questo famoso caos climatico di cui tanto si parla, senza rendersi conto che è un caos che è già sopra di noi, anzi, dentro di noi. Se pensiamo anche alle condizioni di “Biocolonialismo , la colonizzazione delle condizioni biometriche. Di questo poco si parla, ma ci tengo a sottolineare: “L’Università Indigena è codificata negli archivi dei nostri geni, in tutte le cose che hanno vita, è lì l’università indigena, lo è stata da sempre e da sempre ha trasmesso le proprie memorie. Nelle cognizioni delle nostre memorie si trovano anche tutti i misteri, lì, ci sono i “quattro” e i “20” che articolati con i “13”, fanno di noi quel che siamo!!”789 789 Intervista realizzata a San Cristobal de las Casas nel maggio 2011, consultabile al link: www.youtube.com / YolandaAbyaYala/ Educaciòn descolonizadora /Descolonizaciòn de la Cogniciòn, Tupac Enrique Acosta. 363 APPENDICE CORPOTERRITORIOMEMORIA PARTE PRIMA SPIRITUALITÀ E POLITICA FRA LE DONNE DI ABYA YALA Muysua “Muysua che in lingua Muisca790 vuol dire 'sogno'. È il racconto in linguaggio onirico di un’indigena Colombiana, che ricorda e ricordando sogna. È dunque il Sogno della Memoria fatto di maschera, mito, danza, musica, canto e rito. È il sogno del popolo del Mais che abitava e tuttora oggi abita le Americhe.”791 Verso la fine di questo percorso “chakanistico” interconnesso dalle quattro dimensioni: spiritualità, conoscenza, economia e politica, sono tornata a chiedermi di nuovo: ma chi sono veramente? Il Popolo Muisca è il Popolo Originario dell’Antica Bakatà ( Bogotà in lingua Muisca). Opera Teatrale di “SudTeatroCenit” Regia, Idea e Drammaturgia: Beatriz Camargo. Maschere, scenografia e manifesto: Bernardo Rey. Fonte: www.kankurwakaikashi.altervista.org 790 791 364 Con: Nube Sandoval. Per fortuna questa volta penso di aver trovato una risposta. Una risposta che mi connette con altre creature del mondo dei viventi e che mi porta a riflettere se magari sia questo un interrogativo con cui si confrontano tante donne “Altre”, cioè “Altre me”, che in diversi luoghi del mondo si trovano in condizione di spaesamento, sopratutto in quelle occasioni in cui si devono compilare un’infinità di moduli per le consuete pratiche burocratiche delle istituzioni: scuole, università, ospedali, anagrafe, finanza, domande di lavoro e altri strumenti delle regolari statistiche nazionali sulle politiche migratorie, economiche, educative, sanitarie, sociali o culturali che siano; cioè, ogni volta che l’essenza femminile di creature viventi viene racchiusa in una di queste quattro “M”: “Mujer – Madre – Mestiza – Migrante”, segnate semplicemente con la solita “X”. Vorrei quindi a modo di appendice, fuggire per un momento dalla condizione di essere “crocetta” e lasciare in questo elaborato una riflessione che mi ha permesso di capire la profondità della spiritualità femminile delle donne dei Popoli Originari, mentre spiegavano che la lotta per il Territorio è la lotta per l’autonomia delle donne come tessitrici, generatrici, nutrici e custodi della Vita della Natura e di tutte le creature viventi con cui interagiamo. Sono state giornate e notti intense di “pensatorios” e di insegnamenti, grazie ai quali oggi posso sentire le connessioni di cui tanto si scrive. Sono state queste donne, voci del silenzio, e Maghe dell’Arte dell’insegnamento a trasmettermi la forza e l’impegno con cui ho intrapreso questa grande sfida. Quindi, dando Ascolto alle loro parole e Osservando la loro pratica quotidiana di vita, sono riuscita a capire:    Che la dimensione “Territorio” è un’estensione del nostro Corpo, della nostra esistenza come creature viventi. Che senza il “Territorio” risulta insufficiente insegnare la “condizione umana” o l’“identità terrestre” di cui tanto ci ha parlato Morin. Che i principi di “Complementarità” e di “Reciprocità”, che regolano le relazioni con l’intero Universo, sono rappresentati anche dai rapporti complementari fra il maschile e il femminile come due componenti dei cicli vitali e dell’equilibrio umano,  sociale e politico. Principi, cioè, che vanno oltre il famoso principio dell’uguaglianza. Che ’Ascolto” , “Silenzio” e “Consiglio” , oltre ad essere percorsi d’apprendimento e crescita spirituale, sono anche pratiche politiche e non semplice “passività” o negazione della partecipazione delle donne. 365 Questa è una visione assai diversa da quella molte volte adottata da alcuni movimenti del femminismo occidentale, come bene manifesta Francesca Gargallo792 nel suo libro793 : “Questo è un libro che risponde ad un desiderio di “re-acomodo” fra donne, accettando diverse impostazioni politiche per la loro liberazione e riconoscendo interessi, priorità, forme diverse di costruzione della propria autonomia”. “per questo ho dovuto imparare a dialogare, cioè, ad ascoltare. Ascoltare è una pratica politica poche volte riconosciuta, al punto che in certe occasioni è segnata da passività. Ciò nonostante, è la prima forma di conoscere la realtà di chi mi sta parlando. “Per anni il femminismo occidentale, che oggi ha conquistato spazi istituzionalizzati significativi, ha ascoltato soltanto le domande delle donne che vivono e si vogliono liberare da un sistema di genere binario ed escludente, che organizza in maniera uguale i loro saperi a partire da un’economia di mercato. Per cui, quando si rivolge alle stesse donne di altre società, pretende di educarle secondo i parametri normativi del sistema occidentale senza riconoscere la validità delle loro idee. Organizza “scuole di leader” senza rendersi conto che la stessa idea di “ liderazgo” mette in crisi l’identità politica di donne che si pensano collettivamente, e allo stesso modo sono in grado di produrre contributi individuali che vengono socializzati. Propone un’uguaglianza con l’uomo quando nei processi duali non binari l’uguaglianza non è il principio base dell’organizzazione politica che le donne richiamano. Si disgustano davanti all’idea di una complementarietà multipla, che le femministe di molti popoli studiano per ritornare a guardarsi come costruttrici di una storia non bianca nè “imbiancata” di America, dove nè le donne davanti agli uomini, nè i loro popoli davanti allo Stato-nazione che li contiene, vivano subordinazione di nessun tipo, ma siano “inter – attuanti” nella costruzione del loro benessere”. “Feminismos desde Abya Yala” è soltanto un primo passo verso l’ascolto delle idee che si producono a partire da sistemi politici e teorie della conoscenza non occidentali, con femministe che parlano una delle 607 lingue della Nostra America…(..) “ 794 Arrivo quindi all’ultima tappa di questo camminare, i cui frutti ho raccolto in queste più di duecento pagine, offrendo due grandi contribuiti appresi dai Popoli Originari: “Metodologi e, della Chakana” attraverso di essa, la scoperta del La mio “CorpoTerrotorioMemoria”, come soggetto spirituale, cognitivo, politico ed economico che 792 Scrittrice italo – messicana, storica delle idee e filosofa femminista, che ha realizzato una vera spedizione per l’America Latina, con l’intenzione di conoscere da vicino le diverse forme di organizzazione e di lotta e la forma in cui il femminismo viene capito fra le donne dei diversi Popoli Originari. 793 Gargallo, Francesca, Feminismos desde Abya Yala. Ideas y proposiciones de las mujeres de 607 pueblos en nuestra América. Editorial: Desde Abajo, colección Pensadoras latinoamericanas, Bogotà 2012. 794 www.francescagargallo.wordpress.com. La traduzione è responsabilità di chi scrive. 366 metto in relazione con le sei dimensioni Spazio/Tempo teorizzate da Boaventura di Sousa Santos. Dimensioni che sono spazi di potere di cui questo soggetto integrale “CorpoTerritorioMemoria” è il primo a fronteggiarne le conseguenze: vuoti esistenziali, malattie, sfruttamento, manipolazione, negazione e annientamento. Verso la fine di queste riflessioni, ho scoperto con soddisfazione che anche Francesca Gargallo, dopo la sua “spedizione” fra i Popoli dell’Abya Yala è arrivata a capire come questa dimensione del “TerritorioCorpo”, sia vissuta dalle donne di queste popolazioni, in un incontro di complementarità con la componente maschile, e che questo incontro dei loro Corpi e delle loro essenze oltre ad essere spirituale, cognitivo, lavorativo è anche politico. Vediamo dunque le parole della Gargallo, nella recente intervista di Gloria Analco in Città del Messico. “ Nell’intervista con “unomàsuno”, Francesca Gargallo riconosce che le università di tutto il mondo escludono i pensieri filosofici di intellettuali di popoli originari, con il pretesto di creare l’universalità e le case editrici fanno la stessa cosa (…). Fra le scoperte più significative nel suo dialogo e approfondimento delle esperienze con le donne di questi popoli, considera che la più importante sia stata il poter osservare che “loro mettono in pratica il concetto di corpo/territorio” perché assumono che il corpo è il primo territorio, il territorio dei loro diritti e che il territorio è l’estensione dei loro corpi. “Quindi non possono vivere se il loro territorio viene violentato, ed è in questo territorio dove s’incontrano con gli uomini e fanno politica insieme”.795 Dice ancora Gargallo: “ In questo incontro con gli uomini, difendono la terra, l’acqua, il sottosuolo, questo è quello che ho osservato. Ho visto anche che le donne, per costruire la vita buona (el Buen vivir)796, contano su loro stesse. Per questo vogliono prendere nelle loro mani la maternità e la salute, perché non accettano il sistema sanitario dello Stato che non risponde alle loro vere necessità”797 Sono onorata di arrivare a questo traguardo sentendo di essere una creatura “Ponte” (voglio definirmi così perché non mi sento “osservatore”). Ho fatto parte dei cammini che ho camminato, dei Territorio di cui mi sono nutrita e dei Popoli che mi hanno ospitato, e ancora una volta ribadisco che le esperienze qui riportate non sono soltanto delle “informazioni o dei dati”. Sono innanzitutto insegnamenti, anche una proposta d’incontro e di dialogo che 795 Il grassetto è mio NdT 797 Gargallo,F. Intervista di Gloria Analco: “Escritora realiza expediciòn para encontrar expresiones feministas. Diario unomàsuno. Città del Messico. 7 gennaio 2013, p.20 http://issuu.com/unomasuno/docs/7_enero_2013. La traduzione è responsabilità di chi scrive. 796 367 vuole essere in sintonia con l’“Ecologia della Mente” proposta da Bateson, con i postulati dell’ “Educazione alla progettualità esistenziale” proposta da Giovanni Maria Bertin e Mariagrazia Contini, con quell’ “Ecologia dei Saperi” proposta da Boaventura De Sousa Santos e, infine, con la voce delle donne che in questi 520 anni hanno urlato nel loro silenzio, seminando e nutrendo la Terra con l’impegno, la memoria e la resistenza dei loro Popoli. Come riconoscimento ai loro insegnamenti, nonché alle loro storie condivise, ho intitolato quest’appendice alla voce della Memoria fatta Corpo, fatta Territorio, fatta Donna. Fatta parola nel silenzio. CORPO e MEMORIA (OYENDAU798) Yo no poder ir hacia ti Memoria (Oyendau) Ven tù hacia mì Amiga tù saber ver La imàgen del Alma Tù como ùnica señora (señor) Memoria (Oyendau) Canciòn en lengua Chanà 799 Muti tisdá Tidá nehés Oyendau I ti jumen Emeneha huamá M-sequer sola guipuai ancat M- retant ugil Tihuinem Oyendau Io non potere andare verso di te Memoria (Oyendau) Vieni tu verso di me Amica tu sapere vedere L’immagine dell’Anima Tu, come unica signora (signore) Memoria (Oyendau) Canzone in lingua Chanà Queste riflessioni finali le voglio dedicare ai Popoli che sono nel processo di recupero della loro cultura, della loro storia, uno, il popolo Charrùa di cui ho già parlato nelle pagine precedenti.800 798 Memoria, in lingua Chanà. Il Popolo Chanà è un Popolo appartenente alla macroetnia Charrùa. Michelena, Monica. Mujeres Charrùas. Rearmando el Gran Quillapì de la Memoria en Uruguay. Diplomado para el fortalecimiento del liderazgo de las Mujeres Indigenas. Universidad Indigena InterculturalIndigena( Fondo Indigena) Ciesas. San Cristobal de las Casas. 2011, p.21 799 368 Di seguito alcune delle riflessioni di Monica Michelena801, riportate nel suo elaborato all’interno del corso per donne indigene realizzato attraverso l’Università Interculturale Indigena del Fondo Indigeno. “ Questo lavoro è come un grande “quillapì”802 della memoria, visto che ogni donna è portatrice di un pezzetto di essa. Fra tutte stiamo ricucendo questi brandelli di memoria e la stiamo rimettendo insieme, facendo in modo che le cuciture non si vedano o che si vedano il meno possibile. Ricucire il grande “quillapì” della memoria è anche tessere le diverse visioni di questa memoria. Ognuna, a partire dalla sua visione, contribuisce all’unità del “quillapì”803 “ La memoria dei popoli originari implica una costruzione collettiva della stessa. Implica concepire insieme uno spazio/tempo, un territorio proprio dove percorrere questa memoria. Il verbo “re-correr”, contiene nella sua semantica questa connessione con il passato, con il ritorno: “ ritornare per andare”, riconoscere ancora una volta. Memoria e Territorio vanno sempre insieme. Evocare questa connessione di luogo e passato è quello che può illustrare le radici spaziali della nostra storia. I Luoghi, i modi di nominarli e il ricordo di quello che lì è successo hanno un’importanza centrale nella ricostruzione della memoria. La nostra memoria racchiude la cosmovisione, la cultura, la storia, la territorialità di forma integrata, amalgamata, senza perdere nessun pezzo del puzzle”. “La memoria è un fatto e un processo collettivo. Se esiste un linguaggio e un significato comune, i membri di un gruppo possono ritornare al passato in maniera collettiva, ridando un senso collettivo all’insieme di eventi che li hanno costituiti come un’entità.”804 Il ruolo della donna come “Guarda Memoria”, custode della memoria, è stato fondamentale nella ri-costituzione del Popolo Charrùa. Il lavoro di ricerca di Monica in quanto donna Charrùa e “custode” della loro memoria è stato un contributo molto importante all’interno di questo processo. “ Il rimettere insieme il “Quillapì” con altre donne è stato importante in questo processo. Un giorno, con Stella mentre cominciava a leggere una cronaca presa da un libro in cui c’era scritto “ il giorno della prima mestruazione delle ragazze, scrive Azara, vengono dipinte sul volto tre righe blu che cadono verticalmente sulla fronte a partire dalla attaccatura dei capelli Cfr. III Capitolo. “Uruguay Pais sin indios” Monica Michelena., donna Charrùa, madre di tre figli e docente di matematica alle scuole superiori a Montevideo. 802 Il “Quillapì” è una mantella di pelle dipinta e confezionata con pezzi di pelle che venivano cuciti fra di essi e dipinti dalle donne in maniera collettiva. D’estate s’indossava con la parte del pelo verso fuori e d’inverno con il pelo dalla parte interna, lasciando, così, alla vista i disegni geometrici dipinti con i diversi colori dal lato esterno. Michelena, M., op. cit. p.18. La traduzione è responsabilità di chi scrive. 803 Ibidem 804 Michelena, Monica, op. cit. p.41 800 801 369 fino al naso, seguendo la linea del mezzo ne vengono dipinte altre due che attraversano le guance. Queste linee vengono segnate pizzicando la pelle, e così sappiamo che è un tatuaggio, non è una pittura, di conseguenza sono indelebili. (Zanon, 1998)” “Questa è una tradizione che abbiamo ripreso con mia figlia. Lei ha ricevuto questo rito di passaggio a tredici anni, durante la sua prima mestruazione. L’abbiamo fatto nella mia Comunità con l’intenzione di ricreare questo rito, l’abbiamo re-inventato, al posto del tatuaggio permanente, abbiamo dipinto le linee blu nel suo volto. A Questa cerimonia abbiamo posto un nome nella nostra lingua, si chiama “oipik-chalonà” che significa di “da bambina a donna”. Questa è stata una forma di appropriazione: dalla cronaca scritta siamo passate all’azione.”805 In questo processo di ricostruzione collettiva della memoria, le fonti delle cronache sono state confrontate anche attraverso la tradizione orale, mediante interviste con persone più anziane di altre Comunità che hanno contribuito al lavoro di Monica nel rimettere insieme i pezzi di questo “Quillapì.” “Vista l’importanza della memoria orale ci siamo soffermati sul tema della donna “guardamemoria”, custode della memoria, concetto che Stella riceve dalla sua intervista con Blas Jaime, l’ultimo uomo parlante la lingua Chanà che vive in Argentina. Questa la descrizione che Blas fa a Stella: - Adà (donna in lingua chanà) Oyenden, parola formata da due vocaboli: “oye” che significa “guardar”, custodire, e “nden” che è la memoria o il ricordo. Così, “oyenden” sarebbe “guarda –memoria”-. Questa era la forma in cui si preservava la memoria nelle comunità. Esiste la donna “guarda memoria”, “Adà oyendau” o “Adà oyenden”, che è responsabile di custodire tutta la memoria della storia della comunità, degli eventi, delle cose importanti attraverso le diverse generazioni, e questo Lei lo fa in un bastone, lì si segna il passare del tempo” (Stella, Febbraio 2011).”806 Oltre alle cronache e le fonti orali, ci sono anche i sogni come parte fondamentale di questa ri-costituzione culturale, nonché come messaggi che sostengono e organizzano la vita quotidiana dei popoli, come riportato attraverso gli insegnamenti già accennati. Dell’importanza dei sogni nella cosmovisione dei popoli indigeni, ancora una testimonianza nelle parole di Monica. 