Architettura e scrittura in F ANTASM I
di Luigi Malerba
R OMANI
Miriam Aloisio
Abstract: Questo studio è un’analisi testuale di Fantasmi romani
(2006) che mira ad illustrare come sia avvenuto un mutamento
ideologico nella poetica di Luigi Malerba, che da autore di romanzi
divertente e divertito, si presenta ora come un commentatore
amareggiato dell’epoca contemporanea. Avvalendomi delle teorie di
Remo Cesarani e di Fredric Jameson, secondo cui in conseguenza del
tramonto delle “grandi metanarrazioni”, sono apparse nuove forme
dello spazio cittadino e nuove tendenze architettoniche, analizzo
come i protagonisti di Fantasmi romani vivano in uno stato di disagio
e “smarrimento esistenziale” all’interno della metropoli romana.
Laddove il personaggio di Clarissa cercherà di orientarsi leggendo
i segni magici che la città le ofre, l’architetto Giano prima porterà
avanti il suo progetto architettonico di distruggere e ricostruire una
nuova Roma; poi, attraverso il suo romanzo, cercherà invano di
riordinare e dunque, cambiare, la società in cui vive. La consapevolezza
del fallimento del progetto utopistico (l’architettura) e della creazione
di un romanzo (la scrittura), è il segno di una preoccupazione radicata
da parte dell’autore per lo stato attuale delle cose. Se inizialmente la
cognizione della crisi ecologica, culturale, relazionale che percorre le
pagine degli scritti malerbiani era mitigata da divertissement ilologico,
gioco linguistico e coinvolgente comicità in romanzi come ad
esempio Il serpente, Salto mortale, il Protagonista, essa aiora invece
nel testo dell’ultimo romanzo attraverso un sentimento di siducia e
rassegnazione.
Fantasmi romani è la storia di un uomo e una donna di oggi. Sposati da ventidue
anni, Giano e Clarissa sono una coppia benestante senza igli; sono innamorati
ma, allo stesso tempo, infedeli. Lui è un professore di urbanistica di successo e
ha messo a punto un progetto per risanare Roma dalla speculazione edilizia del
dopoguerra che comporta la distruzione di palazzi e perino d’interi quartieri; lei
Quaderni d’italianistica, Volume XXXVI n. 2, 2015, 7–
Miriam Aloisio
è un’afascinante quarantenne che si gode la vita, non ha un lavoro e trascorre le
sue giornate girovagando per le vie di Roma senza una meta precisa. Attraverso
la tecnica del monologo esteriore, già impiegata dallo scrittore nel 1997 in Itaca
per sempre, ciascun personaggio narra in modo alternato i pensieri più intimi e
gli accadimenti quotidiani della propria vita e di quella del partner, vissuti quasi
come un gioco organizzato secondo regole precarie che potrebbero disgregarsi
di fronte al primo passo falso di un giocatore. Sebbene soldi, salute, bellezza
potrebbero apparire come ingredienti base per la ricetta del perfetto matrimonio,
dalla loro unione, che si regge su un “equilibrio imperfetto” (Malerba, Fantasmi
5), scaturiscono soferenza e paranoia. Roma, città cara all’autore, che ne fa la sua
dimora nel 1950 quando “scappa dalla civilissima Parma in cerca di condizioni
di clima favorevoli” (Malerba, Parole 161), è l’altra grande protagonista della
narrazione.
In questo saggio cercherò di mettere in luce come la città sia la lente attraverso cui Luigi Malerba osserva un mondo malato. Laddove nelle opere precedenti
l’ironia e l’accettazione del nonsense erano la chiave per sopravvivere a quel mondo
senza bisogno di trasformarlo, nell’ultimo romanzo si assiste a un signiicativo
cambiamento di tendenza, poiché fallisce ogni tentativo di dare un senso al contesto contemporaneo o di accettarne la mancanza; ecco, allora, che la paranoia
diventa l’unica condizione esistenziale che resta ai personaggi. Diversamente dalla
tesi di altri critici1, sono dell’avviso che Fantasmi romani sia un romanzo poco
o per nulla ironico, costellato di continui riferimenti a morte e distruzione che
raggiungono verso la ine una dimensione catastroica. Nonostante intertestualità,
struttura aperta, metafiction e auto-rilessione siano elementi fondamentali nella
struttura e nell’intreccio di quest’opera, tali strategie narrative sembrano essere
scalzate da un’aura di amarezza e rassegnazione che, a una prima lettura di questo
“diario”, appare centrale. In altre parole, in Fantasmi romani si assiste all’indagine di
problematiche e temi esistenziali senza le maschere deformanti e i richiami comici
delle opere precedenti. A questo si aggiunga che l’autore impiega un linguaggio
1
In particolare, Rocco Capozzi nel suo saggio “Luigi Malerba. Fantasmi romani: a volte la
inzione domina la realtà” e Anna Chiafele in “Fantasmi romani e urbanistica: due romanzi
o uno solo?” fanno giustamente notare le strategie narrative del romanzo, i dettagli sul livello
metanarrativo e intertestuale e come emerge il rapporto tra narrazione e postmodernità.
Pur concordando con le loro tesi, il mio obiettivo è diverso e consiste nell’evidenziare come
Fantasmi romani sia un romanzo un po’a sé stante, che esula dagli intenti ludici della produzione
malerbiana precedente. Dunque, darò qui priorità alla “forma del contenuto” per dirla con
Corti, in opposizione alla “forma dell’espressione” (134–35).
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volutamente sempliicato e appiattito come conseguenza del vuoto in cui orbita
la cultura contemporanea, riempita dai mass media, dall’informatica e da stimoli
elettronici prodotti in modo sempre più spettacolare e artiiciale per venire incontro alle leggi del sistema economico-politico globale delle multinazionali. Aferma
a tal proposito lo stesso autore in un’intervista con Laura Lilli: “dal punto di vista
dei giochi linguistici, quanto più ti occupi di cose contemporanee, tanto meno
riesci a giocare con la lingua” ( Malerba, “Attenti alle bugie” 29). La parola è diventata sterile, poiché è sempre meno adatta a descrivere la realtà multiforme e in
continua evoluzione della metropoli. E sarà proprio l’analisi testuale dello spazio
urbano e del suo rapporto con i personaggi lo strumento utilizzato per mettere in
luce come un romanzo in cui aiora il tema dell’utopia possa condurre poco alla
volta a una visione completamente distopica della società contemporanea.
Roma, spazio urbano e frantumazione di un mito
Lo studio dello spazio urbano costituisce per Malerba una vera e propria passione
resa esplicita in numerose interviste:
credo che ogni persona civile coltivi in segreto delle ambizioni non
realizzate e probabilmente sbagliate. Io per esempio avrei voluto
fare l’architetto. Mi piacciono i grandi manufatti, le costruzioni, i
materiali, le pietre, i marmi, il disegno dei grandi corpi solidi che
rappresentano tangibilmente una cultura, una civiltà. […] anche i
miei libri meno strutturati in realtà nascondono architetture molto
elaborate e rigorose […] insomma non ho tradito del tutto la mia
vocazione per l’architettura.2 (Malerba, Parole 42)
Luigi Malerba, grande appassionato di architettura, senza dubbio non era
rimasto insensibile alle grandi utopie urbanistiche degli anni Sessanta e Settanta
e ai loro risvolti in campo artistico e letterario. È a partire da questi anni, infatti,
2
Inoltre, confermano questo forte interesse da parte di Malerba la pubblicazione nel 1958
di Forme e spazio (Bologna: Ponte Nuovo), manuale di storia dell’arte in cui sono comprese
numerose nozioni di architettura e l’uscita nel 2001 di Città e dintorni (Milano: Mondadori),
raccolta di impressioni su città care allo scrittore.
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Miriam Aloisio
che le teorie legate allo spazio diventano progressivamente più difuse:3 fervidi movimenti rivoluzionari marcano un momento signiicativo di transizione nell’Italia
post bellica, in quanto le aspirazioni di architetti e urbanisti nell’organizzazione
futura delle città italiane vengono a coincidere con la proposta di riforme che
mirano a correggere gli squilibri nello sviluppo socioeconomico nel dopoguerra.
