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Architettura e scrittura in Fantasmi romani di Luigi Malerba

Questo studio è un’analisi testuale di Fantasmi romani (2006) che mira ad illustrare come sia avvenuto un mutamento ideologico nella poetica di Luigi Malerba, che da autore di romanzi divertente e divertito, si presenta ora come un commentatore amareggiato dell’epoca contemporanea. Avvalendomi delle teorie di Remo Cesarani e di Fredric Jameson, secondo cui in conseguenza del tramonto delle “grandi metanarrazioni”, sono apparse nuove forme dello spazio cittadino e nuove tendenze architettoniche, analizzo come i protagonisti di Fantasmi romani vivono in uno stato di disagio e “smarrimento esistenziale” all’interno della metropoli romana. Laddove il personaggio di Clarissa cercherà di orientarsi leggendo i segni magici che la città le offre, l’architetto Giano prima porterà avanti il suo progetto architettonico di distruggere e ricostruire una nuova Roma; poi, attraverso il suo romanzo, cercherà invano di riordinare e dunque, cambiare, la società in cui vive. La consapevolezza del fallimento del progetto utopistico (l’architettura) e della creazione di un romanzo (la scrittura), è il segno di una preoccupazione radicata da parte dell’autore per lo stato attuale delle cose. Se inizialmente la cognizione della crisi ecologica, culturale, relazionale che percorre le pagine degli scritti malerbiani, era mitigata da divertissement filologico, gioco linguistico e coinvolgente comicità in romanzi come ad esempio Il serpente, Salto mortale, il Protagonista, affiora nel testo dell’ultimo romanzo sotto forma di cupo pessimismo.

Architettura e scrittura in F ANTASM I di Luigi Malerba R OMANI Miriam Aloisio Abstract: Questo studio è un’analisi testuale di Fantasmi romani (2006) che mira ad illustrare come sia avvenuto un mutamento ideologico nella poetica di Luigi Malerba, che da autore di romanzi divertente e divertito, si presenta ora come un commentatore amareggiato dell’epoca contemporanea. Avvalendomi delle teorie di Remo Cesarani e di Fredric Jameson, secondo cui in conseguenza del tramonto delle “grandi metanarrazioni”, sono apparse nuove forme dello spazio cittadino e nuove tendenze architettoniche, analizzo come i protagonisti di Fantasmi romani vivano in uno stato di disagio e “smarrimento esistenziale” all’interno della metropoli romana. Laddove il personaggio di Clarissa cercherà di orientarsi leggendo i segni magici che la città le ofre, l’architetto Giano prima porterà avanti il suo progetto architettonico di distruggere e ricostruire una nuova Roma; poi, attraverso il suo romanzo, cercherà invano di riordinare e dunque, cambiare, la società in cui vive. La consapevolezza del fallimento del progetto utopistico (l’architettura) e della creazione di un romanzo (la scrittura), è il segno di una preoccupazione radicata da parte dell’autore per lo stato attuale delle cose. Se inizialmente la cognizione della crisi ecologica, culturale, relazionale che percorre le pagine degli scritti malerbiani era mitigata da divertissement ilologico, gioco linguistico e coinvolgente comicità in romanzi come ad esempio Il serpente, Salto mortale, il Protagonista, essa aiora invece nel testo dell’ultimo romanzo attraverso un sentimento di siducia e rassegnazione. Fantasmi romani è la storia di un uomo e una donna di oggi. Sposati da ventidue anni, Giano e Clarissa sono una coppia benestante senza igli; sono innamorati ma, allo stesso tempo, infedeli. Lui è un professore di urbanistica di successo e ha messo a punto un progetto per risanare Roma dalla speculazione edilizia del dopoguerra che comporta la distruzione di palazzi e perino d’interi quartieri; lei Quaderni d’italianistica, Volume XXXVI n. 2, 2015, 7– Miriam Aloisio è un’afascinante quarantenne che si gode la vita, non ha un lavoro e trascorre le sue giornate girovagando per le vie di Roma senza una meta precisa. Attraverso la tecnica del monologo esteriore, già impiegata dallo scrittore nel 1997 in Itaca per sempre, ciascun personaggio narra in modo alternato i pensieri più intimi e gli accadimenti quotidiani della propria vita e di quella del partner, vissuti quasi come un gioco organizzato secondo regole precarie che potrebbero disgregarsi di fronte al primo passo falso di un giocatore. Sebbene soldi, salute, bellezza potrebbero apparire come ingredienti base per la ricetta del perfetto matrimonio, dalla loro unione, che si regge su un “equilibrio imperfetto” (Malerba, Fantasmi 5), scaturiscono soferenza e paranoia. Roma, città cara all’autore, che ne fa la sua dimora nel 1950 quando “scappa dalla civilissima Parma in cerca di condizioni di clima favorevoli” (Malerba, Parole 161), è l’altra grande protagonista della narrazione. In questo saggio cercherò di mettere in luce come la città sia la lente attraverso cui Luigi Malerba osserva un mondo malato. Laddove nelle opere precedenti l’ironia e l’accettazione del nonsense erano la chiave per sopravvivere a quel mondo senza bisogno di trasformarlo, nell’ultimo romanzo si assiste a un signiicativo cambiamento di tendenza, poiché fallisce ogni tentativo di dare un senso al contesto contemporaneo o di accettarne la mancanza; ecco, allora, che la paranoia diventa l’unica condizione esistenziale che resta ai personaggi. Diversamente dalla tesi di altri critici1, sono dell’avviso che Fantasmi romani sia un romanzo poco o per nulla ironico, costellato di continui riferimenti a morte e distruzione che raggiungono verso la ine una dimensione catastroica. Nonostante intertestualità, struttura aperta, metafiction e auto-rilessione siano elementi fondamentali nella struttura e nell’intreccio di quest’opera, tali strategie narrative sembrano essere scalzate da un’aura di amarezza e rassegnazione che, a una prima lettura di questo “diario”, appare centrale. In altre parole, in Fantasmi romani si assiste all’indagine di problematiche e temi esistenziali senza le maschere deformanti e i richiami comici delle opere precedenti. A questo si aggiunga che l’autore impiega un linguaggio 1 In particolare, Rocco Capozzi nel suo saggio “Luigi Malerba. Fantasmi romani: a volte la inzione domina la realtà” e Anna Chiafele in “Fantasmi romani e urbanistica: due romanzi o uno solo?” fanno giustamente notare le strategie narrative del romanzo, i dettagli sul livello metanarrativo e intertestuale e come emerge il rapporto tra narrazione e postmodernità. Pur concordando con le loro tesi, il mio obiettivo è diverso e consiste nell’evidenziare come Fantasmi romani sia un romanzo un po’a sé stante, che esula dagli intenti ludici della produzione malerbiana precedente. Dunque, darò qui priorità alla “forma del contenuto” per dirla con Corti, in opposizione alla “forma dell’espressione” (134–35). —8— Architettura e scrittura in F A N TASM I R OMA N I di Luigi Malerba volutamente sempliicato e appiattito come conseguenza del vuoto in cui orbita la cultura contemporanea, riempita dai mass media, dall’informatica e da stimoli elettronici prodotti in modo sempre più spettacolare e artiiciale per venire incontro alle leggi del sistema economico-politico globale delle multinazionali. Aferma a tal proposito lo stesso autore in un’intervista con Laura Lilli: “dal punto di vista dei giochi linguistici, quanto più ti occupi di cose contemporanee, tanto meno riesci a giocare con la lingua” ( Malerba, “Attenti alle bugie” 29). La parola è diventata sterile, poiché è sempre meno adatta a descrivere la realtà multiforme e in continua evoluzione della metropoli. E sarà proprio l’analisi testuale dello spazio urbano e del suo rapporto con i personaggi lo strumento utilizzato per mettere in luce come un romanzo in cui aiora il tema dell’utopia possa condurre poco alla volta a una visione completamente distopica della società contemporanea. Roma, spazio urbano e frantumazione di un mito Lo studio dello spazio urbano costituisce per Malerba una vera e propria passione resa esplicita in numerose interviste: credo che ogni persona civile coltivi in segreto delle ambizioni non realizzate e probabilmente sbagliate. Io per esempio avrei voluto fare l’architetto. Mi piacciono i grandi manufatti, le costruzioni, i materiali, le pietre, i marmi, il disegno dei grandi corpi solidi che rappresentano tangibilmente una cultura, una civiltà. […] anche i miei libri meno strutturati in realtà nascondono architetture molto elaborate e rigorose […] insomma non ho tradito del tutto la mia vocazione per l’architettura.2 (Malerba, Parole 42) Luigi Malerba, grande appassionato di architettura, senza dubbio non era rimasto insensibile alle grandi utopie urbanistiche degli anni Sessanta e Settanta e ai loro risvolti in campo artistico e letterario. È a partire da