Pietro Cavallo
Pasquale Iaccio
Penso che un sogno così
non ritorni mai più
L’Italia del miracolo
tra storia, cinema, musica e televisione
Liguori Editore
Questa pubblicazione è stata realizzata con il contributo del Dipartimento di Studi Umanistici
dell’Università degli Studi di Salerno
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Prima edizione italiana Maggio 2016
Stampato in Italia da Liguori Editore, Napoli
Cavallo, Pietro :
Penso che un sogno così non ritorni mai più/Pietro Cavallo, Pasquale Iaccio
Collana di storia contemporanea
Napoli: Liguori, 2016
ISBN 978 – 88 – 207 – 6660 – 3 (a stampa)
eISBN 978 – 88 – 207 – 6661 – 0 (eBook)
1. Italia
2. Miracolo economico
I. Titolo
II. Collana
III. Serie
Ristampe:
24
23
22
21
20
19
18
17
16
10
9
8
7
6
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La carta utilizzata per la stampa di questo volume è inalterabile, priva di acidi , a PH neutro, conforme alle norme UNI EN ISO 9706 ∝, realizzata con materie prime fibrose vergini provenienti
da piantagioni rinnovabili e prodotti ausiliari assolutamente naturali, non inquinanti e totalmente
biodegradabili (FSC, PEFC, ISO 14001, Paper Profile, EMAS)
INDICE
1
Premessa
L’esperienza di FILMIDEA. La storia la musica il cinema la televisione
5
La commedia morale di Mario Monicelli
di Gino Frezza
11
Colloquio di Mario Monicelli con gli studenti dell’Università di Salerno (23 gennaio 2007)
25
I sogni nel cassetto. Inizia la pandemia “Lascia o raddoppia?”
di Pietro Cavallo
57
Il cinema e la storia negli anni del miracolo economico
di Pasquale Iaccio
81
Il corpo misura del mondo
di Margherita Platania
99
Luci e ombre del miracolo. Le trasformazioni dell’Italia nei documentari dell’Agip e dell’Eni
di Elio Frescani
121
“Non essere geloso se con gli altri ballo il twist”. Divertimento e
trasgressione nelle canzoni degli anni Sessanta
di Paolo Mattera
135
Il rock nell’Italia della “guerra fredda culturale”
di Marilisa Merolla
153
L’altra faccia del miracolo. Il boom nei filmati di propaganda del PCI
di Mariangela Palmieri
169
Mostrare il “miracolo”? L’Italia alla Mostra del cinema di Venezia fra
modernizzazione, coscienza storica e denuncia sociale
di Stefano Pisu
185
Il Miracolo in Superotto
di Marcello Ravveduto
INDICE
201
Da Signore a Donne: la rappresentazione dell’universo femminile nella
RAI del boom 1957-1961
di Vanessa Roghi
217
Rappresentare il benessere. Gli italiani e le vacanze nel cinema del
“miracolo”
di Maurizio Zinni
235
Gli Autori
237
Indice dei nomi
IL MIRACOLO IN SUPEROTTO
di Marcello Ravveduto
È possibile realizzare una Public History del Miracolo economico? O
per meglio dire: è possibile realizzare una storia del Boom «in contatto
diretto con l’evoluzione della mentalità e del senso delle appartenenze
collettive delle diverse comunità che convivono all’interno dello spazio
nazionale»1? La Public History è una disciplina che può aiutare lo
storico a scendere sul terreno concreto della “gente” attraverso le testimonianze dirette. Testimonianze sempre più rintracciabili su diversi
supporti mediatici, oltre quelli tradizionali, tra i quali la Rete è entrata
con prepotenza diffondendo, ad un vasto pubblico di non addetti ai
lavori, documenti che possono cambiare l’interpretazione storiografica
di eventi del passato recente.
Public History è discesa della storia nell’arena pubblica, confronto con
pubblici diversi, ed uso sistematico, per farlo, dei media di comunicazione di massa: la radio, la televisione, la rete per fare storia. Inoltre, la
Public History porta anche la storia ed i problemi storici nella società
intesa con le sue variegate sfaccettature… È una pratica scientifica
della storia e dei metodi storici, è soprattutto la capacità di offrire una
profondità analitica agli eventi da contestualizzare e da documentare
con le fonti: si tratta con il metodo storico di rendere più problematica
l’analisi degli eventi… di investire sulla memoria non soltanto usando
le tecniche di conservazione delle fonti della contemporaneità, ma anche costruendole in ambiti virtuali (radio, televisione, fotografia, rete)
o “fisici” (quando si pianificano parchi storici, musei e monumenti
commemorativi), che immettono la storia nel quotidiano e introducono
nella vita pubblica delle società la ricerca delle loro identità passate2.
1
S. Noiret, “Public History” e “Storia pubblica” nella rete, «Ricerche Storiche», 39, 2009,
p. 275.
2 Ivi, pp. 277-278.
PENSO CHE UN SOGNO COSÌ NON RITORNI MAI PIÙ
La scientificità di questo tipo di narrazione è nella capacità di
effettuare un “rito di passaggio” tra la conoscenza storiografica alta
e un vasto pubblico che chiede di sapere del passato, impedendo alla
memoria di manipolare la storia nella ricerca dell’identità collettiva.