È questa un’epoca in cui si iniziano a sentire gli efetti distruttivi sul paesaggio e
nei centri storici, causati dall’espansione urbanistica, dalle automobili, dal turismo e dalla crescita demograica. La cultura e l’identità della città italiana sono
oramai drasticamente trasformate e la tradizionale iconograia del contrasto tra
città e campagna è sostituita da una visione di un ambiente urbano completamente votato al consumo e ai servizi; numerosi prodotti artistici e letterari di
questo periodo hanno a che fare nelle loro rappresentazioni con un’esperienza
spaziale disorientante. Lo studio critico degli spazi subisce un’ulteriore svolta negli
anni Novanta, estendendosi oltre i conini di discipline come l’architettura, la
geograia, l’urbanistica e investendo sempre maggiormente campi come la storia
dell’arte, il cinema, l’antropologia e la letteratura. Questo sviluppo teorico coincide soprattutto con la rappresentazione artistica dello spazio metropolitano contemporaneo nel quale più profondamente emergono le contraddizioni e i conlitti
di un capitalismo globale. Spiega Bart Eeckhout: “the contradictions and conlicts
of global capitalism are everywhere right in front of us, displayed in the landscape,
or most dramatically in the contemporary cityscape — provided we learn how to
reach such contradictions and conlicts, for many cityscapes have come to seem
bewildering mutable, heterogeneous, fragmented, and opaque” (31).
Le vicende dei protagonisti malerbiani devono perciò essere analizzate
attraverso il loro rapporto con questo nuovo spazio “bewildering mutable”, in
particolare con la metropoli che si presenta, come suggerisce il critico Di Gesù,
“come sminuzzata e digerita dai protagonisti, [e inisce] con l’impastarsi con i
più svariati argomenti dei loro monologhi, cosa tra le cose del loro quotidiano”
(57). Sostiene infatti Giulio Carlo Argan che “la forma della società è la città,
e costruendo la città, la società costruisce se stessa” (253). Secondo questa dichiarazione la rappresentazione letteraria della città dovrebbe rilettere la forma
della società, del suo evolversi e del suo mutare. Gli spazi nell’opera malerbiana,
dalla campagna parmense a una Roma fatiscente, scenario di molti altri romanzi,
non rappresentano solo uno sfondo neutro e isso, un palcoscenico sul quale si
3
Hanno compiuto signiicativi studi in questo campo critici come Henri Lefebvre, David
Harvey, Edward Soja, Jean Baudrillard e Jean-François Lyotard, per citarne alcuni.
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muovono i personaggi, o un ambiente extra sociale, ma interagiscono sia a livello
testuale sia a livello contenutistico e diventano materia per veicolare il pensiero
dell’autore sui mutamenti antropologici della società.
Un’analisi particolare merita lo spazio urbano di Fantasmi romani,
Roma. Evocando nell’immaginario collettivo allo stesso tempo Umanesimo,
Rinascimento, difusione della religione cattolica e trionfo culturale e militare
dell’Impero romano, Roma rappresenta la città del mondo occidentale per eccellenza. Tuttavia, come Peter Bondanella ha chiarito, il mito della città eterna non
costituisce più un punto di riferimento isso nel tempo. Di fatto, molte delle più
recenti rappresentazioni artistiche di Roma mirano ormai ad uscire da questa issità: mostrando come anch’essa sia mutata e si sia adattata alle esigenze dell’epoca
contemporanea, tali rappresentazioni minacciano la frantumazione di questo mito
(Bondanella 1). Le dichiarazioni dello stesso Malerba apparse in Città e dintorni
ben illuminano su questo punto: “Roma sta diventando una città immaginaria,
una città-fantasma. Si cammina per le strade di Roma e non si vedono più i palazzi,
i monumenti, le fontane, gli obelischi, le piazze più belle del mondo, non si vede
più nemmeno il cielo perché lo sguardo deve stare attento al caotico traico romano” (30). La Roma dell’ultimo romanzo malerbiano è dunque una città-fantasma,
che il lettore non percepisce mai nella sua totalità e con una dimensione propria.
Al contrario, la città, percepita come spazio di un’esperienza caotica, frammentata
e sensoriale, interagisce con i protagonisti e partecipa alla rappresentazione del
loro sentimento di disagio.
L’esistenza urbana di Giano e Clarissa può essere meglio compresa alla luce
delle teorie sullo spazio metropolitano di Remo Ceserani e Fredric Jameson. In
Raccontare il Postmoderno, Ceserani spiega come l’esperienza tipica di una tendenza apocalittica del romanzo postmoderno comprenda trasformazioni che, da un
lato, investono il soggetto con la sua frammentazione, molteplicità e schizofrenia;4
dall’altro, implicano una nuova concezione dello spazio (85–86), aspetto preponderante in Fantasmi romani. Ceserani per le sue argomentazioni fa riferimento
al noto saggio di Fredric Jameson sulla condizione postmoderna, in cui il teorico americano spiega come le nuove forme dello spazio cittadino e le emergenti
tendenze architettoniche siano apparse in conseguenza del collasso delle “grandi
metanarrazioni” che caratterizza l’epoca postmoderna (154). Le seguenti parole
contribuiscono ad approfondire il pensiero jamesoniano:
4
In Malerba questo atteggiamento è evidente soprattutto ne Il Serpente e Salto mortale.
— 11 —
Miriam Aloisio
Il concetto che la spazializzazione sta prendendo il posto della
temporalizzazione ci riporta all’architettura e alle nuove esperienze
dello spazio che penso siano diverse da qualsiasi altra esperienza
precedente dello spazio della città per fare un esempio. Quel che
colpisce dei nuovi agglomerati urbani intorno a Parigi, per esempio
è che non c’è assolutamente la minima prospettiva. Non solo sono
scomparse le strade […] ma sono scomparsi anche tutti i proili.
È molto disorientante e io uso questo senso di disorientamento
esistenziale che si prova nel nuovo spazio postmoderno per tracciare
un’ultima diagnosi della perdita della nostra capacità di porci
dentro lo spazio e farne una cartograia cognitiva. Ciò ci proietta di
nuovo verso la constatazione della difusione di una cultura globale,
multinazionale, che è decentrata e non può essere visualizzata, una
cultura in cui nessuno può trovare una propria posizione. (Ceserani
87)
Il progresso scientiico-tecnologico e il continuo passaggio d’informazioni
da parte dei media nella “cultura globale e multinazionale” si muovono a una
velocità tale da sofocare la capacità dell’individuo di organizzare il proprio passato
e futuro in un’esperienza coerente, sicché egli inisce per sentirsi smarrito in un’era
che si potrebbe deinire di eterno presente. La percezione del “disorientamento
esistenziale” non potrebbe emergere più chiaramente che nella città, in cui cultura
e civiltà si manifestano in modo palpabile.
Si noti inine che la scelta di Malerba di far agire un professore di urbanistica
nel suo ultimo romanzo non è quindi casuale: qui, scrittura e architettura sono
organicamente interrelate e la tematizzazione del disagio emerge proprio all’interno di uno spazio metropolitano vissuto da un protagonista che è allo stesso
tempo architetto e scrittore.5 La igura dell’architetto appare spesso nelle opere di
5
A veicolare l’idea di un possibile rapporto tra architettura e scrittura sono ancora le parole di
Ceserani. Secondo il critico, infatti, i movimenti letterari sembrano essersi sviluppati di pari
passo a quelli dell’architettura: “Dalla sua [di Charles Jencks] ricostruzione e da quella di altri
studiosi risulta che nel mondo dell’architettura e dell’urbanistica gli sviluppi culturali sono
stati abbastanza simili e paralleli a quelli che abbiamo trovato nel mondo della letteratura (e
con reciproche interferenze). […] le strutture architettoniche sono assimilabili agli altri oggetti
culturali per almeno due loro caratteristiche: esse possono avere una marcata funzione simbolica
(e quindi di signiicazione) e inoltre possono avere un rapporto di interazione molto forte con la
condizione esistenziale di chi trascorre e plasma la propria vita dentro di esse” (46–47).
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Malerba: ci sono architetti ne Dopo il pescecane, Le pietre volanti, Il pianeta azzurro
e si fanno spesso accenni al “Supremo Architetto”, il pianiicatore dell’universo.
In Fantasmi romani la struttura urbanistica di Roma e l’ediicio architettonico del
metaromanzo che Giano compone hanno un rapporto di interazione molto forte
con la condizione ontologica dei protagonisti.
Il turbamento dei protagonisti nello spazio metropolitano
La soferenza psicologica dei personaggi dell’ultimo romanzo malerbiano si
percepisce sin dalle prime pagine che si aprono con una barzelletta raccontata da
Giano; ma il riso che essa dovrebbe suscitare è presto sofocato dall’immagine di
un tragico incidente automobilistico in cui muore l’amico che per primo aveva
narrato a Giano la barzelletta: “Povero Johannes, — esclama Clarissa — morire
dopo avere calpestato la terra solo per 47 anni, proprio nel momento della
maggior attività e del successo professionale” (Malerba, Fantasmi 8). Parlando del
disagio isico all’origine della scrittura malerbiana, Rebecca West osserva come il
riso nell’opera di Malerba sia “raramente leggero poiché si dà come risultato dello
stesso ‘disagio’ corporale che ci fa piangere, starnutire e in genere cercare sollievo
sia dal mondo esterno che da noi stessi” (17). Il tema del riso presentato accanto
alla tragedia della morte respinge qualsiasi legame con i suoi elementi distintivi,
come leggerezza, giocosità, allegrezza. All’ennesima narrazione della barzelletta
che Giano insiste a raccontare anche dopo la morte dell’amico, il riso di Clarissa
si presenta forzato: “sentivo che l’aria era cambiata, c’era nelle mie orecchie la
morte rumorosa del povero Johannes […] avrei voluto dire a Giano di lasciar
perdere l’aquila a due teste” (Malerba, Fantasmi 8). In Fantasmi romani l’ironia,
aspetto caratteristico della prosa di Malerba, segue maggiormente la strada di
un umorismo pirandelliano, attraverso il quale il lettore prende coscienza della
condizione insigniicante e grottesca dell’uomo e, costretto a respingere una lettura
leggera del romanzo, vi ritrova, a mio avviso, la più intima e soferta esperienza
della vita.