questi anni, infatti, 2 Inoltre, confermano questo forte interesse da parte di Malerba la pubblicazione nel 1958 di Forme e spazio (Bologna: Ponte Nuovo), manuale di storia dell’arte in cui sono comprese numerose nozioni di architettura e l’uscita nel 2001 di Città e dintorni (Milano: Mondadori), raccolta di impressioni su città care allo scrittore. —9— Miriam Aloisio che le teorie legate allo spazio diventano progressivamente più difuse:3 fervidi movimenti rivoluzionari marcano un momento signiicativo di transizione nell’Italia post bellica, in quanto le aspirazioni di architetti e urbanisti nell’organizzazione futura delle città italiane vengono a coincidere con la proposta di riforme che mirano a correggere gli squilibri nello sviluppo socioeconomico nel dopoguerra. È questa un’epoca in cui si iniziano a sentire gli efetti distruttivi sul paesaggio e nei centri storici, causati dall’espansione urbanistica, dalle automobili, dal turismo e dalla crescita demograica. La cultura e l’identità della città italiana sono oramai drasticamente trasformate e la tradizionale iconograia del contrasto tra città e campagna è sostituita da una visione di un ambiente urbano completamente votato al consumo e ai servizi; numerosi prodotti artistici e letterari di questo periodo hanno a che fare nelle loro rappresentazioni con un’esperienza spaziale disorientante. Lo studio critico degli spazi subisce un’ulteriore svolta negli anni Novanta, estendendosi oltre i conini di discipline come l’architettura, la geograia, l’urbanistica e investendo sempre maggiormente campi come la storia dell’arte, il cinema, l’antropologia e la letteratura. Questo sviluppo teorico coincide soprattutto con la rappresentazione artistica dello spazio metropolitano contemporaneo nel quale più profondamente emergono le contraddizioni e i conlitti di un capitalismo globale. Spiega Bart Eeckhout: “the contradictions and conlicts of global capitalism are everywhere right in front of us, displayed in the landscape, or most dramatically in the contemporary cityscape — provided we learn how to reach such contradictions and conlicts, for many cityscapes have come to seem bewildering mutable, heterogeneous, fragmented, and opaque” (31). Le vicende dei protagonisti malerbiani devono perciò essere analizzate attraverso il loro rapporto con questo nuovo spazio “bewildering mutable”, in particolare con la metropoli che si presenta, come suggerisce il critico Di Gesù, “come sminuzzata e digerita dai protagonisti, [e inisce] con l’impastarsi con i più svariati argomenti dei loro monologhi, cosa tra le cose del loro quotidiano” (57). Sostiene infatti Giulio Carlo Argan che “la forma della società è la città, e costruendo la città, la società costruisce se stessa” (253). Secondo questa dichiarazione la rappresentazione letteraria della città dovrebbe rilettere la forma della società, del suo evolversi e del suo mutare. Gli spazi nell’opera malerbiana, dalla campagna parmense a una Roma fatiscente, scenario di molti altri romanzi, non rappresentano solo uno sfondo neutro e isso, un palcoscenico sul quale si 3 Hanno compiuto signiicativi studi in questo campo critici come Henri Lefebvre, David Harvey, Edward Soja, Jean Baudrillard e Jean-François Lyotard, per citarne alcuni. — 10 — Architettura e scrittura in F A N TASM I R OMA N I di Luigi Malerba muovono i personaggi, o un ambiente extra sociale, ma interagiscono sia a livello testuale sia a livello contenutistico e diventano materia per veicolare il pensiero dell’autore sui mutamenti antropologici della società. Un’analisi particolare merita lo spazio urbano di Fantasmi romani, Roma. Evocando nell’immaginario collettivo allo stesso tempo Umanesimo, Rinascimento, difusione della religione cattolica e trionfo culturale e militare dell’Impero romano, Roma rappresenta la città del mondo occidentale per eccellenza. Tuttavia, come Peter Bondanella ha chiarito, il mito della città eterna non costituisce più un punto di riferimento isso nel tempo. Di fatto, molte delle più recenti rappresentazioni artistiche di Roma mirano ormai ad uscire da questa issità: mostrando come anch’essa sia mutata e si sia adattata alle esigenze dell’epoca contemporanea, tali rappresentazioni minacciano la frantumazione di questo mito (Bondanella 1). Le dichiarazioni dello stesso Malerba apparse in Città e dintorni ben illuminano su questo punto: “Roma sta diventando una città immaginaria, una città-fantasma. Si cammina per le strade di Roma e non si vedono più i palazzi, i monumenti, le fontane, gli obelischi, le piazze più belle del mondo, non si vede più nemmeno il cielo perché lo sguardo deve stare attento al caotico traico romano” (30). La Roma dell’ultimo romanzo malerbiano è dunque una città-fantasma, che il lettore non percepisce mai nella sua totalità e con una dimensione propria. Al contrario, la città, percepita come spazio di un’esperienza caotica, frammentata e sensoriale, interagisce con i protagonisti e partecipa alla rappresentazione del loro sentimento di disagio. L’esistenza urbana di Giano e Clarissa può essere meglio compresa alla luce delle teorie sullo spazio metropolitano di Remo Ceserani e Fredric Jameson. In Raccontare il Postmoderno, Ceserani spiega come l’esperienza tipica di una tendenza apocalittica del romanzo postmoderno comprenda trasformazioni che, da un lato, investono il soggetto con la sua frammentazione, molteplicità e schizofrenia;4 dall’altro, implicano una nuova concezione dello spazio (85–86), aspetto preponderante in Fantasmi romani. Ceserani per le sue argomentazioni fa riferimento al noto saggio di Fredric Jameson sulla condizione postmoderna, in cui il teorico americano spiega come le nuove forme dello spazio cittadino e le emergenti tendenze architettoniche siano apparse in conseguenza del collasso delle “grandi metanarrazioni” che caratterizza l’epoca postmoderna (154). Le seguenti parole contribuiscono ad approfondire il pensiero jamesoniano: 4 In Malerba questo atteggiamento è evidente soprattutto ne Il Serpente e Salto mortale. — 11 — Miriam Aloisio Il concetto che la spazializzazione sta prendendo il posto della temporalizzazione ci riporta all’architettura e alle nuove esperienze dello spazio che penso siano diverse da qualsiasi altra esperienza precedente dello spazio della città per fare un esempio. Quel che colpisce dei nuovi agglomerati urbani intorno a Parigi, per esempio è che non c’è assolutamente la minima prospettiva. Non solo sono scomparse le strade […] ma sono scomparsi anche tutti i proili. È molto disorientante e io uso questo senso di disorientamento esistenziale che si prova nel nuovo spazio postmoderno per tracciare un’ultima diagnosi della perdita della nostra capacità di porci dentro lo spazio e farne una cartograia cognitiva. Ciò ci proietta di nuovo verso la constatazione della difusione di una cultura globale, multinazionale, che è decentrata e non può essere visualizzata, una cultura in cui nessuno può trovare una propria posizione. (Ceserani 87) Il progresso scientiico-tecnologico e il continuo passaggio d’informazioni da parte dei media nella “cultura globale e multinazionale” si muovono a una velocità tale da sofocare la capacità dell’individuo di organizzare il proprio passato e futuro in un’esperienza coerente, sicché egli inisce per sentirsi smarrito in un’era che si potrebbe deinire di eterno presente. La percezione del “disorientamento esistenziale” non potrebbe emergere più chiaramente che nella città, in cui cultura e civiltà si manifestano in modo palpabile. Si noti inine che la scelta di Malerba di far agire un professore di urbanistica nel suo ultimo romanzo non è quindi casuale: qui, scrittura e architettura sono organicamente interrelate e la tematizzazione del disagio emerge proprio all’interno di uno spazio metropolitano vissuto da un protagonista che è allo stesso tempo architetto e scrittore.5 La igura dell’architetto appare spesso nelle opere di 5 A veicolare l’idea di un possibile rapporto tra architettura e scrittura sono ancora le parole di Ceserani. Secondo il critico, infatti, i movimenti letterari sembrano essersi sviluppati di pari passo a quelli dell’architettura: “Dalla sua [di Charles Jencks] ricostruzione e da quella di altri studiosi risulta che nel mondo dell’architettura e dell’urbanistica gli sviluppi culturali sono stati abbastanza simili e paralleli a quelli che abbiamo trovato nel mondo della letteratura (e con reciproche interferenze). […] le strutture architettoniche sono assimilabili agli altri oggetti culturali per almeno due loro caratteristiche: esse possono avere una marcata funzione simbolica (e quindi di signiicazione) e inoltre possono avere un rapporto di interazione molto forte con la condizione