È fondamentale, allora, integrare le fonti del ricordo memoriale con
la complessità delle fonti storiche e storiografiche e confrontarle con
le memorie “altre”. Infatti, nella Public History la ricerca sul passato
non discende solo dalle fonti storiche accreditate ma include anche
l’interpretazione di spazi fisici nel territorio urbano e rurale, di oggetti
materiali, appartenuti ad un’epoca o celebranti la memoria, e delle
“metafonti” digitali. Ed proprio in quest’ultimo caso che le infrastrutture cibernetiche del web 2.0 assumono un valore strategico. La
“metafonte”, secondo il concetto introdotto da Jean-Philippe Genet,
è quella inserita negli archivi digitali provenendo da un preesistente
archivio analogico ovvero: «l’immagine di una fonte che esiste in altri
formati, non la fonte stessa, o addirittura nuove fonti con caratteristiche diverse dagli originali»3. Per il fatto di essere resi accessibili in
forme diverse da quelle originali, di essere spesso associati ad altri
materiali di varia natura e posti all’interno di una rete di relazioni
ipertestuali che li collegano con risorse affini, i documenti digitalizzati subiscono un «processo di ricontestualizzazione che ne condiziona
inevitabilmente la comprensione e l’interpretazione, alternativamente,
impoverendone, o al contrario, arricchendone i significati»4. Come ha
rilevato Andrea Zorzi: «Quelli con cui abbiamo a che fare non sono
solo riproduzione delle fonti, ma documenti a sé stanti metafonti […]
che dagli originali ormai si differenziano profondamente». Dunque le
metafonti sono gli «archivi consultabili online, vale a dire […] quella
nuova tipologia di documentazione immateriale che viene crescendo
tra le mani degli storici che alla riproduzione in formato digitale dei
documenti accompagna trascrizioni o edizioni critiche, strumenti informativi (regesti, descrizioni e inventari archivistici etc.), banche dati,
bibliografie, saggi e altri materiali miscellanei, come anche strumenti di
ricerca sempre più raffinati (motori, e software dedicati)»5. Questo è il
caso dei film di famiglia in 8 millimetri (e dal 1965, vista l’espansione
3
S. Noiret, Storia contemporanea digitale, in R. Minuti (cur.), Il web e gli studi storici.
Guida all’uso della rete, Roma, Carocci, 2015, p. 271.
4
S. Vitali, Passato digitale. Le fonti dello storico nell’era del computer, Milano, Bruno Mondadori, 2004, p. 106.
5
http://www.archiviodistato.firenze.it/nuovosito/fileadmin/template/allegati_media/materiali_studio/convegni/medici/convegni_medici_zorzi.pdf
IL MIRACOLO IN SUPEROTTO
del mercato, nel formato superotto realizzato dalla Kodak) digitalizzati
e lanciati nella Rete. Per comprendere il valore documentale della fonte, è sufficiente ricordare che in questa categoria rientra il filmato con
cui Abraham Zapruder riprese l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy
a Dallas. Inoltre, basta dare un’occhiata al patrimonio dell’Archivio
Nazionale del Film di Famiglia a Bologna per comprendere il rilievo
storico del medium:
L’Archivio custodisce a oggi circa 20.000 elementi, quasi tutti su supporti originali costituiti da pellicole in formato ridotto (8mm, super8,
16mm, 9,5mm Pathè Baby) girati tra gli anni ’20 e gli anni ’80 del
Novecento. A ciò si aggiunge un’esigua quantità di pellicole 35mm e,
in misura crescente, di audiovisivi su supporti magnetici video e audio.
Si tratta di circa 5.000 ore di materiale audiovisivo proveniente da
tutta Italia. Materiali che le famiglie, ma non solo, hanno conservato
per anni nei cassetti, negli armadi, nelle soffitte e nelle cantine e che
racchiudono invece un patrimonio documentale di enorme interesse
storico e sociale: dalla celebrazione della vita familiare in tutti i suoi
aspetti più rituali alla documentazione del tempo libero e delle attività
lavorative, dagli eventi pubblici alla trasformazione del paesaggio6.
La ricaduta concreta del lavoro di archiviazione è stata la realizzazione di un portale web7 in cui i filmini digitalizzati sono stati rimontati per ricostruire l’immagine di Bologna attraverso la creazione
di percorsi tematici suddivisi in «Persone e famiglie; Luoghi; Enti e
istituzioni; Eventi». La prima sezione è sicuramente la più corposa
poiché il film di famiglia (come conferma di per sé la definizione
coniata) nasce come “evoluzione motoria” della foto di famiglia. La
cinepresa, come la macchina fotografica, rimanda l’immagine che la
famiglia vuole dare di sé stessa e del contesto in cui vive con la doppia
ambizione di rivolgersi alla ristretta schiera di parenti e conoscenti ma
anche ad un pubblico di potenziali estranei accuratamente selezionati.
«Una scelta che prevede quindi una studiata autopromozione della
6
http://www.homemovies.it/patrimonio.html. Anche la Rai nel 1983 lancia una simile iniziativa chiamata LA NOSTRA VITA “FILMATA”: «un progetto che invitava i telespettatori
a inviare i propri filmati amatoriali, che li ritraessero nel quotidiano e nei piccoli e grandi
eventi della vita privata. A quasi trent’anni di distanza, Rai Storia ha preso in consegna
dalle Teche Rai di Milano quei filmati, ricchi di frammenti di storie, luoghi e personaggi, e
li ha mescolati alla storia collettiva del Paese, attraverso le immagini del repertorio RAI». Il
sito di Rai Storia propone di far rivivere i ricordi degli italiani, gli avvenimenti importanti
della loro vita, girati in superotto e riversati in formato digitale. http://www.raistoria.rai.it/
categorie/super-otto/318/1/default.aspx
7
http://www.cittadegliarchivi.it
PENSO CHE UN SOGNO COSÌ NON RITORNI MAI PIÙ
propria famiglia ma nello stesso tempo anche una sincera autobiografia
ad uso dei posteri»8.
L’obiettivo della cinepresa è lo strumento di selezione della realtà.
Se cerchiamo sul vocabolario il significato della parola troveremo la
seguente definizione: «equanime, imparziale, spassionato, non alterato
(o esente) da pregiudizi, da preferenze, da idee, sentimenti personali
e interessi soggettivi»9. Insomma, la tecnologia ottica sarebbe garanzia di oggettività. In realtà, come è facilmente intuibile, la macchina
da presa è una protesi meccanica che si muove seguendo lo sguardo
dell’operatore. L’obiettivo, come l’occhio umano, inquadra la realtà
muovendosi in base ad un pensiero influenzato da una particolare
visione del mondo, dentro cui agisce la memoria sociale. Il filmino di
famiglia, perciò, è il prodotto di una selezione, avvenuta già a monte,
che riproduce un meccanismo analogo a quello della nostra mente:
tende a ricordare solo le eccezioni nel flusso della quotidianità familiare. Registra, il più delle volte, un cambiamento che vale la pena
di commemorare e quindi filmare. Così, grazie all’autopromozione
familiare, diventano visibili tutti i passaggi di condizione sociale: la
nascita di un bambino, le vacanze, l’ingresso nel mondo del lavoro,
il trasferimento in città, le feste popolari e ovviamente la formazione
di una nuova coppia. Grazie al suo magico realismo l’obiettivo «è in
grado di svolgere nel contesto familiare diverse funzioni, strettamente
legate tra di loro: permettere il riconoscimento dei propri consanguinei (memoria biologica), verificare l’accettazione o la rimozione degli
individui della comunità (legami parentali) e, principalmente, veicolare
senza ambiguità un’immagine autorizzata della famiglia. Nel proprio
passato la famiglia trova la conferma della propria unità presente e
nello stesso tempo promuove se stessa per le generazioni future»10.