805 806 Ivi, p..48 Ivi, P.49 370 “ ho sognato... sognato che ero sopra una grande roccia ed ero vestita come Charrùa, con un “Quillapì” e veniva un anziano, molto anziano, con un bastoncino. Mi parlava, mi parlava e mi parlava, ma c’era molto vento. Lui, l’anziano, in un momento mi dà una pietra. Io la guardo, era una pietra di forma cilindrica senza punta, sopra era rotonda e tutta lavorata, tutta, con disegni geometrici e linee e punti. Io, la guardo bene, la pietra, e quando la guardo bene arriva un rumore molto forte dalla parte di dietro. Io guardo dietro e vedo un’onda gigante che viene a coprire tutto,e quando viene l’onda, così nel cammino, cominciano a cadere tutte le stelle e in quel momento mi sveglio. Io quel giorno ho disegnato il sogno, ce l’ho ancora il disegno, della pietra e i suoi disegni. Quello che non ho mai saputo è cosa mi abbia detto l’anziano, ma nel sogno io sognavo come se capissi tutto, io capivo tutto, quindi la sensazione quando mi sono svegliata era di accomodarmi. Io capivo quello che lui mi diceva, ma non ho mai saputo cosa mi abbia detto, la cosa è che io ho relazionato questa pietra con un qualcosa di mio.”807 “ Così ho cominciato a cercare la pietra e ho trovato di queste stesse pietre del sogno nei musei (...) così ho cominciato a ricercare, a indagare con persone specialiste e mi hanno detto che erano pietre claniche, che i disegni appartenevano ai diversi clan, che avevano un simbolismo, un senso che rappresentava i diversi clan. Così io continuavo a pensare a questo sogno, e l’unica cosa che ricordavo era che quella pietra era molto importante per me. Quando l’ho chiesto ad un sacerdote, che aveva un museo indigeno a Paysandù, dove si trovano queste pietre, mi ha detto che erano bastoni di comando, ma io li associo più con la memoria, cioè, quei bastoni o quelle pietre per me rappresentano la memoria. Per questo ho cominciato a sentire interiormente la necessità di recuperare la memoria. Questo sogno l’ho fatto quando avevo 19 anni. È stato lì che ho cominciato la mia ricerca, è da allora e da quel sogno che ho iniziato tutta la mia ricerca.”808 Dal primo incontro con Monica a San Cristobal de las Casas, nel Dicembre 2011, le ho chiesto se potevo andare a Montevideo per partecipare a uno dei riti più importanti che le donne Charrùa hanno mantenuto e attraverso il quale si nutre questo processo di ricostruzione della loro memoria: il rito alla luna piena. Sono altamente riconoscente alle donne e alle giovani Charrùa che hanno consentito la mia presenza per partecipare insieme durante la Luna Piena del 7 aprile 2012 in Territorio ancestrale Charrùa. In questo breve, ma intenso, periodo a Montevideo ho avuto l’opportunità di realizzare diverse interviste, nell’intenzione di capire più da vicino il processo portato avanti dalla Comunità Basquadè Inchallà da più di venti anni. 807 808 Ivi, p. 50 Ivi, p. 51 371 Riporterò in questa sede alcuni dei passaggi sulle pratiche spirituali che le donne continuano a mantenere, altre possono essere consultabili nel link sotto indicato.809 “Esiste una cerimonia della Luna che noi donne Charrùa stiamo cercando di rafforzare. È la presentazione alla luna dei neonati, è una pratica ancestrale. Ogni volta che nasce un bambino o una bambina, lo si “consegna” alla Luna per chiedere di guidare i suoi passi. Io ho presentato i miei due figli e mia figlia alla Luna. C’è una canzone per questa cerimonia. Noi stiamo recuperando la lingua Charrùa attraverso la lingua Chanà e la lingua Ghenoa, che formano parte della stessa famiglia linguistica. Erano popoli fratelli, negli ultimi tempi si sono riconosciuti come Charrùa tutti perché erano già tutti mescolati”. La canzone dice così: “ Quèdate quietita mi niña/o. Levanta tus ojos a la hermosa Luna, que la Luna te darà mucha salud, te darà mucha salud. Levàntate hermana/o. Levanta tu espiritu” (Rimani ferma/o mia/o bimba/o. Alza i tuoi occhi alla bella Luna, che la Luna ti darà molta salute. Alzati sorella/fratello. Alza il tuo spirito). È importante in questo momento per noi questa cerimonia, perché siamo in un processo quasi di rinascita, quindi, è importante innalzare il nostro spirito.” Un aspetto sul quale Monica ha lavorato molto è sulla rivendicazione storica ricostruzione della memoria Charrùa, e la le motivazioni del suo impegno vengono così raccontate: “A prescindere del ruolo ufficiale della scuola, o del mio ruolo d’insegnante, io mi sono immersa in questo processo di rivendicazione Charrùa, ormai da più di vent’anni. Praticamente da quando ho imparato, attraverso una mia zia, quando ne avevo 19 anni. Mia madre non mi ha mai voluto parlare, poi dopo il racconto di mia zia ho sognato, all’età di 20 anni. È stato un sogno molto profondo, con un messaggio molto forte. Da lì ho assunto questa responsabilità. Ho iniziato a ricercare su diverse fonti, sia attraverso la cronaca che attraverso le fonti orali, per rintracciare i brandelli sparpagliati della nostra storia. Per esempio, attraverso le cronache sui Charrùa ho appreso che ci sono stati quattro Charrùa che sono stati venduti ad un circo in Francia, dopo il genocidio di “Salsipuedes” nel 1831, durante il governo di Fructuoso Rivera che è stato il primo presidente del Uruguay. Nel 1833, un francese di Jurel, chiede a Rivera di mandargli i quattro migliori “esponenti” Charrùa, come se fossero oggetti, per venderli ad un circo francese, come “stranezze” umane. Così sono stati venduti: Il “Cacique” Baymaca Perù, la sua compagna Guyunusa, il “curandero” (guaritore) Simaquè, che erano della stessa “tolderia”(aldea), e poi il più giovane Tacuabè (…) 809 Vedere: www.youtube.com / YolandaAbyaYala/ Mujeres TerritorioCuerpoMemoria/ Monica Michelena/Pueblo Charrùa. 372 “Guyunusa era in cinta, ma durante il viaggio, nella barca, cambia marito - esisteva molta libertà fra le donne Charrùa , potevano cambiare coppia- anche gli uomini lo potevano fare. Quindi Tacuabè accompagna Guyunusa nel parto, già sua compagna a Parigi. Lì nasce una bambina a cui danno per nome Caroline Takuabè. Nel primo anno muoiono tutti, l’unico che si salva è Tacuabè che riesce a fuggire con la bambina, anche se i registri della cronaca dicono che la bambina visse soltanto otto mesi per contagio di tubercolosi. Un antropologo uruguayano che ha studiato alla Sorbona, Dario Arce, ha seguito le loro tracce a Lyone, dove sono stati i quattro Charrùa. Ѐ attraverso di lui che abbiamo saputo che la bambina è morta. Adesso sta seguendo le tracce di Tacuabè, ma l’ultima informazione a cui è riuscito ad arrivare è che è stato venduto ad un circo e da lì non abbiamo avuto più informazione”. …(..) “Durante la sua permanenza a Parigi, Tacuabè costruisce un arco monocorde con il quale fa musica e i francesi registrano questi accordi. Oggi molti suonano l’arco di Tacuabè e anche noi attraverso questi registri l’ abbiamo ricostruito(…)”810 Sulla base di questi registri Monica manda un messaggio a tutti i popoli, ma specialmente al popolo Europeo: “Io vi posso dire che all’essere umano senza radici manca una “patita”. Noi siamo in questo processo e non ci sentiremo integre finché questa “gamba” non ci viene riconosciuta, perché anche se non è stata riconosciuta vive dentro di noi, e così giorno dopo giorno la viviamo, elaboriamo questa memoria in maniera collettiva. Questa “Oyenadau”, la memoria dei popoli è fondamentale per andare avanti, per guardare al futuro in un altro modo. Una persona si sente più incorporata nel mondo, in questa vita, quando prende coscienza delle generazioni che l’hanno preceduta, quando prende coscienza degli spiriti degli antenati, quando prende coscienza del sentire collettivo e quando si sente in gemellaggio con altri che sentono e vivono la stessa memoria. La memoria è importante, è segnata dentro di noi. La memoria è come l’ancora, un punto di riferimento per sapere che non stiamo camminando da soli. Per sapere che stiamo camminando custoditi da un cosmo che cammina insieme a noi e che in quel cosmo c’è il Tutto. Un cosmo immenso: la natura, il creato. Un Tutto con molta memoria, memoria in avanti, memoria per il futuro, perché il tempo è ciclico e camminiamo sulle impronte dei nostri antenati. Quindi, che questa MEMORIA sia un Ponte Pedagogico.” Un aspetto importante del processo Charrùa è stato il coinvolgimento delle giovani generazioni all’interno delle pratiche spirituali e culturali, come manifestato da Guidaì, la figlia di Monica. 810 Ibidem. 373 “ In realtà per me è molto naturale fare parte di questo processo perché i miei genitori hanno portato avanti questa causa sono stati sempre in questa ricerca e la mia formazione è stata frutto di tutto quanto loro hanno fatto per questa cultura così perseguitata fino al giorno d’oggi. Per me oggi è molto naturale sentirmi Charrùa, non vergognarmi di essere portatrice delle caratteristiche di questo Popolo che lo rendono differente da altri. Io sono nata il 9 gennaio del 1994, mi hanno presentata alla Luna, che è la presentazione Charrùa, a differenza dell’uso comune che è il battessimo cattolico. Questo rito della Luna è molto forte all’interno del paese, si pratica ancora oggi. Inoltre mi chiamo Guidaì, che in Charrùa vuol dire Luna. Abbiamo fatto una canzone e con questa ci presentiamo. Da molto tempo l’hanno messa in un libro ed oggi è la canzone che più conoscono i bambini, suona già in tutto il paese. Dice così la canzone.”: “Basquadè Basquadè Inchalà Basquadè Basquadè inchalà Ue ue id guidai Bilu Bilu id Guidai “ “Levantate hermano Levantate Hermano Agua, agua, fuego, luna Hermosa hermosa luna” “Questa canzone riunisce tutto il nostro sapere attraverso la natura811” “Un altro rito importante che ho ricevuto sono le linee blu sulla fronte. Questo è stato un rito recuperato dalle cronache, che si pratica durante la prima mestruazione. Queste tre linee blu, fatte sulla fronte fino al naso, sono simbolo dei fiumi del nostro territorio. Dove abitavano i Charrùa, nel nostro Territorio Ancestrale c’erano molti fiumi e l’acqua era molto importante. Ancestralmente era un tatuaggio che rimaneva, così quando la donna cresceva e diventata madre, la bambina o bambino la prima cosa che vedeva era il Territorio attraverso questi tre fiumi disegnati sul volto della madre, così che guardando questa rappresentazione rimane impressa nel piccolo che cresce sentendo dentro l’appartenenza al Territorio. A me non hanno fatto il tatuaggio permanente, mi hanno fatto un disegno che si poteva cancellare, ma i miei genitori e tutte le persone del gruppo mi hanno spiegato e trasmesso l’importanza di questa cerimonia.(...) 811 Intervista realizzata a Montevideo nel mese di aprile 2012, consultabile al link: www.youtube.com / YolandaAbyaYala/ Jòvenes identidades de Abya Yala/ Guidaì Vargas Michelena Pueblo Charrùa. 374 “ A i giovani io vorrei dire, che dobbiamo avere coscienza di quello che stiamo facendo e capire il perché lo facciamo, così come sapere da dove vengono e che senso hanno le cose che facciamo. Questo è molto importante. Direi anche di non perdere la connessione con la natura, è quella che ci permetti di sapere chi siamo. Perdendo questa connessione vengono le crisi d’identità, non sappiamo più chi siamo ed è allora che cerchiamo modi diversi di appartenere a qualcosa ed è in questi passaggi che molte volte troviamo il modo sbagliato e ci perdiamo. ..(..)”812 Lingua Territorio Memoria "Nonna dell'acqua, nascondi segreto, antico segreto, antica occultatrice. Te che hai attraversato la rotta della difficoltà e la rotta della serenità, in questo sacro incrocio, ascoltami! ”813 La perdita della lingua è uno dei punti condivisi come problematica fra diversi popoli, dovuto alle politiche colonialiste avviate sia dalla scuola che dalla religione, ma soprattutto dall’usurpazione dei loro Territori, così come è stato documentato lungo queste pagine.814 Uno dei tanti Popoli che in Colombia hanno sofferto questo processo chiamato di “acculturazione”, è il Popolo Embera Chamì815, di cui ho avuto opportunità di parlare con 812 Ibidem. Antico Pensiero Muisca. 814 Cfr. III Capitolo di questo elaborato 815 El Censo DANE 2005 reportó 29.094 personas autoreconocidas como pertenecientes al pueblo Embera Chami, de las cuales el 50,2% son hombres (14.609 personas) y el 49,8% mujeres (14.485 personas). El pueblo Embera Chami se concentra 813 375 Luz Yadeni, donna Embera Chamì, della Comunità di Rio Sucio, nella Regione di Caldas, anche lei partecipante al corso di formazione di donne indigene dell’Università Indigena Interculturale del Fondo Indigeno. “ La nostra comunità come molte altre ha perso la lingua. Questo è vero, è successo per tutto il processo di colonizzazione che è stato molto forte nella nostra zona. Abbiamo iniziato con questo processo attraverso l’implementazione di un programma di educazione interculturale che sia interattivo e coinvolga tutta la comunità, non come di solito si fa, nel senso che si implementano dei programmi rivolti soltanto agli insegnanti, senza considerare l’intera Comunità. Adesso stiamo elaborando un curriculum per le scuole elementari in modo da partire dalla cosmovisione rivolta ai bambini. Un punto importante da considerare è che nonostante abbiamo la difficoltà della lingua, abbiamo ancora le nostre danze, l’artigianato e l’organizzazione sociale e politica e che tutte le rivendicazioni che portiamo avanti in questo momento sono tessute attraverso i quattro punti cardine della nostra organizzazione: Unità, Cultura, Territorio e Autonomia, e questi quattro punti sono sostenuti dalla spiritualità, dalle pratiche ancestrali (...) Infine, la partecipazione della donna negli spazi politici e di organizzazione è un punto altamente valorizzato nella nostra Comunità. Io in questo momento faccio parte del Consiglio Nazionale di Donne Indigene, sono la coordinatrice a livello nazionale, all’interno dell’ONIC (Organizzazione Nazionale Indigena della Colombia), e questo lo ritengo un punto importante, non soltanto per me, ma per tutte le donne indigene.”816 Altre testimonianze di recupero della loro cultura attraverso processi educativi e politici, sostenuti dalle pratiche spirituali e il coinvolgimento diretto delle donne, riguarda il Popolo Sikuani817. Di seguito riporto parte dell’intervista con Elizabeth, giovane avvocatessa sikuani, anche lei partecipante al corso di formazione per donne indigene dell’Università Indigena Interculturale del Fondo Indigeno. “Io ho ricevuto da piccola la formazione sikuani da parte di mia madre che è una “lideresa”. Lei ha 58 anni, è linguista laureata all’Università ed ha sempre lavorato con i popoli in tutto il territorio nazionale. Io non parlo la lingua perché nei continui viaggi di mia madre io sono en el departamento de Risaralda, en donde habita el 55,1% de la población (16.023 personas). Le sigue Caldas con el 24,8% (7.209 personas) y Antioquia con el 7,3% (2.111 personas). Estos tres departamentos concentran el 87,1% poblacional de este pueblo. Los embera chami representan el 2,1% de la población indígena de Colombia. Caracterizaciòn del Pueblo Embera Chamì. Ministerio de Cultura. Colombia. www.mincultura.gov.co/index.php?idcategoria. 816 Intervista realizzata a San Cristobal de las Casas, dicembre 2011, consultabile al link: www.youtube.com /YolandaAbyaYala / Mujeres TerritorioCuerpoMemoria / Luz Yadeni, Pueblo Embera Chamì Colombia. 