I protagonisti di Fantasmi romani sentono tutto il peso di possibili catastroi
e, interiorizzandolo, reagiscono in maniera diferente; il lettore non deve attendere
molto per percepirne la profonda infelicità esistenziale. Sin da subito il pianto e il
riso sono messi sullo stesso piano: di fronte a una delle prime manifestazioni della
disperazione di Giano, “chinato sul lavandino con la testa tra le mani, scosso da
singulti che gli fanno tremare le spalle” (Malerba, Fantasmi 27), Clarissa è colta
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dal dubbio improvviso che quei singhiozzi siano da attribuire a un convulso di
risa. Sebbene il lettore si possa stupire che l’immagine di Giano in atteggiamento
disperato davanti allo specchio sia confusa da Clarissa per una manifestazione di
risa incontrollate, di fronte al pianto e al riso esistono “identiche diicoltà d’interpretazione” (27), ci spiega poco dopo Clarissa, che con una scrollata di spalle
preferisce non approfondire il suo dilemma. La presenza di un “riso” isterico immediatamente all’inizio del romanzo è metafora di un grido disperato che sembra
fungere da introduzione alle tematiche esistenziali di cui tratterà l’autore.
Giano è presentato da Clarissa come una persona per nulla socievole: lui,
“che è molto concentrato quando si tratta di argomenti connessi all’urbanistica, la
materia che insegna […] è estremamente ingenuo nei suoi rapporti umani e mondani” (9). Insoferente di fronte a colleghi e conoscenti, la narrazione di barzellette
costituisce solo un mezzo per riempire silenzi imbarazzanti e non il risultato di
un atteggiamento spiritoso con il quale desidera rallegrare la noiosa atmosfera
accademica dalla quale è spesso circondato:
L’occasione di raccontare questa o altre storiette o paradossi […]
gli consente una partecipazione conviviale a casa degli amici o a
casa nostra e soprattutto gli permette di evitare le Quattro Facce di
Merda quando compaiono in tivù e sui giornali dal momento che
gli procurano ogni volta gravi reazioni allergiche, tosse convulsa e
afanno respiratorio di tipo asmatico per cui, su consiglio del medico,
tengo sempre in casa, o nella borsetta quando siamo in viaggio, una
iala di Bentelan. (9)
Giano stesso ammette di sofrire di disturbi psicosomatici quando, trovandosi alla cena di un convegno tra colleghi, è costretto ad alzarsi dal tavolo, accusando improvvisi sintomi d’intolleranza allergica:
Non è la prima volta che sofro di questi disturbi parapolitici. È una
vera malattia […] il mio medico […] mi ha prescritto due pillole
al giorno di Laroxyl, un antidepressivo che non mi ha fatto niente
[…] Mi ha spiegato che ero malato di “ulcera latente”, una situazione
paradossale che colpisce di preferenza i soggetti che somatizzano i
gravi disagi correnti. (36)
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Egli si rivela incapace di sopportare il peso delle brutte notizie che legge sul
giornale o ascolta in televisione:
Niente, dovrei impedirgli di leggere i giornali perché a ogni brutta
notizia e questa Italia maccheronica che ne procura una al giorno,
Giano ha delle crisi di malinconia, acidità di stomaco […] insonnia,
asma allergica. Si sveglia di notte, si siede sul letto e si lamenta della
sua impotenza nei confronti delle disgrazie del mondo e soprattutto
di quelle italiane. […] allora si mette le mani nei capelli come se le
sciagure […] fossero dirette contro di lui. (43)
E un giorno ha persino un principio di sofocamento: “Una vera crisi isterica
di chi sta per afogare. Mi sono spaventata perché gli mancava il respiro come
se veramente stesse sott’acqua […] La faccia gli grondava di sudore, gli occhi
sbarrati per lo spavento e le mani tremanti” (44). I disturbi psicologici di Giano si
rilettono in quelli isici; il suo rapporto con i colleghi dell’accademia, la vista di
noti personaggi televisivi, la lettura o l’ascolto delle notizie quotidiane gli causano
malesseri concreti e di varia natura, spesso anche gravi come lo shock anailattico
in cui Giano per poco non perde la vita. Malerba – sostiene ancora West – è “uno
scrittore psicosomatico”, vale a dire che nei suoi romanzi “la mente razionale ed il
corpo somatico ed extra-razionale sono indissolubilmente legati l’un l’altro” (17)
e i numerosi episodi nel romanzo in cui si esplicita questa dichiarazione sono
essenziali per inquadrare lo stato psicologico profondamente infelice dei personaggi. Inine, il legame di Giano con Clarissa non costituisce afatto un motivo
di conforto. Marito e moglie sostengono e si ripetono continuamente di essere
innamorati, ma entrambi ammettono di possedere un rapporto fondato esclusivamente sulla menzogna:
Ma ecco che questa storietta dell’aquila a due teste si è inserita come
un chiodo di ferro nell’equilibrio imperfetto sul quale si regge il nostro
matrimonio. Ho detto imperfetto di proposito perché evitiamo, sia
io che Giano, di indagare i segreti e i chiodi che ognuno dei due
custodisce con cura e che, una volta portati alla luce, potrebbero
provocare una catastrofe. La nostra salvezza è la menzogna. Semplice
manutenzione del matrimonio. (Malerba, Fantasmi 11)
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Miriam Aloisio
Sebbene esente da reazioni allergiche o da attacchi di panico, anche
Clarissa appare sin dal principio come un personaggio psicologicamente turbato. Un’infelicità profonda accompagna la sua sfera quotidiana, all’interno della
quale possiede solo relazioni supericiali con amiche che incontra per strada, ha
rapporti sessuali extraconiugali e fa spesso uso di psicofarmaci. La menzogna per
lei non è solamente “manutenzione del matrimonio”, ma diventa un principio
fondamentale a cui si aggrappa per afrontare la quotidianità della vita: “qualche
volta — ammette — mentisco anche a me stessa, quasi un esercizio zen che mi
solleva dalla presenza ruvida e opprimente della realtà” (11). Ma cosa intende esattamente Clarissa quando parla di “presenza ruvida e opprimente della realtà?” I
primi studi critici su Malerba hanno illustrato come in ogni suo romanzo l’autore
miri a smantellare la compattezza della realtà che, spingendosi verso le più svariate
direzioni, non è mai riducibile a formule e categorie. Il critico Giovanni Ronchini
ci ofre un’idea visuale della realtà malerbiana attraverso la nota litograia Relativity
di Maurits Conrnelis Escher, in cui gli spazi composti di scale che s’inerpicano
in tutte le direzioni sono popolati da igure “senza volto come i manichini di De
Chirico” (9). E come tali si presentano anche i personaggi dell’ultimo romanzo di
Malerba, deiniti appunto fantasmi, poiché profondamente disconnessi e isolati
gli uni dagli altri, tenuti insieme esclusivamente dall’ambiente metropolitano in
cui vivono.
Partendo da queste premesse, l’esistenza urbana di Giano e Clarissa può
essere compresa alla luce delle teorie jamesoniane sull’“iperspazio metropolitano”.
Jameson riconosce una distinzione fondamentale tra l’alienazione generata dalla
metropoli moderna e una frammentazione di diversa natura, quella del soggetto e
della realtà, insita invece nella città postmoderna. Nelle sue argomentazioni sostiene che l’individuo non percepisce più l’illusione spaziale della “totalità” teorizzata
dal modernismo e, perdendo così la sua centralità, non è capace di localizzare se
stesso nell’iperspazio metropolitano. L’individuo non è più in grado di descrivere il suo spazio poiché — sostiene Jameson — non esiste più un linguaggio
condiviso: la scomparsa della dialettica signiicante-signiicato ha reso ambiguo
il linguaggio del testo urbano, determinando l’impossibilità di tradurlo in parole.