La rappresentazione del matrimonio, in particolare, è un modo per
rendere accettabile la propria unione sentimentale conformandosi ai
costumi della comunità in cui si vive. Infatti, i filmini ricalcano la
teatralità delle pose fotografiche: gli sposi, le loro abitazioni, i quattro
genitori, la celebrazione religiosa, i parenti e gli amici davanti alla
chiesa e al ricevimento nuziale. Da questo punto di vista il film di
famiglia è uno strumento di memoria collettiva, un racconto costruito secondo i canoni di autorappresentazione della decorosa famiglia
8
G. D’Autilia, Interpretare se stessi, in G. D’Autilia, L. Cusano, M. Pacella, Familia. Fotografie e filmini di famiglia nella Regione Lazio, Roma, Gangemi, 2009, p. 24.
9
www.treccani.it
10
D’Autilia, Interpretare se stessi, cit., p. 25.
IL MIRACOLO IN SUPEROTTO
borghese (incorporati nel tempo anche da altre classi sociali), investita
dalla trasformazione del Miracolo economico.
Attraverso le immagini dei matrimoni è possibile provare a ricostruire i mutamenti sociali, culturali e civili negli anni di piena maturazione, e contemporanea paura di arresto, dello sviluppo economico?
Cioè è possibile verificare se, confrontando i filmini “girati” nel biennio
1963-1964 in comunità locali diverse (urbane e rurali), si è già messo
in moto «un processo di “imborghesimento di massa” del paese» che
«“gonfia” il ceto medio, omologato dagli stili di vita e da alcuni valori di
fondo (sicurezza, lavoro protetto, dimensione casalinga)?»11. Giuseppe
De Rita lo paragona a «Una vera e propria esplosione, che risucchia
dall’alto e dal basso tutti i settori della società»12.
A questo punto rientra in gioco la metafonte. L’unico modo per
comparare le “scene da un matrimonio” è averle a disposizione in formato digitale, ma i due principali archivi in rete non sono utili allo scopo della ricerca13. La soluzione, in verità, è più semplice del previsto:
su Youtube sono «visualizzabili» decine di filmini nuziali digitalizzati
dagli utenti per un pubblico familiare a distanza (per esempio i parenti
siciliani che caricano il filmino dei nonni per i cugini americani) che,
grazie alla portata del mezzo, si amplia a dismisura diventando “preda”
per internauti generalisti, ricercatori di storia, appassionati dei film
di famiglia o semplici curiosi arrivati a quel risultato navigando tra i
video suggeriti dalla piattaforma per argomenti simili. Gli storici che
intendono avvalersi delle metafonti digitali audiovisive non possono
sottovalutare il potenziale di Youtube: il più grande archivio digitale
spontaneo dei mass media esistente al mondo e in particolare del loro
sviluppo nel corso del Novecento. Sebbene la sua natura commerciale sia vista come un limite, si deve considerare, al contrario, che
sia proprio questa missione ad averne decretato il successo: è grazie
alla raccolta pubblicitaria se la fruizione rimane gratuita, consentendo
l’intersecazione tra utenti attivi (quelli che caricano materiali digitali
o digitalizzati) e passivi (quelli che lo usano come svago o consultazione). Una fruizione di massa, notevolmente superiore a qualsiasi
11
G. De Rita, A. Galdo, L’eclissi della borghesia, Roma-Bari, Laterza, 2011, p. 8.
Ibid.
13
L’Archivio Nazionale del Film di Famiglia ha digitalizzato e messo in rete solo i
materiali riguardanti la città di Bologna. Inoltre la consultazione delle bobine originali
presenta delle difficoltà logistiche che sono state ovviate affidando a una società l’estrazione
delle immagini in formato digitale, scaricando sull’utente interessato il costo del servizio.
La Rai, invece, più banalmente nel patrimonio digitalizzato non presenta filmini relativi
al biennio considerato.
12
PENSO CHE UN SOGNO COSÌ NON RITORNI MAI PIÙ
canale televisivo, in cui si mescolano generazioni e competenze in
cui, a differenza dei media broadcast, il filmato amatoriale (anche nel
formato di montaggio digitale) ha prevalenza sulla produzione professionale. Effettuata la ricerca si ottiene una lista di risultati (una per
il 1963 e una per il 1964) dalla quale è possibile estrarre alcune clip
le cui immagini possono essere analizzate e confrontate in una duplice prospettiva: rilevare i cambiamenti avvenuti nella vita quotidiana
all’interno della Grande Trasformazione nazionale.
Enrico e Margherita si sposano il 12 giugno 1963 a Uboldo, in
provincia di Varese, che oggi conta poco più di diecimila abitanti. Le
immagini sono a colori. La sposa è in abito lungo, bordato di merletti, con strascico. Esce di casa, un’abitazione monofamiliare, sotto
il braccio del padre che indossa un completo scuro. Due paggetti
precedono la coppia conducendo un cesto di fiori, mentre una damigella la segue reggendo il velo. Una volta in strada si forma il corteo
di parenti che si dispongono in fila per due dietro il padre e la figlia.