817 Attualmente si trovano nei dipartimenti di Vichada, Meta, Casanare, Guanina, Arauca (principalmente sulle rive dei fiumi Meta, Orinoco, Vichada y Manacacias) e in Venezuela. Sono approssimativamente 15.000 persone. Sono il Popolo con maggiore presenza nella regione dell’Orinoquia Colombiana. http://www.mincultura.gov.co. 376 cresciuta con mia nonna che ora ha 84 anni e continua a vivere a Puerto Carreño, non è voluta tornare alla Comunità. Io capisco il sikuani perché mia madre lo parla e mia nonna anche, ma non lo parlo perchè sono andata a scuola in Arauca , ad una scuola di bianchi e lì ho imparato soltanto lo spagnolo, inoltre non sono andata a vivere nella Comunità e quindi mi manca questa connessione. Adesso, da quando ho finito l’università ci vado più spesso e mi sto riconnettendo con la lingua materna che ancora rimane nella mia memoria” Nel processo di trasmissione culturale certamente la lingua è un fattore importante, ma non è l’unico: ci sono anche le pratiche spirituali e le tradizioni culturali del tuo popolo che fanno parte della propria identità, questo si porta dentro anche se non si è cresciuti all’interno della comunità. I riti sono importanti. Per esempio quando nelle mie prime mestruazioni, mia madre mi ha fatto il rito del “rezo del pescado”, insieme a mio zio che è medico tradizionale. Io ho seguito la tradizione, sono stata rinchiusa durante il periodo necessario, perché secondo la tradizione se si va fuori in quel periodo, si è condannate ad essere una donna pazza. Quindi io ho seguito questa parte rituale e sono sempre stata cosciente di essere una donna sikuani, sempre l’ho detto, anche all’università, non ho mai negato la mia identità. Un’altra parte importante dell’identità è il cibo tradizionale. Ci sono alimenti fondamentali sia a livello della dieta, sia a livello rituale. Fra di noi, sikuani, per esempio, la “manioca” è un alimento ancestrale, che consumiamo ancora oggi. Per cui, sì la lingua è importante, ma se si conservano gli altri aspetti della cultura, fra cui la spiritualità, tutto si può recuperare.”818 Le parole di Elizabeth richiamano l’attenzione sull’importanza della Spiritualità e del Cibo come aspetti fondamentali nella vita di una cultura, dove la sfida di costruire un modello educativo proprio va accompagnata dall’impegno politico nella lotta per la Memoria e il Territorio. “Sul versante politico è mia madre che rappresenta il popolo Sikuani nei diversi spazi, io l’accompagno sempre e mi mantengo informata. Per esempio adesso ci sono le conversazioni con lo Stato Colombiano, attraverso “la Mesa Nacional de Educaciòn”. Ѐ uno spazio a livello nazionale dove si parla di educazione propria, alternative di educazione costruite a partire delle esperienze dei diversi popoli…(..) Noi come Sikuani non abbiamo ancora un modello curriculare costruito, ma ci sono altri popoli come gli U’wa di Arauca che hanno già un proprio modello (...) “Questo processo educativo va accompagnato anche dalla lotta politica. Per esempio mia madre è tornata in Comunità dopo il suo lavoro come linguista, 818 dopo il massacro di Intervista realizzata a San Cristobal de las Casas, dicembre 2011, consultabile al lin: www.youtube.com /YolandaAbyaYala / Mujeres TerritorioCuerpo Memoria/ Marìa Elizabeth Pueblo Sikuani Colombia. 377 “Omoplanas” negli anni ’70. Lì sono morte quaranta persone e questo è rimasto nell’impunità. Questo fatto è stato decisivo nella lotta che ha intrapreso mia madre. Nel finire quest’intervista, Elizabeth fa una invocazione in lingua Sikuani, chiudendo i suoi occhi, prende in mano il suo amuleto di protezione pronunciando le parole insegnate da suo nonno per queste occasioni, che per rispetto alla tradizione orale non vengono trascritte qui, ma l’intervosta è consultabile al link sotto indicato.819 Corpo Territorio Resistenza Laboratorio “SpiritualitàCorpoTerritorio” con donne Kankuame 820 All’interno del contesto di resistenza, riprendo alcune esperienze della Colombia riportando parte delle interviste più significative e rappresentative dei processi di resistenza politica e culturale in cui il ruolo delle donne è stato fondamentale. In primo luogo riporto la testimonianza del popolo Kankuamo, un popolo dove le donne sono rimaste vedove, orfane o alcune sono morte in mezzo al conflitto armato che vive la Colombia da ormai più di sessanta 819 Ibidem. Laboratorio condotto dall’autrice. Chemesquemena Territorio Kankuamo, agosto 2012. Video consultabile al link: www.youtube.com /Pueblo Kankuamo /Taller CuerpoTeritorioMemoria. 820 378 anni, come accennato in pagine precedenti821, situazione che unita allo screpolamento comunitario causato dalle religioni hanno portato il Popolo Kankuamo alla perdita della loro cultura. In questo processo di recupero culturale, iniziato dopo le riforme della Costituzione Politica della Colombia, nel 1991, le donne hanno avuto un protagonismo importante. In merito le parole di Rosa Manuela Montero: “ Noi abbiamo diversi spazi di partecipazione, ma io mi sono interessata molto al processo spirituale e il processo di tessitura della “mochila”, perché il tessuto ha un significato molto importante, soprattutto per le donne, anche se tessono pure gli uomini. La “mochila” kankuama è un elemento identitario sia per gli uomini che per le donne. Al tessere, stiamo tessendo la Vita. Stiamo plasmando il nostro pensiero dallo stesso momento in cui si inizia la base della “mochila” che si chiama “chipire”, il quale ha la base tonda e intorno a questa base si tesse la Madre Terra, gli animali.. stiamo mettendo in questa “mochila” e tessendo in essa il nostro pensiero positivo.” “chipire”822 821 Cfr. IV capitolo di questo elaborato. 379 Oltre all’importanza del tessere, Rosa Manuela mi spiega anche la connessione forte del Corpo femminile con il Territorio e con tutto l’insieme dei progetti comunitari riguardante le colture, l’organizzazione sociale e la politica, sostenuta dalle pratiche spirituali che hanno cominciato le donne, guidate dai loro “Mamos” e dai Mamos Kogui che stanno sostenendo questo percorso. “Un altro aspetto importante riguardante la partecipazione delle donne riguarda il contributo dei “materiali femminili”. Sono offerte del nostro Corpo, del Corpo femminile, come il sangue mestruale ad esempio. È un elemento molto importante in certi riti, sono offerte che diamo a la Madre Terra come “pagamento”, sono cerimonie fatte per “sanare” il Territorio, per la salute, per fare arrivare la pioggia per le colture, per chiedere il buon proseguimento dei processi politici e dei processi di recupero della cultura kankuama, siano questi educativi, organizzativi o appunto, politici” “Quando dico “sanare” il Territorio, faccio riferimento alla necessità di guarire il nostro Territorio dal dolore, perché ci sono stati molti morti nel conflitto armato. Noi, il Popolo Kankuamo, abbiamo avuto più di 200 morti, fra uomini e donne, tutti assassinati dai diversi attori armati che abbiamo avuto in Colombia. Ci sono le statistiche ufficiali che si possono consultare. Abbiamo molte donne vedove, molte bambini e bambine orfani” “Nella mia condizione di donna, a prescindere dall’essere la moglie del “cabildo gobernador” (l’autorità politica del Popolo Kankuamo) - perché l’organizzazione kankuama ha offerto lo stesso spazio di partecipazione a tutte le donne – personalmente ho avuto tutto il sostegno per realizzare oltre alle pratiche spirituali anche delle attività politiche, dei percorsi formativi, fra cui l’ultimo diplomato del “Fondo Indigena”. “ Certamente, essere al suo fianco, come autorità politica, mi ha permesso di condividere un percorso insieme: uomo e donna. In questo percorso ho imparato molte cose da lui (...)” “Nel nostro processo ho considerato importante la formazione delle donne indigene in termini di diritti, non soltanto i diritti delle donne, ma i diritti che come popoli abbiamo. Tuttavia, la forza che ha guadagnato il nostro processo negli ultimi anni è stata grazie all’impegno nelle pratiche spirituali. Senza la spiritualità i processi non vano avanti. La Spiritualità è la base”. “Attualmente il percorso su cui stiamo investendo molto è il tema dell’autogoverno, e, all’interno di questo tema, la spiritualità è un asso trasversale del processo formativo, perché la base di tutto il nostro processo come popolo ricade nel recupero del Territorio e questo richiede dell’impegno spirituale e della lotta politica. (…) la Spiritualità va praticata nella vita quotidiana, adesso siamo impegnati in questo proposito e quel che prima non si faceva, ora lo Foto scattata durante il laboratorio “Spiritualità/Corpo e Territorio” condotto dall’autrice in cui un gruppo di donne hanno rappresentatole diverse dimensioni della Chakana, attraverso il “Chipire”, dove i diversi colori stanno a rappresentare i diversi livelli della cosmovisione del PopoloKankuamo. Territorio Kankuamo. Chemesquemena, Agosto 2012 822 380 facciamo prima di iniziare un progetto, un’attività collettiva, e i “mamos” ci guidano in questo processo. Dopo, alla fine delle attività formative, ci troviamo durante la notte nella “kankurwa” – la casa cerimoniale- e li dedichiamo il tempo alla riflessione, alla valutazione, a dare un senso alle cose che stiamo facendo.”823 Una delle sfide più grandi del Popolo Kankuamo è il recupero della loro lingua. In questo grande compito, hanno la fortuna di contare col sostegno degli altri popoli della Sierra, in particolare i Kogui, considerati da molti come i “custodi” della lingua Kankuama, in quanto appartenenti alla stessa famiglia linguistica. “Come madre di due figli sono consapevole dell’importanza del recupero della lingua materna. Questo è un processo lungo e lento, ma l’importante è che stiamo lavorando in questa direzione. Ultimamente ho pensato molto a questo punto e insieme ad altre donne stiamo elaborando una proposta. La prima cosa è che “io donna” mi percepisca anche come “donna parola” , questo è importante per iniziare. Già abbiamo un elenco quasi di 500 parole che sono state recuperate da alcuni archivi in Francia, non sono come ci siamo arrivati, ma il fatto è che abbiamo già queste parole, sono già qui in territorio Kankuamo. Queste parole si stano già insegnando nelle scuole del Territorio e come donne stiamo pensando attraverso i percorsi formativi, di cominciare a tessere letteralmente le parole. Tesserle nelle nostre “mochilas”, tesserle in tutte le nostre espressioni di cultura materiale in modo che possano cominciare a fare parte viva del nostro processo di recupero culturale, sociale, educativo, spirituale e politico. (…) Quindi, per finire penso che il processo abbia come base l’educazione e la spiritualità. Sono due assi fondamentali per mantenere i nostri Popoli.”824 Impegno Etico e Politico In queste ultime pagine voglio riportare esperienze di donne che hanno dedicato l’intera vita all’esercizio e alla trasmissione di questo impegno etico e politico, trascendendo le difficoltà della loro vita quotidiana per arrivare agli spazi pubblici, facendo della alleanza donneeducazione, un simbolo di memoria, lotta e resistenza dei loro popoli. Riferirò esplicitamente le parole di Margarita Gutièrrez y Daris Maria Cristancho. Parole che ci possono fare riflettere anche sulle parole del grande Maestro, Giovanni Maria Bertin: “Realizza te stesso realizzando gli altri”. 823 Intervista realizzata a Valledupar, agosto 2012, consultabile al TerritorioCuerpoMemoria/ Rosa Manuela Tejiendo la Palabra / Pueblo Kankuamo 824 Ibidem. 381 link: www.youtube.com /Mujeres Di seguito il messaggio di Margarita Gutièrrez Romero, chi da 19 anni fa attivismo politico comunitario fra le diverse Comunità dello Stato del Chiapas nonostante la sua appartenenza al Popolo Hñahñu.825 “Al mio arrivo in Chiapas ho imparato altre forme di lotte, soprattutto la lotta per la Terra, in un misto fra rivendicazioni contadine, diciamo più un tipo di socialismo marxista. Mi son trovata in questa lotta per la Terra a dialogare con lo Stato, in un’insieme fra organizzazioni contadine e partiti politici di sinistra. Così ho iniziato una formazione politica molto forte. Allora, esisteva già la convenzione ILO 169 sul quale abbiamo fatto un percorso formativo con il Popolo Mapuche del Cile. Quindi conoscere questo strumento del diritto internazionale mi dava molti elementi per la lotta, mi sentivo più forte. Sto parlando più meno dell’anno 2000. In quel momento i movimenti in Chiapas erano molto forti. Oggi (2012) sono ormai più di 19 anni che sono in Chiapas, parlando del movimento Zapatista posso dire che certamente è un attore importante, ma diciamo che oggi esiste una frattura fra il movimento Zapatista e il movimento indigeno. I motivi sono diversi, ma diciamo che sono cambiati anche gli obiettivi o gli interessi della lotta. Per esempio negli “Accordi di San Andrès”, uno dei punti importanti era il punto di “Terre e Territori” e il governo non ha voluto risolvere questo punto. Questo è ancora un punto importante da risolvere.826” “Un altro punto ancora da risolvere riguarda La partecipazione delle donne negli spazi di potere. Io sono stata sempre molto critica nel confronto dei maschi, anche se il mio lavoro si svolge prevalente fra uomini, perchè con loro bisogna interagire negli spazi di potere. Ma quello che dicco alle donne sempre è che bisogna costruire relazione armoniche fra noi donne. Trovo molto interessante il processo a partire del rapporto con le donne perché attraverso di questo rapporto si crea coscienza sull’importanza dell’organizzazione fra donne”. Margarita, da donna militante e “lideresa” impegnata nella lotta politica e sociale, fa un chiamato alle donne a riprendere nelle loro mai la propria spiritualità. “Diciamo che la vita spirituale in Chiapas è abbastanza complessa, perché una parte della popolazione vive una ritualità mista fra le tradizioni indigeni e le tradizioni cattoliche, ma altri sono evangelici e le loro chiese proibiscono le pratiche cerimoniali della tradizione indigena. Personalmente io credo negli elementi della natura, ma rispetto tutte le credenze, partecipo di tutti i tipi di cerimonie perché penso che comunque ci sono e fanno parte di un tessuto sociale. 825 Margartia Gutièrrez Romero es Lideresa del pueblo Hñähñu, tambièn conocidos como Otomìes. Actualmente la mayor concentraciòn de de poblaciones hñähñus se encuentran en los estados de Hidalgo, México, Querétaro y Veracruz. También hay poblaciones hñähñus en los estadosde Puebla, Guanajuato y Jalisco en Mèxico. 826 Interviste da me realizzata a SanCristobal de lasCasas, dicembre 2011, consultabile al link: www.youtube.com /YolandaAbyaYala/ Mujeres TerritorioCuerpoMemoria /Margarita Gutièrrez Pueblo ñhañhu, Mèxico/ 382 Io penso che la spiritualità è un modo di vita, non è una moda, è una forma di connessione con la Natura. Credo in un Dio, ma credo fortemente nella connessione con la Terra, credo e pratico le cerimonie alla Terra. Credo perché in diverse occasioni ho comprovato che quando si perde l’equilibrio con la parte spirituale il Corpo lo manifesta. Inoltre, la spiritualità ha bisogno di nutrirsi di un territorio . Io ho un territorio immaginario tutto il tempo e cerco la Comunità tutto il tempo, essere in Comunità favorisce la vita spirituale, per cui, le donne dobbiamo avere forza per guarire le nostre ferite, stiamo caricando il mondo sulle nostre spalle da sole e continuiamo a subire ancora diverse forme di violenza, questo reca dolore al nostro cuore, alla nostra spiritualità e quindi diventiamo donne addolorate, per cui è necessario re-appropriarci delle proprie forme di lotta, c’è bisogno di impastare di nuovo la nostra identità andando oltre il femminismo occidentale, noi abbiamo un’altra forma di femminismo. Dobbiamo re-imparare a sommergerci nel ventre della Madre Terra, lì c’è l’essenza del nostro femminismo. C’è necessita di smaltire troppe cose, disimparare molte cose per re-organizzarci in questo processo di resistenza. Ma dobbiamo avere presente anche che in questa lotta del movimento delle donne, dobbiamo includere anche gli uomini,negoziando spazi, allargando il protagonismo delle donne, certamente la politica non è l’unica cosa di cui ci dobbiamo occupare, ma è una cosa importante della stessa forma indigena di organizzazione, e in questo processo come detto prima la base della forza è la spiritualità, è a partire della dimensione spirituale che possiamo recuperare quello che abbiamo perso, per riprendere la forza delle nostre organizzazioni.827” Parola Memoria Resistenza Il Popolo U’wa ha occupato dall’inizio di questo elaborato uno spazio importante, in quanto è stato uno dei Popoli con cui più ho camminato in questo percorso. Ma oltre a questo, il motivo principale ricade nella sua profonda spiritualità mantenuta viva fino ad oggi, grazie alla forza con cui hanno portato avanti la difesa del loro Territorio e della “Ruiria”, per loro sangue della Madre Terra, in Occidente conosciuta come petrolio. In tutto questo processo gli U’wa sono stati accompagnati da movimenti sociali e ambientalisti in Colombia. In questo percorso ci siamo conosciute con Daris Maria Cristancho828 ormai da più di quindici anni. Il suo messaggio è stato da lei portato in diversi paesi, fra cui Stati Uniti, Belgio e Italia. Riporto in questa sede le sue parole come testimonianza d’impegno, coraggio e resistenza, sostenuta e nutrita dalle pratiche spirituali del suo Popolo. 827 828 Ibidem. Daris è laureata in scienze sociale e docente alle scuole superiori a Cubarà – Boyacà. 