La pluralità di signiicati e d’interpretazioni che si annullano a vicenda percorre lo
spazio metropolitano rendendolo disorientante (44–51). Attraverso la topograia
della città, osservata sempre tramite la coscienza dei personaggi, questi sentimenti
di smarrimento rendono molti dei protagonisti malerbiani “nevrotici e visionari”
(Corti 138). Se nei romanzi di Malerba, infatti, la realtà non è più conoscibile
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perché si presenta frammentata, labirintica e aleatoria, l’unica possibilità di identiicazione con essa che si avvicini il più possibile al vero — suggerisce Rosalaura
Ballerini — “si colloca […] nell’ambito della nevrosi, la cui frequente incidenza
denuncia una situazione di generalizzato malessere sociale” (26). Sintomo della
nevrosi dei protagonisti della narrazione è il loro stato di paranoia: essi vivono
in una condizione di assoluta insensatezza, percepiscono la loro piccolezza nel
mondo e si sentono come minacciati da un disastro imminente, da una catastrofe
che possa “aprire la porta ai Quattro Cavalieri dell’Apocalisse” (Malerba, Fantasmi
17). È qui che lo spazio gioca un ruolo fondamentale.
Lo spazio urbano in Fantasmi romani diventa infatti una rete in cui Giano
e Clarissa sono soggetti soli, alla ricerca di un senso di appartenenza e alle prese
con i propri progetti utopistici. Secondo Jameson, ciò che occorre all’individuo è
la creazione di una “cartograia cognitiva” sia isica sia mentale, che gli permetta
di localizzare il proprio corpo e distanziarlo dallo spazio circostante. La presente composizione della società e il contesto corrente pone dunque il problema di
una rimappatura simbolica nella città isica, “nella cornice più limitata della vita
quotidiana, [che renda] possibile al soggetto individuale una rappresentazione
situazionale di quella più vasta totalità, propriamente irrappresentabile, che è l’insieme della struttura della città nel suo complesso” (Ceserani 97). Ma non tutti gli
individui sono in grado di compiere questa impresa e il senso di disagio e paranoia
che li caratterizza è generato dal tentativo disperato di attuarla. La paranoia è il
sentimento a cui è condannato l’individuo privo di un’identità sociale solida cui
fare riferimento e della possibilità di trovare un signiicato nella sua quotidianità. Travolti dalla necessità di ricostruire una nuova “mappa cognitiva”, Giano e
Clarissa proiettano le proprie utopie in modo diferente: Clarissa, attraverso la sua
flânerie per le vie di Roma, tenta di interpretare i “segnali magici” che la città di
tanto in tanto le presenta, mentre Giano mira a una drastica riorganizzazione di
una realtà che egli stesso deinisce “disperata” (Malerba, Fantasmi 55) attraverso il
suo doppio progetto di decostruzione6 urbanistica.
Le passeggiate di Clarissa
Il rapporto di Clarissa con Roma emerge attraverso la passeggiata per le vie
della città, precisamente per le strade del centro storico, tra piazza Navona, il
6
Non casualmente Malerba usa il termine “decostruzione” che ha avuto un’inluenza chiave sia
nelle discipline umanistiche sia in architettura.
— 17 —
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Pantheon e le vie adiacenti. La sua flânerie7 è parte integrante della giornata
quotidiana e costituisce un leitmotiv attraverso il quale emerge il suo disagio: “nei
giorni che Giano è occupato con le lezioni a Valle Giulia, non resto in casa come
una marmotta. Prima cosa sento nelle scarpe la spinta a uscire sulla strada, mi
trascinano verso la porta” (12). È presto percepibile la necessità di Clarissa di
uscire di casa. La similitudine con la marmotta, animale che vive principalmente
sottoterra, paradossalmente attribuisce una connotazione negativa alla casa, luogo
femminile per tradizione. Nella sua indagine sul signiicato semiotico della casa,
Gaston Bachelard ne illustra l’importanza in quanto spazio in cui l’individuo trova
protezione dall’ostile macrocosmo intorno a lui (40). Clarissa, al contrario, sente
un impulso ad abbandonare la casa, il rifugio per eccellenza, e tale incitamento
proviene dalle scarpe. Sono queste che, come investite da un potere occulto, la
trascinano verso la porta e la conducono per le vie di Roma senza una meta precisa:
Esco e vado in giro per la città allo sbando. Una mostra, un passaggio
davanti alle vetrine di via Frattina, un Supermercato, qualche volta
un ilm in centro, Capranica o Quirinetta, un gelato a piazza Navona
o al Pantheon. Mi piace camminare a zonzo nella città, vado con
passo svelto e leggero cercando le zone in ombra d’estate, evitando i
sampietrini sconnessi per salvare i tacchi. (12)
Clarissa “va in giro per la città allo sbando”, “cammina a zonzo” e sembra
godere di questa peregrinazione senza meta, guidata solamente dalle sue scarpe
“magiche”. Nel noto saggio “Walking in the City”, Michel de Certeau sottolinea
come la passeggiata per la città implica una forma di cecità da parte del pedone che
è incapace di leggere il testo urbano:
7
È interessante notare, inoltre, come il personaggio di Clarissa coincida con il ritratto evoluto
della igura del lâneur, divenuta celebre nel diciannovesimo secolo grazie al poeta Charles
Baudelaire. Si tratta del gentiluomo di elevato strato sociale, altezzoso e ben vestito, spesso
poeta o artista, che passeggia per la città osservando la gente e, in particolare, la donna, oggetto
o vittima (la prostituta) di un voyerismo tutto maschile. In Fantasmi romani è facile notare
un ribaltamento di gender. Clarissa corrisponde alla “contemporary lâneuse” o “counter
lânuese” del ventunesimo secolo, la quale passeggiando per la città, osserva invece di essere
osservata e, nella seconda parte del romanzo, va persino “a caccia” di un amante (la vittima).
Per approfondire il concetto di lâneuse si vedano i saggi di Helen Scalway, “he Contemporary
Flâneuse, Exploring Strategies for the Drifter in a Feminine Mode” e di Janet Wolf, “he
Invisible Flâneuse: Women and the Literature of Modernity”..
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Architettura e scrittura in F A N TASM I
R OMA N I
di Luigi Malerba
he ordinary practitioners of the city live “down below”, below the
thresholds at which visibility begins. hey walk — an elementary form
of this experience of the city — they are walkers, Wandermänner,
whose bodies follow the thicks and thins of an “urban text” they write
without being able to read it. hese practitioners make use of spaces
that cannot be seen […] it is as though the practices organizing a
bustling city were characterized by their blindness. (93)
La cecità secondo Certeau è causata dall’impossibilità di possedere una visione panottica della città. Clarissa si muove al suo interno, ma non ne vede mai
gli spazi dall’alto o nella loro totalità. Priva di una “mappa cognitiva”, segue alla
cieca un percorso che secondo lei è magicamente condotto dalle scarpe. Il concetto
di cecità, inoltre, si collega in modo organico al suo modo di camminare: con lo
sguardo costantemente rivolto verso la tipica pavimentazione romana, i sanpietrini, mentre tenta di schivare quelli sconnessi per non rovinare i tacchi: “conosco a
memoria lo stato dei sampietrini delle strade di tutto il centro storico. Da evitare
in assoluto via Giustiniani, piazza dei Caprettari, via Tor Millina e via Arco della
Pace” (Malerba, Fantasmi 12). La descrizione della cautela quasi maniacale con
cui scansa i sanpietrini e della preoccupazione per i tacchi delle scarpe si protrae
nel romanzo per circa due pagine: “Ho lasciato un tacco a Trastevere fra due sampietrini di via San Francesco a Ripa. Dovrò decidermi inalmente a indossare le
Superga gialle rasoterra che mi ha regalato l’architetto Zandel” (12). Poco più
avanti nel testo riferendosi al quartiere romano di Trastevere, Clarissa aferma:
“C’è già il progetto di una nuova pavimentazione, così non dovrò più temere per i
miei tacchi” (12). Quest’insistenza mira a ingenerare nel lettore la convinzione di
un’ossessione quasi patologica da parte di Clarissa, al punto che gli stessi sanpietrini iniscono per acquistare un signiicato metaforico; quando un tacco rimane
tra loro incastrato, essi diventano un segnale di un possibile cambiamento di vita:
Ma quel tacco, quel tacco rimasto piantato fra i sampietrini di via San
Francesco a Ripa potrebbe essere un segno del destino che mi chiama
in questa zona. Comincerò a parlare con Giano dell’idea di trasferirci
da queste parti. Un tacco rimasto piantato proprio qua vorrà pur dire
qualcosa, non ti pare? (13)
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Miriam Aloisio
La contingenza del tacco incastrato tra i sanpietrini è interpretata da Clarissa
come una rivelazione, la necessità di una nuova casa per rinnovare la propria vita:
“I traslochi rinnovano la vita, un rimescolo salutare di neuroni e ormoni” (13).