Avanti ci sono le donne, dietro gli uomini. Le prime sono vestite
per la maggior parte in tailleur dai colori seriosi (una donna giovane
spicca nel gruppo per il suo vestito color arancio), con capelli corti o
raccolti, truccate sommariamente. Le più anziane indossano un cappello. I secondi hanno abiti scuri, cravatte chiare e il fazzoletto nel
taschino. Camminano sul bordo della strada mentre alla loro sinistra
passano due automobili e un camion. Raggiungono la chiesa a passo
lento sotto lo sguardo dei paesani, fermi ad attendere il passaggio della
sposa. L’unica immagine interna alla chiesa è la ripresa della firma
dei registri. Davanti al portone dell’edificio religioso, la cui facciata
disadorna e i pilastri in cemento grezzo indicano la contemporaneità
del manufatto, gli sposi si mettono in posa con i familiari per la foto
di gruppo. Marito e moglie non sono, come è tradizione, al centro ma
occupano il lato sinistro. Inoltre, la chiesa, essendo allo stesso livello
della strada, costringe gli invitati a stare sullo stesso piano cosicché
alcuni scompaiono dietro l’ombra dei pilastri. Si ricompone il corteo,
questa volta guidato dai novelli coniugi, per dirigersi verso il luogo
del ricevimento. Escono dal paese e si inerpicano per una strada di
campagna. Gli ospiti che li seguono, alla vista della cinepresa, si sbracciano per salutare. Davanti al locale, un palazzetto di due piani con
scale esterne e persiane avvolgibili, ci sono due auto Fiat parcheggiate:
una 1100 blu e una 600 bianca. La struttura affaccia su una via di
passaggio, molto probabilmente una strada provinciale. L’operatore,
dall’interno, riprende il panorama da una finestra della sala nuziale. La
IL MIRACOLO IN SUPEROTTO
cinepresa indugia sulla pianura sottostante per riprendere il passaggio
di un treno composto da cinque vetture; poi l’obiettivo si sposta per
filmare un trattore che trascina un covone di paglia. Stacco ed ecco
gli ospiti seduti a tavola al termine del pranzo. Gli uomini hanno tolto
la giacca e sono in panciotto. Gli sposi, seduti in fondo, guardano gli
invitati in maniera inespressiva: lui è in camicia e cravatta, lei ha tolto
il velo. Un anziano signore, con tanto di mustacci, agita le braccia.
Sembra che stia raccontando una storia. Si è seduto al desco senza
togliere il cappello. Una coppia di fidanzati parla fitto fitto sotto voce.
Le donne più anziane si sono riunite e discutono tra loro, fingendo di
non notare la cinepresa. I visi sono rugosi e cotti dal sole. Gli uomini
più giovani vanno in giro per i tavoli, poi piombano sullo sposo per
canzonarlo14. Se non fosse per alcuni elementi dissonanti, avremmo
potuto considerarlo un matrimonio contadino tradizionale: il corteo,
i paesani curiosi, la foto di gruppo, il percorso a piedi fino al ristorante, gli anziani che raccontano storie, le donne che solidarizzano,
gli sposi che assistono impassibili e i pochi invitati fermi ai loro posti
in attesa dei confetti prima di rientrare a casa. Invece, ecco spuntare
una chiesa di cemento armato, un alberghetto di provincia figlio del
miracolo economico, un treno elettrico che taglia in due la campagna,
il trattore che ha meccanizzato la trebbiatura e le immancabili Fiat.
Anche la tradizionale fotografia collettiva di ambientazione rurale appare disarmonica: non c’è al suo interno nessun ordine di priorità. Gli
anziani sono posizionati in maniera sparsa e i bambini non occupano
il centro dell’obiettivo. Gli sposi sono periferici rispetto al fotografo,
né sono contornati dai parenti più stretti. La modernità si presenta
come annullamento delle gerarchie sociali che spazzano via secoli di
cultura contadina.
Si procede, ora, verso Sud arrivando a Bari. Questa volta non si
conosce il nome degli sposi. La didascalia introduttiva recita: «Un matrimonio negli anni ’60 a Bari. Chiesa S. Giuseppe in corso Sonnino.
Carovana di auto sul lungomare. Al minuto 1.03 si vede lo stabilimento balneare lido Marzulli. La sala ricevimenti è “il Transatlantico”…
abbattuto negli anni ’70». La ripresa comincia alla fine della funzione
religiosa. La sposa ha l’abito lungo con guarnizioni di pizzo e il velo
corto. Lo sposo un abito scuro e la cravatta bianca. Si mettono in
posa per la foto di gruppo sulla scalinata della chiesa. I coniugi sono
al centro in basso, circondati dai bambini. Subito dietro, impettiti, i
14
http://www.youtube.com/watch?v=PCxZonpmSzU
PENSO CHE UN SOGNO COSÌ NON RITORNI MAI PIÙ
genitori e così via formando una piramide rovesciata. La cinepresa si
muove da destra a sinistra per inquadrare tutti gli invitati. Salgono
su una Lancia Appia per dirigersi al ristorante. Il corteo di auto si
muove contemporaneamente. L’operatore, entrato in auto, continua
a filmare. Sembra la scena di un inseguimento all’americana se non
fosse per le continue e repentine frenate imposte dal traffico. Imboccato il lungomare, prima segue una Fiat 1000 Familiare, riconoscibile
dai fari allungati e dal maniglione del bagagliaio, poi è la volta di una
Lancia Fulvia. In direzione opposta si vedono sfrecciare un paio di
Lambrette e diverse 500. Dopodiché l’auto dell’operatore azzarda il
sorpasso lasciandosi alla spalle una 600. Il fotografo deve correre per
arrivare al locale prima degli sposi. Infatti, nella scena successiva, si
vedono marito e moglie scendere dall’auto. Il ristorante è tutto in legno
costruito sulla spiaggia. Gli invitati sono numerosi e molto giovani.