esistenziale di chi trascorre e plasma la propria vita dentro di esse” (46–47). — 12 — Architettura e scrittura in F A N TASM I R OMA N I di Luigi Malerba Malerba: ci sono architetti ne Dopo il pescecane, Le pietre volanti, Il pianeta azzurro e si fanno spesso accenni al “Supremo Architetto”, il pianiicatore dell’universo. In Fantasmi romani la struttura urbanistica di Roma e l’ediicio architettonico del metaromanzo che Giano compone hanno un rapporto di interazione molto forte con la condizione ontologica dei protagonisti. Il turbamento dei protagonisti nello spazio metropolitano La soferenza psicologica dei personaggi dell’ultimo romanzo malerbiano si percepisce sin dalle prime pagine che si aprono con una barzelletta raccontata da Giano; ma il riso che essa dovrebbe suscitare è presto sofocato dall’immagine di un tragico incidente automobilistico in cui muore l’amico che per primo aveva narrato a Giano la barzelletta: “Povero Johannes, — esclama Clarissa — morire dopo avere calpestato la terra solo per 47 anni, proprio nel momento della maggior attività e del successo professionale” (Malerba, Fantasmi 8). Parlando del disagio isico all’origine della scrittura malerbiana, Rebecca West osserva come il riso nell’opera di Malerba sia “raramente leggero poiché si dà come risultato dello stesso ‘disagio’ corporale che ci fa piangere, starnutire e in genere cercare sollievo sia dal mondo esterno che da noi stessi” (17). Il tema del riso presentato accanto alla tragedia della morte respinge qualsiasi legame con i suoi elementi distintivi, come leggerezza, giocosità, allegrezza. All’ennesima narrazione della barzelletta che Giano insiste a raccontare anche dopo la morte dell’amico, il riso di Clarissa si presenta forzato: “sentivo che l’aria era cambiata, c’era nelle mie orecchie la morte rumorosa del povero Johannes […] avrei voluto dire a Giano di lasciar perdere l’aquila a due teste” (Malerba, Fantasmi 8). In Fantasmi romani l’ironia, aspetto caratteristico della prosa di Malerba, segue maggiormente la strada di un umorismo pirandelliano, attraverso il quale il lettore prende coscienza della condizione insigniicante e grottesca dell’uomo e, costretto a respingere una lettura leggera del romanzo, vi ritrova, a mio avviso, la più intima e soferta esperienza della vita. I protagonisti di Fantasmi romani sentono tutto il peso di possibili catastroi e, interiorizzandolo, reagiscono in maniera diferente; il lettore non deve attendere molto per percepirne la profonda infelicità esistenziale. Sin da subito il pianto e il riso sono messi sullo stesso piano: di fronte a una delle prime manifestazioni della disperazione di Giano, “chinato sul lavandino con la testa tra le mani, scosso da singulti che gli fanno tremare le spalle” (Malerba, Fantasmi 27), Clarissa è colta — 13 — Miriam Aloisio dal dubbio improvviso che quei singhiozzi siano da attribuire a un convulso di risa. Sebbene il lettore si possa stupire che l’immagine di Giano in atteggiamento disperato davanti allo specchio sia confusa da Clarissa per una manifestazione di risa incontrollate, di fronte al pianto e al riso esistono “identiche diicoltà d’interpretazione” (27), ci spiega poco dopo Clarissa, che con una scrollata di spalle preferisce non approfondire il suo dilemma. La presenza di un “riso” isterico immediatamente all’inizio del romanzo è metafora di un grido disperato che sembra fungere da introduzione alle tematiche esistenziali di cui tratterà l’autore. Giano è presentato da Clarissa come una persona per nulla socievole: lui, “che è molto concentrato quando si tratta di argomenti connessi all’urbanistica, la materia che insegna […] è estremamente ingenuo nei suoi rapporti umani e mondani” (9). Insoferente di fronte a colleghi e conoscenti, la narrazione di barzellette costituisce solo un mezzo per riempire silenzi imbarazzanti e non il risultato di un atteggiamento spiritoso con il quale desidera rallegrare la noiosa atmosfera accademica dalla quale è spesso circondato: L’occasione di raccontare questa o altre storiette o paradossi […] gli consente una partecipazione conviviale a casa degli amici o a casa nostra e soprattutto gli permette di evitare le Quattro Facce di Merda quando compaiono in tivù e sui giornali dal momento che gli procurano ogni volta gravi reazioni allergiche, tosse convulsa e afanno respiratorio di tipo asmatico per cui, su consiglio del medico, tengo sempre in casa, o nella borsetta quando siamo in viaggio, una iala di Bentelan. (9) Giano stesso ammette di sofrire di disturbi psicosomatici quando, trovandosi alla cena di un convegno tra colleghi, è costretto ad alzarsi dal tavolo, accusando improvvisi sintomi d’intolleranza allergica: Non è la prima volta che sofro di questi disturbi parapolitici. È una vera malattia […] il mio medico […] mi ha prescritto due pillole al giorno di Laroxyl, un antidepressivo che non mi ha fatto niente […] Mi ha spiegato che ero malato di “ulcera latente”, una situazione paradossale che colpisce di preferenza i soggetti che somatizzano i gravi disagi correnti. (36) — 14 — Architettura e scrittura in F A N TASM I R OMA N I di Luigi Malerba Egli si rivela incapace di sopportare il peso delle brutte notizie che legge sul giornale o ascolta in televisione: Niente, dovrei impedirgli di leggere i giornali perché a ogni brutta notizia e questa Italia maccheronica che ne procura una al giorno, Giano ha delle crisi di malinconia, acidità di stomaco […] insonnia, asma allergica. Si sveglia di notte, si siede sul letto e si lamenta della sua impotenza nei confronti delle disgrazie del mondo e soprattutto di quelle italiane. […] allora si mette le mani nei capelli come se le sciagure […] fossero dirette contro di lui. (43) E un giorno ha persino un principio di sofocamento: “Una vera crisi isterica di chi sta per afogare. Mi sono spaventata perché gli mancava il respiro come se veramente stesse sott’acqua […] La faccia gli grondava di sudore, gli occhi sbarrati per lo spavento e le mani tremanti” (44). I disturbi psicologici di Giano si rilettono in quelli isici; il suo rapporto con i colleghi dell’accademia, la vista di noti personaggi televisivi, la lettura o l’ascolto delle notizie quotidiane gli causano malesseri concreti e di varia natura, spesso anche gravi come lo shock anailattico in cui Giano per poco non perde la vita. Malerba – sostiene ancora West – è “uno scrittore psicosomatico”, vale a dire che nei suoi romanzi “la mente razionale ed il corpo somatico ed extra-razionale sono indissolubilmente legati l’un l’altro” (17) e i numerosi episodi nel romanzo in cui si esplicita questa dichiarazione sono essenziali per inquadrare lo stato psicologico profondamente infelice dei personaggi. Inine, il legame di Giano con Clarissa non costituisce afatto un motivo di conforto. Marito e moglie sostengono e si ripetono continuamente di essere innamorati, ma entrambi ammettono di possedere un rapporto fondato esclusivamente sulla menzogna: Ma ecco che questa storietta dell’aquila a due teste si è inserita come un chiodo di ferro nell’equilibrio imperfetto sul quale si regge il nostro matrimonio. Ho detto imperfetto di proposito perché evitiamo, sia io che Giano, di indagare i segreti e i chiodi che ognuno dei due custodisce con cura e che, una volta portati alla luce, potrebbero provocare una catastrofe. La nostra salvezza è la menzogna. Semplice manutenzione del matrimonio. (Malerba, Fantasmi 11) — 15 — Miriam Aloisio Sebbene esente da reazioni allergiche o da attacchi di panico, anche Clarissa appare sin dal principio come un personaggio psicologicamente turbato. Un’infelicità profonda accompagna la sua sfera quotidiana, all’interno della quale possiede solo relazioni supericiali con amiche che incontra per strada, ha rapporti sessuali extraconiugali e fa spesso uso di psicofarmaci. La menzogna per lei non è solamente “manutenzione del matrimonio”, ma diventa un principio fondamentale a cui si aggrappa per afrontare la quotidianità della vita: “qualche volta — ammette — mentisco anche a me stessa, quasi un esercizio zen che mi solleva dalla presenza ruvida e opprimente della realtà” (11). Ma cosa intende esattamente Clarissa quando parla di “presenza ruvida e opprimente della realtà?” I primi studi critici su Malerba hanno illustrato come in ogni suo romanzo l’autore miri a smantellare la compattezza della realtà che, spingendosi verso le più svariate direzioni, non è mai riducibile a formule e categorie. Il critico Giovanni Ronchini ci ofre un’idea visuale della realtà malerbiana attraverso la nota litograia Relativity di Maurits Conrnelis Escher, in cui gli spazi composti di scale che s’inerpicano in tutte le direzioni sono popolati da igure “senza volto come i manichini di De Chirico” (9). E