Da un lato, la flânerie fa emergere il tentativo di Clarissa di crearsi una
nuova mappa cognitiva attraverso l’interpretazione dei segnali magici che il testo
urbano le presenta; dall’altro, dall’elenco preciso ed insistente delle strade, degli
ediici storici o dei monumenti famosi di Roma che, richiamando alla storia con
la ‘S’ maiuscola, costituiscono un testo urbano conosciuto, traspare la sua necessità di riconfermare simboli e immagini vicine e familiari che le diano l’illusione
di orientarsi nella metropoli. Il linguaggio della città sembra prometterle delle
rivelazioni, ma la città è una nozione mentale sfuggente e, sebbene appaia conoscibile attraverso l’insistente ripetizione dei nomi delle strade e degli ediici, rimane
inaferrabile. Clarissa resta così intrappolata tra la possibilità di possedere un signiicato magicamente riferitole dalla città e la negazione di qualsiasi rivelazione.
La ripetizione sistematica dei nomi delle strade e degli ediici e l’interpretazione
in senso magico di accadimenti banali quotidiani sono sintomi di una nevrosi che
emerge dal suo rapporto con le stesse vie che la protagonista ammette di conoscere a memoria. L’assenza di una visione panottica implica un vagare nevrotico e
insensato attraverso una città che diventa estranea, una città che si inge familiare
ma non lo è, una città-fantasma. È da questo punto di vista che il suo percorso
casuale acquisisce progressivamente le sembianze di un labirinto in cui Clarissa si
ritrova intrappolata. In questa metropoli-labirinto Clarissa ha in serbo un’utopia:
desidera che il testo urbano le consegni quasi magicamente un progetto di vita,
permettendole così di uscirne fuori.
Alla dialettica città/labirinto viene fatta esplicita allusione nel libro quando
Giano avvisa il lettore di stare alla larga da una particolare via di Roma che causa
l’“efetto labirinto” alle persone che la percorrono: “la via Archimede […] è una
delle strade più assurde di tutti i Parioli, che non si può percorrere se non bestemmiando e che provoca spesso negli automobilisti l’Efetto Labirinto con capogiri
e conati di vomito” (81). Secondo Giano l’“efetto labirinto” causa veri e propri
problemi psicosomatici: “capogiri e conati di vomito”. Si tratta degli ennesimi
malesseri isici che si danno come risultato di uno stato psicologico turbato. Ma
l’efetto labirinto lo avverte anche il lettore che, attraverso la flânerie di Clarissa,
non è mai in grado di possedere una visione totale della città; ciò che in realtà vede
è la proiezione del personaggio, il suo istante psicologico, la nevrosi di un individuo dall’identità frammentata nel tentativo di riordinare situazioni o condizioni
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Architettura e scrittura in F A N TASM I
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di Luigi Malerba
percepite come caotiche. Clarissa sente la necessità di lasciare l’interno borghese
della sua casa non più percepita come rifugio, sperando che il suo girovagare diventi per lei un modo per registrare la sua vita quotidiana e dare senso ai suoi
fenomeni, ma questo non avviene.
Tutte le opere di Malerba mettono in luce un forte legame tra la struttura
linguistica che determina i legami socio-comportamentali e lo spazio abitato. La
rappresentazione della città nei suoi testi, dalla Scoperta dell’alfabeto ai romanzi
della trilogia ino a Fantasmi romani, va di pari passo con lo sviluppo tecnologico
e con i mutamenti dei fenomeni economico-politici; attraverso la scrittura Luigi
Malerba tenta di rappresentare l’evolversi della società. Questo avviene ancor più
in Fantasmi romani, romanzo in cui architettura e scrittura sono messe in relazione
attraverso il personaggio di Giano. Ad esempio, la scelta narrativa dell’utilizzo del
monologo esteriore contribuisce ad adattare il linguaggio al disagio ontologico
dei personaggi. Malerba alterna la “soferta e sempre più insicura e addolorata
espressività di Clarissa” (Paccagnini 7) alla scrittura “subdola, graiante, cinica
e morbosamente cattiva” (Paccagnini 7) di Giano, che come scrittore, acquisisce
progressivamente il controllo sulle azioni della moglie e degli altri personaggi.
Nella seconda parte della narrazione, infatti, Clarissa ancora una volta spera che
le sia consegnato un progetto da seguire per dare signiicato alla sua vita e si abbandonerà completamente alla lettura del metaromanzo che Giano sta scrivendo.
Perdendo completamente cognizione del conine tra realtà e inzione, inizierà a
imitare le azioni ittizie del suo alter-ego Marozia, come vedremo. Ma prima di
concentrarmi sulla scrittura di Giano, vediamo ora come egli cerchi di orientarsi
nell’ambiente metropolitano, coltivando un’utopia completamente diferente da
quella di Clarissa.
L’utopia di Giano
La progettazione di una città ideale o utopica ha lunga storia: basti pensare a
Kallipolis nella Repubblica di Platone, alla città del sole di Tommaso Campanella,
all’Utopia di homas More, ad Atlantide o a Cristianopolis. In generale, l’utopia
è presentata come un’alternativa per riorganizzare e migliorare uno status quo;
l’ambizione di un’utopia è la felicità collettiva ultima, l’armonia conseguita
attraverso una rivoluzionaria ristrutturazione sociale. Anche l’architetto Giano
possiede una visione utopica; egli ha in serbo due progetti d’importanza cruciale:
la decostruzione e ricostruzione di una nuova Roma e la creazione di un romanzo
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Miriam Aloisio
ambientato nella stessa città e basato sulla sua vita, nel quale, come vedremo, la
distruzione (questa volta dei personaggi) rimane un suo obiettivo.
Durante un “Congresso sulla Città Futura” Giano presenta una relazione sul
progetto della metropoli ideale:
Al congresso […] ho parlato in positivo della città a forma di stella con
le punte abitate e i vuoti fra una punta e l’altra occupati da giardini.
Le strade di collegamento in forma circolare passano volta a volta fra
le zone abitate e i giardini. […] La città del Futuro sarà costruita da
principio a forma di stella indiferente che sia la stella di Davide con
sei punte, quella di Salomone con cinque punte o la Rosa dei Venti
con otto o quante punte vogliamo, comunque collegate da anelli
concentrici comunicanti fra loro con strade a raggiera che collegano
tutti gli anelli. I quali deiniscono le varie zone urbane. Ogni strada
di collegamento sarà unidirezionale, in alternativa dal centro verso
l’esterno o dall’esterno verso il centro. (Malerba, Fantasmi 33)
Sebbene il progetto di Giano sia palesemente irrealizzabile, per comprendere il rapporto tra protagonista e spazio urbano è necessaria un’attenta analisi. È
inevitabile osservare come esso presenti una minuziosa pianiicazione geometrica.
Nel corso dei secoli le utopie urbane o suburbane sono sempre state distribuite
secondo precisi disegni geometrici, che suggeriscono l’assoluto dominio razionale
dell’essere umano. Contrariamente alla flânerie di Clarissa, nel piano di Giano
niente è lasciato “allo sbando” (Malerba, Fantasmi 12). Anche le irregolarità sono
previste e calcolate meticolosamente: “Saranno previste numerose piccole irregolarità — dice Giano — per evitare la noia cittadina sempre in agguato. Qualche
errore fa bene alla salute del mondo” (33). Se si tentasse di visualizzare l’immagine
della città ideale di Giano, non si potrebbe fare a meno di notare che il cerchio
costituisce la forma geometrica dominante: le strade di collegamento hanno forma
circolare, le punte della stella sono collegate tra loro da anelli concentrici e, inoltre,
le punte di qualsiasi stella, se unite, creano un cerchio. Ma la forma geometrica del
cerchio è un motivo chiave della narrativa malerbiana, come spiega Walter Pedullà
nel suo saggio sulla metamorfosi del cerchio. Alcuni dei signiicati tradizionali
attribuiti a tale igura geometrica sono la perfezione, l’interezza, l’unità, la completezza, la centralità, la ciclicità e, tra gli elementi concreti, esso può rappresentare,
ad esempio, il grembo, il sole, la luna, i pianeti, la pupilla dell’occhio. Da questo
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breve elenco si evince che la costruzione della città ideale di Giano all’interno
di un cerchio implica sfumature profondamente simboliche. Essa dà forma a un
desiderio profondo di riorganizzazione sociale, una nuova struttura che sia matematicamente calcolata in ogni suo aspetto, perfetta come un cerchio. Se si pensa
al grembo come simbolo di protezione, la città ideale del protagonista rappresenta
anche il tentativo di difendersi dai fenomeni caotici del mondo esterno, la necessità di ricercare coerenza e unità, un modo per riorganizzare mentalmente la mappa
cognitiva dell’ambiente in cui si vive.