Le donne indossano vestiti scollati e portano vistose collane. Al centro della sala, in mezzo ai tavoli, si balla. Gli anziani restano seduti, i
giovani si buttano nella mischia. In un angolo del ristorante la cinepresa inquadra una donna che canta in un microfono quadrato. Alle
sue spalle un uomo sta suonando il pianoforte. Dopo aver indugiato
sulle coppie che ballano i lenti, l’operatore si sposta all’esterno dove
un gruppo di ragazzi, di ambo i sessi, si è riunito per improvvisare un
vorticoso girotondo. Gli adulti e gli anziani rimangono ai loro posti e
guardano con imbarazzo verso l’obiettivo. Si passa al taglio della torta,
seguito dal brindisi a braccia incrociate. Mentre si scattano le foto
con i parenti, il filmato mostra le facce annoiate dei bambini, seduti
accanto a genitori “ragazzini”. Infine, si sofferma su un tavolo di sole
donne (probabilmente sono le amiche o le colleghe della sposa ancora
“signorine”). Vestono abiti a tubino sbracciati, portano orecchini e
collane, sorridono guardando l’obiettivo e bevono spumante. Una di
loro si alza in piedi e leva la coppa verso la cinepresa15.
I giovani sono i protagonisti assoluti del filmino. Gli adulti sembrano statici, immobili di fronte alla dinamicità della nuova generazione. Le donne si mescolano agli uomini condividendo insieme i
momenti di convivialità. Non c’è separazione, anzi, anche quando sono
sole, mostrano di essere emancipate e si sentono a loro agio di fronte
all’obiettivo. Le auto e il traffico sono entrati prepotentemente nel
contesto urbano spezzando, con rombi e gas di scarico, la quiete del
paesaggio marino. Il ristorante, poi abbattuto, è una tipica costruzione
15
http://www.youtube.com/watch?v=hs8R_IYoWFo
IL MIRACOLO IN SUPEROTTO
della selvaggia speculazione edilizia che sta deturpando il profilo della
costa a Bari come nelle altre città di mare. Si respira un’atmosfera di
fiducia. Al contrario del matrimonio di Uboldo, l’unica concessione
alla tradizione è proprio la fotografia di gruppo. Un momento di ordine e calma in un mondo che marcia freneticamente verso il futuro.
Manoppello, invece, è in provincia di Pescara. Un comune montano di circa settemila abitanti nel Parco nazionale della Maiella. Nel
giorno della festa della Repubblica del 1963 si sposano Ettore e Teresa.
La giornata è piovosa. La sposa attende l’auto, circondata dai parenti,
sull’uscio di casa. L’abito lungo a campana e il velo corto la rendono
un po’ goffa, anche perché il viso è incorniciato da due pesanti occhiali
da vista. Dopo uno stacco, l’operatore compie una panoramica sugli
invitati che attendono fuori dalla chiesa. Gli uomini anziani hanno tutti
il cappello e vestono con camicia, panciotto e giacca senza cravatta.
La camicia è abbottonata fino al colletto. Gli adulti indossano abiti
scuri con cravatte strette e molti giovani sono in maniche di camicia.
La madre della sposa si è messa un tailleur nero e ha infilato un paio
di guanti bianchi. All’uscita dalla parrocchia del Volto Santo volano
riso e confetti. Nella sequenza successiva gli uomini corrono verso le
vetture per disporsi in corteo dietro l’auto degli sposi. Si forma una
lunga fila in cui è possibile notare una Topolino, una Bianchina, alcune
500 e 600, anche in versione multipla, una 1100, un’Appia e qualche
Giardinetta. Le auto sfilano davanti all’obiettivo mentre si allontanano. Sembra la partenza di una gara automobilistica. Una dietro l’altra
percorrono i tornanti della collina scendendo verso la valle. Davanti al
ristorante si ripete la stessa scena: le auto arrivano una ad una come
se stessero tagliando un traguardo, quasi a simboleggiare la partenza
e l’arrivo della corsa verso il benessere. Gli sposi scendono da una
Lancia e si piazzano sulla porta di ingresso del ristorante, “Il Grottino”
nel vicino paese di Scafa, per ricevere i regali: grandi pacchi e piccoli
fagotti consegnati nella mani della sposa. Intanto, la cinepresa passa
ad inquadrare gruppi di invitati: gli uomini fumano e gesticolano; le
donne parlano a bassa voce in disparte16. Il filmato restituisce una
sensazione di estremo pragmatismo: non ci sono immagini relative al
ricevimento, né all’interno della chiesa. Tutto si riduce ad una ripresa
esterna in cui sono protagoniste le auto. La lunga fila del corteo testimonia che tutti hanno raggiunto il colle dove ha sede la chiesa con
un’autovettura. È facile supporre che il cineoperatore si sia soffermato
16
http://www.youtube.com/watch?v=etj1lNEygK8
PENSO CHE UN SOGNO COSÌ NON RITORNI MAI PIÙ
su questa scena per rimarcare la distanza con i matrimoni del passato: al Volto Santo si arrivava esclusivamente a piedi o a dorso di un
asino. Negli ultimi due filmini analizzati viene evidenziato il fascino
delle macchine in movimento. Una dimostrazione del rapporto morboso che si stabilisce tra l’uomo e la sua auto: da necessario mezzo
di locomozione si trasforma in protesi artificiale, capace di potenziare
l’abilità motoria individuale e familiare. Senza dimenticare le implicazioni simboliche, relative alla fruizione e alla collocazione sociale, che
si scatenano a seconda del modello di auto posseduto.
Le automobili, divenute oggetto d’uso quotidiano, facilmente accessibili anche alle classi subalterne, entrano immediatamente nella
categoria del kitsch. Almeno è quanto sembrano voler sottolineare la
pittrice Eva Fischer e lo scrittore Alberto Baumann che, dopo il matrimonio in Campidoglio, hanno voluto, invece dei soliti fotografi, posare
per alcuni pittori ai quali spetta il compito di tramandare ai posteri
anche un’altra novità: «Dal loro primo viaggio nuziale – proclama la
voice off dell’Istituto Luce – Eva e Alberto hanno cancellato la rumorosa automobile per la più silenziosa, più discreta, insomma più adeguata bicicletta. Il fatto è che il velocipede in un’occasione del genere
dà più nell’occhio di una lussuosa fuoriserie»17. L’uso della bicicletta
assume il tono della trovata propagandistica per attirare l’attenzione
della stampa (gli sposi compiono in bici il tragitto dal Capidoglio al
Colosseo inseguiti dai fotografi dei rotocalchi). Se la massa ha avuto
accesso all’acquisto dell’auto si rischia un’omologazione a svantaggio delle classi agiate, perciò convertire la bicicletta in un mezzo di
locomozione elitario può ribaltare la situazione salvaguardando una
posizione di privilegio sociale volutamente minoritaria.