come tali si presentano anche i personaggi dell’ultimo romanzo di Malerba, deiniti appunto fantasmi, poiché profondamente disconnessi e isolati gli uni dagli altri, tenuti insieme esclusivamente dall’ambiente metropolitano in cui vivono. Partendo da queste premesse, l’esistenza urbana di Giano e Clarissa può essere compresa alla luce delle teorie jamesoniane sull’“iperspazio metropolitano”. Jameson riconosce una distinzione fondamentale tra l’alienazione generata dalla metropoli moderna e una frammentazione di diversa natura, quella del soggetto e della realtà, insita invece nella città postmoderna. Nelle sue argomentazioni sostiene che l’individuo non percepisce più l’illusione spaziale della “totalità” teorizzata dal modernismo e, perdendo così la sua centralità, non è capace di localizzare se stesso nell’iperspazio metropolitano. L’individuo non è più in grado di descrivere il suo spazio poiché — sostiene Jameson — non esiste più un linguaggio condiviso: la scomparsa della dialettica signiicante-signiicato ha reso ambiguo il linguaggio del testo urbano, determinando l’impossibilità di tradurlo in parole. La pluralità di signiicati e d’interpretazioni che si annullano a vicenda percorre lo spazio metropolitano rendendolo disorientante (44–51). Attraverso la topograia della città, osservata sempre tramite la coscienza dei personaggi, questi sentimenti di smarrimento rendono molti dei protagonisti malerbiani “nevrotici e visionari” (Corti 138). Se nei romanzi di Malerba, infatti, la realtà non è più conoscibile — 16 — Architettura e scrittura in F A N TASM I R OMA N I di Luigi Malerba perché si presenta frammentata, labirintica e aleatoria, l’unica possibilità di identiicazione con essa che si avvicini il più possibile al vero — suggerisce Rosalaura Ballerini — “si colloca […] nell’ambito della nevrosi, la cui frequente incidenza denuncia una situazione di generalizzato malessere sociale” (26). Sintomo della nevrosi dei protagonisti della narrazione è il loro stato di paranoia: essi vivono in una condizione di assoluta insensatezza, percepiscono la loro piccolezza nel mondo e si sentono come minacciati da un disastro imminente, da una catastrofe che possa “aprire la porta ai Quattro Cavalieri dell’Apocalisse” (Malerba, Fantasmi 17). È qui che lo spazio gioca un ruolo fondamentale. Lo spazio urbano in Fantasmi romani diventa infatti una rete in cui Giano e Clarissa sono soggetti soli, alla ricerca di un senso di appartenenza e alle prese con i propri progetti utopistici. Secondo Jameson, ciò che occorre all’individuo è la creazione di una “cartograia cognitiva” sia isica sia mentale, che gli permetta di localizzare il proprio corpo e distanziarlo dallo spazio circostante. La presente composizione della società e il contesto corrente pone dunque il problema di una rimappatura simbolica nella città isica, “nella cornice più limitata della vita quotidiana, [che renda] possibile al soggetto individuale una rappresentazione situazionale di quella più vasta totalità, propriamente irrappresentabile, che è l’insieme della struttura della città nel suo complesso” (Ceserani 97). Ma non tutti gli individui sono in grado di compiere questa impresa e il senso di disagio e paranoia che li caratterizza è generato dal tentativo disperato di attuarla. La paranoia è il sentimento a cui è condannato l’individuo privo di un’identità sociale solida cui fare riferimento e della possibilità di trovare un signiicato nella sua quotidianità. Travolti dalla necessità di ricostruire una nuova “mappa cognitiva”, Giano e Clarissa proiettano le proprie utopie in modo diferente: Clarissa, attraverso la sua flânerie per le vie di Roma, tenta di interpretare i “segnali magici” che la città di tanto in tanto le presenta, mentre Giano mira a una drastica riorganizzazione di una realtà che egli stesso deinisce “disperata” (Malerba, Fantasmi 55) attraverso il suo doppio progetto di decostruzione6 urbanistica. Le passeggiate di Clarissa Il rapporto di Clarissa con Roma emerge attraverso la passeggiata per le vie della città, precisamente per le strade del centro storico, tra piazza Navona, il 6 Non casualmente Malerba usa il termine “decostruzione” che ha avuto un’inluenza chiave sia nelle discipline umanistiche sia in architettura. — 17 — Miriam Aloisio Pantheon e le vie adiacenti. La sua flânerie7 è parte integrante della giornata quotidiana e costituisce un leitmotiv attraverso il quale emerge il suo disagio: “nei giorni che Giano è occupato con le lezioni a Valle Giulia, non resto in casa come una marmotta. Prima cosa sento nelle scarpe la spinta a uscire sulla strada, mi trascinano verso la porta” (12). È presto percepibile la necessità di Clarissa di uscire di casa. La similitudine con la marmotta, animale che vive principalmente sottoterra, paradossalmente attribuisce una connotazione negativa alla casa, luogo femminile per tradizione. Nella sua indagine sul signiicato semiotico della casa, Gaston Bachelard ne illustra l’importanza in quanto spazio in cui l’individuo trova protezione dall’ostile macrocosmo intorno a lui (40). Clarissa, al contrario, sente un impulso ad abbandonare la casa, il rifugio per eccellenza, e tale incitamento proviene dalle scarpe. Sono queste che, come investite da un potere occulto, la trascinano verso la porta e la conducono per le vie di Roma senza una meta precisa: Esco e vado in giro per la città allo sbando. Una mostra, un passaggio davanti alle vetrine di via Frattina, un Supermercato, qualche volta un ilm in centro, Capranica o Quirinetta, un gelato a piazza Navona o al Pantheon. Mi piace camminare a zonzo nella città, vado con passo svelto e leggero cercando le zone in ombra d’estate, evitando i sampietrini sconnessi per salvare i tacchi. (12) Clarissa “va in giro per la città allo sbando”, “cammina a zonzo” e sembra godere di questa peregrinazione senza meta, guidata solamente dalle sue scarpe “magiche”. Nel noto saggio “Walking in the City”, Michel de Certeau sottolinea come la passeggiata per la città implica una forma di cecità da parte del pedone che è incapace di leggere il testo urbano: 7 È interessante notare, inoltre, come il personaggio di Clarissa coincida con il ritratto evoluto della igura del lâneur, divenuta celebre nel diciannovesimo secolo grazie al poeta Charles Baudelaire. Si tratta del gentiluomo di elevato strato sociale, altezzoso e ben vestito, spesso poeta o artista, che passeggia per la città osservando la gente e, in particolare, la donna, oggetto o vittima (la prostituta) di un voyerismo tutto maschile. In Fantasmi romani è facile notare un ribaltamento di gender. Clarissa corrisponde alla “contemporary lâneuse” o “counter lânuese” del ventunesimo secolo, la quale passeggiando per la città, osserva invece di essere osservata e, nella seconda parte del romanzo, va persino “a caccia” di un amante (la vittima). Per approfondire il concetto di lâneuse si vedano i saggi di Helen Scalway, “he Contemporary Flâneuse, Exploring Strategies for the Drifter in a Feminine Mode” e di Janet Wolf, “he Invisible Flâneuse: Women and the Literature of Modernity”.. — 18 — Architettura e scrittura in F A N TASM I R OMA N I di Luigi Malerba he ordinary practitioners of the city live “down below”, below the thresholds at which visibility begins. hey walk — an elementary form of this experience of the city — they are walkers, Wandermänner, whose bodies follow the thicks and thins of an “urban text” they write without being able to read it. hese practitioners make use of spaces that cannot be seen […] it is as though the practices organizing a bustling city were characterized by their blindness. (93) La cecità secondo Certeau è causata dall’impossibilità di possedere una visione panottica della città. Clarissa si muove al suo interno, ma non ne vede mai gli spazi dall’alto o nella loro totalità. Priva di una “mappa cognitiva”, segue alla cieca un percorso che secondo lei è magicamente condotto dalle scarpe. Il concetto di cecità, inoltre, si collega in modo organico al suo modo di camminare: con lo sguardo costantemente rivolto verso la tipica pavimentazione romana, i sanpietrini, mentre tenta di schivare quelli sconnessi per non rovinare i tacchi: “conosco a memoria lo stato dei sampietrini delle strade di tutto il centro storico. Da evitare in assoluto via Giustiniani, piazza dei Caprettari, via Tor Millina e via Arco della Pace” (Malerba, Fantasmi 12). La descrizione della cautela quasi maniacale con cui scansa i sanpietrini e della preoccupazione per i tacchi delle scarpe si protrae nel romanzo per circa due pagine: “Ho lasciato un tacco a Trastevere fra due sampietrini di via San Francesco a Ripa. Dovrò decidermi inalmente a indossare le Superga gialle rasoterra che mi ha