383 “ Io penso che la forza per mantenere viva la nostra cultura come Popolo, nonostante tanti anni di umiliazione e di dominio prima da parte delle missioni e dopo dei coloni, è stata ed è la nostra spiritualità, la nostra forma di vedere il mondo. Come U’wa noi pensiamo che Sira (Dio) ci ha lasciato per essere guardiani della Natura, donandoci la saggezza cosmica per vivere in armonia con gli spiriti che noi chiamiamo acqua, montagne, laghi, tutti, anche gli animali hanno il loro spirito, per cui abbiamo imparato a vivere con il mondo di sotto e il monto di sopra , sono loro che mantengono l’equilibrio per vivere in armonia. Questo è il modo in cui abbiamo conservato la nostra forza spirituale”. Non importa che io sia stata all’università, se gli insegnamenti sono statti strutturati bene si manterranno per sempre, attraverso le pratiche spirituali. Per esempio per noi “l’Ayo”, (le foglie di coca) ci dona il potere di connessione con la parte spirituale, con i sogni, con il pensiero, con la Madre Terra. Altro aspetto molto importante della parte spirituale U’wa sono i digiuni. In questo momento per esempio è un periodo di due mesi di digiuno. Si possono mangiare soltanto frutti nativi che non siano cucinati. È molto importante fare questo digiuno perché è un modo per fare offerte alla Terra, un “pagamento” che ci permette di connetterci con “Ruiria” con i pilastri che sostengono il mondo, perché sono loro che ci danno l’equilibrio. Daris è madre di cinque figli, quattro femmine e un maschio, per cui nella sua condizione di donna meticcia e madre ha dovuto affrontare sia delle difficoltà del mondo esterno sia quelle legate alla propria cultura. Nonostante sia stata molte volte rifiutata dalla stessa Comunità il suo impegno persiste ancora oggi, dopo più vent’anni . “Questo percorso di lotta è stato piuttosto difficile, perché nei nostri popoli, noi donne non abbiamo le stesse opportunità per portare all’esterno il nostro processo di lotta. All’interno delle Comunità siamo importanti, è ma quando dobbiamo andare all’esterno che se presentano dei problemi, dicono che siamo deboli perché possiamo andare a convivere con un bianco e così continuare ad incrementare il “ metticciato” fra i nostri figli. Tuttavia, io sono stata in USA, Belgio, e Italia, come donna “ponte” fra la nostra cultura e il mondo Occidentale. L’esperienza più importante che ho avuto nel contesto internazionale è stata quella di andare alle Nazione Unite e conoscere tante donne indigene importanti, che portano i processi di diffesa dei loro territori, dei loro popoli. Questo mi ha fatto capire che noi donne possiamo e mi ha dato coraggio per continuare nella lotta per la diffesa del nostro Territorio. Mi ha fatto capire che non è vero che siamo deboli, anzi, nella nostra cultura siamo importanti perché siamo le donne U’wa che seminiamo, lavoriamo la terra, educhiamo i figli, siamo noi che 384 stiamo in connessione diretta con la Terra. Quindi dobbiamo insegnare agli uomini che anche noi possiamo stare in un processo di difesa.”829 In tutto questo processo di lotta, esplicita Daris, è importante mantenere sempre la connessione con le pratiche spirituali ancestrali, perché sono esse a dare la forza per continuare. “Ѐ importante, anche come donne, che tutti questi processi siano sempre sostenuti dalla nostra forza spirituale. Come ho detto prima, anche se sono andata all’università, ho sempre mantenuto le mie pratiche spirituali perché le avevo dentro, dall’educazione dei mie nonni. Io ho vissuto i miei primi nove anni con i miei nonni. Mio nonno ha vissuto 90 anni e mia nonna è morta che aveva 120 anni, per cui ho ricevuto da loro tutti gli insegnamenti della parte spirituale. Quando avevo sette anni, loro mi dicevano che io avevo un compito molto importante e lungo da compiere, ma allora non ho immaginato quanto poteva essere difficile. Ho vissuto molte esperienze, ma la più dolorosa è stata quando ho dovuto confrontarmi con la polizia anti sommossa, durante la nostra mobilitazione contro la Oxy ( Occidental Petroleum Corporation), ma nonostante tutto ciò, sono ancora qui. Infine, ai miei fratelli indigeni voglio dire che questo è un processo ancora in atto e che dobbiamo proseguire anche se il cammino è difficile, perché ogni giorno ci saranno più problemi nelle nostre Comunità, per il fatto che arriveranno ancora delle cose nuove, ma soprattutto dei soldi e i soldi distruggono il cuore delle persone, ma proprio contro queste cose dobbiamo lottare. Dobbiamo organizzarci in questo processo di globalizzazione e guardare all’interno delle nostre Comunità per vedere come affrontiamo questo mostro.” “Al mondo Occidentale dico che dobbiamo pensare di più al futuro dei nostri figli, dobbiamo pensare a lasciare loro qualcosa d’importante, di significativo per le loro vite, non soltanto spazzatura o inquinamento. Dobbiamo vedere che ogni giorno la nostra Terra si sta ammalando di più, è diventata più debole e non facciamo niente per rimediare, per mitigare. Si pensa soltanto a lavorare e lavorare tanto per lasciare una quantità di soldi ai nostri figli, ma non si insegna la vera educazione, cioè, l’importanza di rispettare la natura, che si deve trovare un modo per fermare lo sfruttamento degli idrocarburi che non sono rinnovabili e che un giorno finiranno, che questo comporta squilibrio. Sira ha lasciato tutto in equilibrio e l’essere umano non è stato in grado di mantenerlo. Si pensa soltanto ai soldi, ma i soldi non si possono mangiare”830 Intervista. Cubarà –Boyacà- Colombia., giugno 2012, consultabile al link: www.youtube.com / YolandaAbyaYala / Mujeres TerritorioCuerpoMemoria /Daris Marìa Cristancho/Pueblo U’wa 830 Ibidem. www.youtube.com /YolandaAbyaYala/ Mujeres TerritorioCuerpoMemoria 829 385 Donna U’wa831 “Ho una figlia femmina e vorrei che crescesse consapevole che il nostro essere donne ci rende esseri diversi. Che la nostra natura femminile ci dona un corpo meraviglioso che contrariamente di essere merce è il tempio della nostra saggezza, l’armadio dei nostri sogni e la casa della nostra esistenza.”832 831 832 Foto in Territorio U’wa. 2003 Parra Yolanda, (Iyara Bagala), Fra Oceani, La Riflessione, Davide Zedda, Cagliari 2009, p.41 386 Cerimonia inaugurale dell’Orto dei Popoli – Bologna primavera 2010 387 PARTE SECONDA L’ORTO DE) POPOL) A BOLOGNA UNO SPAZ)O URBANO TERR)TOR)OCORPOMEMOR)A L’Orto dei Popoli è una proposta collettiva aperta a tutti gli esseri maschili e femminili, di grano e di mais, di quinoa e di cacao, di cuore, carne e ossa, impegnati nel seminare la parola e coltivare il giardino dell'incontro e la diversità. L’Orto dei Popoli, è un luogo rituale, un luogo d’incontro. Riporto in queste pagine un’esperienza che reputo particolarmente significativa all’interno dell’argomento “TerritorioCorpoMemora”, sia per essere stata una proposta della quale sono stata promotrice, sia perché rappresenta uno spazio pedagogico favorevole alla convivialità, un modo di fare educazione interculturale in modo diverso, nell’intenzione ri-creare uno spazio comunitario in un luogo di “nessuno”, come più avanti verrà raccontato. Preparazione del terreno Orto dei Popoli – Bologna primavera 2010 Questo spazio: l’Orto dei Popoli è stato uno dei più importanti esercizi pedagogici a cui ho avuto l’opportunità di partecipare dopo essermi promessa di non frequentare più i famosi convegni e seminari rivolti alle persone immigrate sul territorio bolognese. 388 Nella primavera / estate 2010, le Associazioni Kankurwa Kai Kashi833, Fed Fab e altri amici e diversi frequentatori del Centro Interculturale Zonarelli, con il sostegno permanente e prezioso di Luisa Granzotto834, abbiamo dato vita all’Orto dei Popoli nell'intenzione di offrire ai cittadini stranieri e italiani un luogo d'incontro, dove il contatto con la terra potesse agire come collante fra le diverse colture e culture. A continuazione le prime testimonianze di Luisa Granzotto, all’interno di un progetto portato avanti , in collaborazione con la Fondazione Villa Ghigi che ha offerto un primo contributo di tipo economico per sostenere l’attività già avviata dalle associazioni sopra indicate. “La prima stagione (iniziata nella primavera/estate del 2010) dell'Orto dei Popoli ha avuto tra i promotori /sostenitori /ortolani principalmente soci dell'associazione Kankurwa Kai Kashi e Fed FAb, e diversi frequentatori e amici occasionali, oltre a me e a qualche collega. Dopo la preparazione del terreno la coltivazione ebbe l'avvio attraverso un rituale che vide coinvolti anche bambini di un'associazione del Centro della città, creando al centro un cerchio simbolico dell'Orto, un cerchio di erbe aromatiche ed odorose con al centro una pianta di agave, così abbiamo dato vita all’Orto dei Popoli: un luogo rituale, un luogo di incontro, un luogo pubblico nel cuore del quartiere San Donato, dietro al palazzo del centro, di fianco al campo di pallacanestro”.835 L’idea di recuperare questo luogo da spazio di nessuno a spazio di tutti ha avuto un riscontro favorevole come riportano ancora le parole di Luisa. "Creare un orto in un pezzo di terra prima lasciato al passaggio dei cani e degli spacciatori, una striscia di terra tra il campo di calcetto e il giardino della scuola materna, è una sfida che continua. Più volte l'ho pensato come Orto -Terra di Confine tra l'abbandono, il cosìddetto "degrado" e il prendersi cura (non è forse il degrado un'assenza di cura?) “ Yolanda ci parla nel suo intervento dell'orto come luogo dove il concetto del "pubblico bene di nessuno", diventa "pubblico come bene comunitario". L'Orto per me è una traduzione pratica di tale concetto. Andandoci spesso, lavorandolo, prendendosene cura si può incontrare la gradevole esperienza di "abitare" un luogo, di veder trasformato uno spazio abbandonato in un luogo vivo, un luogo di nessuno che può diventare luogo di incontro aperto per chi passa, dove è piacevole fermarsi. Yolanda ha ispirato e sostenuto questa idea (e pratica) dell'Orto comunitario, dove non è così importante cosa si L’ Associazione Kankurwa Kai Kashi è stata creata nel 2009 a Bologna, grazie alla volontà di altre persone che hanno creduto nella possibilità di fare un’educazione interculturale diversa ai canoni scolastici. www.kankurwakaikashi.altervista.org. 834 Luisa Granzotto è sociologa e funzionaria del Centro Interculturale Zonarelli. 835 Relazione di Luisa Granzotto. Centro Interculturale Zonarelli, 30 settembre 2011 833 389 raccoglie e chi lo raccoglie, è importante piuttosto l'incontro tra persone su un pezzo di Terra, lavorando la Terra, curando delle creature di Pacha Mama, nel rispetto e nella tranquilla e allegra convivenza.836” Orto dei Popoli, Bologna Estate 2010 “Il terreno è ancora pieno di sassi e detriti di costruzione del cantiere di 15 anni fa, e ancora riceve le veloci incursioni dei ragazzi che recuperano il pallone finito oltre rete, le visite curiose di qualche visitatore, le ispezioni dei cani dell'unità cinofila della Polizia Municipale..... Un progetto non realizzato prevedeva che vi si costruisse la tribuna del campetto, chissà, forse l'orto diventerà una tribuna in futuro, per ora lo viviamo come “Orto dei Popoli”.837 Luisa è stata dall’inizio l’anima vivente di quest’orto, la “nostra creatura”, come l’abbiamo sempre chiamata dal momento in cui abbiamo deciso di dare vita a questo spazio. Molte persone hanno frequentato occasionalmente l’orto, molte vanno e vengono, ma Luisa è diventata la custode di questo spazio. Anche attraverso la distanza sono stata sempre al corrente delle attività e dello sviluppo delle diverse creature, attraverso i suoi racconti. 836 837 Ibidem Ibidem 390 Orto dei Popoli - Bologna estate 2011 “La stagione 2011 è iniziata già in marzo con semina di patate, fagioli, girasoli, zucche, e in aprile con messa a dimora di vari tipi di insalate, varietà diverse di pomodori, zucche, cetrioli, piantaggine, lupino (diletto di Alberto) e il ripristino de l cerchio degli aromi con nuove piante aromatiche. Abbiamo poi ospitato l'orto di 3 sezioni della scuola materna Rocca, che i bambini venivano ad annaffiare, e una maestra particolarmente motivata è riuscita a coinvolgere i genitori e a creare un orto anche nel giardino della scuola (ho fornito un po' di concime e piantine in esubero, nonché prestato gli attrezzi, è stato bello questo scambio di vicinato con realtà che non si conoscevano). Purtroppo un episodio esterno ha limitato i movimenti dei bambini per questioni di sicurezza in giugno.” “Gli ortolani in questa stagione sono aumentati, oltre a quelli dello scorso anno ci sono stati un socio della Comunità Nigeriana (che si è preso il grande compito di annaffiare tutti i giorni durante l'estate, è un vicino di casa dell'Orto), una famiglia iraniana, una donna del Marocco coi suoi figli, una signora egiziana, e le piante nuove ospiti sono: 2 palme Nahal della Nigeria, menta del Marocco, zucche, peperòncini, diverse piante delle FIlippine (okra, momordica, talong,....) e delle zucche messicane.”838 838 Ibidem 391 Infine, l’Orto come luogo d’incontro, come luogo dove si costruiscono i rapporti di vicinato, nel tentativo di costruire Comunità. “L'Orto sviluppa relazioni di vicinato: tra gli ortolani e i ragazzi del campetto che spesso si sono abbeverati alla gomma con cui davamo da bere alle piante, che hanno scherzato coi nostri pomodori (forse li hanno anche maltrattati,chissà...), che si fermano al tavolo con panche per guardare più comodamente la partita; con le signore di passaggio con i loro cani che lo scorso anno si lamentavano dello spazio sottratto alle corse dei loro cari animali e quest'anno ci hanno fatto i complimenti per i bei girasoli; con i ragazzi tunisini (che dalla primavera vivono nel parco) che hanno ampiamente usufruito dell'acqua per lavarsi e rinfrescarsi, e che usano molto il tavolo per i loro pasti take-away; con le signore marocchine e i loro figli che qualche volta sono state con gli ortolani per la merenda; con i bambini della scuola materna vicina che lo scorsa primavera hanno seminato le loro aiuole insieme”.839 Dopo tre anni dall’inizio di questa esperienza, l’Orto dei Popoli continua ad offrire possibilità d’incontro mentre fa fronte alle estate bolognesi, specialmente in questo 2012 a quanto pare una delle più calde negli ultimi anni, ma grazie a Luisa, Nasiru e Leo le creature verdi sono riuscite a sopravvivere. Ho voluto lasciare qui alcune testimonianze840 delle persone che sono state da sempre o di passaggio in questo spazio pedagogico, conviviale e interculturale, nonché il punto di vista istituzionale del direttore del Centro Interculturale Zonarelli, dottore Fausto Amelii. A continuazione le parole del direttore. “ L’orto è un luogo d’incontro, è nato per essere un luogo d’incontro, e come luogo d’incontro sopravvive con alterne vicende, ha l’andamento delle stagioni, l’orto è come le persone, vanno e vengono. C’è la primavera, tutto sboccia, poi c’è l’autunno, poi ci sono i semi, i semi hanno bisogno di tempo per sbocciare. Diciamo che è un seme , un seme che è vivo, è una realtà molto viva che io vedo molto viva e sempre più importante”.841 Dal punto di vista istituzionale e in merito ai rapporti con il mondo dell’accademia queste le parole del direttore Amelii: 839 Ibidem. Altre testimonianze sono consultabili al link: www.youtube.com / YolandaAbyaYala/ PensamientoTerritorioMemoria/ L’Orto dei Popoli a Bologna. 841 Intervista da me realizzata all’Orto dei Popoli. Bologna, 16 ottobre 2012. 840 392 “ Dal punto di vista istituzionale direi che il codice delle istituzioni è ancora molto lontano da queste realtà, perché è un codice troppo semplice per le istituzioni. Chi parla questa lingua, la lingua dell’aggregazione, della comunicazione, dell’intercultura, dello scambio, della convivialità, viene ancora vissuto come marziano. Noi Occidentali siamo vittime del Dio pensiero che coglie queste cose un po’ ancora come se fossero folclore, una cosa folkloristica, un po’ di colore, che bello , che bravi, che bello, che belle foto, ma quando si tratta di considerare questo come una realtà da assumere politicamente siamo ancora lontani. L’Accademia non ci considera (parlo in generale non soltanto dell’orto), non ci vede ancora e questo è un ritardo dell’Accademia. In questo momento per esempio ci sono persone che vengono da altri luoghi, ad esempio Moira che viene dall’Inghilterra, è venuta a studiare le donne immigrate musulmane di Bologna, anche Patrizia che viene da Zurigo ha fatto qui il suo tirocinio. Ma la nostra Accademia è ancora troppo segnata da un modello che è quello del pensiero che sta da una parte e la realtà da un’altra: “Prima facciamo i nostri schemi, i nostri progetti e poi andiamo a vedere”. Invece la dinamica del centro è esattamente il contrario, prima ci incontriamo e poi riflettiamo insieme, è una’altra forma di pensiero . L’Accademia fa i grandi progetti, poi ci chiamano perché hanno bisogno dei soggetti stranieri che loro hanno ipotizzato nelle loro ricerche. Quando io propongo che noi siamo già un centro di ricerca e che loro devono sostenerci non capiscono, capiscono ancora poco. Io ricevo quotidianamente ricerche di contatti, ma tutto il progetto è già fatto, poi hanno bisogno invece delle donne vere, degli stranieri veri. Sarebbe molto interessante fare insieme, per cui ci si auspicherebbe un coinvolgimento non sporadico, un’impostazione diversa della ricerca, “ non è che io ho tutto il mio progetto di ricerca, il mio schema, ho studiato fra i miei libri e poi vado a verificare se è vero, bisogna invertire: prima vieni qui e dopo i dieci libri ti aiutano a capire meglio. Per fortuna non tutta l’accademia è così, ma diciamo che purtroppo ancora gran parte di essa ragiona in questi termini.”842 Di seguito anche la testimonianza di Patrizia di Silvestro, docente bilingue a Zurigo per mandato del ministero degli affari esteri, in un progetto il cui obiettivo è creare delle opportunità culturali e linguistiche in una scuola italiana. Patrizia è anche studentessa della Facoltà di Scienze della Formazione all’Università di Bologna, è stata tirocinante al Centro Interculturale Zonarelli. Questo il suo punto di vista. “Dal punto di vista pedagogico, interculturale, l’Orto dei Popoli ha un particolare valore per quanto riguarda l’incontro, un incontro che va oltre le differenze e che permette di trovare dei punti comuni, creando uno spazio comune dove crescere insieme e questo è un valore fondamentale in scenari dove spesso si parla di separazione. Qui si parla di unione, valori che 842 Ibidem. 