Come nell’antichità la polis greca e la civitas latina deinivano la città-stato,
ossia un’organizzazione urbana e politica allo stesso tempo, la città ideale di Giano
deve essere formata sia da un luogo isico sia da un corpo politico. Giano si convince che, attraverso il suo progetto, la forma isica della città possa condizionarne
il corpo politico, quindi la società e, in ultima analisi, il comportamento dei cittadini. Diversamente da Clarissa, egli mira a possedere una visione panottica di
Roma: sulla parete dell’aula, dove tiene le sue lezioni, egli ha appeso una grande
carta topograica della città, sulla quale sono segnate in diversi colori le aeree da
distruggere, da risparmiare e da ricostruire, secondo il suo progetto. La presenza di
una cartina sul muro è simbolo di un senso di disorientamento, ma anche del tentativo di “porsi dentro lo spazio e farne una cartograia cognitiva” (Ceserani 87).
La minuzia geometrica con la quale Giano desidera ricostruire la città, tuttavia,
costituisce la prima spia di un’ossessione che, proseguendo con la lettura, inisce
per coincidere con il delirio. Se all’inizio Giano espone un progetto studiato e
calcolato a tavolino, progressivamente egli sembra essere colto da una vera e propria nevrosi distruttiva. Si noti il climax: durante il convegno, tra lui e un collega
che gli critica il progetto avviene un “volgare battibecco” (35), ma a metà della
narrazione, il progetto di decostruzione urbanistica è già divenuto un’ossessione:
Per cominciare Giano aveva progettato la demolizione di interi isolati
del Quartiere Parioli […] Aveva segnato con un evidenziatore verde le
aeree da demolire […] dopo i Parioli Giano voleva dedicarsi a risanare
Vigna Clara, che andava semplicemente “diradata”, una casa sì e
una no. Poi si trattava di afrontare il problema dei grandi formicai
della Tuscolana, dell’Appia Nuova e della Tiburtina che diceva in
conidenza, andrebbero semplicemente rasi al suolo e ricostruiti in
verticale […]. Un programma più facile da realizzare era quello delle
periferie più civili come il Quartiere africano o i colli Aniene, che si
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Miriam Aloisio
potrebbero dotare di grandi piazze distruggendo solo pochi isolati.
(70)
Clarissa riferisce a un’amica che Giano è “posseduto da un genio distruttivo” (77); la sua nevrosi è in crescendo quando, qualche pagina avanti, leggiamo
che Giano è posseduto da una “vocazione demolitoria”: “non le ruspe per la mia
Urbanistica Decostruttiva, ma la dinamite” (81). Dalla dinamite si passa alla fase
parossistica delle bombe intelligenti menzionate nel romanzo in un articolo sul
Corriere della sera: “Possiamo immaginare che la gioia massima del nostro urbanista sarebbe una pioggia di Bombe intelligenti su certi quartieri di Roma come i
Parioli che hanno scatenato la sua furia distruttiva, fortunatamente solo virtuale”
(119). E a proposito di questa critica Giano paradossalmente commenta: “questo
era il segno del successo” (120). Se inizialmente Giano elabora “un piano regolatore di Roma basato sulla demolizione di quasi il dieci per cento dei quartieri
costruiti dal 1940 in poi” (77), in seguito inisce per criticare anche l’architettura
di Roma antica: “diciamo la verità ci meravigliamo degli errori fatti a Roma negli
anni Quaranta ma dimentichiamo gli errori fatti anche dei secoli d’oro dell’architettura romana” (81), afermazione che demistiica il mito di Roma antica e
mostra l’impossibilità da parte di Giano di aggrapparsi al passato e quindi alla
Storia, per dare senso alla sua vita. Nell’epoca contemporanea si assiste a “una
crisi della temporalità e della storicità — scrive Ceserani — accompagnate da uno
storicismo onnipresente, onnivoro […] che lavora a ridurre il passato a museo di
fotograie e raccolta di ritagli di immagini e simulacri” (142). Il passato è dunque
respinto e l’utopia di Giano è tutta proiettata in un futuro che non si sa quando
giungerà: i tempi — egli ammette — non sono abbastanza evoluti per attuare il
progetto (82).
“Demolizione”, “radere al suolo”, “distruggere”, “sventrare” sono tutte parole
appartenenti al campo semantico della guerra ed esprimono il desiderio di Giano
di una distruzione assoluta. L’architetto dovrebbe essere colui che possiede un’idea
chiara e precisa dello spazio su cui interviene, ma la de-costruzione urbanistica di
Giano, abbreviata “DU” e ribattezzata da critici e studenti “Urbanistica Utopia
(UU)” (70–71), è un progetto delirante. Dietro al suo piano di sventramento
e riorganizzazione della Roma caotica in cui vive si cela una metafora più viscerale: al protagonista non interessa solamente il problema urbanistico, ma quello
epistemologico. Il progetto che diventa causa della sua nevrosi da un lato rilette
il tentativo di ediicare una città completamente diferente di cui egli possegga
la mappa cognitiva, dall’altro manifesta la necessità di creare un nuovo spazio
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Architettura e scrittura in F A N TASM I
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di Luigi Malerba
urbano con una nuova architettura che possa contribuire alla nascita di una nuova
società. Il nome Giano, poi, non può fare a meno di evocare quello del dio romano che, secondo il mito, fu fondatore di una città sopra il monte Gianicolo.
La furia distruttiva di Giano è un gesto estremo, spia di una nevrosi radicata: “I
gesti estremi — osserva Malerba — si prestano a un’interpretazione simbolica in
quanto negano allo spettatore la possibilità di identiicazione, sono le spie di un
disagio profondo” (Malerba, Parole 14).
Quando Giano si rende conto di non poter attuare il suo progetto di
Decostruzione Urbanistica poiché occorrono tempi più evoluti, la sua smania di
distruzione viene traslata nella scrittura. È a questo punto che “Decostruzione
Urbanistica” (DU) diventa, invece, il titolo del suo romanzo:
Ho cominciato a scrivere su un grosso quaderno un romanzo con
quattro protagonisti: Clarissa, Zandel, io e Valeria, naturalmente con
nomi di inzione, Marozia, Zurlo, Bubi e Tania. […] Un romanzo
borghese come i suoi protagonisti, ma più che un romanzo una
liberazione dai miei compressi furori. Sulla copertina del quaderno
ho messo soltanto due iniziali D.U. che stanno per Decostruzione
Urbanistica. […] sono sicuro che queste due iniziali e la mia terribile
calligraia saranno suicienti a scoraggiare Clarissa dalla lettura.
(Malerba, Fantasmi 48–49)
Il romanzo che Giano scrive narra la storia della vita che la coppia sta vivendo. Alla Roma che egli vorrebbe rimettere in ordine con il suo audace disegno di distruzioni corrisponde una mappa privata dei loro comportamenti,
piena anch’essa di squilibri che non possono essere riassestati (Mauri, “C’è un
fantasma” 55). Sin dalle prime pagine, Giano manifesta l’aspirazione a scrivere un
romanzo per riordinare “gli eccessi” del mondo: “il mondo gira e succedono delle
cose eccessive. Prendo nota di queste rilessioni perché ho deciso che un giorno
o l’altro le organizzerò in un libro. Ho già molte pagine di appunti scritti come
brani di un romanzo” (42). Non è la prima volta che un personaggio malerbiano
manifesta il desiderio di “mettere in ordine”: per Demetrio de Il pianeta azzurro
“[l]’ordine del mondo è sempre stato […] oggetto di desideri smodati e di una
costante preoccupazione” (162), Ovidio Romer de Le pietre volanti per la ricerca
di strutture nel caos ricorre al linguaggio pittorico, ma anche il ilatelico de Il
Serpente ammette che “per star tranquilli bisognerebbe avere tutto sotto controllo”
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Miriam Aloisio
( 218). Il metaromanzo ofre a Giano l’illusione di esercitare il controllo all’interno
della sua città ittizia. Scrivere un romanzo, aferma Clarissa quando scopre il
nuovo intento del marito, “è come inventare una città già tutta confezionata con
i suoi abitanti, le case, le strade, le piazze, i palazzi, i monumenti, la stazione, i
giardini, l’ospedale, i sottopassi, le fontanelle, i marciapiedi, i mercati, le direzioni
vietate” (100). Se nella prima parte della narrazione Giano si era persuaso che
dalla nuova struttura architettonica della città (la città a stella) si potesse dare una
struttura al caos e di conseguenza valore all’esistenza, verso la ine questo compito
è aidato alla scrittura. Dopo tutto “dare un senso alla realtà — ha asserito Luigi
Malerba — è la prima istanza che mi induce ad afrontare la scrittura” (Malerba,
Parole 28).