regalato l’architetto Zandel” (12). Poco più avanti nel testo riferendosi al quartiere romano di Trastevere, Clarissa aferma: “C’è già il progetto di una nuova pavimentazione, così non dovrò più temere per i miei tacchi” (12). Quest’insistenza mira a ingenerare nel lettore la convinzione di un’ossessione quasi patologica da parte di Clarissa, al punto che gli stessi sanpietrini iniscono per acquistare un signiicato metaforico; quando un tacco rimane tra loro incastrato, essi diventano un segnale di un possibile cambiamento di vita: Ma quel tacco, quel tacco rimasto piantato fra i sampietrini di via San Francesco a Ripa potrebbe essere un segno del destino che mi chiama in questa zona. Comincerò a parlare con Giano dell’idea di trasferirci da queste parti. Un tacco rimasto piantato proprio qua vorrà pur dire qualcosa, non ti pare? (13) — 19 — Miriam Aloisio La contingenza del tacco incastrato tra i sanpietrini è interpretata da Clarissa come una rivelazione, la necessità di una nuova casa per rinnovare la propria vita: “I traslochi rinnovano la vita, un rimescolo salutare di neuroni e ormoni” (13). Da un lato, la flânerie fa emergere il tentativo di Clarissa di crearsi una nuova mappa cognitiva attraverso l’interpretazione dei segnali magici che il testo urbano le presenta; dall’altro, dall’elenco preciso ed insistente delle strade, degli ediici storici o dei monumenti famosi di Roma che, richiamando alla storia con la ‘S’ maiuscola, costituiscono un testo urbano conosciuto, traspare la sua necessità di riconfermare simboli e immagini vicine e familiari che le diano l’illusione di orientarsi nella metropoli. Il linguaggio della città sembra prometterle delle rivelazioni, ma la città è una nozione mentale sfuggente e, sebbene appaia conoscibile attraverso l’insistente ripetizione dei nomi delle strade e degli ediici, rimane inaferrabile. Clarissa resta così intrappolata tra la possibilità di possedere un signiicato magicamente riferitole dalla città e la negazione di qualsiasi rivelazione. La ripetizione sistematica dei nomi delle strade e degli ediici e l’interpretazione in senso magico di accadimenti banali quotidiani sono sintomi di una nevrosi che emerge dal suo rapporto con le stesse vie che la protagonista ammette di conoscere a memoria. L’assenza di una visione panottica implica un vagare nevrotico e insensato attraverso una città che diventa estranea, una città che si inge familiare ma non lo è, una città-fantasma. È da questo punto di vista che il suo percorso casuale acquisisce progressivamente le sembianze di un labirinto in cui Clarissa si ritrova intrappolata. In questa metropoli-labirinto Clarissa ha in serbo un’utopia: desidera che il testo urbano le consegni quasi magicamente un progetto di vita, permettendole così di uscirne fuori. Alla dialettica città/labirinto viene fatta esplicita allusione nel libro quando Giano avvisa il lettore di stare alla larga da una particolare via di Roma che causa l’“efetto labirinto” alle persone che la percorrono: “la via Archimede […] è una delle strade più assurde di tutti i Parioli, che non si può percorrere se non bestemmiando e che provoca spesso negli automobilisti l’Efetto Labirinto con capogiri e conati di vomito” (81). Secondo Giano l’“efetto labirinto” causa veri e propri problemi psicosomatici: “capogiri e conati di vomito”. Si tratta degli ennesimi malesseri isici che si danno come risultato di uno stato psicologico turbato. Ma l’efetto labirinto lo avverte anche il lettore che, attraverso la flânerie di Clarissa, non è mai in grado di possedere una visione totale della città; ciò che in realtà vede è la proiezione del personaggio, il suo istante psicologico, la nevrosi di un individuo dall’identità frammentata nel tentativo di riordinare situazioni o condizioni — 20 — Architettura e scrittura in F A N TASM I R OMA N I di Luigi Malerba percepite come caotiche. Clarissa sente la necessità di lasciare l’interno borghese della sua casa non più percepita come rifugio, sperando che il suo girovagare diventi per lei un modo per registrare la sua vita quotidiana e dare senso ai suoi fenomeni, ma questo non avviene. Tutte le opere di Malerba mettono in luce un forte legame tra la struttura linguistica che determina i legami socio-comportamentali e lo spazio abitato. La rappresentazione della città nei suoi testi, dalla Scoperta dell’alfabeto ai romanzi della trilogia ino a Fantasmi romani, va di pari passo con lo sviluppo tecnologico e con i mutamenti dei fenomeni economico-politici; attraverso la scrittura Luigi Malerba tenta di rappresentare l’evolversi della società. Questo avviene ancor più in Fantasmi romani, romanzo in cui architettura e scrittura sono messe in relazione attraverso il personaggio di Giano. Ad esempio, la scelta narrativa dell’utilizzo del monologo esteriore contribuisce ad adattare il linguaggio al disagio ontologico dei personaggi. Malerba alterna la “soferta e sempre più insicura e addolorata espressività di Clarissa” (Paccagnini 7) alla scrittura “subdola, graiante, cinica e morbosamente cattiva” (Paccagnini 7) di Giano, che come scrittore, acquisisce progressivamente il controllo sulle azioni della moglie e degli altri personaggi. Nella seconda parte della narrazione, infatti, Clarissa ancora una volta spera che le sia consegnato un progetto da seguire per dare signiicato alla sua vita e si abbandonerà completamente alla lettura del metaromanzo che Giano sta scrivendo. Perdendo completamente cognizione del conine tra realtà e inzione, inizierà a imitare le azioni ittizie del suo alter-ego Marozia, come vedremo. Ma prima di concentrarmi sulla scrittura di Giano, vediamo ora come egli cerchi di orientarsi nell’ambiente metropolitano, coltivando un’utopia completamente diferente da quella di Clarissa. L’utopia di Giano La progettazione di una città ideale o utopica ha lunga storia: basti pensare a Kallipolis nella Repubblica di Platone, alla città del sole di Tommaso Campanella, all’Utopia di homas More, ad Atlantide o a Cristianopolis. In generale, l’utopia è presentata come un’alternativa per riorganizzare e migliorare uno status quo; l’ambizione di un’utopia è la felicità collettiva ultima, l’armonia conseguita attraverso una rivoluzionaria ristrutturazione sociale. Anche l’architetto Giano possiede una visione utopica; egli ha in serbo due progetti d’importanza cruciale: la decostruzione e ricostruzione di una nuova Roma e la creazione di un romanzo — 21 — Miriam Aloisio ambientato nella stessa città e basato sulla sua vita, nel quale, come vedremo, la distruzione (questa volta dei personaggi) rimane un suo obiettivo. Durante un “Congresso sulla Città Futura” Giano presenta una relazione sul progetto della metropoli ideale: Al congresso […] ho parlato in positivo della città a forma di stella con le punte abitate e i vuoti fra una punta e l’altra occupati da giardini. Le strade di collegamento in forma circolare passano volta a volta fra le zone abitate e i giardini. […] La città del Futuro sarà costruita da principio a forma di stella indiferente che sia la stella di Davide con sei punte, quella di Salomone con cinque punte o la Rosa dei Venti con otto o quante punte vogliamo, comunque collegate da anelli concentrici comunicanti fra loro con strade a raggiera che collegano tutti gli anelli. I quali deiniscono le varie zone urbane. Ogni strada di collegamento sarà unidirezionale, in alternativa dal centro verso l’esterno o dall’esterno verso il centro. (Malerba, Fantasmi 33) Sebbene il progetto di Giano sia palesemente irrealizzabile, per comprendere il rapporto tra protagonista e spazio urbano è necessaria un’attenta analisi. È inevitabile osservare come esso presenti una minuziosa pianiicazione geometrica. Nel corso dei secoli le utopie urbane o suburbane sono sempre state distribuite secondo precisi disegni geometrici, che suggeriscono l’assoluto dominio razionale dell’essere umano. Contrariamente alla flânerie di Clarissa, nel piano di Giano niente è lasciato “allo sbando” (Malerba, Fantasmi 12). Anche le irregolarità sono previste e calcolate meticolosamente: “Saranno previste numerose piccole irregolarità — dice Giano — per evitare la noia cittadina sempre in agguato. Qualche errore fa bene alla salute del mondo” (33). Se si tentasse di visualizzare l’immagine della città ideale di Giano, non si potrebbe fare a meno di notare che il cerchio costituisce la forma geometrica dominante: le strade di collegamento hanno forma circolare, le punte della stella sono collegate tra loro da anelli concentrici e, inoltre, le punte di qualsiasi stella, se unite, creano un cerchio. Ma la forma geometrica del cerchio è un motivo chiave della narrativa malerbiana, come spiega Walter Pedullà nel suo saggio sulla metamorfosi