393 possono essere trasmessi, condivisi e possono diventare patrimonio comune fra le diverse culture: quello dell’agricoltura, delle semenze; questo del costruire qualcosa insieme sicuramente è un valore molto importante. Personalmente ritengo molto importante quest’esperienza, perché ribadisco, tante volte il lavoro fatto dalle istituzione mira più a dividere, a rimanere attaccati ai campanilismi o a dei nazionalismi folkloristici. Quindi riuscire a creare uno spazio comune dove la cittadinanza di tanti popoli viene esercitata in modo democratico attraverso l’incontro e il lavoro condiviso fra tante persone appartenenti allo stesso territorio, è una cosa altamente importante; mi riferisco anche a tante persone italiane che son venute a scoprire il luogo.”843 Come detto prima, Luisa Granzotto è considerata da tutti l’anima vivente dell’Orto dei Popoli dal 2010 quando è nata questa “creatura”, come è solito chiamare l’orto fra le persone che abbiamo dato vita a questo luogo. Luisa ci parla, dopo tre anni di impegno etico, più che lavorativo, cosa l’orto abbia significato per Lei, più dal punto di vista personale che istituzionale. “L’Orto è un luogo da curare, un luogo di ricarica, di quiete, di lavoro e di rapporto con gli elementi forti: terra, acqua, sole, fuoco. Poi c’è il verde, quello che arriva dalla terra, il verde, i frutti e le forme che prende. E’ un luogo che fa rinascere. Avere questo posto vicino al luogo di lavoro, da una parte è un privilegio, ma d’altra è un’attività in più. Dal punto di vista del luogo dell’incontro, è diventato un luogo importante per chi ha voluto viverlo, ci sono stati di momenti intensi, di gioia di condivisione, momenti alterni. È anche diventata una realtà molto nominata nel quartiere, adesso per esempio hanno portato avanti un’iniziativa di confronto con gli orti di via Ganduzzio per vedere se raccolgono più inquinamento le piante a terra o le piante al terzo piano.” Luisa, ci tiene a sottolineare l’importanza dell’Orto come spazio pedagogico e luogo d’incontro intergenerazionale. “Un’altra esperienza importante che abbiamo creato è stato il rapporto con la Scuola materna Rocca, abbiamo avuto per due anni uno scambio, abbiamo fatto un progetto con la partecipazione di Villa Ghigi. I bambini hanno gioito di questo progetto, ognuno ‘ha fatto il suo pezzettino’ portando dei semi che avevano a casa. Quest’anno 2012, sono stata più coinvolta io, perché ho dovuto preparare la terra, man mano che arrivavano i bambini. C’è stato un accordo anche con i pedagogisti per dare uno spazio a dei bambini che vivono in città. Quest’anno li hanno portati a gruppi, perché sono 843 Ibidem. 394 bambini molto piccoli, hanno quattro anni, l’anno scorso erano misti. Diciamo che è diventata un’esperienza importante anche dal punto di vista del rapporto con le generazioni più grandi. Questo spazio è molto importante per i bambini e ora sono molto contenti, perché quando abbiamo avuto l’episodio del famoso “uovo di dinosauro” c’è stata un’interruzione brutta che i bambini hanno sofferto molto, per fortuna l’anno dopo l’intervento del pedagogista è stato opportuno e siamo riusciti a risolvere la situazione per fare uscire i bambini dal guscio protettivo che avevano creato a scuola. ” Un altro aspetto particolarmente interessante di questo spazio, è l’importanza politica e sociale che può rappresentare avere un luogo Comunitario d’incontro, come è stato l’obiettivo iniziale. Considerando che il terreno su cui oggi sorge l’Orto dei Popoli si è trasformato da terra di nessuno, luogo di spaccio e di passaggio, in simbolo di recupero dello spazio pubblico, lo spazio comune, lo spazio dell’incontro. “Alcune persone usavano questo luogo come un corridoio e quindi abbiamo vissuto il caso dell’ “uovo di dinosauro”, riferito ad una situazione di spaccio di droga che per fortuna è stata risolta. Quindi siamo molto contenti di quello che è diventato oggi, perché si sono stabiliti diversi tipi di rapporti anche con le persone della zona, anche con i ragazzi che giocano nel campo di pallacanestro o quelli che vivono nel parco, durante l’estate venivano a lavare i vestiti e a fare “la doccia” con il rubinetto che avevamo disposto per annaffiare l’orto. In questo senso, l’Orto ha avuto il ruolo di riabitare una zona che prima era lasciata al degrado della propria città, al vuoto e alla trascuratezza. Quest’anno l’orto è entrato nel programma di riqualificazione del parco con il quartiere San Donato che ha fatto una serie di progetti. Diciamo che l’orto è riconosciuto ed è un luogo che ha un valore perché porta vita, porta persone. Un altro punto d’incontro di cui abbiamo gioito molto soprattutto durante l’estate e in periodo di bel tempo è l’incontro con il Cibo, abbiamo stabilito gli incontri del cibo ogni giovedì, prima si lavora, poi si mangia e così si trascorre una bella serata. Oltre a un discorso con la natura e il verde, è stato importante da un punto di vista relazionale, si sono create delle relazioni importanti fra chi ci ha creduto, con le persone che hanno voluto dargli vita, c’è una relazione più forte fra chi è venuto a 395 lavorare nell’orto, perché come detto prima è diventato più che un luogo d’incontro, un luogo di riferimento, un qualcosa che si è costruito. È diventato anche un luogo di riferimento affettivo, le relazioni che si sono create qui acquisiscono spessore.” .844 Orto dei Popoli – Bologna Infine, le parole di Albana,845 lasciano un dolce sapore e la soddisfazione di condividere uno spazio dove l’interculturalità può essere vissuta e costruita in forma diversa. Queste le sue parole. “Diciamo che da quando sono arrivata allo Zonarelli ho voluto capire cos’è quest’orto dei popoli e devo dire che questo nome mi piace tanto. Lo stesso nome vuol dire che è un pezzo di terra che appartiene a tutti e quando entri nell’orto, trovi delle le piante che hanno una storia. Quando chiede su ogni pianta, ti rispondono: “questa pianta l’ha portato tale persona di tale nazionalità” . Quindi anche la pianta ha una nazionalità. Diciamo che l’Orto è anche un luogo di memoria. È molto carino il fatto che ci sia una storia delle piante che ci sono, che 844 Ibidem. Albana è una ragazza albanese di 29 anni, studentessa del Master in Cooperazione Internazionale presso l’Università Cattolica di Milano, da 10 mesi in Italia, e da uno al Centro Interculturale Zonarelli dove realizza il suo tirocinio. 845 396 loro stesse abbiano una memoria che rappresenta anche delle persone. Questo mi piace molto. Mi piace anche, oltre il contatto con le persone, il contatto con la natura, con il verde, con la quiete perché è un luogo tranquillo per incontrarsi, e quando si vive in città in mezzo al rumore e al traffico, avere un luogo di pace è molto gradito.”846 Finisco queste pagine ringraziando particolarmente Luisa che è stata sempre attenta e custode di tutte le creature viventi dell'orto. Ringrazio Leo per il suo entusiasmo e la cura delle sue bellissime creature filippine che hanno condiviso in sana pace con i vicini pomodori. Ringrazio Nasiru per la sua dedizione quotidiana durante i 42 gradi dell'estate bolognese, senza la quale le nostre creature avrebbero rischiato di morire di sete. Infine, ringrazio tutte le energie e tutte le volontà che hanno reso possibile questa meravigliosa esperienza. Offerta alla Terra – Orto dei Popoli, solstizio d’inverno 2012 846 Intervista da me realizzata all’Orto dei Popoli. Bologna, 16 ottobre 2012 397 CONCLUSIONI NON CONCLUSIVE SERPENTI, DEMONI E FRATTALI “Me mirò largo rato y riò. “Mi guardò a lungo e rise” Dijo que aprender por medio de la conversaciòn era no sòlo un desperdicio sino una estupidez, “Mi disse che imparare attraverso la conversazione non era soltanto uno spreco ma una stupidaggine, porque el aprender era la tarea màs dificil que un hombre podìa echarse encima” “perchè l’apprendere era il compito più difficile che un uomo poteva caricarsi addosso” Las enseñanzas de don Juan847 Arte Wirarica. Ocotlàn – Messico Marzo 2011 847 Castaneda, Carlos, Las enseñanzas de don Juan, FCE,Colombia 1999. op. cit. p.74 398 In queste più di quattrocento pagine mi auguro di essere riuscita a rendere conto delle scoperte epistemologiche, ermeneutiche e pedagogiche con cui mi sono meravigliata e le quali costituiscono i grandi frutti di questo andare “oltre”, dove gli oceani e le montagne hanno raccontato la propria storia e hanno offerto il loro contributo nella costruzione di quegli “Altri Orizzonti del Possibile”. Molte notti son passate sentendo il fruscio delle foglie strusciarsi lungo il mio corpo e alberi parlanti penetrando i miei sensi, mentre mi raccontavano storie di serpenti, demoni e frattali. Non ricordo esattamente se ho sognato, ma forse sono stati i libri, in particolare quello di Narby848 o quello ancora più terribile “La Scoperta dei Frattali Cosmici” 849 , la cui lettura ho deciso di sospendere per riprenderne uno a me molto caro, quello di Castaneda850. Inizialmente l’ho ripreso soltanto per la curiosità di vedere a cosa si riferiva Von Foerster, citando Castaneda in una discussione riguardante la complessità del linguaggio dove a loro volta venivano citati Maturana, Varela e Ricardo Uribe851. “Permettetime di ricavare, da questa posizione costruttivista, alcune conseguenze epistemologiche che restano inaccessibili algi aspiranti scopritori. Una di queste conseguenze è che quelle proprietà che si crede risiedano nelle cose si rivelano essere proprietà dell’osservatore. Si prendano ad esempio i fratellini semantici del Disordine: il Rumore, l’Imprevedibilità, il Caso; o quelli dell’Ordine: la Legge, la Prevedibilità, la Necessità. Gli ultimi elementi delle due triadi, cioè il Caso e la Necessità, sono stati associati fino a tempi piuttosto recenti con l’operato stesso della Natura. Da un punto di vista costruttivista, la Necessità deriva dalla capacità di effettuare deduzione infallibili, mentre il Caso deriva dall’incapacità di effettuare deduzioni infallibili, mentre il Caso deriva dall’incapacità di effettuare induzioni infallibili. Ciò significa che Caso e Necessità riflettono alcune delle nostre capacità e incapacità, e non quelle della Natura. ..(..) Per adesso, tuttavia, lasciate che affronti la questione se esista un substrato biologico di questi concetti. La risposta è affermativa, e in effetti sono felicissimo che qualcuno abbia già descritto quello stesso substrato che mi permetta di parlare dell’organismo come entità autonoma. La versione originale di questa concezione si deve a tre neuro-filosofi cileni, che hanno inventato il concetto di autopoiesi. Uno di loro, Francisco Varela, è seduto in questa sala; il secondo è Humberto Maturana, e il terzo è Ricardo Uribe, che attualmente lavora all’università di Illinois. A loro si deve il primo articolo in inglese sul concetto di autopiesi; nel mio linguaggio computazionale, direi che l’autopiesi è quell’organizzazione che computa la 848 Jeremy Narbi, Il serpente Cosmico, op. cit Baryshev, Yurij, V. e Teerikorpi Pekka, La scoperta dei frattali cosmici, Bollati Boringuieri, Torino 2006 850 Castaneda, Carlos, Las enseñanzas de don Juan, FCE, Colombia 1999. 851 Von Foerster, Heinz, Sistemi che osservano, a cura di Mauro Ceruti e Umberta Telfner. Atrolabio, Roma 1987, p. 201. 849 399 propria organizzazione. Spero che domani Francisco non mi pianti in asso, e che approfondisca questo concetto. L’autopiesi è un concetto che richiede una chiusura sistemica. Ciò significa una chiusura organizzativa, ma non necessariamente termodinamica. I sistemi autopietici sono termo dinamicamente aperti, ma organizzativamente chiusi.”852 Adesso ho capito che davanti a questi discorsi, gli alberi parlanti stavano diventando incubi e che quei demoni in forma di serpenti che mi parlavano di “DNA” o di autopoiesi, stavano cercando di riportami alla realtà sul piano della “ragione” e quindi ora, così sveglia come sono, la mia “ragione” mi dice che quelli sono terreni impervi della conoscenza scientifica che in questo momento non avrei la forza di affrontare. Ma comunque continuavo ad avere la curiosità di questo richiamo sulla “cecità” di Castaneda davanti agli insegnamenti di don Juan, per cui ero decisa a continuare con la lettura di Foerster, anche quelle sicuramente responsabili dei miei incubi. Così fra incubi e realtà sono arrivata alle discussioni finali del simposio da Forster indicato. D- “Karl. H. Pribrham: Heinz, sono d’accordo con tutto quello che hai detto, e con quello che dice Francisco, ma ho un problema. Il problema è: posto il genere di cornice che tu hai appena ‘inventato’ per noi, e che mi attira moltissimo, come mai quando vado nel mio laboratorio, ogni tanto succede qualcosa che mi sorprende? Questo quando so come certe cose dovrebbero funzionare, e invece non lo fanno.” R- “Von Foerster: Sei un personaggio dotato di una grande inventiva … tanto da inventarti perfino le occasioni di sorpresa. Quando per esempio parlavo dei due contenitori che vengono messi insieme, e ho detto che avviene una cosa sorprendente, cioè che quello più caldo si raffredda, e quello più freddo si riscalda, ho avuto la sensazione che evidentemente si pensasse a una battuta .. ma certo, lo sanno tutti, e allora? La mia speranza, però, era che cercaste di vedere questo fenomeno come se fosse stata la prima volta, come qualcosa di nuovo e affascinante. Permettimi di illustrare meglio questo punto. Non so se rammenti Castaneda e il suo maestro, Don Juan. Castaneda vuole imparare i segreti di ciò che avviene nelle immense distese della boscaglia messicana. Don Juan dice: “Vedi quello..?”, e Castaneda risponde: “Che cosa? Non vedo niente”. La volta seguente, Don Juan dice: “Guarda qui!”. Castaneda guarda, e dice: “Non vedo un bel niente”. Don Juan si dispera, perché vuole davvero insegnargli a vedere. Finalmente Don Juan trova la soluzione: “Ora vedo qual è il tuo problema. Riesci a vedere solo ciò che sai spiegare. Lascia perdere le spiegazioni, e vedrai”. 852 Ivi, p. 201 400 Tu resti sorpreso perché hai abbandonato la tua preoccupazione di spiegare. Ecco dunque che riesci a vedere. Spero che tu sappia continuare a sorprendenti.”853 Ecco, io vorrei continuare ancora a sorprendermi e ad abbandonare la fatica delle spiegazioni. Vorrei che i tanti Castaneda che ogni giorno cercano delle spiegazioni potessero arrivare anche a Sorprendersi !. Ad Ascoltare, ad Osservare, così come richiamato dalla Pedagogia dei Popoli Wayuu, U’wa, Kogui e tanti altri. Sarebbe interessante aprire il corso di laurea per sviluppare la “Facoltà dell’Ascolto”. Le iscrizioni sono aperte nell’ “Università della Vita” e rivolte a tutti gli esseri del pianeta Terra, senza distinzione di colore né di specie. Così, per lasciare aperta la possibilità di andare a ritroso, rivolgo in queste ultime righe, appunto non conclusive, l’invito a scoprire nuovi traguardi, nuovi Orizzonti, presentando ancora in queste pagine uno degli aspetti più interessanti del Popolo Wirarica in Messico: l’Arte. “Il termine con cui viene chiamata un’opera d’arte è “Nierika" ( i lingua Wirarica : visione, disegno). “Nierika” vuol dire letteralmente “Vedere più in là dell’ordinario”, è considerato uno "specchio" , attraverso cui è possibile trascendere le percezioni ordinarie per “passare” all'altro mondo nel quale è possibile entrare in contatto con le forze della natura e le loro divinità .854” L'arte Wirarica, intreccia in ogni filo e in ogni colore la loro Cosmovisione. È la loro Scuola ancestrale tramandata da generazione in generazione attraverso la tessitura. Ne ho parlato con Virginia e il suo compagno che mi hanno raccontato alcuni aspetti importanti delle loro tradizioni. “Questo lavoro tradizionalmente l’abbiamo fatto sempre le donne, ma ora lo facciamo tutti, uomini, donne, bambine e bambini, perché già da diversi anni lo facciamo anche per vendere, per un’attività commerciale e avere un ingresso in famiglia, ma prima si faceva soltanto per pratiche rituali, per offrire alle divinità e per tramandare la tradizione. “I disegni li abbiamo tutti in testa. Sono disegni molto antichi che riguardano le nostre divinità e i nostri simboli, animali e piante sacre: l’Aquila, la Colomba che ha scoperto il mais rosa, il Cervo, il Mais, il Peyote.”855 853 Ivi, p. 203 Intervista con Rogelio Hernàndez Luna. Mezquitic, marzo 2011, consultabile al Link: www.youtube.com / YolandaAbyaYala/ PensamientoTerritorioMemoria / Arte Wirarica/ Pueblo Wirarica. 