Se per la distruzione e la ricreazione di Roma occorrono tempi più evoluti, allora solo attraverso la scrittura sarà inalmente possibile “avere tutto sotto
controllo”, e quindi attraverso la inzione, dove si annida l’unica possibilità di
distruggere e creare a proprio piacimento. “Le inzioni”, confessa ancora Malerba,
non sono falsità, sono una realtà mentale modellata sui desideri […]
Il secondo orizzonte che accompagna la inzione si espande in aree
inesplorate dove l’autore (o il protagonista come suo mandatario)
tenta di scavalcare tutti i passaggi della logica per approdare alle
sintesi risolutive. Un’utopia certamente, ma anche una coscienza ben
radicata che i protagonisti della narrativa possono scegliere qualsiasi
strada per avvicinarsi alla verità. Il personaggio dotato soltanto di
buon senso e di realismo è quello che vola più basso. (Parole 28)
Giano, in qualità di scrittore, poco per volta acquisisce la consapevolezza di
“poter scegliere qualsiasi strada”, di possedere per mezzo della scrittura il potere di
creare ma anche di distruggere. Il senso di onnipotenza legato alla scrittura è un
sentimento che, insieme ad una certa arroganza,8 matura nel comportamento di
Giano man mano che leggiamo le pagine del romanzo:
8
Così Clarissa deinisce Giano dopo che questi inizia a intraprendere la scrittura: “povero
Giano, così ingenuo e così cattivo” (136) e ancora: “vedermi inilzata come un insetto lì sulle
pagine distillate con peridia da Giano” (121), “Clarissa mi ha rimproverato perché un pensiero
come questo, ha detto, è di un’arroganza intollerabile” (72).
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Architettura e scrittura in F A N TASM I
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di Luigi Malerba
Il romanzo mi dava un senso di potere, quasi di onnipotenza, e se
avevo qualche esitazione nel decidere il destino dei miei personaggi la
attribuivo alla mia inesperienza di romanziere. (183)
In un romanzo l’autore si trova nella felice condizione di potere. (235)
Meglio scrivere qualche pagina del mio libro che cominciava ad
appassionarmi perché potevo far muovere come burattini le persone
con le quali vivo o che frequento, mentre nella realtà sono spesso
vittima passiva delle situazioni. (182–183)
Clarissa stessa riconosce la posizione privilegiata dello scrittore e la sua possibilità di ottenere eterna fama: “non so che durata avrà il romanzo di Giano, ma
se verrà pubblicato sicuramente la carta stampata avrà una maggiore durata di
Zandel […] ma forse anche di noi che abbiamo normali prospettive di vita” (215).
Oltre all’esplicita allusione al dio bifronte (10), il Giano architetto e scrittore si
paragona spesso a Dio, il “Grande Architetto” o il “Supremo Architetto”,9 colui
che è in grado di distruggere e creare. Anche nel suo romanzo Giano decide di
distruggere, e non è un caso che per dissuadere Clarissa dalla lettura inga che
il libro sia proprio una relazione sulla decostruzione urbanistica. Giano è presto
animato dal desiderio di cancellare i personaggi borghesi che popolano gli spazi
ittizi della sua narrazione, a cominciare dal rivale, l’architetto Zandel/Zurlo: “con
il veleno che mi trovo dentro ho già scritto trenta pagine sulla sua morte presunta”
(59). Si tratta di una vera e propria forma di sadismo da parte dell’autore che sente
di poter fare delle sue creature ciò che più gli piace. Quando Giano pensa di introdurre l’episodio dal Vangelo secondo Giovanni in cui un mercante prega Gesù di
salvare suo iglio, leggiamo: “non vedo come potrò utilizzare questo episodio del
Vangelo […] se toglierlo o adattarlo in qualche modo ai miei personaggi. A Zurlo
per esempio, che sta morendo e viene salvato per miracolo dalla mia scrittura. Io
al posto di Gesù” (60). La condanna a morte di Zurlo nel meta-romanzo sembra
inspiegabilmente avverarsi anche nel romanzo: Zandel si ammala e diventa progressivamente sempre più grave.
Anche la moglie Clarissa, manovrata come un burattino, subisce una sorte
simile: “È il romanzo stesso che provocherà, attraverso la lettura segreta di Clarissa
e le sue reazioni che io tengo sotto controllo, i prossimi snodi narrativi. Da una
parte i suoi comportamenti saranno inluenzati dalle mie pagine, […] e queste
pagine a loro volta si svolgeranno tenendo conto dei comportamenti di Clarissa”
9
Ne Le pietre volanti, Il pianeta azzurro, Il Protagonista, Il serpente, Salto mortale.
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Miriam Aloisio
(203). Per lei che, scoperto il romanzo, inizia a leggerlo segretamente, la inzione
diventa una forma di prigionia inesorabile e il conine tra vita e lettura (letteratura), realtà e inzione, si fa sempre più sottile:
mi confonde l’anima trovare scritti i miei pensieri e i miei
comportamenti che spesso, devo dire sono più ragionati e verosimili
dei miei pensieri e comportamenti reali, sempre così incerti e
sconnessi. Giano mi fa muovere e parlare come una burattina ai suoi
ordini […] un personaggio di carta si può guidare come si vuole, fargli
fare quello che piace a chi scrive e che conviene alla trama, mentre
nella realtà io seguo istinti o sensazioni spesso casuali […] l’azzardo di
Giano è rubare la mia vita. (99–100)
Clarissa, che prima cercava di interpretare i segnali magici che la città le
inviava, anche ora segue una logica simile: desidera ancora una volta che le sia
consegnato un progetto da seguire per dare signiicato alla sua vita e la scrittura di
Giano inisce per inluenzarla in maniera patologica:
Ma Giano mi domando, sta scrivendo il suo romanzo o la mia vita?
[…] Oppure sono io Clarissa che vivo il suo romanzo nella irrealtà di
Marozia? (124)
Sono assillata dal terribile dilemma: verità o inzione? Devo credere a
tutte le proposizioni scritte da Giano nel suo libro? Ciò che ho letto
inora si avvicina in modo terriicante alla verità e spesso la prospettiva
scritta anticipa e supera la prospettiva reale nella quale sono, o meglio
siamo invischiati. (160)
Si assiste a una drammatica crisi interpretativa di Clarissa che prima avveniva durante il suo vagabondare per la città e ora attraverso il libro di Giano: “sto
viaggiando come una vagabonda in mezzo alle pagine di Giano e ho cominciato a
decifrare il testo” (214). Più volte Clarissa insiste sull’illeggibilità della calligraia
del manoscritto: “nello sforzo di decifrare questa scrittura impossibile mi è venuto
un atroce mal di testa” (101). E ancora: “sono andata avanti con la lettura, se si
può chiamare lettura la faticosa decifrazione di questo testo con qualche parola
ogni tanto che non riesco a capire” (217). Esiste una relazione tra il testo urbano
che si presenta come un gerogliico di diicile interpretazione e il manoscritto di
Giano, la cui scrittura si avvicina maggiormente ad una “crittograia”. Lo stato
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mentale di Clarissa, intrappolata prima nel labirinto del centro storico romano e
ora nella narrazione del romanzo che condiziona le sue azioni, peggiora progressivamente, dall’insonnia (96) si passa all’’angoscia e alla malinconia (121) ino a
una vera e propria depressione (228). Se, come si è detto, la donna era immune
ai malesseri isici di cui sofre Giano, verso la ine, la lettura del romanzo inizia
ad avere efetti concreti sul suo corpo: “Adesso succede che alcune altre pagine del
romanzo di Giano mi hanno profondamente turbata” (95); “Dopo la lettura di
queste pagine mi sono sentita così male che ho preso due Laroxyl” (79); “il motivo
della mia insonnia erano le pagine del suo libro” (96). Ciononostante, la lettura
diventa per lei una vera e propria ossessione al punto da iniziare a imitare le azioni
del suo alter-ego Marozia. Quando Giano le sottrae il libro, Clarissa cade in una
profonda disperazione: “la lettura era diventata in assenza di Zandel un punto di
comunicazione. Riuscivo a dare un senso a quello che facevo, mentre adesso sono
una donna sperduta nell’oceano senza una bussola che mi indica quale direzione
prendere” (226). Nuovamente priva della mappa cognitiva di cui ci parla Jameson,
Clarissa si ritrova al punto di partenza e può solo riprendere a girovagare allo
sbando nello spazio metropolitano.