I Superotto nuziali del 1964 non differiscono molto da quelli del
’63. In qualche caso abbiamo, in luogo della cerimonia a ristorante, un
rinfresco in casa con camerieri che servono agli invitati – seduti stretti
stretti su sedie e poltrone posizionate intorno al divano dove sono sprofondati gli sposi – pizzette, rustici e pasticcini. Il filmato si conclude con
il taglio della torta e lo spumante18. Oppure è una vera e propria festa
da ballo paesana in cui è coinvolta tutta la comunità di un piccolissimo
comune montano, Petrella Tifernina in provincia di Campobasso19. O
ancora il matrimonio borghese nella capitale di Umberto e Rosanna
17
18
19
http://www.youtube.com/watch?v=InjLXtu1F3I
http://www.youtube.com/watch?v=IKLc_kW5bo8
http://www.youtube.com/watch?v=4kLmnTmH654
IL MIRACOLO IN SUPEROTTO
ripresi all’uscita dalla chiesa. Le signore hanno grandi cappelli di panno
o di pelliccia. La sposa, sopra all’abito, ha un giacchino che le arriva
alla vita. Ha tra le mani un bouquet di orchidee e lo sposo un fiore
simile nell’occhiello della giacca. Si rinuncia alla foto di gruppo per
scattare singoli ritratti insieme a parenti e amici. Rosanna si intrattiene
a parlare con una giovane signora in abito scuro che indossa un doppio
filo di perle. Tra un saluto e l’altro gli sposi si avvicinano all’auto che
li porterà via, una Mercedes coupé20. Infine c’è anche chi, a Venezia,
festeggia, il 21 novembre del 1964, i cinquant’anni di matrimonio. Il
«nonno Bepi e la nonna Pina» dopo la funzione religiosa offrono a figli
e nipoti un pranzo al ristorante “Paganelli” del quale rimane anche il
menù: «Aperitivo. Pasticcio di lasagne verdi o Ravioli in brodo. Arrosto
di vitello, Pollo, Roastbeef, Patate al forno e insalata verde. Formaggio
e frutta di stagione. Torta nuziale. Chianti Sammontana. Carpenè Malvolti. Liquore - Caffè». Dentro la chiesa le immagini sono indecifrabili a
causa dell’oscurità. All’uscita, invece, possiamo vedere gli anziani sposi
intabarrati nei loro cappotti. Al ristorante tutti gli invitati sono riuniti
intorno ai nonni e si voltano, di tanto in tanto, a favore della cinepresa.
In primo piano ci sono i nipoti che sorridono imbarazzati all’operatore.
La coppia di festeggiati osserva i movimenti degli adolescenti con distacco. Le femminucce hanno camicetta e gonna con un fermaglio nei
capelli. I maschietti indossano la giacca o maglioni con collo a V e la
cravatta. Le ragazze più grandi tengono per mano i bambini che fanno
confusione spingendosi l’un l’altro. Poi i nonni si alzano, visibilmente
stanchi, e tagliano una piccola torta nuziale, tenendosi per mano. Mentre
i camerieri servono il dolce, una donna, seduta a tavola insieme a due
bambini, accende una sigaretta. Terminato il pranzo si va a rendere
omaggio alla Madonna della Salute della quale, proprio in quel giorno,
ricorre la celebrazione. I bambini festeggiano il passaggio del barcone
con la statua consacrata agitando nell’aria stelle filanti21.
Nessun filmato, nel biennio preso in considerazione, ha un montaggio logico delle immagini. L’idea non è realizzare un film del matrimonio
ma associare agli scatti il movimento della pellicola. Tra l’inizio e la fine
non c’è una narrazione ma solo un assemblaggio di scene con stacchi
netti. Le sequenze scorrono come se fosse un backstage del lavoro fotografico: l’ottica del cineoperatore è quasi sempre la stessa del fotografo.
Inoltre, la qualità delle immagini, anche a causa dell’imperizia di pro20
21
http://www.youtube.com/watch?v=zclO6-CICIo
http://www.youtube.com/watch?v=WpZc4sZ_ekM
PENSO CHE UN SOGNO COSÌ NON RITORNI MAI PIÙ
fessionisti o amatori alle prime armi, è spesso scadente: scene traballanti
o sfocate, sovraesposizione o sottoesposizione della luce, staticità della
ripresa. Certo non bisogna sottovalutare l’assenza del sonoro e di accessori come lo zoom che impediscono di captare i dialoghi e di effettuare i
primi piani. Tuttavia, l’occhio meccanico ci mostra un Italia che cambia.
L’elemento che spicca è la motorizzazione di massa che spinge alla
mobilità. Ci sono auto dappertutto: davanti all’albergo di campagna,
sul lungomare di Bari, sul piazzale di una chiesa di montagna, in uno
sperduto paese del Molise, nel centro storico di Roma. Del resto la
stessa curiosità suscitata dagli sposi ciclisti è dovuta alla rinuncia di
partire in auto. Ovunque il mezzo a quattro ruote domina la scena,
simbolo reale del «sogno italiano». La 600 è il modello più diffuso,
l’utilitaria che ha conquistato un posto speciale nel cuore degli italiani.
Facciamoci idealmente largo tra la folla che gremisce una concessionaria
Fiat del tempo… La 600 ci appare un oggetto scintillante dalle morbide
linee arrotondate, bianca, con sottili profili di metallo, ampi finestrini.