855 Intervista con Virginia, donna Wirarica. Ocotlàn – Messico, marzo 2011, consultabile al link: www.youtube.com / YolandaAbyaYala / PensamientoTerritorioMemoria /Pueblo Wirrica /Arte Wirarica. 854 401 Arte Wirarica - Ocotlàn Messico – Marzo 2011 In relazione al “Peyote” 856 e al pellegrinaggio rituale che realizzano i Wiraritari ai loro Territori sacri, me ne parla il compagno di Virginia. “Noi prima della settimana santa, avevamo già questo periodo per la nostra grande celebrazione rituale: il pellegrinaggio del Peyote che si realizza in marzo e aprile ogni due anni. Un anno sì e un anno no. Questa festa è molto lunga e molto difficile da spiegare, comprende diverse tappe, fra cui la raccolta del acqua benedetta che prendiamo da ognuno dei quattro punti cardinali, in modo di avere acqua benedetta da offrire alle persone che non possono andare nei luoghi sacri del nostro Territorio durante il pellegrinaggio. Questa festa si è chiamata sempre la “jicurinega”, la festa del peyote, anche se oggi in molti credono che noi festeggiamo la settimana santa, non è così, è principalmente una festa che comprende il rituale del Peyote. Durante questa festa usiamo diverse maschere che sono simboli della nostra tradizione, fra cui: il Cervo che è una nostra divinità, la tartaruga che rappresenta la Dea della pioggia e altri. Ma fra tutti questi diciamo che il più importante è il “Cervo”, per noi sacro, perché è Lui che concede la conoscenza ai guaritori wirarica, il nostro processo d’apprendimento avviene attraverso le diverse cerimonie realizzate in onore al Cervo. Il “Cauyumari” è il Cervo più 856 Pianta sacra (cactus ) di uso rituale del Popolo Wirarica 402 grande, anche il “Narra” è molto importante. È una cosa abbastanza complessa che non posso spiegarle così in poco tempo, ma il tutto potrebbe essere spiegato così: Noi seminiamo i cinque colori del mais, anche Lui una pianta sacra molto significativa in tutta la spiritualità wirarica. I cinque colori sono: blu, bianco, giallo, viola o rosa. Questi semi di mais si piantano e attraverso loro nasce il Cervo. Il Mais diventa Cervo e il Cervo diventa peyote. Per questo il Cervo è per noi un animale sacro e si mangia soltanto durante le cerimonie. Per questo il Cervo sta sempre presente in tutti i nostri tessuti.857” Arte Wirarica – Ocotlàn- Messico Marzo 2011 “ In questo quadro per esempio, ringraziamo il Dio Sole. Attraverso questo quadro stiamo rappresentando la Casa del Sole, nella parte di sotto ci sono le “Jìcaras” (caraffe) con il Peyote, di fianco ci sono le piante del Mais sacro e sopra ci sono le Aquile, messaggere dei Dei”.858 Un altro punto importante dell’arte Wirarica, riguarda la Sacralità del Territorio, la Geografia Sacra rappresentata attraverso la cerimonia principale del popolo Wirarica: il Pellegrinaggio all “Wirikuta”, o “caccia al Peyote”. Su questo punto ho parlato con Rogelio 857 858 Intervista con il compagno di Virginia, Wirarica della Comunità di San Andrès Comiata. Ocotlàn – Marzo 2011. Ibidem. 403 Hernàndez Luna, docente di origine Zapoteco che ha lavorato e mantenuto il contatto con il popolo Wirarica da più di trent’anni. “Innanzitutto vorrei chiarire che il termine “Wichol” è un termine peggiorativo con cui è conosciuto il popolo Wirarica. Per questo motivo loro stessi rivendicano il loro nome originario come Wirarica , “Wiraritari” al plurale. Io sono stato in rapporto con loro da più di trent’anni, per cui posso testimoniare che ancora oggi mantengono vive le loro tradizioni che hanno custodito e tramandato attraverso il loro arte e i loro riti, principalmente la cerimonia del pellegrinaggio del Peyote (Wirikuta). La Geografia Sacra dei Wirarica è abbastanza complessa, ad esempio: loro ritengono che le divinità vengono dalla Madre Mare e che attraverso un processo di trasformazione della placenta sono diventate poi nuvole, e da lì mais-peyote. “Il “Wirikuta” è lo spazio sacro dei Wiraritari, è un territorio vasto che comprende oggi la zona della Sierra Occidentale, fino a Durango, Nayarit e San Luis de Potosì, cioè, attraversa diversi Stati nel Messico. I Wiraritari affermano che lo scopo della caccia al Peyote sia quello di tornare al Wirikuta, luogo simbolico di nascita degli Dei, sede del Peyote associato mitologicamente al mais e fonte di vita e di purificazione. Il Wirikuta è la terra sacra dei primi Wiraritari e anche il luogo sacro dove vivevano le divinità.”859 La figura che rappresenta simbolicamente il territorio nell’arte Wirarica, viene chiamata “Ojo de Dios” ( l’occhio di Dio), la quale rappresenta i quattro punti cardinali e un centro. Ad ogni punto corrisponde un luogo cerimoniale del Territorio, come mi viene spiegato dal compagno di Virginia. “ El Ojo de Dios”, rappresenta i quattro punti cardinali e un centro. Nella parte di sopra sta “Real de 14”, donde si trova il Peyote. Nel centro rimane un luogo sacro importante, ed è il luogo dove abitiamo noi, i Wiraritari. Nella parte di sotto sta la Madre Mare e da un lato sta il “lago di Chapala” e dall’altro una parte dello Stato di Durango dove si trova un altro centro cerimoniale. Questa figura è molto importante per noi, perché rappresenta tutto il nostro Territorio ancestrale e perché il numero cinque è un numero che spiega la nostra cosmovisione e la nostra organizzazione politica e sociale.”860 Intervista con Rogelio Hernàndez Luna – Mezquitic, Messico, marzo 2011, consultabile al link: www.youtube.com/ YolandaAbyaYala/Tejiendo el Huipil / Rogelio Hernàndez Luna, Mezquitic, Mèxico 860 Ibidem. 859 404 “El Ojo de Dios” – Rappresentazione del Territorio Sacro del Popolo Wirarica In questa creazione artistica dell’intera Cosmovisione del Popolo Wirarica si ritrovano le quattro dimensioni della Chakana Andina, in questo caso il centro è rappresentato dal numero cinque, come indicazione di un ciclo compiuto. Cinque sono le direzioni, cinque sono i colori del mais, cinque sono i mari, cinque sono i governi. Questo numero rappresenta la pienezza e la completezza che incorpora tutto quanto di eterogeneo ci sia nell’universo e gli esseri che lo abitano. Nel chiudere questo percorso, desta il mio interesse avvicinare il pensiero e la conoscenza dei Popoli Originari, anche se ancora in modo timido da parte mia, all’impervio sentiero delle neuroscienze, partendo dalla complessa impalcatura cosmologica attraverso la quale viene costruito il loro ConoSCentire, così come dalle esperienze condivise nella loro Aula Magna: il TerritorioCorpoMemoria. Sono arrivata alla decisione di affrontare questo argomento soltanto dopo queste quattrocento pagine e grazie alla costante collaborazione di amici e amiche impegnate in Abya Yala nel campo delle Nueve Epistemologie. Forse sono arrivata anche un po’ in ritardo ma in tempo sufficiente per dare sostegno ai pensieri che durante lunghe notti mi hanno coinvolta in dialoghi indecifrabili con serpi, demoni e frattali, da cui il titolo di queste conclusioni. 405 La ricerca, nelle ultime fasi di questo percorso, si è concentrata nel trovare i riferimenti attraverso i quali affrontare questo discorso. Così sono risalita alla proposta avanzata da una scuola di pensiero denominata “Pedagooogia 3000”, attraverso la quale una delle fondatrici, Noemi Paymal,861 presenta alcuni studi realizzati con Popolazioni Originarie delle Ande, uno dei contesti di cui mi sono quì occupata. A mio avviso, in “Pedagooogìa 3000”, l’autrice avanza delle proposte molto interessanti in ambito pedagogico, per cui ci tengo a presentare, anche se in modo molto sintetico, alcune sue considerazioni: “Il titolo scelto, come viene spiegato attraverso il disegno della copertina rappresenta filamenti di DNA attivandosi. Le intersezioni delle “O” di “Pedagooogia 3000” formano la figura geometrica della ‘Vesica Piscis’. La ‘Vesica Piscis’, insieme al ‘Fiore della Vita’, sono le forme più antiche e sacre di tutti i tempi perché sono i patroni della creazione stessa. Nella versione con il colore argentato del DNA (nella copertina) in ‘Hot Stamping’, i riflessi rappresentano codici di colori più intensi. Si suggerisce di guardarli con o senza lenti e cercare quale colore chiama più l’attenzione. Fare questo esercizio con i bambini aiuta ad aumentare il loro livello di coscienza e affina le loro percezioni.”862 Fra le diverse proposte, una che riguarda specificamente i Popoli delle Ande, fa riferimento allo studio della matematica e della loro Geometria Sacra, aspetti considerati in questo elaborato a partire della Cosmovisione dei diversi popoli nel primo capitolo e che ritrovo in quanto riportato di seguito. “Le matematiche indigene originarie comprendono molte aree appassionanti per i ragazzi, perchè offrono una maniera nuova di vedere le matematiche che suscita grandi sfide, gioiendo, in questo modo, del mistero e dell’attrazione di decifrare il modello della “Cruz del Sur” delle Ande, la tetralettica Andina, il codice ordinatore Andino863, e la loro Geometria Sacra, la geometria frattale di Tiwanaku, i sistemi di calcolo andini, il disegno dei templi Maya, i loro calendari e l’ abbagliante scienza della ‘Sincrometria’ Maya, questo per nominare soltanto alcuni aspetti. Sono tutti esempi che costituiscono vere sfide matematiche e allo stesso tempo, 861 Antropologa Francese, ricercatrice, comunicatrice, antropologa e scrittrice. Ha lavorato per più di 33 anni in diversi paesi della America Latina e di tutto il mondo, nel campo dell’antropologia applicata e della innovazione pedagogica. 862 Paymal Noemi, Pedagooogia 3000: guìa pràctica para docentes, padres y uno mismo, Brujas, Còrdoba Argentina, 2008. quarto di copertina. Versione on line in . www.pedagooogia3000.info/.../lib. La traduzone è responsabilità di chi scrive. 863 NdT. Quello che lungo questo elaborato è stato presentato attraverso “La Chakana”. Cfr. I e II Capitolo di questo elaborato. 406 al non essere ‘matematiche inanimate’: sono la rappresentazione della coscienza stessa, espressa in maniera armonica.”864 “La matematica dei popoli indigeni originari”865 Questa teorizzazione avanzata da “Pedagooogia 3000” è in corrispondenza con il modo in cui i Popoli costruiscono la conoscenza, argomento su cui mi sono dilungata in queste pagine. Per questo motivo, negli ultimi anni gli stessi Popoli si stanno riappropriando delle elaborazioni fatte dagli studiosi non indigeni a partire della loro conoscenza, cominciando a discuterle nei diversi scenari pedagogici, come viene accennato nel “Manual de los participantes, Modulo Espiritualidad, Conocimientos e Historia de los Pueblos Indìgenas dell’Abya Yala”, in uno studio realizzato sulle forme di costruzione della conoscenza attraverso la Vita Quotidiana dei Popoli Originari del Centroamerica e le Ande. 866 “La teoria Tetralettica: Secondo questa teoria, prima che si conoscessero le strutture del DNA, in queste culture si stavano profilando strutture che simulano questa realtà della creazione della natura, le quali possiamo mostrare nelle immagini e significati che seguono.”867 864 Ivi, p.22 Ivi, p.222 866 Fondo Indigena, Modulo: Espiritualidad, Conocimientos e Historia de los Pueblos Indìgenas de Abya Yala. Manual de los participantes, Plural, La Paz 2008, p.33 867 Ivi, p. 76 865 407 Fonte: Fondo Indigena. 2008 Nell’intrecciare i saperi e le dimensioni dei Mondi qui esposti, vorrei allargare gli “Orizzonti del Possibile”, nel tentativo di accostare alcune connessioni che la dimensione “TerritorioCorpoMemoria”, filo centrale di questa trama epistemologica nonché dimensione in cui la Conoscenza dei Popoli Originari si costruisce e si trasmette, potrebbe avere con quanto riportato dalle ultime scoperte delle neuroscienze. Dunque, prendendo in considerazione alcuni dei punti dell’accurata analisi di Maurizio Fabbri, tento di spiegare la connessione cui cerco di arrivare, partendo da tre aspetti, a mio avviso, sostanziali: Imprinting, Esperienze e Relazioni, sottolineando che la loro concretezza ha luogo in una dimensione Spazio/Tempo specifica, che ho denominato: “CorpiTerritoriMemoria.” (...) “Ai fini della nostra riflessione sull’ imprinting si impone, allora, un ulteriore livello di ristrutturazione delle teorie iniziali, tendenti a concepire l’imprinting medesimo come un fenomeno essenzialmente legato alle sfere percettive e alle relazioni che si stabiliscono fra il cervello e il suo ambiente”868. (…) “ L’imprinting si configura come segnale viscerale di auto-regolazione che chiama in causa tutte le dimensioni e gli stati della nostra attività corporea, attività non circoscrivibile agli eventi del cosiddetto periodo critico o sensibile, ma sempre in corso di attivazione e di ridefinizione”.869 868 869 Fabbri in Contini, Fabbri, Manuzzi, Non di Solo Cervello, op. cit p.174 Ivi, p.175 408 “Il periodo dell’imprinting – dice Levi-Montalcini – si estende per tutta la vita, “dalla culla alla bara.”870 Queste riflessioni li ritrovo, in altre parole, negli insegnamenti di tutti i Popoli, ma riporto in questo caso il ConoSCentire del Popolo Wayuu, specificamente per quanto riguarda l’importanza dell’Esperienza come fonte essenziale nel processo d’apprendimento. “ Visione Del Mondo o Il Mondo In Sfere. La visione del mondo Wayuu è conformata da un insieme di elementi appartenenti a diverse sfere: percezioni, saperi e conoscenza. Queste si riferiscono ad una interconnessione di cerchi in continuo movimento, dove niente finisce totalmente. Ogni cosa si ferma per ricominciare la ricerca ordinata e armonica della conoscenza. Un processo nutrito sopratutto dalla libertà di pensare e creare con una visione del mondo rappresentata dal connubio tra esseri umani e natura. La cosmovisione è fondata sugli elementi che questa unione rappresenta.”871 Provo a sintetizzare con alcuni diagrammi le connessioni cui sto facendo riferimento, nell’intenzione di comprendere sia i “Corpi” dei cittadini terrestri sia i “TerritoriCorpiMemoria” delle creature del Mondo dei Viventi del pensiero batesoniano, che è anche il Mondo a cui fanno riferimento i Popoli Originari qui considerati. “La corteccia prefrontale è una sorta di “cervello per il cervello”: scambia input e output soltanto con altre parti cerebrali. E per far questo è decisamente superdotata: i suoi neuroni effettuano fino a sedici sinapsi in più rispetto a quelli di altre parti della corteccia cerebrale. Essa infatti non mappa il corpo o il mondo esterno, bensì ciò che accade all’interno del cervello stesso. Ma che cosa fa esattamente?”872 “L’immagine che più le si addice – dicono Skoyles e Sagan – è quella di un direttore d’orchestra che fa in modo che tutti gli elementi che la compongono suonino all’unisono, nel rispetto dei ruoli previsti dalla partitura. A differenza però di un direttore d’orchestra, la corteccia prefrontale si confronta con una partitura che si modifica in continuazione, perchè sempre nuovi stimoli intervengono a modificarne il quadro di riferimento: “Se le nostre vite mentali sono prprio come il concerto di un’orchestra, quella che suoniamo più spesso è musica nuova.”873 Cfr. R.Levi, Montalcini, Elogio dell’imperfezione, in Contini, Fabbri, Manuzzi, Non di solo Cervello, op,cit,p.154 Cfr. Capitolo I, p. 126, colloquio con Margarita Pimenta. 