Il metaromanzo non costituisce un’ossessione solo di Clarissa ma anche del
marito che progressivamente si isola nello spazio della scrittura, l’unico per altro
dove riesce a trovare qualche soddisfazione: “Devo confessare che provo una certa
soddisfazione a liberarmi con la scrittura dai troppi ingorghi che mi ostacolano il pensiero e confondono le idee” (183). Si è analizzato come Giano desideri
disperatamente cambiare se stesso tentando di dominare e controllare lo spazio
caotico prima con il suo progetto architettonico e ora con il romanzo. Nonostante
il potere acquisito in qualità di scrittore, in questo romanzo, Giano fallisce nell’intento di ordinare la realtà attraverso la scrittura: “La mia debole scrittura non è in
grado di tener dietro ad una realtà così disperata” (55) e come se i ruoli si fossero
ribaltati, lo vediamo a un certo punto impegnato nella decifrazione del testo urbano. Le ultime pagine del romanzo sono dedicate ai numerosi graiti — “Prima
l’etica e poi la scienza” (114), “Cuci il volto animale con il volto umano” (140),
“Boikotta le banke” (138) — che di tanto in tanto appaiono sui muri della città
e che persistono a inquietare l’animo del protagonista. “[Giano] crede che quei
graiti esprimano l’inconscio della città, la rivelazione delle sue pulsioni sotterranee, una specie di transfert involontario come se Roma fosse sdraiata sul lettino
dell’analisi” (142. Dopo numerose pagine in cui egli tenta di ofrirne un’interpretazione, questi si rivelano però privi di senso.
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Miriam Aloisio
Il fallimento di Clarissa nell’interpretazione del testo urbano ricalca sia quello di Giano che non è in grado di attribuire un signiicato ai graiti, sia quello del
suo progetto architettonico. Secondo Jameson, il linguaggio della metropoli postmoderna può essere colto solamente in supericie: tutto si è ridotto a supericie,
ogni cosa è piatta e inconsistente, anche e soprattutto il linguaggio. La supericie a
sua volta si riduce a simulacro, non rimanda a nessun nucleo profondo (98). Nel
suo saggio sull’“estetica della supericie” Clayton Koelbe mostra come il concetto
di supericie nell’opera di Malerba non sia più da intendersi come una maschera che nasconde la realtà, ma come l’unica realtà possibile (123). Completando
questa analisi, Andrea Cortellessa illustra come la tematica della supericie emerga nei romanzi attraverso il tema del doppio e della menzogna (191). Tenendo
fede a questi assunti si può quindi dedurre che solo attenendosi alla supericie ed
evitando la ricerca di signiicati profondi il testo urbano risulterebbe in qualche
modo intellegibile e la piattezza e l’inconsistenza del linguaggio e del messaggio
potrebbero essere recuperati.
Ma vorrei fare un passo successivo, concentrandomi sulla rilessione apocalittica con cui Cortellessa concludeva il suo saggio: cosa accadrebbe se cessasse
per sempre il regno della menzogna? (191) Il romanzo ittizio di Giano sembra
a mio avviso tradire “il regno della menzogna” su cui s’incentra tutta la trama di
Fantasmi romani: scrivere sulla propria vita (Giano) e leggerla (Clarissa) permette
a entrambi di prenderne coscienza e di uscire paradossalmente dal mondo di inganni che si sono creati. La scrittura e la lettura del romanzo ittizio iniscono per
scatenare i “Quattro Cavalieri dell’Apocalisse” (Malerba, Fantasmi 17) e diventano
la causa della deinitiva separazione della coppia, generando una paranoia sempre
più profonda. “La scrittura come menzogna” non sembra più costituire una forma
di evasione eicace e tutto nel romanzo sembra perdere consistenza. Si domanda
Clarissa: “questo sarebbe secondo lui [Giano] il Romanzo Borghese che a un certo
punto propone come titolo e questi i personaggi? Tutti fantasmi. Fantasmi romani
in questa valle di chiacchiere” (Malerba, Fantasmi 57). Roma è una città-fantasma
e fantasmi, come rivela Clarissa, sono gli individui che la abitano.
In quest’ultima opera Malerba mostra ancora una volta che “il mondo ha bisogno di essere aggiustato” (Mauri, “Geograia” 56) e, sebbene la Roma che Giano
tenta invano di strutturare non si possa mettere in ordine, attraverso il suo piano
di decostruzione urbanistica egli mostra un atteggiamento di rivolta contro lo
status quo. Nonostante l’autore abbia spesso asserito che l’immedesimazione con
i suoi personaggi termini al momento in cui conclude la stesura di un romanzo,
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di Luigi Malerba
qui il disagio di Giano sembra rilettere l’ideologia personale dell’autore: “l’ordine
del mondo — confessa Malerba — è stato per me oggetto di desideri smodati e
di una costante preoccupazione” (Malerba, Parole 136). A questo si aggiungano
un’intervista del 1998 con Paola Gaglianone in cui Malerba ci informa che avrebbe voluto fare l’architetto (Malerba, Parole 42) e quella con la iglia Giovanna
Bonardi poco dopo la pubblicazione del romanzo, in cui confessa di condividere
le utopie urbanistiche di Giano in Fantasmi romani (7). Giano e Clarissa sono
anti-eroi deambulanti che zigzagano insoddisfatti alla ricerca di un progetto di
vita: il loro minuto quotidiano diventa materia per osservarli alle prese con un
sentimento di paranoia che nasce dal loro senso di non appartenenza e la loro passeggiata attraverso gli spazi della narrazione inisce per descrivere metaforicamente
il soggiorno dell’uomo sulla terra. A diferenza dei precedenti, infatti, Fantasmi
romani è un romanzo che permette al lettore di avvicinarsi emotivamente al testo,
di identiicarsi a volte con uno a volte con l’altro protagonista e di relazionarsi con
la materia narrata — Roma, la vita mondana, il sesso, l’amore, le guerre e le catastroi riportate in TV. Non va tralasciato poi lo stile del monologo esteriore che
contribuisce a instaurare una vera e propria intimità tra il lettore e il testo scritto.
Per concludere, Malerba è uno scrittore anomalo e originale che ha mostrato
grandi capacità di continuo auto-rinnovamento con i suoi romanzi. Nella sua
ultima opera, lontana dai sotterfugi ironici dei romanzi precedenti, l’autore mette
in luce interrogativi esistenziali contemporanei e inisce per approdare a una presa di coscienza di risonanza tragica, epitomizzata dal seguente passo di Fantasmi
romani:
Racconta, come logo terminale della negatività, che Ezra Pound
quando abitava a Venezia ogni mattina appena sveglio apriva la
inestra e gridava a gran voce “Disaster!” […] Giano diceva che
avrebbe dovuto ripetere anche lui ogni mattina l’urlo catastroista del
poeta americano. (69)
La domanda che si pone Clarissa dopo la lettura del metaromanzo — “Tale
è la sua idea [di Giano] della nostra società, diciamo pure borghese fatta di ottusi
incontri sessuali e di barzellette?” (58) — riassume l’immagine più generale di
una contemporaneità spiritualmente vuota, segnata da un profondo turbamento
e dello smarrimento cosmico che nell’epoca tecnologica-mediatica accompagna la
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paranoia d’individui soli. Osserva il critico Fabio Rodda che nella nostra epoca la
catastrofe costituisce una rassegnazione necessaria:
L’apocalisse di noi stessi è cominciata con la modernità, l’epoca della
frattura con il ritmo vitale dell’epoca dell’oro. Alcuni tra noi se ne
sono involontariamente accorti […] Non c’è via d’uscita né speranza
in un’altra vita. Abbiamo a disposizione solo il regno del qui ed ora, e
questo assomiglia molto di più ad un inferno che al paradiso perduto.
(213–214)
In Fantasmi romani la scrittura ingaggia un corpo a corpo con il disagio
ontologico dei personaggi, il quale accompagna la percezione di un senso incombente della ine con cui si devono confrontare. Ma a venire rappresentati non sono
più soltanto l’infelicità dell’io e della realtà: il disagio e il turbamento investono
l’atto stesso della scrittura che dunque sembrerebbe una terapia non eicace. Se
pensiamo a Giano scrittore, il suo romanzo fallisce come tentativo di ordinare la
realtà caotica, come mezzo di evasione e inisce per coincidere con un’arte capace
di indagare il fondo più fangoso dell’esperienza umana e di metterne in luce le
contraddizioni, esulando da ogni intento ludico. Ogni speranza sul domani sembra essere stroncata dal sentimento di stanchezza esistenziale del protagonista, a
cui non resta nient’altro che la magra rassegnazione a vivere nel disagio accettando
lo status quo (“il nostro pianeta Terra — commenta il personaggio — non si cura
dei miei problemi e delle mie perplessità, gira velocissimo nello spazio senza mai
un momento di riposo mentre io sono stanco […]” (Malerba, Fantasmi 68). Si
può solo sperare, allora, che quando “i tempi saranno evoluti”, da un progetto
concreto e realizzabile di distruzione, o meglio di de-costruzione, sia essa architettonica, sociale o morale, si possa un giorno riscoprire la forza rigenerante della
creazione.
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