Per le sue dimensioni contenute (alta 140 cm, larga 138, lunga 320)
ci appare spaziosa all’interno, con quattro comodi posti; il motore è
posteriore… mentre nel cofano c’è (poco) spazio per i bagagli vicino
alla ruota di scorta… Questa macchina è la risposta a un sogno, perché
è la prima vera auto pensata per tutti… Tutt’intorno osserviamo varie
fotografie: in una vediamo un uomo alla guida e tre soddisfatte ragazze
sedute all’interno della vettura; in altre c’è la 600 di vari colori in montagna, su una banchina del porto, al mare. Un poster ci colpisce, quello
realizzato da Felice Casorati per il lancio dell’auto: una Torino notturna,
geometrica, tutta blu, punteggiata di piccole luci, da cui spuntano la
Mole Antonelliana e in fondo le montagne scure; spiccano lontano la
luna, la striscia dorata del Po, in primo piano la 600, chiara, lucente,
con i fari accesi, circondata da uomini, donne, bambini – un’immagine
che pone l’auto in ideale sintonia con la tecnica (le luci elettriche, i fari,
i lampioni) la natura (la luna, i monti, il fiume), l’umanità (la città, la
gente, i passeggeri che si intravedono all’interno). Forse la 600 è tutto
questo: il sogno di un mondo nuovo e anche quello di una libertà di
movimento senza limiti (magari sull’onda del primo turismo di massa
o per godere la “villeggiatura”) e di una libertà personale inusitata. Il
linguaggio che parla questo oggetto… è quello di uno status symbol, di
concreto miglioramento della propria vita, di un senso di appagamento
che viene per la prima volta più dal consumo che dal lavoro, della soddisfazione che possono provare gli immigrati che tornano al paese d’estate
con la prova del loro successo e della loro vita più ricca di “cose”22.
22
E. Scarpellini, L’Italia dei consumi. Dalla Belle Époque al nuovo millennio, Roma-Bari,
Laterza, 2008, pp. 141-142.
IL MIRACOLO IN SUPEROTTO
Ben presto la 600 sarà affiancata dalla più piccola 500: suadente
linea a guscio con un prezzo basso mai visto, 415mila lire. Le due
vetture saranno il gancio di traino della motorizzazione di massa, le
icone dell’industrializzazione e della urbanizzazione della seconda
metà del Novecento. Esprimono mobilità spaziale e sociale, affermazione dell’individualità, segnalano modalità di lavoro e di consumo del
tutto trasversali rispetto all’antica gerarchia di classe. È il bene più
desiderato dagli italiani e come tale, in quanto associato alla diffusione
del benessere, provoca obiezioni, critiche e dubbi morali. I sottufficiali
dell’esercito non possono acquistarla fino al 1958, i preti e i monaci
possono usarla solo dietro permesso del vescovo (maggiori le restrizioni per frati e ordini femminili), le donne sono considerate inette e
disattente, i giovani non ancora maturi per assumersi la responsabilità
della guida. Tutte le categorie sotto stretto controllo sociale subiscono
pressioni affinché rinuncino all’auto. Inoltre, è considerata un oggetto
pericoloso.
Materializza la velocità: già vediamo migliaia di utilitarie sfrecciare a
inaudita velocità sulle autostrade nuove di zecca (l’Autostrada del Sole,
iniziata nel 1956, si inaugura nel 1964), esibendosi in manovre azzardate, incapaci di frenare la loro natura. La velocità urbana si contrappone
alla lentezza contadina [ne sono una testimonianza lampante i cortei
di pedoni ripresi nei filmini che avanzano lentamente sui bordi della
strada invadendo uno spazio riservato alle automobili n.d.a]. È per
questo, si sottolinea nel discorso pubblico, che crescono a dismisura
gli incidenti… Fatalità e obsoleto assetto viario non sono mai citati,
tutto deriva da una colpa morale degli automobilisti… senza parlare
dello stress derivante dalle macchine e dal traffico cittadino»23. Come
conferma Ernesto Calindri, seduto ad un tavolino nel bel mezzo di
un incrocio, bevendo il suo aperitivo: «Cynar, contro il logorio della
vita moderna24.
La forte caratterizzazione di genere, legata all’uso dell’auto, consente anche una riaffermazione dell’identità maschile, messa in crisi
dalla crescita dei consumi che hanno come principale protagonista la
donna.
Tutto ciò crea una diffusa ansietà sul proprio ruolo, alla quale si reagisce cercando nuovi ruoli maschili, ad esempio artisti anticonformisti, cow-boy dei film western, uomini d’azione, eroi dello sport,
23
24
Ivi, p. 144.
http://www.youtube.com/watch?v=CQ2t_PrQtpU
PENSO CHE UN SOGNO COSÌ NON RITORNI MAI PIÙ
playboy, giovani ribelli. È l’inizio di un processo che porterà a leggere
nell’habitus fisico l’incorporazione della maschilità e quindi studiare
specifiche posture, abbigliamento, discorsi. Ebbene in questo processo
di ri-creazione della mascolinità non c’è dubbio che un posto importante sia rivestito da alcuni oggetti e in particolare dall’automobile.
Basta pensare al film Il sorpasso di Dino Risi per comprendere come
essa possa comunicare tratti identitari: sicurezza sociale, aggressività,
esuberanza fisica, competenza tecnica e così via25.
La vendita delle auto negli anni Sessanta segue le dinamiche specifiche dei beni di lusso: alla crescita costante del reddito corrisponde
una maggiore spesa in beni di lusso. Ciò significa che le famiglie italiane ridistribuiscono le risorse a disposizione per inserire nel budget
familiare l’acquisto di una macchina, magari limitando il consumo
di altri beni ritenuti necessari. Ancora agli inizi del decennio solo il
13% degli operai possiede un’auto contro il 44% degli impiegati. In
sostanza è il ceto medio a provocare la democratizzazione del lusso.
Nei filmini dei matrimoni notiamo, però, anche una lenta ma
inarrestabile emancipazione delle donne: vestono alla moda, indossano
accessori vistosi, cominciano a truccarsi, bevono alcolici, fumano e
non hanno remore a condividere momenti collettivi con l’altro sesso.
La loro vita sta cambiando. Anche quando rimangono in casa hanno
maggior tempo da dedicare a se stesse.