del cerchio. Alcuni dei signiicati tradizionali attribuiti a tale igura geometrica sono la perfezione, l’interezza, l’unità, la completezza, la centralità, la ciclicità e, tra gli elementi concreti, esso può rappresentare, ad esempio, il grembo, il sole, la luna, i pianeti, la pupilla dell’occhio. Da questo — 22 — Architettura e scrittura in F A N TASM I R OMA N I di Luigi Malerba breve elenco si evince che la costruzione della città ideale di Giano all’interno di un cerchio implica sfumature profondamente simboliche. Essa dà forma a un desiderio profondo di riorganizzazione sociale, una nuova struttura che sia matematicamente calcolata in ogni suo aspetto, perfetta come un cerchio. Se si pensa al grembo come simbolo di protezione, la città ideale del protagonista rappresenta anche il tentativo di difendersi dai fenomeni caotici del mondo esterno, la necessità di ricercare coerenza e unità, un modo per riorganizzare mentalmente la mappa cognitiva dell’ambiente in cui si vive. Come nell’antichità la polis greca e la civitas latina deinivano la città-stato, ossia un’organizzazione urbana e politica allo stesso tempo, la città ideale di Giano deve essere formata sia da un luogo isico sia da un corpo politico. Giano si convince che, attraverso il suo progetto, la forma isica della città possa condizionarne il corpo politico, quindi la società e, in ultima analisi, il comportamento dei cittadini. Diversamente da Clarissa, egli mira a possedere una visione panottica di Roma: sulla parete dell’aula, dove tiene le sue lezioni, egli ha appeso una grande carta topograica della città, sulla quale sono segnate in diversi colori le aeree da distruggere, da risparmiare e da ricostruire, secondo il suo progetto. La presenza di una cartina sul muro è simbolo di un senso di disorientamento, ma anche del tentativo di “porsi dentro lo spazio e farne una cartograia cognitiva” (Ceserani 87). La minuzia geometrica con la quale Giano desidera ricostruire la città, tuttavia, costituisce la prima spia di un’ossessione che, proseguendo con la lettura, inisce per coincidere con il delirio. Se all’inizio Giano espone un progetto studiato e calcolato a tavolino, progressivamente egli sembra essere colto da una vera e propria nevrosi distruttiva. Si noti il climax: durante il convegno, tra lui e un collega che gli critica il progetto avviene un “volgare battibecco” (35), ma a metà della narrazione, il progetto di decostruzione urbanistica è già divenuto un’ossessione: Per cominciare Giano aveva progettato la demolizione di interi isolati del Quartiere Parioli […] Aveva segnato con un evidenziatore verde le aeree da demolire […] dopo i Parioli Giano voleva dedicarsi a risanare Vigna Clara, che andava semplicemente “diradata”, una casa sì e una no. Poi si trattava di afrontare il problema dei grandi formicai della Tuscolana, dell’Appia Nuova e della Tiburtina che diceva in conidenza, andrebbero semplicemente rasi al suolo e ricostruiti in verticale […]. Un programma più facile da realizzare era quello delle periferie più civili come il Quartiere africano o i colli Aniene, che si — 23 — Miriam Aloisio potrebbero dotare di grandi piazze distruggendo solo pochi isolati. (70) Clarissa riferisce a un’amica che Giano è “posseduto da un genio distruttivo” (77); la sua nevrosi è in crescendo quando, qualche pagina avanti, leggiamo che Giano è posseduto da una “vocazione demolitoria”: “non le ruspe per la mia Urbanistica Decostruttiva, ma la dinamite” (81). Dalla dinamite si passa alla fase parossistica delle bombe intelligenti menzionate nel romanzo in un articolo sul Corriere della sera: “Possiamo immaginare che la gioia massima del nostro urbanista sarebbe una pioggia di Bombe intelligenti su certi quartieri di Roma come i Parioli che hanno scatenato la sua furia distruttiva, fortunatamente solo virtuale” (119). E a proposito di questa critica Giano paradossalmente commenta: “questo era il segno del successo” (120). Se inizialmente Giano elabora “un piano regolatore di Roma basato sulla demolizione di quasi il dieci per cento dei quartieri costruiti dal 1940 in poi” (77), in seguito inisce per criticare anche l’architettura di Roma antica: “diciamo la verità ci meravigliamo degli errori fatti a Roma negli anni Quaranta ma dimentichiamo gli errori fatti anche dei secoli d’oro dell’architettura romana” (81), afermazione che demistiica il mito di Roma antica e mostra l’impossibilità da parte di Giano di aggrapparsi al passato e quindi alla Storia, per dare senso alla sua vita. Nell’epoca contemporanea si assiste a “una crisi della temporalità e della storicità — scrive Ceserani — accompagnate da uno storicismo onnipresente, onnivoro […] che lavora a ridurre il passato a museo di fotograie e raccolta di ritagli di immagini e simulacri” (142). Il passato è dunque respinto e l’utopia di Giano è tutta proiettata in un futuro che non si sa quando giungerà: i tempi — egli ammette — non sono abbastanza evoluti per attuare il progetto (82). “Demolizione”, “radere al suolo”, “distruggere”, “sventrare” sono tutte parole appartenenti al campo semantico della guerra ed esprimono il desiderio di Giano di una distruzione assoluta. L’architetto dovrebbe essere colui che possiede un’idea chiara e precisa dello spazio su cui interviene, ma la de-costruzione urbanistica di Giano, abbreviata “DU” e ribattezzata da critici e studenti “Urbanistica Utopia (UU)” (70–71), è un progetto delirante. Dietro al suo piano di sventramento e riorganizzazione della Roma caotica in cui vive si cela una metafora più viscerale: al protagonista non interessa solamente il problema urbanistico, ma quello epistemologico. Il progetto che diventa causa della sua nevrosi da un lato rilette il tentativo di ediicare una città completamente diferente di cui egli possegga la mappa cognitiva, dall’altro manifesta la necessità di creare un nuovo spazio — 24 — Architettura e scrittura in F A N TASM I R OMA N I di Luigi Malerba urbano con una nuova architettura che possa contribuire alla nascita di una nuova società. Il nome Giano, poi, non può fare a meno di evocare quello del dio romano che, secondo il mito, fu fondatore di una città sopra il monte Gianicolo. La furia distruttiva di Giano è un gesto estremo, spia di una nevrosi radicata: “I gesti estremi — osserva Malerba — si prestano a un’interpretazione simbolica in quanto negano allo spettatore la possibilità di identiicazione, sono le spie di un disagio profondo” (Malerba, Parole 14). Quando Giano si rende conto di non poter attuare il suo progetto di Decostruzione Urbanistica poiché occorrono tempi più evoluti, la sua smania di distruzione viene traslata nella scrittura. È a questo punto che “Decostruzione Urbanistica” (DU) diventa, invece, il titolo del suo romanzo: Ho cominciato a scrivere su un grosso quaderno un romanzo con quattro protagonisti: Clarissa, Zandel, io e Valeria, naturalmente con nomi di inzione, Marozia, Zurlo, Bubi e Tania. […] Un romanzo borghese come i suoi protagonisti, ma più che un romanzo una liberazione dai miei compressi furori. Sulla copertina del quaderno ho messo soltanto due iniziali D.U. che stanno per Decostruzione Urbanistica. […] sono sicuro che queste due iniziali e la mia terribile calligraia saranno suicienti a scoraggiare Clarissa dalla lettura. (Malerba, Fantasmi 48–49) Il romanzo che Giano scrive narra la storia della vita che la coppia sta vivendo. Alla Roma che egli vorrebbe rimettere in ordine con il suo audace disegno di distruzioni corrisponde una mappa privata dei loro comportamenti, piena anch’essa di squilibri che non possono essere riassestati (Mauri, “C’è un fantasma” 55). Sin dalle prime pagine, Giano manifesta l’aspirazione a scrivere un romanzo per riordinare “gli eccessi” del mondo: “il mondo gira e succedono delle cose eccessive. Prendo nota di queste rilessioni perché ho deciso che un giorno o l’altro le organizzerò in un libro. Ho già molte pagine di appunti scritti come brani di un romanzo” (42). Non è la prima volta che un personaggio malerbiano manifesta il desiderio di “mettere in ordine”: per Demetrio de Il pianeta azzurro “[l]’ordine del mondo è sempre stato […] oggetto di desideri smodati e di una costante preoccupazione” (162), Ovidio Romer de Le pietre volanti per la ricerca di strutture nel caos ricorre al linguaggio pittorico, ma anche il ilatelico de Il Serpente ammette che “per star tranquilli bisognerebbe avere tutto sotto controllo” — 25 — Miriam Aloisio ( 218). Il metaromanzo ofre a Giano l’illusione di esercitare il controllo all’interno della sua città ittizia. Scrivere un romanzo, aferma Clarissa quando scopre il nuovo intento del marito, “è come inventare una città già tutta confezionata con i suoi abitanti, le case, le strade, le