872 J.Skoyles, D.Sagan, il drago nello specchio, in Contini, Fabbri, Manuzzi, Non di solo Cervello, op, cit, p.159 873 Ibidem 870 871 409 Quindi, un viaggio a ritroso per tornare sui sentieri del ConosCentire e riprendere quanto espresso attraverso il Principio di Relazionalità874, uno dei capisaldi della Cosmovisione dei Popoli delle Ande, nell’intenzione di connetterlo con quanto riportato sopra. Il Principio di relazionalità: “La relazionalità del tutto è la caratteristica fondamentale (arjè) della razionalità andina. Questo principio afferma che tutto, in un modo o nell’altro, è in relazione (vincolato, connesso) con tutto. L’entità basica non è ‘l’ente’, ma la relazione. (...) Il tipo di relazionalità andina è lontana dall’essere soltanto ‘logica’ o ‘inferenziale’ o ‘ontologica’. Si tratta di una relazionalità ‘sui generis’ che implica una varietà di forme “extra – logiche”: reciprocità, complementarità e corrispondenza con gli aspetti affettivi, ecologici, etici, estetici e produttivi.”875 Per procedere nell’accostamento dei due pensieri, il discorso mi porta da un lato a ricordare lo spazio dedicato in questo elaborato all’analisi delle dimensioni Spazio/Tempo, nonché alla complessità della dimensione Territorio, come Aula Magna in cui la conoscenza si costruisce, si trasforma e si trasmette. Dall’altro, a riprendere l’analisi presentata nel Capitolo Quarto, in modo di sottolineare ancora una volta la connessione CorpoTerritorioMemoria. “Già con le considerazioni di Skoyles e Sagan abbiamo appurato che nessun cervello è in grado di agire e di connotarsi prima che il suo corpo si formi; ma lungi dal formarsi solamente e dall’essere un mero contenitore in grado di dare al cervello protezione e ospitalità, il corpo si definisce, esso stesso, come soggetto elaboratore d’esperienze e di percezioni che senza il cervello non potrebbero avere luogo, ma che, al tempo stesso non dipendono esclusivamente, interamente da quest’ultimo.”876 Nel complementare quanto esposto sopra, riporto alcune riflessioni di Paola Manuzzi, riguardanti il concetto di “mente incorporata”, introdotta dagli studi di Francisco Varela, neurologo ed epistemologo, insieme a Humberto Maturana, suo maestro.877 “ Indagando il rapporto esistente tra esperienza vissuta dal soggetto e componente biologica dei processi cognitivi, essi non cadono nella facile trappola di sottolineare l’uno o l’altro dei due termini della coppia ( corpo-mente), ma indicano la significatività della relazione tra i due, 874 Cfr. I Capitolo di questo elaborato, p. 99 Fabbri, in Contini, Fabbri, Manuzzi, Non di Solo Cervello, op. cit, 115 876 Ivi, p.174 877 Maturana, H e F. Varela, op, cit, , in Contini, Fabbri, Manuzzi., Non di solo cervello, op. cit. p. 83, entrambi appartenenti al gruppo di lavoro che con Bateson, contribuirono a fondare la seconda cibernetica. 875 410 in una danza che li fa emergere ‘insieme’. La riflessione di Varela, in particolare, è ben attenta a evitare che il nesso tra pensiero e parte corporea significhi ridurre l’esperienza a un fascio di neuroni, ma è ricerca di una visione ‘naturale’( incorporata) delle vie della conoscenza. Quando sostiene che “la mente non è nella testa”, egli sa di proporre una visione alternativa rispetto alle tradizionali scienze cognitive, poiché esula dall’idea della mente come laboratorio di informazioni.”878 …(..) L’organismo umano funziona secondo connessioni. “La mente va considerata come un sistema naturale ed evolutivo, per cui la vita e la cognizione sono due processi omologhi, non vi è l’uno senza considerare anche l’altro.”879 Elaborazione :CorpoTerritorioMemoria Riflettendo ancora su alcuni importanti contributi del biologo francese Henri Laborit, vorrei allacciare la mia analisi con il concetto di “Memoria di specie”, considerando sia esso un filo importante in questa trama epistemologica, il quale mi porta inevitabilmente a ricollegarmi con quanto riferito da Tupac in merito all’essenza dell’Università Indigena.880 878 Ibidem “Così Telmo Pievanti al dibattito sul pensiero di Francisco Varela organizzato dalla rivista Pluriverso nel novembre 2002” in Contini, Fabbri,Manuzzi, Non di solo Cervello, op.cit. p. 83 880 Cfr. Capitolo V del presente elaborato.L’intervista è disponibile al link: www.youtube.com /YolandaAbyaYala/Educaciòn Descolonizadora/Tupac Enrique Acosta. 879 411 “Laborit tende a ricodificare le funzioni dei “tre cervelli”, delineate da Maclean 881, in termini di memoria. È così, per esempio, che i compiti del rettiliano, lungi dall’essere semplicemente innati, rispondono a una memoria della specie che, dice Laborit, “struttura il sistema nervoso e dipendono dall’esperienza genetica, dai geni che dirigono l’organizzazione di questo sistema nervoso. C’è quindi memoria; ma memoria che si trasmette di generazione in generazione e che non può trasformarsi con l’esperienza.”882 “L’Università Indigena è codificata negli archivi dei nostri geni, in tutte le cose che hanno vita, è lì l’università indigena, lo è stata da sempre e da sempre ha trasmesso le proprie memorie. Nelle cognizioni delle nostre memorie si trovano anche tutti i misteri, lì, ci sono i “quattro” e i “20” che articolati con i “13”, fanno di noi quel che siamo!!”883 Elaborazione : Territorio Memoria di Specie Memoria Culturale Cfr. Fabbri in Contini, Fabbri, Manuzzi, Non di solo Cervello, “Laborit, confrontandosi con la riflessione di Paul David Maclean, arriva a ripensare la teoria del “cervello uno e trino”, messa a punto da quest’ultimo, in termini di memoria. Secondo Maclean il cervello umano, pur possedendo una struttura unitaria è articolato in tre distinti sistemi cerebrali: Il primo e più antico è il paleoncefalo, denominato anche rettiliano. Il secondo, quello paleo mammifero, ha il compito di favorire la regolazione dei propri comportamenti, tenendo conto dei segnali che provengono sia dall’ esterno sia dall’ interno, per questo è stato definito “cuffia pensante” e come “schermo televisivo primario”, e poichè fra i segnali che provengono dall’interno grande peso è esercitato dalle emozioni, viene detto anche sistema limbico…(..). Il terzo, la neocorteccia che compare nei mammiferi più evoluti e si è pienamente sviluppata solo nell’uomo”, p.p. 141 e 142 882 Ivi, p.143 883 Intervista realizzata a San Cristobal de las Casas nel maggio 2011, consultabile al link: www.youtube.com / YolandaAbyaYala/ Educaciòn descolonizadora /Descolonizaciòn de la Cogniciòn, Tupac Enrique Acosta. 881 412 Seguendo l’accurata analisi di Fabbri attraverso la costruzione di Laborit si arriva al concetto di “memoria remota”, la quale trovo in intima connessione con quanto appreso dai Popoli, specialmente in merito all’Ascolto che dobbiamo al nostro Corpo, e secondo la loro Cosmovisione, soprattutto alla Natura, come riportato specificamente nei capitoli precedenti.884 …(..) “La memoria della specie, tuttavia, ha come limite, quello di offrire un programma di sopravvivenza rigido e uguale per tutti che non favorisce la differenziazione individuale e la diversificazione evolutiva. Ed è qui che subentra il ruolo della memoria remota che, per Laborit, afferisce al sistema limbico885… .(…) Compito della memoria remota, allora, sembra essere quello di personalizzare il modo con cui ciascun individuo sperimenta la propria memoria della specie: posto che quest’ultima non può essere modificata, come si è detto, attraverso l’esperienza individuale, tuttavia essa è, forse, sufficientemente ampia da consentire a ciascuno di collocarsi al suo interno, in modo tale da far valere anche bisogni d’altra natura, che non siano solo e immediatamente riconducibili a quelli primari. Proprio perché fra i compiti della memoria della specie vi è quello di ascoltare anche i segnali interni dell’organismo in relazione ai suoi istinti fondamentali, ne consegue che da essa può scaturire il bisogno di forme di ascolto più raffinate e articolate, in considerazione del fatto che il raggiungimento o il mantenimento dello stato d’equilibrio è legato, oltre che al soddisfacimento delle necessità biologiche di base, alla capacità di autoregolazione che l’individuo acquisisce in relazione a tutte le esperienze della propria vita. Dunque, è la memoria remota che ci consente di sviluppare una memoria affettiva ed emotiva: per queste sue caratteristiche essa presenta singolare affinità con il fenomeno dell’imprinting, poiché entrambe richiamano l’attenzione sulla centralità delle esperienze vissute nel periodo sensibile… (..)886” Nell’ambito degli studi sulla Laborit, sono da “Memoria Remota”, sempre nelle categorie elaborate da prendere in considerazione gli importanti contributi riguardanti “La Pedagogia delle Emozioni” di Mariagrazia Contini, nonché la “Pedagogia del Corpo” proposta da Paola Manuzzi, entrambe considerate ampiamente nel Capitolo Quarto di questo elaborato per spiegare la profonda connessione CorpoTerritorioMemoria. 884 Cfr Capitoli I, II e IV di questo elaborato J. LeDoux, il cervello emotivo, in Contini, Fabbri, Manuzzi, Non di solo cervello, op, cit. “ Joseph LeDoux, sottolinea come la neurologia evolutiva di Herrick, Papez e Maclean, già nei primi anni Settanta, abbia cominciato a fare acqua: Degli anatomisti come Harvey Karten e Glenn Norghcutt dimostrarono che le creature cosiddette primitive hanno in realtà delle aree che corrispondono ai criteri strutturali e funzionali della neocorteccia….(..) Il sistema limbico, hanno sostenuto alcuni, si poteva definire in base alla sua connettività con l’ipotalamo; così infatti Maclean era approdato alla corteccia mediale. Ma con metodi nuovi più raffinati, è stato dimostrato che l’ipotalamo è collegato con tutti i livelli del sistema nervoso, neocorteccia inclusa. La connettività con l’ipotalamo fa diventare l’intero cervello un sistema limbico.”,pp.157 e 158 886 Ivi, p. 145 885 413 “…(..) Ma assumere l’essere corpi ( io direi esseri CorpiTerritori) come filo conduttore del processo formativo che cosa comporta? Implica tessere quella che, a questo punto, avviandomi a trarre alcune provvisorie conclusioni, preferisco chiamare una pedagogia ‘dal’ corpo, fondata sul recupero della centralità dell’esperienza e su metodologie formative ‘body oriented’ in varie direzioni: Essa si basa su un lavoro di alfabetizzazione al ‘sentire’, in cui la dimensione corporea dei soggetti viene assunta come ponte di lancia per allenare a percepirsi e pensarsi come corpi senzienti: il concetto di mediazione corporea risulta centrale in tale processo, in modo da essere rimessi a contatto – attraverso il fare- con noi stessi, con gli altri, con gli oggetti o con gli spazi ……(..) Avvia poi, verso l’indispensabile apprendistato al ‘metasentire’, cioè a pensare il sentire, laddove, una volta sollecitati a riconoscere quanto sentiamo , non ci identifichiamo tuttavia del tutto conquesto, ma restiamo sul delicato crinale della nostra ineludibile doppietà: tra l’essere corpo vissuto,da un lato, e la nostra capacità di sguardo su di noi stessi dall’altro. In questo modo l’impegno sensoriale innalzato a livello di auto scienza metodologica può diventare fonte di autentica riflessività e via di formazione.”887 Proseguendo in questo accostamento è fondamentale un accenno al concetto di “memoria culturale”, cui Fabbri giunge seguendo ancora le complesse elaborazioni di Laborit. Vorrei sottolineare l’importanza di questa connessione, perché, da quanto appreso in quest’esperienza, è lì, nei rapporti “dell’uomo con l’ambiente”, cioè, nei “TerritoriCorpi”, dove questa memoria viene nutrita e trasmessa. “Ma nell’uomo la coscienza è anzitutto la coscienza astratta, la coscienza legata al linguaggio. Abbiamo appena visto che essa si è certamente costituita in modo progressivo nel corso degli ultimi millenni, in relazione a trasformazioni biochimiche, neurofisiologiche e anatomiche risultanti esse stesse dai rapporti dell’uomo con l’ambiente. organizzazone” progressiva. Si tratta di un’”auto- Questa auto-organizzazione dipende dal linguaggio, che ha permesso la trasmissione dell’esperienza di generazione in generazione.”888 “Dunque, un cucciolo d’uomo che perda i contatti con la propria specie e riceva un imprinting più simile a quello del mondo animale non potrà mai divenire umano nel senso pieno del termine perché il suo sistema nervoso non ha potuto beneficiare di quel processo di trasmissione della memoria culturale che il linguaggio ha reso possibile: le influenze che riceverà saranno quelle di sistemi nervosi meno plastici del nostro, resi tali dal fatto di non aver potuto sperimentare altrettante opportunità di evoluzione e di continua accumulazione e differenziazione dell’esperienza. La tesi che si impone, nella riflessione di Laborit, è allora quella per cui il nostro sistema nervoso è, in gran parte, quello che il suo ambiente vuole che 887 888 Ivi. P. 122 Laborit cit. in Contini, Manuzzi, Fabbri, Non di Solo Cervello, op. cit. p. 151 414 diventi: ovviamente, questo non significa che esso sia idoneo a divenire qualunque cosa possa essere pensata o decisa in astratto, ma che, una volta concluso il periodo sensibile, esso sperimenterà ulteriori e significative opportunità di apprendimento, di scelta e di trasformazione solo se avrà ricevuto, anche attraverso il linguaggio (e non solo attraverso di esso), informazioni e competenze suscettibili di ricalcare nell’ontogenesi individuale tutto il processo di evoluzione dell’umanità su scala filogenetica.”889 Riflettendo, quindi, sulla “Memoria Culturale” mi viene da ricollegare “Ch’ulel” (Coscienza) del popolo Tsotsil, 890 il concetto di ricordando quando nei diversi colloqui con Manuel, definiva il “Ch’ulel” come il “ filtro che fa sì chè le “cose del mondo” passino attraverso la “coscienza” per farle diventare “Sapienza”. In questo contesto ritengo opportuno ancora riprendere il concetto di “coscienza”, espresso da Varela. “ Nel dibattito scientifico contemporaneo incentrato ‘ sulle querele’ se venga prima la componente biologica o psicologica del soggetto nei processi cognitivi, Varela sceglie ‘una via di mezzo della conoscenza’, sostenendo che la coscienza non appartiene a un gruppo di neuroni, ma a un organismo, anzi a un essere vivente, il quale, proprio perché vivente, ha bisogni, desideri e sentimenti che non possono prescindere della sua relazione col mondo.891” Arrivo, così, a questo viaggio senza fine riprendendo alcuni dei grandi insegnamenti appresi, in particolare la dimensione della Sacralità della Parola a cui si riferisce il Popolo U’wa: “U’wajka: (La Palabra) La Parola: “Letteralmente significa “ Anima della gente”, per cui , è Lei, che ci permette di mantenere la comunicazione fra l’ordine materiale e l’ordine spirituale, fra gli uomini e gli Dei e così sostenere l’universo. Se gli U’wa non cantassero, crollerebbe il cosmo892” Infine, la connessione diretta CorpoTerritorio, come baluardo su cui si costruisce, si custodisce e si trasmette la Sapienza Ancestrale dei Popoli dell’Abya Yala, a mio avviso, uno dei ponti per collegare l’argomento centrale lungo queste pagine: la Cura della Vita, manifestata attraverso quella “metafora” – che per loro metafora non è - che possa “rendere pensabile il corpo in termini diversi”, appunto, la metafora del “Corpo-Memoria-Territorio” 889 Fabbri in Contini, Fabbri, Manuzzi, Non di Solo Cervello, op. cit, p. 151 Cfr. “Lekil Kuxlejal” I capitolo del presente elaborato 891 F. Varela, “il cervello e la coscienza”, intervista di S. Benvenuto, in Lettera internazionale, 68, 2001, pp. 36-40. In Manuzzi, P. Di non solo Cervello, op.c it. P.85 892 Cfr. I Capitolo di questo elaborato, p. 118 890 415 che viene riempiendo di senso queste pagine, come riporta, fra le tante, la Cosmovisione del Popolo Kogui. “ Le grandi colline a forma di piramide della Sierra Nevada sono immaginate come ‘mondi’ o ‘case’ di struttura simile allo stesso mondo. Le principali case di culto, le ‘Nuhuè’, sono viste come repliche microcosmiche di queste colline e di conseguenza sono costruite al centro del villaggio …(..) L’uovo cosmico è interpretato come l’utero della Madre Universale, in cui vive il genere umano. Anche la terra è un utero, come lo sono la Sierra Nevada e ogni casa di culto, di abitazione e la stessa tomba. Le caverne e i crepacci della terra rappresentano gli orifizi (vagine) della Madre. Gli apici con cui terminano i tetti delle “Nuhuè” (tempio) simboleggiano l’organo sessuale della Madre: la ‘grande vagina cosmica’ che è rappresentata sui tetti delle case, visibile a tutti. Esse sono le ‘porte’ che permettono l’accesso ai livelli più alti.”893 In questi termini le “conclusioni non conclusive” sono un invito a riprendere le prime pagine, coltivando la capacità di sorprendesi e meravigliarsi davanti allo sconosciuto, ma anche la forza di fare scelte etiche che possano contribuire a demolire, insieme ai muri dell’indifferenza, il mito del progresso e dello sviluppo e di tante altre certezze che il pensiero dominante ha costruito, in modo da recuperare quella Coscienza di Specie, di cui parla il biologo messicano Victor Toledo894 e che a sua volta ritroviamo nella Memoria SempreViva dei Popoli dell’Abya Yala con cui ho camminato lungo queste pagine. Un invito a mantenere e difendere il nostro diritto alla Felicità, così come ci insegnano le resistenze dei tanti Sud del mondo, dove la danza, il sorriso e i sogni non sono ancora scomparsi. Insegnamenti che ritroviamo nell’essenza profonda dell’Essere Tseltal, dove la stessa parola “Tseltal”, nella sua componente linguistica, significarebbe letteralmente in castigliano: “quelli che hanno la Felicità dentro.” “ Las cifras son frìas y tras ellas existe una historia de explotaciòn y abusos mùltiples. Sin embargo, existe una fortaleza cultural y valorativa digna de admirarse. Pese a los muchos problemas, es comùn que los Tseltales rìan. “Por eso somos Tseltales” me decìa un maestro de escuela primaria de San Quintìn: “ Sel” significa risa o contento y “Tal” es modo de ser. “Los Tseltales somos los que tenemos la Felicidad dentro, como nuestro modo de ser”895 893 Cucchiella, P.E, op. cit. pp. 154 Cfr. IV Capitolo di questo elaborato 895 Paoli, A. Educaciòn, autonomia y lekil kuxlejal, op,cit, p.45 894 416 Arrivata a questo traguardo, non mi resta altro che auspicare che la “deportazione” di cui ci ha parlato Tupac possa essere raggiungibile grazie alla plasticità cerebrale di cui le creature umane siamo dotate, in modo che un nuovo imprinting possa essere scolpito nei CorpiTerritoriMemoria dei cittadini planetari, nonché nei TerritoriCorpiMemoria di tutte le creature figlie e figli della Terra. Maltiox Gracias Grazie 417 BIBLIOGRAFIA Aguiló, Federico . El Idioma del Pueblo Puquina. Edit. Colección Amauta Runacunapac, Quito 2000 Aguiló Bonet., Antonio de Jesùs, Entrevista a Boaventura de Sousa Santos, Revista Internacional de Filosofía Política Nº 35, Madrid, España, octubre de 2010 Antòn, Danilo, Amerrique. Los huèrfanos del paraìso. Piriguazù, Montevideo 1998 Arjun, Appadurai (2007). “Modernità in polvere”. Roma, Meltemi. 