… in questo periodo si verifica un piccolo boom delle spese relative
all’igiene e alla bellezza personale, sintomo del valore attribuito alla
socialità e urbanità… Così si moltiplicano saponi e saponette profumate… deodoranti, scatole di borotalco… bagnischiuma,… shampoo,
brillantine,… dentifrici… Le agenzie pubblicitarie afferrano perfettamente l’accresciuto ruolo dell’igiene e della valorizzazione del corpo,
che si riallaccia del resto all’antico ruolo “sociale” degli odori nel fissare le divisioni di classe. Ma il profumo rimanda a significati ben più
profondi e a tradizioni ancestrali… simboleggia l’anima e la purezza
contrapposte alla corruzione del corpo fisico… la stessa profumazione, si è sostenuto, aspira a una specie di trasfigurazione, risponde al
desiderio di raggiungere una bellezza perfetta, in tutti gli aspetti della
corporeità26.
I giovani uomini comprano vestiti e camicie confezionate, hanno
la patente e sono visibilmente più dinamici dei loro genitori. Qualcuno imita un non ben identificato divo americano visto al cinema e si
25
26
Scarpellini, L’Italia dei consumi, cit., pp. 145-146.
Ivi, pp. 162-163.
IL MIRACOLO IN SUPEROTTO
lasciano filmare in pose plastiche, mentre fumano l’ennesima sigaretta.
Tutti, però, nell’occasione festiva hanno pantaloni classici, giacche e
camicie bianche. Nessuno ha l’ardire di presentarsi come un “giovane
bruciato”, al massimo si fantastica l’icona dei teddy boy. Appare evidente, nello scorrere delle immagini, che i giovani si riconoscono come
generazione, esprimono un’identità collettiva che li porta a ritrovarsi
uniti nei momenti di comunione (il girotondo dei ragazzi di Bari,
le crocchie di fumatori a Manoppello, i ballerini di twist a Petrella
Tifernina e persino i piccoli nipoti del Bepi e della Pina). Gli adulti
sembrano impassibili, chiusi in un tradizionale riserbo, ammutoliti
di fronte ad un mondo completamente stravolto nel volgere di un
decennio. Provate ad immaginare i pensieri dei due nonni veneziani,
coniugati nel 1914, davanti alle moine e ai capricci dei nipoti che improvvisano balli scomposti, rotolandosi sul pavimento sotto lo sguardo
compiaciuto e benevolo dei genitori. Hanno affrontato la Prima guerra
mondiale, sopportato gli anni del fascismo, sofferto durante il secondo
conflitto, gioito per la liberazione e la Repubblica, sperato durante la
ricostruzione ed ora sono lì, nel bel mezzo di un ristorante, a festeggiare mezzo secolo di vita insieme assaporando una torta di pan di
spagna con crema e panna. Tutti i loro sacrifici si condensano in un
ricco menù, con pasta, carne e spumante, che solo dieci anni prima
non avrebbero potuto permettersi. Il Bepi e la Pina consegnano idealmente a Enrico e Margherita, ai consorti baresi, a Ettore e Teresa,
ai coniugi di Petrella Tifernina, a Umberto e Rosanna e a tutta le
nuova generazione di sposi “miracolati” il testimone di un’Italia contadina che si è sollevata sul piedistallo dell’industrializzazione. Come
si afferma in un coevo documentario di propaganda della Democrazia
cristiana: «Siamo cresciuti di numero, siamo più liberi, più ricchi; i
mezzi di trasporto si moltiplicano. La ricerca scientifica, la televisione,
i libri, i giornali, il cinema e il teatro ci riportano le immagini di un
mondo che cambia. Quanto è stato fatto non deve andare perduto,
bisogna costruire il futuro su solide fondamenta. È il nostro momento,
è il momento dell’Italia»27.
Confrontando le immagini dei filmini con quelle coeve proiettate
al cinema, trasmesse alla televisione, raccontate alla radio, descritte
nei romanzi, mostrate nelle riviste, riferite nei quotidiani e disegnate
nei fumetti, ci si rende conto che, ovunque si girino, gli italiani sono
circondati sempre dalle stesse icone: fabbriche, palazzi, automobili,
27
Gli anni felici, in http://www.archividc.it/ASF/B28_20040212095209.asf
PENSO CHE UN SOGNO COSÌ NON RITORNI MAI PIÙ
elettrodomestici, self service, oggetti di plastica, distributori di benzina, autostrade, cibi surgelati, abiti confezionati e così via. Ognuno,
leggendo o guardando, sente di essere uguale alla rappresentazione
del «medio e piccolo borghese, completamente ripulito e rivestito, alla
guida di un’utilitaria o di una macchina sportiva»28, liberatosi definitivamente dalla vergogna delle sue origini e dall’impaccio del dialetto,
pronto ad entrare di slancio nella civiltà industriale. Si forma allora
un vero e proprio glossario dell’immaginario collettivo che delinea una
nuova identità nazionale in cui vige la regola della realtà dei fatti. Il
benessere nella sua dimensione di cultura materiale spinge a coltivare
grandi aspettative «figlie della combinazione tra un passato ingiusto e
ormai dichiarato anche ufficialmente tale, la velocissima e irripetibile,
ma considerata normale, crescita innescatasi alla fine degli anni Quaranta, e le straordinariamente felici, ma eccezionali, rendite derivanti
dal predominio dell’Occidente, dalla posizione strategica del paese al
suo interno e dalla composizione demografica della sua popolazione
[…] Molti italiani volevano quindi “tutto” anche perché avevano avuto
in passato assai poco, avevano appena ricevuto molto, molto di più gli
era stato promesso e sembrava che ci fossero tutte le condizioni perché
quelle promesse, e altre ancora, fossero mantenute»29. Ma se i nonni
di Venezia avevano la certezza di aver lasciato ai loro familiari una vita
migliore, le giovani coppie di allora, dopo altri cinquant’anni, hanno la
consapevolezza che i figli vivono in un Paese in declino perché la loro
generazione non è stata in grado, a differenza dei padri, di trasferire
le aspettative del Boom economico alla Globalizzazione.
28
G.P. Brunetta, Il cinema legge la società italiana, in F. Barbagallo (cur.), Storia dell’Italia repubblicana. La trasformazione dell’Italia. Sviluppo e squilibri, vol. 2, tomo II, Torino,
Einaudi, 1995, p. 830.
29
G. Amato, A. Graziosi, Grandi illusioni. Ragionando sull’Italia, Bologna, il Mulino,
2013, pp. 87-88.