piazze, i palazzi, i monumenti, la stazione, i giardini, l’ospedale, i sottopassi, le fontanelle, i marciapiedi, i mercati, le direzioni vietate” (100). Se nella prima parte della narrazione Giano si era persuaso che dalla nuova struttura architettonica della città (la città a stella) si potesse dare una struttura al caos e di conseguenza valore all’esistenza, verso la ine questo compito è aidato alla scrittura. Dopo tutto “dare un senso alla realtà — ha asserito Luigi Malerba — è la prima istanza che mi induce ad afrontare la scrittura” (Malerba, Parole 28). Se per la distruzione e la ricreazione di Roma occorrono tempi più evoluti, allora solo attraverso la scrittura sarà inalmente possibile “avere tutto sotto controllo”, e quindi attraverso la inzione, dove si annida l’unica possibilità di distruggere e creare a proprio piacimento. “Le inzioni”, confessa ancora Malerba, non sono falsità, sono una realtà mentale modellata sui desideri […] Il secondo orizzonte che accompagna la inzione si espande in aree inesplorate dove l’autore (o il protagonista come suo mandatario) tenta di scavalcare tutti i passaggi della logica per approdare alle sintesi risolutive. Un’utopia certamente, ma anche una coscienza ben radicata che i protagonisti della narrativa possono scegliere qualsiasi strada per avvicinarsi alla verità. Il personaggio dotato soltanto di buon senso e di realismo è quello che vola più basso. (Parole 28) Giano, in qualità di scrittore, poco per volta acquisisce la consapevolezza di “poter scegliere qualsiasi strada”, di possedere per mezzo della scrittura il potere di creare ma anche di distruggere. Il senso di onnipotenza legato alla scrittura è un sentimento che, insieme ad una certa arroganza,8 matura nel comportamento di Giano man mano che leggiamo le pagine del romanzo: 8 Così Clarissa deinisce Giano dopo che questi inizia a intraprendere la scrittura: “povero Giano, così ingenuo e così cattivo” (136) e ancora: “vedermi inilzata come un insetto lì sulle pagine distillate con peridia da Giano” (121), “Clarissa mi ha rimproverato perché un pensiero come questo, ha detto, è di un’arroganza intollerabile” (72). — 26 — Architettura e scrittura in F A N TASM I R OMA N I di Luigi Malerba Il romanzo mi dava un senso di potere, quasi di onnipotenza, e se avevo qualche esitazione nel decidere il destino dei miei personaggi la attribuivo alla mia inesperienza di romanziere. (183) In un romanzo l’autore si trova nella felice condizione di potere. (235) Meglio scrivere qualche pagina del mio libro che cominciava ad appassionarmi perché potevo far muovere come burattini le persone con le quali vivo o che frequento, mentre nella realtà sono spesso vittima passiva delle situazioni. (182–183) Clarissa stessa riconosce la posizione privilegiata dello scrittore e la sua possibilità di ottenere eterna fama: “non so che durata avrà il romanzo di Giano, ma se verrà pubblicato sicuramente la carta stampata avrà una maggiore durata di Zandel […] ma forse anche di noi che abbiamo normali prospettive di vita” (215). Oltre all’esplicita allusione al dio bifronte (10), il Giano architetto e scrittore si paragona spesso a Dio, il “Grande Architetto” o il “Supremo Architetto”,9 colui che è in grado di distruggere e creare. Anche nel suo romanzo Giano decide di distruggere, e non è un caso che per dissuadere Clarissa dalla lettura inga che il libro sia proprio una relazione sulla decostruzione urbanistica. Giano è presto animato dal desiderio di cancellare i personaggi borghesi che popolano gli spazi ittizi della sua narrazione, a cominciare dal rivale, l’architetto Zandel/Zurlo: “con il veleno che mi trovo dentro ho già scritto trenta pagine sulla sua morte presunta” (59). Si tratta di una vera e propria forma di sadismo da parte dell’autore che sente di poter fare delle sue creature ciò che più gli piace. Quando Giano pensa di introdurre l’episodio dal Vangelo secondo Giovanni in cui un mercante prega Gesù di salvare suo iglio, leggiamo: “non vedo come potrò utilizzare questo episodio del Vangelo […] se toglierlo o adattarlo in qualche modo ai miei personaggi. A Zurlo per esempio, che sta morendo e viene salvato per miracolo dalla mia scrittura. Io al posto di Gesù” (60). La condanna a morte di Zurlo nel meta-romanzo sembra inspiegabilmente avverarsi anche nel romanzo: Zandel si ammala e diventa progressivamente sempre più grave. Anche la moglie Clarissa, manovrata come un burattino, subisce una sorte simile: “È il romanzo stesso che provocherà, attraverso la lettura segreta di Clarissa e le sue reazioni che io tengo sotto controllo, i prossimi snodi narrativi. Da una parte i suoi comportamenti saranno inluenzati dalle mie pagine, […] e queste pagine a loro volta si svolgeranno tenendo conto dei comportamenti di Clarissa” 9 Ne Le pietre volanti, Il pianeta azzurro, Il Protagonista, Il serpente, Salto mortale. — 27 — Miriam Aloisio (203). Per lei che, scoperto il romanzo, inizia a leggerlo segretamente, la inzione diventa una forma di prigionia inesorabile e il conine tra vita e lettura (letteratura), realtà e inzione, si fa sempre più sottile: mi confonde l’anima trovare scritti i miei pensieri e i miei comportamenti che spesso, devo dire sono più ragionati e verosimili dei miei pensieri e comportamenti reali, sempre così incerti e sconnessi. Giano mi fa muovere e parlare come una burattina ai suoi ordini […] un personaggio di carta si può guidare come si vuole, fargli fare quello che piace a chi scrive e che conviene alla trama, mentre nella realtà io seguo istinti o sensazioni spesso casuali […] l’azzardo di Giano è rubare la mia vita. (99–100) Clarissa, che prima cercava di interpretare i segnali magici che la città le inviava, anche ora segue una logica simile: desidera ancora una volta che le sia consegnato un progetto da seguire per dare signiicato alla sua vita e la scrittura di Giano inisce per inluenzarla in maniera patologica: Ma Giano mi domando, sta scrivendo il suo romanzo o la mia vita? […] Oppure sono io Clarissa che vivo il suo romanzo nella irrealtà di Marozia? (124) Sono assillata dal terribile dilemma: verità o inzione? Devo credere a tutte le proposizioni scritte da Giano nel suo libro? Ciò che ho letto inora si avvicina in modo terriicante alla verità e spesso la prospettiva scritta anticipa e supera la prospettiva reale nella quale sono, o meglio siamo invischiati. (160) Si assiste a una drammatica crisi interpretativa di Clarissa che prima avveniva durante il suo vagabondare per la città e ora attraverso il libro di Giano: “sto viaggiando come una vagabonda in mezzo alle pagine di Giano e ho cominciato a decifrare il testo” (214). Più volte Clarissa insiste sull’illeggibilità della calligraia del manoscritto: “nello sforzo di decifrare questa scrittura impossibile mi è venuto un atroce mal di testa” (101). E ancora: “sono andata avanti con la lettura, se si può chiamare lettura la faticosa decifrazione di questo testo con qualche parola ogni tanto che non riesco a capire” (217). Esiste una relazione tra il testo urbano che si presenta come un gerogliico di diicile interpretazione e il manoscritto di Giano, la cui scrittura si avvicina maggiormente ad una “crittograia”. Lo stato — 28 — Architettura e scrittura in F A N TASM I R OMA N I di Luigi Malerba mentale di Clarissa, intrappolata prima nel labirinto del centro storico romano e ora nella narrazione del romanzo che condiziona le sue azioni, peggiora progressivamente, dall’insonnia (96) si passa all’’angoscia e alla malinconia (121) ino a una vera e propria depressione (228). Se, come si è detto, la donna era immune ai malesseri isici di cui sofre Giano, verso la ine, la lettura del romanzo inizia ad avere efetti concreti sul suo corpo: “Adesso succede che alcune altre pagine del romanzo di Giano mi hanno profondamente turbata” (95); “Dopo la lettura di queste pagine mi sono sentita così male che ho preso due Laroxyl” (79); “il motivo della mia insonnia erano le pagine del suo libro” (96). Ciononostante, la lettura diventa per lei una vera e propria ossessione al punto da iniziare a imitare le azioni del suo alter-ego Marozia. Quando Giano le sottrae il libro, Clarissa cade in una profonda disperazione: “la lettura era diventata in assenza di Zandel un punto di comunicazione. Riuscivo a dare un senso a quello che facevo, mentre adesso sono una donna sperduta nell’oceano senza una bussola che mi indica quale direzione prendere” (226). Nuovamente priva della mappa cognitiva di cui ci parla Jameson, Clarissa si ritrova al punto di partenza e può solo riprendere a girovagare allo sbando nello spazio metropolitano. Il metaromanzo non costituisce un’ossessione solo di Clarissa ma anche del marito che progressivamente si isola nello spazio