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Tupac Enrique Acosta, Pueblo Izkaloteca, Arizona / Viceministro de descolonizaciòn Fèlix Càrdenas, Estado Plurinacional de Bolivia / Intercultura y Autonomìas Indìgenas: Abadio Green Stocel, Manipiniktikinya, Licenciatura en Pedagogìa de la Madre Tierra / Indigenismo e Interculturalidad en Mèxico, Aracely Burguete / Jòvenes Identidades de Abya Yala: Guidaì Vargas Michelena, Pueblo Charrùa Uruguay/ Kimberly Tegrìa Cristancho y Aura Benilda Tegrìa Cristancho, Pueblo U’wa-Colombia / Juàn, Adriana y Lucìa Pueblo Tseltal - Chiapas/ Manuel Bolom Pale, Pueblo Tsotsil-Chiapas/ Victor Tolaba, Pueblo Guaranì / Carlos, Pueblo Ocloya, Jujuy Argentina. Kawsay- Metodologìas Propias: Leonel Cerruto, Pedagogìa Intercultural / Kawsay Talleres / YIP Program Exchange / Educaciòn descolonizadora / El Futuro atràs, Sabidurìa Ancestral Quechua / Estatuto Autonòmico Naciòn Kallawaya / Escuela de Tejido Charazani / Mujeres TerritorioCuerpoMemoria: Monica Michelena, Pueblo Charrùa Uruguay / Luz Yadeni, Pueblo Embera Chamì Colombia / Marìa Elizabeth Pueblo Sikuani Colombia / Daris Maria Cristancho. Pueblo U’wa Colombia / Margarita Gutièrrez Romero, Pueblo Ñhañhu-Mèxico/ Marìa, Mujer Tseltal / Gloria Mabel Villamizar, docente Universitaria Colombia/ Rosa Manuela Montero, Tejiendo la Palabra, Pueblo Kankuamo Colombia / Patricia, Pueblo Kankuamo/ Ernestina Sotomayor Candia, Saberes Ancestrales Pueblo Quechua Perù. Mùsicas de Abya Yala: Alejandro Vargas Mùsico y Maestro, Asociaciòn Basquadè Inchalà, Montevideo Uruguay /Mùsica tradicional Accha Perù. PensamientoTerritorioMemoria: Pueblo Kankuamo Colombia: Taller CuerpoTerritorioMemoria / Pueblo U’wa Colombia: Kajkrasa Ruyina, Josè Cobarìa Casas del Saber; Yuro Cobarìa, Autoridad Tradicional, Berito Cubarwa, Autoridad Espiritual / Pueblo Kogui Colombia: Taller Curriculum Proprio / Sor Èlsida Jèrez, Internado Kogui./ /Margarita Pimienta: Manera Wayuu de Enseñar y Aprender/ Pueblo Wirarica: Arte Wirarica y Cosmovisiòn/ L’Orto dei Popoli a Bologna/ Tejiendo el Huipil: Carnaval Municipio de Tenejapa/ Ceremonia Ojo de Agua UNICH / Ceremonia ritual Municipio de Huixtàn / Misa en Huixtàn / Evangelio en Huixtàn / OMIECH - Mèdicos tradicionales / Sexto Encuentro de Especialistas Regiòn Norte de Jalisco y Sur de Zacatecas Mèxico /Primer Congreso Regional UTS-Ocosingo Chiapas/ Rogelio Hernàndez Luna, Mezquitic, Mèxico/ Congreso SOLAR Cartagena de Indias Colombia/ 896 Il lavoro di edizione e pubblicazione dei video è stato curato da Sonia Yamile Canè Parra 425 Indice INTRODUZIONE .................................................................................................................... 1 “PENSATORIOS” .......................................................................................................................... 2 CAPITOLO ZERO OLTRE OCEANO ANDANDO “OLTRE”. IL CAMPO E LA METODOLOGIA DELLA RICERCA ................................................................................................................ 13 0.1 METODOLOGIA ........................................................................................................................ 16 . . Le Pro edure e la Ra olta dell’I for azio e ............................................................... 22 . . . Il Ca po , gli Interlocutori e i Registri ..................................................................... 26 . I PUNTI DI RICAMO DEL HUIPIL: IL CONTE“TO DELLE E“PERIEN)E .................................... 29 0.2.1 Le esperienze e il Contesto durante il mio Primo Viaggio in Messico ................................. 31 0.2.1.1 Le esperienze e il Contesto a Cochabamba ...................................................................... 44 0.2.2 Il Contesto e le Esperienze Durante il Secondo Viaggio in Abya Yala .................................. 45 0.3 LA SCRITTURA .......................................................................................................................... 51 0.3.1 La Metodologia della Chakana ........................................................................................... 55 0.3.2 La Traduzione ...................................................................................................................... 58 0.3.3 Le immagini ......................................................................................................................... 59 0.4 I RIFERIMENTI TEORICI ........................................................................................................... 61 . . Gregory Bateso e l’E ologia della Me te ........................................................................... 61 . . Il Pro le ati is o Pedagogi o e l’Edu azio e alla Progettualità Esiste ziale .................... 62 . . L’E ologia dei “aperi e le Episte ologie del “ud................................................................. 64 CAPITOLO PRIMO ECOLOGIA DELLO SPIRITO E FILOSOFIE PER UNA PEDAGOGIA DEL BUEN VIVIR ...................................................................................................................................... 68 . L’ECOLOGIA DELLO SPIRITO.................................................................................................... 70 . . Il Territorio e l’E ologia dello “pirito .................................................................................... 72 1.2 LEKILKUXLEJAL NEI POPOLI TSOTSIL E TSELTAL NELLO STATO DE CHIAPAS-MESSICO.......... 74 1.2.1 Per una Cornice Concettuale ................................................................................................ 76 1.2.2 I Capisaldi del Lekil Kuxlejal e il Popolo Tseltal .................................................................. 78 1.2.2.1 I Principi Pedagogici del Lekil Kuxlejal nel Popolo Tseltal. ................................................ 84 1.2.3 Il Territorio nella Cosmovisione Tsotsil - Tseltal ................................................................. 88 1.2.4 Gli Insegnamenti dei Maya .................................................................................................. 90 426 1.3 IL SUMAK KAWSAY E IL SUMAK KAMAÑA: POPOLI QUECHUA E AYMARA NELLO STATO PLURINAZIONALE DELLA BOLIVIA ................................................................................................. 98 1.3.1 Principi epistemologici del Buen Vivir ................................................................................ 100 1.3.2 I Capisaldi della Sapienza andina e il Buen Vivir................................................................. 102 . . . La Pa ha o e di e sio e “pazio/Te po ................................................................. 102 1.3.2.2 La Scuola del Pensiero Andino e la Geografia Sacra ....................................................... 102 . KAJKRA“A RUYINA: POPOLO U’WA IN COLOMBIA ............................................................... 112 . . Cos o isio e e I seg a e ti degli U’ a ........................................................................ 114 . . . La Vita e la Morte ella Cos o isio e U’ a .................................................................. 116 1.4.1.2 Calendari e dimensione Spazio/Tempo ......................................................................... 118 1.4.1.3 I Canti e la Parola ............................................................................................................ 119 1.4.1.4 Il Territorio e il Corpo ...................................................................................................... 121 . . . Lettera del Popolo U’ a al Mo do................................................................................. 126 1.5 IL MONDO IN SFERE: SPIRITUALITÀ E CONOSCENZA NEL POPOLO WAYUU ........................ 127 1.5.1 Spiritualità e Cura del Corpo della Donna ......................................................................... 129 . . . El E ierro : Rituale Fe i ile del Popolo Wayuu ...................................................... 131 1.5.2 La Formazione Spirituale dei Mas hi: La Cura Del Corpo e L’uso Della Parola ................. 133 1.5.3 Le Autorità Tradizionali e il Sistema di Giustizia Propria .................................................... 134 1.6 PEDAGOGIA DELLA VITA: LE DIMENSIONI DELLA SACRALITÀ.............................................. 136 CAPITOLO SECONDO LA SCUOLA NELLA VITA: TERRITORIO E COMUNITÀ. LA GRANDE “MOCHILA” DELLA SAGGEZZA ANCESTRALE...................................................... 143 2.1 IL TERRITORIO: ORIZZONTI DI SENSO .................................................................................. 145 . . I tre io “pazio-Tempo-Territorio ................................................................................ 148 2.1.1.1 La Dimensione Spazio/Tempo nel calendario Maya ...................................................... 150 2.1.2 Connessione Comunità Territorio .................................................................................... 156 2.2 LA SCUOLA NELLA VITA ......................................................................................................... 158 2.2.1 La Scuola Nella Vita e la Metodologia della Chakana ....................................................... 161 . . La “ uola Nella Vita: episte ologia haka isti a ........................................................... 165 2.2.3 I luoghi, i modi e i contenuti della trasmissione ............................................................... 168 2.2.3.1 I Linguaggi della Trasmissione ........................................................................................ 174 2.2.3.2 Le età della Formazione ................................................................................................. 176 2.3 MANIERA WAYUU DI APPRENDERE AD APPRENDERE......................................................... 182 2.3.1 Modi e momenti della trasmissione ................................................................................. 184 2.3.2 Processo di elaborazione della conoscenza ....................................................................... 186 427 . . L’As olto e la Pedagogia del Co siglio................................................................................ 187 2.3.4 Il Ruolo della Donna nella trasmissione ............................................................................. 189 CAPITOLO TERZO LA SCUOLA UFFICIALE IN AMERICA LATINA FRA STRUTTURE COLONIALI E AUTONOMIE INDIGENE ............................................................................................. 198 . IL CONTENITORE CHIAMATO AMERICA LATINA ................................................................ 199 . . Uruguay: Paìs si I dios ................................................................................................ 203 3.1.2 Contesto linguistico Continentale ..................................................................................... 207 3.2 LE STRUTTURE COLONIALI .................................................................................................... 208 3.2.1 Scuola e religione come strumenti di dominazione .......................................................... 208 3.2.2 Sfruttamento della Terra / Sgretolamento del Territorio ................................................ 210 3.2.3 Il Pensiero dominante e gli spazi dell’ I dio ................................................................. 212 3.2.4 La Scuola Ufficiale: negazione della lingua, della storia e lacerazione identitaria ........... 213 3.2.5 Scuola Ufficiale: struttura gerarchica e saperi frammentati ............................................. 215 3.3 AMERICA LATINA FRA GLOBALIZZAZIONE, SVILUPPO E MODERNITÀ ................................. 217 . . La “ uola Uffi iale e le uo e strategie: lo “ iluppo ....................................................... 221 . . Gli “tati Nazio e e la Questio e ide titaria ................................................................. 224 . . La Questio e i dige a e la politi a I dige ista ......................................................... 226 . . . La “ uola uffi iale e l’ i dige is o i Messi o .......................................................... 227 . . L’edu azio e Bili gue ........................................................................................................ 231 . . . L’edu azio e I ter ulturale Bili gue EIB ..................................................................... 232 3.4. I NUOVI SCENARI: LE AUTONOMIE INDIGENE ..................................................................... 234 3.4.1 Le Autonomie e le Università Interculturali in Messico .................................................... 246 3.4.2 Autonomie e Rivoluzione Educativa nello Stato Plurinazionale della Bolivia ................... 246 3.4.3 Autonomie ed Educazione Decoloniale in Colombia ....................................................... 249 3.4.4 Etnoeducazione nella Càtedra de Estudios Afro olo ia os ....................................... 266 CAPITOLO QUARTO SAPERI INTRECCIATI: IDENTITÀ TERRESTRE, BUEN VIVIR E PROGETTUALITÀ ESISTENZIALE .............................................................................. 272 4.1 IDENTITÀ TERRESTRE E COSCIENZA DI SPECIE...................................................................... 274 4.1.1 Identità Terrestre e Eco-diciplinarietà .............................................................................. 278 4.2 BUEN VIVIR : TERRITORIO-CORPO -MEMORIA .................................................................... 283 4.3 PROGETTUALITÀ ESISTENZIALE FRA PEDAGOGIA DELLE EMOZIONI E PEDAGOGIA DEL CORPO ..................................................................................................................................................... 293 4.3.2 Progettualità esistenziale: Impegno, memoria e resistenza ............................................. 305 428 4.3.2.1 Progettualità Esistenziale, Ragione Proteiforme e Demonismo Pedagogico ................. 307 CAPITOLO QUINTO INTERCULTURA ED ECOLOGIA DEI SAPERI: EPISTEMOLOGIAS DESDE EL SUR ........................................................................................................................................ 317 . LA QUE“TIONE INTERCULTURALE ..................................................................................... 319 5.1.1 Di quale intercultura vogliamo parlare? .......................................................................... 322 . . La Questio e i dige a e la Questio e ide titaria .................................................... 326 . . L’Edu azio e I ter ulturale Bili gue el Co testo Lati oa eri a o............................... 332 5.1.4 La Pedagogia Interculturale in Italia .................................................................................. 341 5.2 ECOLOGIA DE SABERES y EPISTEMOLOGIAS DESDE EL SUR .............................................. 342 APPENDICE CORPOTERRITORIOMEMORIA ................................................................................... 364 PARTE PRIMA .................................................................................................................... 364 SPIRITUALITÀ E POLITICA FRA LE DONNE DI ABYA YALA............................................................. 364 PARTE SECONDA .............................................................................................................. 388 L’ORTO DEI POPOLI A BOLOGNA UNO “PA)IO URBANO TERRITORIOCORPOMEMORIA ...... 388 CONCLUSIONI NON CONCLUSIVE SERPENTI, DEMONI E FRATTALI ................................................................................ 398 BIBLIOGRAFIA .................................................................................................................. 418 VIDEOGRAFIA ................................................................................................................... 425 429