della scrittura, l’unico per altro dove riesce a trovare qualche soddisfazione: “Devo confessare che provo una certa soddisfazione a liberarmi con la scrittura dai troppi ingorghi che mi ostacolano il pensiero e confondono le idee” (183). Si è analizzato come Giano desideri disperatamente cambiare se stesso tentando di dominare e controllare lo spazio caotico prima con il suo progetto architettonico e ora con il romanzo. Nonostante il potere acquisito in qualità di scrittore, in questo romanzo, Giano fallisce nell’intento di ordinare la realtà attraverso la scrittura: “La mia debole scrittura non è in grado di tener dietro ad una realtà così disperata” (55) e come se i ruoli si fossero ribaltati, lo vediamo a un certo punto impegnato nella decifrazione del testo urbano. Le ultime pagine del romanzo sono dedicate ai numerosi graiti — “Prima l’etica e poi la scienza” (114), “Cuci il volto animale con il volto umano” (140), “Boikotta le banke” (138) — che di tanto in tanto appaiono sui muri della città e che persistono a inquietare l’animo del protagonista. “[Giano] crede che quei graiti esprimano l’inconscio della città, la rivelazione delle sue pulsioni sotterranee, una specie di transfert involontario come se Roma fosse sdraiata sul lettino dell’analisi” (142. Dopo numerose pagine in cui egli tenta di ofrirne un’interpretazione, questi si rivelano però privi di senso. — 29 — Miriam Aloisio Il fallimento di Clarissa nell’interpretazione del testo urbano ricalca sia quello di Giano che non è in grado di attribuire un signiicato ai graiti, sia quello del suo progetto architettonico. Secondo Jameson, il linguaggio della metropoli postmoderna può essere colto solamente in supericie: tutto si è ridotto a supericie, ogni cosa è piatta e inconsistente, anche e soprattutto il linguaggio. La supericie a sua volta si riduce a simulacro, non rimanda a nessun nucleo profondo (98). Nel suo saggio sull’“estetica della supericie” Clayton Koelbe mostra come il concetto di supericie nell’opera di Malerba non sia più da intendersi come una maschera che nasconde la realtà, ma come l’unica realtà possibile (123). Completando questa analisi, Andrea Cortellessa illustra come la tematica della supericie emerga nei romanzi attraverso il tema del doppio e della menzogna (191). Tenendo fede a questi assunti si può quindi dedurre che solo attenendosi alla supericie ed evitando la ricerca di signiicati profondi il testo urbano risulterebbe in qualche modo intellegibile e la piattezza e l’inconsistenza del linguaggio e del messaggio potrebbero essere recuperati. Ma vorrei fare un passo successivo, concentrandomi sulla rilessione apocalittica con cui Cortellessa concludeva il suo saggio: cosa accadrebbe se cessasse per sempre il regno della menzogna? (191) Il romanzo ittizio di Giano sembra a mio avviso tradire “il regno della menzogna” su cui s’incentra tutta la trama di Fantasmi romani: scrivere sulla propria vita (Giano) e leggerla (Clarissa) permette a entrambi di prenderne coscienza e di uscire paradossalmente dal mondo di inganni che si sono creati. La scrittura e la lettura del romanzo ittizio iniscono per scatenare i “Quattro Cavalieri dell’Apocalisse” (Malerba, Fantasmi 17) e diventano la causa della deinitiva separazione della coppia, generando una paranoia sempre più profonda. “La scrittura come menzogna” non sembra più costituire una forma di evasione eicace e tutto nel romanzo sembra perdere consistenza. Si domanda Clarissa: “questo sarebbe secondo lui [Giano] il Romanzo Borghese che a un certo punto propone come titolo e questi i personaggi? Tutti fantasmi. Fantasmi romani in questa valle di chiacchiere” (Malerba, Fantasmi 57). Roma è una città-fantasma e fantasmi, come rivela Clarissa, sono gli individui che la abitano. In quest’ultima opera Malerba mostra ancora una volta che “il mondo ha bisogno di essere aggiustato” (Mauri, “Geograia” 56) e, sebbene la Roma che Giano tenta invano di strutturare non si possa mettere in ordine, attraverso il suo piano di decostruzione urbanistica egli mostra un atteggiamento di rivolta contro lo status quo. Nonostante l’autore abbia spesso asserito che l’immedesimazione con i suoi personaggi termini al momento in cui conclude la stesura di un romanzo, — 30 — Architettura e scrittura in F A N TASM I R OMA N I di Luigi Malerba qui il disagio di Giano sembra rilettere l’ideologia personale dell’autore: “l’ordine del mondo — confessa Malerba — è stato per me oggetto di desideri smodati e di una costante preoccupazione” (Malerba, Parole 136). A questo si aggiungano un’intervista del 1998 con Paola Gaglianone in cui Malerba ci informa che avrebbe voluto fare l’architetto (Malerba, Parole 42) e quella con la iglia Giovanna Bonardi poco dopo la pubblicazione del romanzo, in cui confessa di condividere le utopie urbanistiche di Giano in Fantasmi romani (7). Giano e Clarissa sono anti-eroi deambulanti che zigzagano insoddisfatti alla ricerca di un progetto di vita: il loro minuto quotidiano diventa materia per osservarli alle prese con un sentimento di paranoia che nasce dal loro senso di non appartenenza e la loro passeggiata attraverso gli spazi della narrazione inisce per descrivere metaforicamente il soggiorno dell’uomo sulla terra. A diferenza dei precedenti, infatti, Fantasmi romani è un romanzo che permette al lettore di avvicinarsi emotivamente al testo, di identiicarsi a volte con uno a volte con l’altro protagonista e di relazionarsi con la materia narrata — Roma, la vita mondana, il sesso, l’amore, le guerre e le catastroi riportate in TV. Non va tralasciato poi lo stile del monologo esteriore che contribuisce a instaurare una vera e propria intimità tra il lettore e il testo scritto. Per concludere, Malerba è uno scrittore anomalo e originale che ha mostrato grandi capacità di continuo auto-rinnovamento con i suoi romanzi. Nella sua ultima opera, lontana dai sotterfugi ironici dei romanzi precedenti, l’autore mette in luce interrogativi esistenziali contemporanei e inisce per approdare a una presa di coscienza di risonanza tragica, epitomizzata dal seguente passo di Fantasmi romani: Racconta, come logo terminale della negatività, che Ezra Pound quando abitava a Venezia ogni mattina appena sveglio apriva la inestra e gridava a gran voce “Disaster!” […] Giano diceva che avrebbe dovuto ripetere anche lui ogni mattina l’urlo catastroista del poeta americano. (69) La domanda che si pone Clarissa dopo la lettura del metaromanzo — “Tale è la sua idea [di Giano] della nostra società, diciamo pure borghese fatta di ottusi incontri sessuali e di barzellette?” (58) — riassume l’immagine più generale di una contemporaneità spiritualmente vuota, segnata da un profondo turbamento e dello smarrimento cosmico che nell’epoca tecnologica-mediatica accompagna la — 31 — Miriam Aloisio paranoia d’individui soli. Osserva il critico Fabio Rodda che nella nostra epoca la catastrofe costituisce una rassegnazione necessaria: L’apocalisse di noi stessi è cominciata con la modernità, l’epoca della frattura con il ritmo vitale dell’epoca dell’oro. Alcuni tra noi se ne sono involontariamente accorti […] Non c’è via d’uscita né speranza in un’altra vita. Abbiamo a disposizione solo il regno del qui ed ora, e questo assomiglia molto di più ad un inferno che al paradiso perduto. (213–214) In Fantasmi romani la scrittura ingaggia un corpo a corpo con il disagio ontologico dei personaggi, il quale accompagna la percezione di un senso incombente della ine con cui si devono confrontare. Ma a venire rappresentati non sono più soltanto l’infelicità dell’io e della realtà: il disagio e il turbamento investono l’atto stesso della scrittura che dunque sembrerebbe una terapia non eicace. Se pensiamo a Giano scrittore, il suo romanzo fallisce come tentativo di ordinare la realtà caotica, come mezzo di evasione e inisce per coincidere con un’arte capace di indagare il fondo più fangoso dell’esperienza umana e di metterne in luce le contraddizioni, esulando da ogni intento ludico. Ogni speranza sul domani sembra essere stroncata dal sentimento di stanchezza esistenziale del protagonista, a cui non resta nient’altro che la magra rassegnazione a vivere nel disagio accettando lo status quo (“il nostro pianeta Terra — commenta il personaggio — non si cura dei miei problemi e delle mie perplessità, gira velocissimo nello spazio senza mai un momento di riposo mentre io sono stanco […]” (Malerba, Fantasmi 68). Si può solo sperare, allora, che quando “i tempi saranno evoluti”, da un progetto concreto e realizzabile di distruzione, o meglio di de-costruzione, sia essa architettonica, sociale o morale, si possa un giorno riscoprire la forza rigenerante della creazione. 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